PAOLO UCCELLO

pittore e mosaicista italiano

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    PAOLO UCCELLO










    Paolo di Dono, detto Paolo Uccello (Pratovecchio, 15 giugno 1397 – Firenze, 10 dicembre 1475), è stato un pittore e mosaicista italiano. Fu tra i protagonisti della scena artistica fiorentina della metà del XV secolo.

    Secondo quanto racconta Vasari nelle sue Vite, Paolo Uccello «non ebbe altro diletto che d'investigare alcune cose di prospettiva difficili e impossibili», sottolineando il suo tratto più immediatamente distintivo, cioè l'interesse, quasi ossessivo, per la costruzione prospettica. Questa caratteristica, unita con l'adesione al clima fiabesco del gotico internazionale, fa di Paolo Uccello una figura di confine tra i due mondi figurativi, secondo un percorso artistico tra i più autonomi del Quattrocento.




    biografia




    Formazione alla bottega di Ghiberti - Era figlio di un chirurgo e barbiere, Dono di Paolo di Pratovecchio, cittadino fiorentino dal 1373, e della nobildonna Antonia di Giovanni del Beccuto. Ad appena dieci anni, dal 1407 e fino al 1414 fu, assieme a Donatello ed altri, nella bottega di Lorenzo Ghiberti, impegnata nella realizzazione della porta est del battistero di Firenze (1403-1424), ora collocata sul lato nord. In questo periodo nacque l'uso del soprannome "Uccello" dovuta all'abilità nel riempire i vuoti prospettici con animali, in particolare uccelli. Iscritto alla Compagnia di San Luca nel 1414, si immatricolò l'anno successivo, all'Arte dei Medici e Speziali. Dal Ghiberti dovette apprendere quel gusto per l'arte tardo gotica, che fu una delle componenti fondamentali del suo linguaggio. Si trattava di stilemi legati al gusto lineare, all'aspetto mondano dei soggetti sacri, alla raffinatezza di forme e movenze e all'attenzione verso i dettagli più minuti, all'insegna di un naturalismo ricco di decorazioni.

    Le opere di questi anni sono piuttosto oscure, o perché perdute, o perché improntate a un gusto gotico tradizionale che si fa fatica ad abbinare ai lavori della maturità, con attribuzioni ancora recenti e discusse. Come i pressoché coetanei Masaccio e Beato Angelico, le prime opere indipendenti dovettero datarsi agli anni venti.

    Per la cappella di Paolo Carnesecchi in Santa Maria Maggiore eseguì una Annunciazione e quattro Profeti (oggi perduta); secondo il Vasari affrescò una nicchia nello Spedale di Lelmo con Sant'Antonio abate tra i santi Cosma e Damiano e nel monastero di Annalena due figure; opere tutte perdute.

    Di questi anni è anche l'affresco con la Madonna col Bambino (Firenze, Museo di San Marco) che si trovava in una delle case dei Del Beccuto, la famiglia della madre.





    L'Annunciazione





    Il viaggio a Venezia - Tra il 1425 e il 1430 soggiornò a Venezia dove fu impegnato a dei mosaici perduti (un San Pietro) per la facciata della Basilica di San Marco e forse a alcune tarsie marmoree per il pavimento basilicale. Longhi e Pudelko gli hanno attribuito anche il disegno dei mosaici della Visitazione, Nascita e Presentazione al Tempio della Vergine della Cappella dei Mascoli in San Marco, eseguiti da Michele Giambono: le tre scene, attribuite dalla maggior parte della critica al disegno di Andrea del Castagno, attivo qualche anno dopo in città, presentano un disegno prospettico di una certa complessità.

    L'esperienza veneziana accentuò la sua propensione a rappresentare evasioni fantastiche, ispirate probabilmente ai perduti affreschi di Pisanello e Gentile da Fabriano in Palazzo Ducale, ma lo allontanò da Firenze durante un periodo cruciale per gli sviluppi artistici: nel 1423 l'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano aveva infatti segnato il trionfo dello stile "internazionale" in città, ma pochi anni dopo l'esperienza di Masaccio nella Cappella Brancacci (1424-1428) segnava già un nuovo punto di riferimento nel panorama artistico.

    Nel 1427 era sicuramente a Venezia, mentre qualche anno dopo, nell'estate del 1430, è possibile che abbia visitato Roma, assieme e due ex- allievi, come lui, di Ghiberti, Donatello e Masolino. Con quest'ultimo forse collaborò al perduto ciclo di Uomini illustri in palazzo Orsini, oggi noto tramite una copia in miniatura di Leonardo da Besozzo. L'ipotesi si basa comunque solo su congetture, legate all'attrazione di artisti all'epoca del rinnovamento di Roma promosso da Martino V.




    Il rientro a Firenze - Nel 1431 ritornò a Firenze, dove attese alle Storie della Genesi del Chiostro verde di Santa Maria Novella, le più antiche opere sicure pervenuteci dell'artista. In particolare dipinse il lunettone con la Creazione degli animali e creazione di Adamo e il riquadro sottostante della Creazione di Eva e Peccato originale, databili a quell'anno. In queste opere si può cogliere in alcuni particolari l'influenza di Masolino (la testa del serpente nel Peccato originale), mentre la severa figura del Padre Eterno ricorda Ghiberti.

    L'opera dimostra però anche un primo contatto con le novità, in particolare di Masaccio, soprattutto nell'ispirazione per il corpo nudo di Adamo, pesante e monumentale, nonché anatomicamente proporzionato. In generale si manifesta già quella tendenza geometrizzante dell'artista, con le figure inscrividbili in cerchi e altre forme geometriche, fusa con reminescenze tardogotiche quali l'insistenza decorativa dei dettagli naturalistici.

    L'artista lavorò poi a una seconda lunetta con riquadro sottostante (Diluvio e recessione delle acque e Storie di Noè) nel 1447-1448.

    Al 1430 circa è attribuito il piccolo trittico con la Crocifissione, custodito al Metropolitan Museum of Art di New York, probabilmente realizzato per una cella del convento di Santa Maria del Paradiso a Firenze. Tra il 1430 e il 1440 realizzò per la pala della chiesa di San Bartolomeo (prima detta di San Michele Arcangelo) a Quarate, della quale resta solo la predella composta di tre scene con la Visione di san Giovanni a Patmos, l'Adorazione dei Magi e i Santi Giacomo il Maggiore e Ansano, custodita nel Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte di Firenze.






    Storie della genesi - Chiostro verde, S.Maria Novella





    Prato - Tra l'inverno 1435 e la primavera del 1436 iniziò gli affreschi nella Cappella dell'Assunta nel Duomo di Prato. A Paolo Uccello spettano una parte delle Storie della Vergine (Natività di Maria e Presentazione di Maria al Tempio) e delle Storie di santo Stefano (Disputa di santo Stefano e Martirio di santo Stefano, tranne la metà inferiore), oltre a quattro santi entro nicchie sui fianchi dell'arcone (San Girolamo, San Domenico, San Paolo e San Francesco) e il toccante Beato Jacopone da Todi sulla parete dietro l'altare, oggi staccato e conservato nel Museo civico.

    Particolarmente significativa è la vertiginosa scalinata nella Presentazione di Maria al Tempio, dove si vede la veloce maturazione delle capacità di rappresentare elementi complessi nello spazio, anche se ancora non sono presenti i virtuosismi di pochi anni dopo.

    Stilisticamente vicini agli affreschi sono la Santa monaca con due fanciulle della Collezione Contini Bonacossi, la Madonna col Bambino della National Gallery of Ireland e la Crocifissione del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid




    Grandi commissioni - Tornato a Firenze fu impegnato soprattutto nel cantiere di Santa Maria del Fiore. Nel 1436 vi affrescò il monumento equestre al condottiero Giovanni Acuto (John Hawkwood), eseguito in soli tre mesi e firmato con il suo nome sul basamento della statua. L'opera è a monocromo (o verdeterra), usato per dare l'impressione di una statua bronzea. Vi impiegò due diversi impianti prospettici, uno per la base e uno frontale per il cavallo ed il cavaliere. Le figure risultano curate, auliche, ben trattate volumetricamente tramite un'abile stesura di luci e ombre col chiaroscuro.

    Nel 1437 fece un viaggio a Bologna, ove resta l'affresco della Natività nella prima cappella di sinistra della chiesa di San Martino.

    Tra il 1438 e il 1440 (ma alcuni storici pongono la data nel 1456) realizzò i tre dipinti che celebrano la Battaglia di San Romano, nella quale i fiorentini, guidati da Niccolò Mauruzi da Tolentino sconfissero i senesi nel 1432. I tre pannelli, esposti fino al 1784 in una sala del palazzo Medici di via Larga, a Firenze, sono oggi dispersi separatamente in tre fra i più importanti musei d'Europa: la National Gallery di Londra (Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini), gli Uffizi (Disarcionamento di Bernardino della Ciarda) e il Louvre di Parigi (Intervento decisivo a fianco dei fiorentini di Michele Attendolo), quest'ultimo forse realizzato in un momento successivo e firmato dall'artista. L'opera venne preparata con cura e restano vari disegni con cui l'artista studiò costruzioni geometriche in prospettiva particolarmente complesse: ne restano oggi sia agli Uffizi che al Louvre e si pensa che in questo studio fu probabilmente aiutato dal matematico Paolo Toscanelli.

    Nel 1442 abbiamo il primo documento che attesta l'esistenza di una sua bottega.

    Tra il 1443 e il 1445 eseguì per il Duomo di Firenze il quadrante del grande orologio della controfacciata e i cartoni per due delle vetrate della cupola (Resurrezione, eseguita dal vetraio Bernardo di Francesco, e Natività, realizzata da Angelo Lippi). In quegli stessi anni, per il chiostro dello Spedale di San Martino della Scala affrescò una lunetta con la Natività, oggi molto rovinata e nei depositi degli Uffizi assieme alla relativa sinopia.

    Verso il 1447-1448 Paolo Uccello si trovava nuovamente impegnato negli affreschi nel Chiostro verde di Santa Maria Novella, in particolare nella lunetta con il Diluvio e recessione delle acque, nel quale si vede Noè uscire dall'arca, e sotto pannello con il Sacrificio e Ebbrezza di Noè. Nella lunetta adottò un duplice punto di fuga incrociato che accentuava, insieme all'irrealtà dei colori, la drammaticità dell'episodio: a sinistra si vede l'arca all'inizio del diluvio, a destra dopo il diluvio; Noè è presente sia nell'atto di prendere il ramoscello di ulivo, sia sulla terra ferma. Le figure diventano più piccole allontanandosi, e l'arca sembra arrivare all'infinito. Nei nudi si avvertiva l'influsso delle figure di Masaccio, mentre la ricchezza dei dettagli risentiva ancora del gusto tardogotico.

    Nel 1447–1454 circa attese agli affreschi con Storie dei santi eremiti nel chiostro di San Miniato, solo in parte conservati.




    Monumento equestre a Giovanni Acuto, Firenze, S.Maria del Fiore




    Padova e rientro - Nel 1445 venne chiamato a Padova da Donatello, e qui realizzò nel palazzo Vitaliani affreschi con Giganti oggi perduti. Tornò a Firenze l'anno successivo. Datata tra il 1450 e il 1475 è la tavola con la Tebaide, tema largamente diffuso in quegli anni, e custodita alla Galleria dell'Accademia di Firenze.

    Sposò Tommasa Malifici nel 1452 da cui ebbe due figlie. Di quell'anno è la tavola con un'Annunciazione oggi perduta di cui si conserva la predella con Cristo in pietà tra la Madonna e san Giovanni evangelista nel Museo di San Marco a Firenze. Al 1455 circa risale la tavola con San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra.

    Nel 1465 eseguì per Lorenzo di Matteo Morelli, una tavola con San Giorgio e il drago (Parigi, Museo Jacquemart André) e l'affresco con l' Incredulità di san Tommaso sulla facciata della chiesa di San Tommaso nel Mercato Vecchio (perduto).





    San Giorgio e il drago, Londra, National Gallery




    Urbino e ultimi anni - In età ormai avanzata Paolo Uccello venne invitato da Federico da Montefeltro a Urbino, dove soggiornò dal 1465 al 1468, venendo coinvolto nella decorazione di Palazzo Ducale. Qui resta la predella con il Miracolo dell'Ostia profanata, commissionatagli dalla Compagnia del Corpus Domini, che venne poi completata da una grande pala di Giusto di Gand.

    Probabilmente a questi anni appartiene la tavoletta con la Caccia notturna dell'Ashmolean Museum di Oxford.

    Tornato a Firenze, morì il 10 dicembre 1475 e fu sepolto in Santo Spirito, il 12 dicembre. Lasciò molti disegni fra cui tre agli Uffizi con studi prospettici. In questo studio l'artista fu probabilmente affiancato dal matematico Paolo Toscanelli.

    Stile - La caratteristica più appariscente delle opere della maturità di Paolo Uccello è l'ardita costruzione prospettica, che però, a differenza di Masaccio, non serve a dare ordine logico alla composizione, entro uno spazio finito e misurabile, ma piuttosto a creare scenografie fantastiche e visionarie, in spazi indefiniti. Il suo orizzonte culturale restò sempre legato alla cultura tardogotica, anche se interpretata con originalità.

    Le opere della maturità sono contenute in una gabbia prospettica logica e geometrica, dove le figure sono considerate volumi, collocati in funzione di rispondenze matematiche e razionali, dove sono esclusi l'orizzonte naturale e quello dei sentimenti. L'effetto, ben percepibile in opere come la Battaglia di San Romano è quello di una serie di manichini che impersonano una scena con azioni congelate e sospese, ma proprio da questa imperscrutabile fissità nasce il carattere emblematico e onirico della sua pittura.

    L'effetto fantastico è accentuato anche dall'uso di cieli e sfondi scuri, su cui risaltano luminose le figure, bloccate in posizioni innaturali





    Pannello della Predella dell'Ostia profanata




    Fortuna critica - Vasari nelle Vite lodò la perfezione a cui Paolo Uccello aveva condotto l'arte della prospettiva, ma lo rimproverò di esservi dedicato "fuori misura", tralasciando lo studio della resa di figure umane e animali: «Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e capriccioso ingegno che avesse avuto, da Giotto in qua, l'arte della pittura se egli si fusse affaticato tanto nelle figure et animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva».

    Questa limitata visione critica venne difatto ripresa da tutti gli studiosi successivi fino al Cavalcaselle, che, sottolineando come lo studio scientifico della prospettiva non impoverisce l'espressione artistica, dette il via a una comprensione dell'arte di Paolo Uccello più completa e ragionata.

    Tra gli studi successivi un problema spesso affrontato è stato quello dell'interpretazione della prospettiva frammentaria di alcune opere, secondo alcuni, come Parrochi, legato a una "non accettazione del sistema riduttivo della costruzione con punti di distanza applicata esemplarmente dall'architetto [Brubelleschi] nelle sue tavolette sperimentali". Forse però è più corretto parlare di una interpretazione personale di tali principi, piuttosto che di una vera e propria opposizione, all'insegna di un maggiore senso "astratto e fantastico" (Mario Salmi). Per Paolo la prospettiva rimase sempre uno strumento per collocare le cose nello spazio e non per rendere le cose reali, come è specialmente evidente in opere come il Diluvio Universale. Mantenendosi a metà strada tra mondo tardogotico e novità rinascimentali, Paolo Uccello fuse "antiche idealità e nuovi mezzi d'indagine" (Parronchi).





    CRISTO






    Diluvio e recessione delle acque,Santa Maria Novella, Firenze





    Caccia Notturna






    La tebaide












    Edited by tappi - 13/3/2011, 21:22
     
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    Diluvio e Recessione delle acque



    dim: lunetta 215 h x 510

    Le scene si fondono in un’unica storia lungo il corridoio prospettico che si perde in mezzo ai due lati dell’arca. L’Arca viene così dipinta due volte con punti di fuga differenti in modo da realizzare uno spazio in cui inserire gli elementi primari e secondari della rappresentazione. Le saette, gli alberi che si piegano al furore del vento tempestoso, le botti e gli oggetti sparsi, i mazzocchi e i cavalli, gli uomini e i cadaveri sembrano riunirsi in un unico spazio compositivo. La presenza di caldi colori come l’ocra e il rosso associati alla freddezza del verde enfatizzano maggiormente l’episodio.



    image




    Sacrifico e Ebrezza di Noè



    dim: 277 x 540

    Le pessime condizioni di queste scene lasciano ancora intravvedere, come narra il Vasari, "[...] l’inebriazione di Noè col dispregio di Cam suo figliuolo [...] e Sem e Iasfet altri suoi figliuoli che lo ricuoprono, mostrando esso le sue vergogne [...]."

    Sulla sinistra, si assiste al sacrificio di Noè che ha come sfondo l’arca rovesciata dalla quale escono tutti gli uccelli: I molti animali attorno al gruppo dei personaggi oggi non sono più visibili a causa delle molteplici lacune presenti.
     
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  3. tomiva57
     
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    Saint_George_and_the_Dragon_by_Paolo_Uccello_London_011-1024x787

    La grande pittura di Paolo Uccello





    Paolo Uccello, in un’epoca di grandi pittori come quella in cui egli visse ed operò, il primo Quattrocento italiano contraddistinto dal raggiungimento d’una tecnica pittorica già sopraffina ma che conserva ancora l’ingenuità della visione, lo stupore di fronte alle cose del mondo, la fantasia che trasforma tutto in un bel sogno, spicca per la sua capacità di creare atmosfere trasognate e rarefatte, oggi diremmo surreali, composizioni cristallizzate nella magia d’una luce mitica, incantata, che nelle scene per così dire d’azione, quelle più importanti della sua produzione, le tre grandi tavole della Battaglia di San Romano (tra le poche, però, superstiti, perché molto è andato perduto di questo pittore), appaiono illuminate da una luce come di tempesta in procinto di scoppiare che sembra fermare i personaggi nel gesto in cui il bagliore corrusco della luce li blocca al modo di un’istantanea fotografica (viene in mente la teoria di Cartier-Bresson: fermare l’attimo pregnante), conferendogli quell’aria di solennità ed eternità e, per l’appunto, mitica, come ho detto poc’anzi. Pittore per nulla realistico, quindi, ma surrealista per eccellenza proprio per quella sua capacità di creare nelle proprie opere quell’alone mitico e magico che va al di là della realtà e la trasfigura nel sogno. E se è vero, come racconta il Vasari, che trascorresse molta parte del suo tempo nello studio della prospettiva, lo fece solo per negare, o meglio distorcere, restituire in modo innaturale proprio quella prospettiva in cui non solo lui si arrovellava al suo tempo, ma molti altri artefici impegnati nell’arte pittorica. Sul tema dell’uso della prospettiva in funzione magica e surreale è stato De Chirico, tra i pittori contemporanei, ad avvalersene, a farsene, in un certo modo, il campione. Se, come dice Borges in uno dei suoi paradossi più intriganti, ogni artefice crea i propri precursori, non c’è dubbio che De Chirico abbia creato (diciamo meglio, più realisticamente, eletto) a proprio precursore proprio Paolo Uccello. A prima vista è difficile rendersene conto, perché gli esiti pittorici dell’uno sono molto diversi da quelli dell’altro. Ma possiamo scommetterci che De Chirico abbia studiato a lungo il grande Paolo in questa questione della resa prospettica; e che, studiandolo, abbia capito che, per creare quell’atmosfera surreale, bloccata nel tempo e decisamente onirica che ha immesso nei suoi quadri migliori, quella che lui ha voluto definire “metafisica”, il segreto stava nel distorcere la prospettiva, nell’usarla come elemento di straniamento dalla realtà. Gli esiti pittorici sono molto diversi, come ho detto, perché De Chirico usava l’ironia in quanto la contemporaneità non consente di abbandonarsi all’incanto della favola e il suo atteggiamento è quello di chi, di fronte alle brutture della modernità, può solo difendersi irridendo il gusto di coloro che, mentre non esitano ad accostare una fabbrica industriale a un castello rinascimentale, mettono alla ribalta, come se fossero statue classiche, dei manichini di sartoria (parlo, lo si è capito, de “Le muse inquietanti”). E non credo sia un caso che, a proposito dei personaggi di Paolo Uccello, si parli di “manichini” (per restare nel discorso di chi è il “precursore” di chi), perché la loro compostezza e algidità, pur impegnati come sono in una battaglia densa di trombe e di vessilli, irta di lance e di balestre, li estraneizza, per così dire, dal contesto in cui si trovano.
    Ma il mondo di Paolo Uccello è quello della favola, un mondo che attinge copiosamente all’armonia, per restituire la quale egli non esita a ricorrere alla matematica e alla geometria, perché alla matematica e alla geometria si è affidata l’opera stessa della creazione. Guardiamo la disposizione dell’armata dipinta nelle tre sequenze della Battaglia di San Romano: è tutta costruita su regole matematiche. Le armi vanno a gruppi accostati per numero: per esempio, se tre balestre e tre lance sono gialle, si contrappongono a tre lance rosse; oppure se le selle sono cinque, cinque sono i baltei; così i pennacchi e gli elmi, e i volti scoperti e i cavalli, sempre a gruppi opposti e corrispondenti di due e di tre, di tre e di cinque. La scena, nei tre diversi momenti in cui si snoda la battaglia, è sempre disposta in un incastro di figure geometriche inserite in un reticolo definito ancora geometricamente, come la selva di lance levate in alto che disegnano un angolo retto corrispondente a quello, disposto all’interno d’un quadrato ideale, delle lance spezzate sul terreno. I colori poi, stesi in modo piatto, assolutamente non reali, come i cavalli gialli e rossi e bianchi e neri galoppanti o rampanti nell’impegno della pugna ma sempre in atteggiamento aggraziato ed elegante, e verde-azzurri quelli caduti a terra sotto l’impeto dello scontro tra le due fazioni, concorrono in modo determinante, insieme alla mancanza di sangue e di morte cruenta che porta con sé la guerra (c’è un solo morto, ma così schiacciato a terra da sembrare più un’armatura abbandonata nella polvere che un uomo reale), a creare l’atmosfera da fiaba, sovra reale e mitica della scena raffigurata dall’artista. Una pittura di pura bellezza, insomma, che si traduce in altissima poesia e che solo un pittore come il mite Paolo Doni detto Uccello (perché amava dipingere gli animali ma soprattutto gli uccelli), artista “coi piedi poggiati saldamente sulle nuvole” (la definizione, felicissima, è di Ennio Flaiano) poteva realizzare.
    Mi accorgo d’aver parlato solo della Battaglia di San Romano. Le altre cose di Paolo, quelle almeno giunte fino a noi, vanno annoverate tra le opere minori, anche se per niente irrilevanti, come il ritratto femminile conservato al Garden Museum di Boston o La caccia nella foresta dell’Ashmolean Museum di Oxford, e soprattutto il San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra, altra opera favolosa per l’impianto, per l’atmosfera e, ancora una volta, per il sovra realismo della scena. Addirittura l’opera di salvazione della principessa prigioniera del drago da parte del San Giorgo vi appare superflua (concorrendo quindi all’effetto di straniamento o di stupore) perché la principessa tiene al guinzaglio il drago e quindi appare evidente che è lei a tenerlo sottomesso. Ma forse qui è da vedersi un significato simbolico ed edificante: la figura del drago rappresenta il male, e l’immagine della donna che l’ha ridotto al suo controllo (colei che, almeno al tempo di Paolo Uccello, rappresentava idealmente la continenza, la mansuetudine), vuole ricordarci che il male è nella natura stessa dell’uomo e non si può debellare per sempre, ma che dobbiamo imparare a tenerlo a freno, a metterlo al guinzaglio, a vincerlo. E San Giorgio che pretende tuttavia di ucciderlo ci fa la figura del velleitario e dell’ostinato. Con gli occhi di oggi, e mettendola in burla, diremmo del maschilista, perché non si accorge che già ci ha pensato la donna a mettere al guinzaglio la natura animale e maligna dell’uomo.


    DIONISIO DI FRANCESCANTONIO
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