LE MASCHERE

...la commedia dell'arte...

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  1. gheagabry
     
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    IL PAGLIACCIO


    La maschera del Pagliaccio, affermatasi soprattutto in Francia con Pierrot, o in Inghilterra con i clown da circo, è nata dalla fantasia di un cantastorie emiliano del ‘500, Giulio Cesare Croce, che compendiò le sue pubbliche narrazioni in un libro intitolato «Vita di Bertoldo e di suo figlio Bertoldino» cui, dopo la morte del Croce (1609), Camillo Scaligero aggiunse in appendice una «Vita di Cacasenno», figlio di Bertoldino. Padre, figlio e nipote immaginari diventarono in quegli stessi anni personaggi di teatro fondendosi per fantasia degli attori — che a quei tempi recitavano a soggetto, anziché imparando le battute a memoria — in un’unica figura, Bertoldino, ingenua eppur sentenziosa, maliziosa e balorda, che la compagnia di Juan Ganassa presentò poi in Francia, per la prima volta, col nome di Pagliaccio, probabilmente derivato da bajaccio, cioè dicitore di burle (baje). In Francia, a sua volta, Pagliaccio si confuse con un personaggio locale, detto Gros-Guillaume, fornaio e perciò cosparso di farina, e si specializzò nelle parti di valletto, in concorrenza con Arlecchino, assumendo talvolta anche i nomi di Piero, Pierro e Pedrolino. Molière, notato il successo degli italiani, ne derivò il personaggio di Pierrot che, come Pedrolino era stata la personificazione del contadino italiano, finì col diventare quella del contadino francese. Da allora andò gradualmente verificandosi una totale trasformazione del Pagliaccio: eliminata ogni grossolanità, affinato il costume, il comico francese Jean-Baptist Debu reau, uno dei maggiori della prima metà dell’ 800, arriverà a completare la figura del Pierrot moderno infondendole sangue freddo, indifferenza, sensibilità morbosa e un fondo di inguaribile malinconia, motivi che bastano a spiegare perché Pierrot sia una delle poche maschere ancora attuali, non costretta, ormai, a trovar rifugio negli spettacoli di marionette.

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    PIERROT

    Dall’antico carattere del Pagliaccio, frequente nelle recite a soggetto che i comici italiani, abilissimi improvvisatori, importarono in Francia, nacque nel teatro parigino dei Funamboli, ai primi dell’ 800, il tipo del moderno Pierrot, Ai Funamboli si erano dati in un primo tempo spettacoli di cani ammaestrati e di danza sul filo, intercalati da qualche pantomima: fu verso il 1830 che, soprattutto per merito dell’abilissimo comico Deburau, il teatro si specializzò nella rappresentazione di pantomime e vaudevilles, al centro delle quali figurava il pagliaccio, talvolta buono e perfino gene roso più per insofferenza che per indole, altra volta ladro, bugiardo e perfino avaro, vile eppur temerario, poverissimo, arricchito e dilapidatore di fortune, incorreggibile nella pigrizia e nella ghiottoneria. L’eccezionale abilità del Deburau finì addirittura con lo stravolgere l’antico carattere del Pagliaccio che, per due secoli, si era pur andato adeguando all’indole e al gusto dei francesi; la petulanza ha ceduto posto al sangue freddo, non è più il fantoccio che si agita senza ragione, ma lo storico moderno che cede alle impressioni del momento, un personaggio senza passione, senza parole e quasi senza volto, che esprime tutto, pur infischiandosi di tutto, La parte del Deburau fu continuata, dopo la sua morte, dal figlio, uno dei più squisiti ed eleganti Pierrot che la storia del teatro ricordi. Con lui il personaggio che aveva commosso il cuore dei parigini entrò nella moda, interessò poeti, scrittori, drammaturghi, musicisti, divenne la maschera preferita di un secolo di carnevali, e andò fissandosi nelle arti e nel costume proprio negli anni in cui tutte le altre maschere del vecchio repertorio incontravano un inevitabile tramonto ritirandosi, nella migliore delle ipotesi, nel teatro delle marionette.

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    LA GIOVANE AMOROSA

    Il motivo centrale di un dramma, una tragedia, una farsa, è tradizionalmente una vicenda d’amore, al punto che nel teatro delle maschere i due protagonisti, il giovane amoroso e la giovane amorosa, appaiono del tutto caratterizzati dal loro sentimento e a null’altro impegnati che a realizzare. scavalcando ogni ostacolo, il sogno della loro esistenza; gli altri personaggi, parenti e domestici, sono soltanto ingranaggi del loro gioco d’amore, e se alla fine si sposeranno anche loro, sarà quasi per meglio coronare, con nozze collettive, la felicità raggiunta della coppia maggiore, Così si spiega perché il ruolo della giovane amorosa sia, più che una maschera, un carattere: Fiorinetta, Isabella, Aurelia, Silvia. Camilla, Flaminia, non potevano essere che ragazze vestite alla moda, e dotate in maniera da rappresentare l’ideale femminile del loro tempo. Il primo tipo di giovane amorosa fu Fiore, detta anche Fiorinetta, ingenua, virtuosa, un poco campagnola; quando la madre, constatando le sue attrattive, si proporrà di avviarla alla prostituzione. Fiore finirà con l’innamorarsi e sposare Flavio, il suo primo e unico « cliente ». Col passar degli anni, però, il personaggio andrà acquistando maggior vivacità e compiutezza, e ne sarà interprete insuperata Isabella, un’attrice che esordì sedicenne a Padova nel 1578 e andò poi sposa al celebre attore Francesco Andreini, specializzato a interpretare la parte del Capitano, e dal quale ebbe un figlio, Giovanni Battista, fiero come il padre e bello come la madre, che fu ricercatissimo nella parte di Lelio, il giovane amoroso.Dopo Isabella la figura della giovane amorosa andò acquistando maggior malizia e civetteria. L’amorosa divenne esperta di poesia e di musica, ambita ospite di sovrani e notabili. Ormai, più che all’ingenua Fiore, assomigliava per arguzia e iniziativa alla domestica Colombina.




    Comedia dell’arte – riprodotto con testi di Sam Carcano dalla Collana Artistica dei Laboratori Farmaceutici Maestretti di Milano negli anni 1954-1955 . Le incisioni di Maurice Sand sono tratte da un’edizione francese del 1859. Le tavole e la descrizione qui riprodotta sono tratte da un edizione dei LABORATORI FARMACEUTICI MAESTRETTI di Milano

    Edited by gheagabry1 - 21/2/2023, 19:51
     
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    ca t'pozzan mbracetà»
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    Il RUMIT



    Nel Carnevale di Satriano di Lucania, il protagonista è un uomo albero rivestito di edera, la pianta che ricopre i boschi di Satriano di Lucania, il “Rumit”. L'unicità di questo rito carnevalesco è data dalla presenza di tre maschere tipiche che sfilano per le vie del paese: Rumita, Urs e Quaresima. Sono maschere che non sono mai state espressioni di allegria, di gioia, di svago e di divertimento; anzi, da maschere propiziatorie sono divenute, nel tempo, maschere di protesta sociale.

    Considerato come uno degli ultimi riti arborei e ancestrali sopravvissuti nella loro integrità, il carnevale di Satriano ha subito vari mutamenti di interpretazione. Nel XX secolo, richiamava il tema dell'emigrazione e del ritorno alla terra natia. Una notevole evoluzione si è innescata a partire dagli anni '80, quando si accosta la figura del Romita a quella dell'uomo-albero che cammina.

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    Il rito inneggia alla natura e al suo forte legame con l’uomo e, il sabato precedente il Martedì Grasso, rappresenta una foresta che cammina, composta da 131 Rumit, quanti sono i comuni della Basilicata.

    L’uomo vegetale di Satriano è silenzioso, silvestre e frusciante. La maschera senza volto e senza nulla di umano, il cespuglio vagante, l’albero che cammina, è un informe personaggio di foglie sempre verdi e senza tempo.
    La mattina della domenica precedente il Martedì Grasso, come da tradizione secolare, i Rumit vagano per le strade del paese bussando alle porte con un rametto di pungitopo o agrifoglio, legato alla punta di un nodoso bastone chiamato “fruscjə”. Porta a tracollo una borsa di tela detta “tascapane” sempre rigorosamente coperta dall’edera. Durante la questua il rumìt non oltrepassa mai la porta di ingresso delle case, non parla, né emette suoni di alcun tipo, a parte quello prodotto sfregando il ramo di agrifoglio sulla porta. Nessuno si rifiuta di dare all’Eremita l’offerta, perché la sua visita è considerata di buon auspicio e perché s’impersona in San Patrizio, l’evangelizzatore dell’Irlanda, che chiede l’elemosina.

    Un tempo i Romiti erano impegnati per diversi giorni e a più riprese nelle loro peregrinazioni. Le uscite avvenivano anche nei giorni immediatamente prima e subito dopo Capodanno, iniziando dalle campagne circostanti il paese.


    Si ipotizza che ebbe origine, probabilmente, nel periodo di dominio Normanno di Satrianum che, per un «sincretismo culturale, s’instaurò la figura mitica de “U Rumit’». Tra le varie ipotesi sull’origine della maschera nei secoli scorsi, alcune collegano le maschere alla necessità di nascondersi da parte di persone costrette per qualche ragione a vivere lontano dal centro abitato, nei boschi, ma che ricevevano aiuto e sostegno dalla popolazione.

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    Silvio Giordano



    La maschera arborea è il frutto di quella cultura animistica dei Celti che si distinguevano per avere una religione piena di miti ispirati al mondo vegetale.

    L’uomo travestito da albero è molto diffuso nelle Regioni dell’Europa Centrale e dell’arco alpino, e la sua presenza si è registrata anche nell’Appennino. In queste aree è conosciuto, ancora oggi, come l’"Om Salvarech", l’uomo Selvatico, rilevato e documentato dal prof. Cesare Poppi, docente di Antropologia dell’Università dell'East Anglia di Norwich, Inghilterra. Da come lo descrive Walt Whitman in "Foglie d’erba", è un tipo che si aggira dentro di noi, nella nostre psiche e nel nostro corpo da maschi. È una sorta di creatura dell’immaginario umano, a metà tra l’uomo e l’animale, in bilico tra la civiltà e la natura, ed è il depositario di conoscenze per noi remote di cibi genuini, di tecnologie non distruttive della natura, e che conosce l’accadere naturale e meteorologico. È il sapiente del bosco.

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