Lazio 9^ parte

CE PIACENO LI POLLI..L’ABBACCHIO E LE GALLINE..PERCHE’ SO SENZA SPINE..LE TRADIZIONI ROMANE ...

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    BUONGIORNO ISOLA FELICE ... BUON RISVEGLIO A TUTTI


    “ ... Lunedì ... inizia una nuova settimana sulla mongolfiera dell’Isola Felice ... nessun luogo più di Roma, che trasuda storia da ogni sua pietra, può raccontare le sue origini attraverso le tradizioni ... come in ogni altro luogo d’Italia oggi racconteremo Roma usando i profumi, i colori della propria storia e della propria tradizione ... mi viene in mente al riguardo una breve storia scritta in dialetto ... La grattachecca ... Vicino a Ponte Garibaldi c'è un grattacheccaro che te prepara certe grattachecche in modo raro. Abbasta che je chiedi che gusto preferisci, te riempie er bicchiere de tutti gusti misti. C'è un giovanotto simpatico e veloce, me sembra che ce sia er gusto de noce. Allora quanno hai sete e te voi rinfrescatte, l'unico posto è questo senza addannatte.Sto chiosco sta qui da quasi cent'anni e ha tirato avanti tra gioie e affanni;ha sempre fatto tanti gusti de granatine, e quanno è estate ce trovi sempre file. Assieme a lui ho visto 'na bella signora, è la nonna da tanto lei lì lavora. Te riempieno er bicchiere de ghiaccio colorato e quanno tu l'assaggi te senti ristorato ... e già la grattachecca ... la granatina ... Buon risveglio amici miei ... oggi Roma ci mostrerà le proprie tradizioni...”

    (Claudio)



    CE PIACENO LI POLLI..L’ABBACCHIO E LE GALLINE..PERCHE’ SO SENZA SPINE..LE TRADIZIONI ROMANE ...



    “A Capena, ogni 13 gennaio, prima dell'alba, viene arso un grosso ciocco di quercia. Quando le fiamme si spengono ed il legno arde di brace, tutti gli abitanti del paese accendono una sigaretta sul tizzone ardente…. questo rito, che ha antichissime radici, ha un valore propiziatorio ed è seguito dalla benedizione degli animali e dalla sfilata dei cavalli della zona, tutti addobbati con colori vivaci…..Sempre a Capena, il 13 ed il 14 agosto avviene un incontro particolare. In questi due giorni i portatori più forti del paese caricano sulle loro possenti spalle le statue della Madonna delle Grazie e di San Salvatore e si muovono lungo le strade del paese, secondo percorsi distinti, puntando verso il luogo dell'incontro. Giunti alla meta, da lati opposti, appena si intravedono iniziano a correre velocemente gli uni contro gli altri, facendo fortemente inclinare le due immagini sacre, finché congiuntisi si sciolgono in un fortissimo abbraccio, tra tripudio generale, applausi, lacrime e fuochi d'artificio.”

    “INFIORATE. La loro origine risale addirittura al 1625 quando il 29 Giugno, per le celebrazioni della festività dei Santi Pietro e Paolo, patroni della Città Eterna, vennero esposte queste magnifiche realizzazioni in Vaticano. Le infiorate sono letteralmente opere d’arte realizzate con petali di fiori sminuzzati, raffigurazioni sacre in cui le parti colorate dei fiori vengono utilizzate al posto dei pennelli e delle tempere….le infiorate vengono generalmente realizzate sul percorso che la processione seguirà, quindi queste vere e proprie opere d’arte fragili ed effimere, poiché in poche ore vengono sfaldate dal vento, hanno il fine di accompagnare il corpo del Signore nel suo cammino tra la folla… bellissime infiorate di Genzano, Bolsena, Genazzano.”

    “Camerata Nuova …Una delle più famose è la “Sagra della Braciola” durante la quale vengono distribuite braciole di castrato arrostite sulla brace con il nobile intento di rievocare nei cuori dei commensali il tragico evento che segnò la vita del borgo vecchio.”

    “Arsoli.. la “Festa della Birra” che ha reso famoso il paese soprattutto agli abitanti delle zone limitrofe… in onore di questa manifestazione che tanto attrae il popolo giovanile, non può non essere citata la frase incisa sulla pietra di una fontana di campagna che dice: “Il tempo ci fucila ogni giorno, l’acqua ogni giorno ci rinnova” che, magari, con qualche “modifica” può ben rappresentare lo spirito goliardico e ludico con il quale viene organizzata e vissuta questa splendida festa di paese.”

    “Riofreddo … la festa del vino denominata “In Vino Veritas” che si svolge nel mese di settembre e durante la quale, grazie all’apertura di molti stand eno-gastronomici, si ha la possibilità di degustare sei tipologie diverse dei vini della regione laziale e, grazie alle band spesso invitate dagli abitanti del borgo, si può ascoltare dell’ottima musica all’aria aperta, sotto uno splendido cielo stellato.”

    “Ariccia.. attenzione: l’atmosfera decisamente bucolica è un’arma a doppio taglio per chi intende perdere peso. Dovrete fare i conti con ciò che vi aspetta a tavola per il pranzo nelle caratteristiche fiaschette…il piatto tipico di Ariccia è la mitica porchetta… ci sono piccole trattorie in cui abbuffarsi con la cucina tipica laziale, annaffiando il tutto “cor vino de li Castelli”, come recita il celebre stornello popolare.”

    “Dovete dimostrare a qualcuno di essere perfettamente sinceri?..Allora recatevi presso la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in piazza della Bocca della Verità, infilate una mano nella bocca della verità, sulla sinistra del portico, e ripetete quello per cui vi accusano di mentire. Se direte menzogne la vostra mano verrà tranciata di netto, altrimenti avrete dato un'inconfutabile prova della vostra buona fede…Si narra che nel medioevo la bocca della verità venisse usata realmente per dissuadere i bugiardi, che erano puniti da un boia nascosto dietro la parete forata…. si racconta che al giudizio della bocca della verità fu sottoposta una nobildonna accusata d'adulterio dal marito. Accadde che mentre ella, affranta dallo sdegno, si avvicinava tra due ali di folla al mascherone di pietra, d'improvviso un ragazzo le si lanciò contro baciandola caldamente….Di fronte all'indignazione generale, lui si giustificò dicendo di non aver resistito dal porgere cristianamente un tributo ad una povera fanciulla sicuramente innocente; la donna, dal canto suo, infilata la mano nella fessura della roccia, dichiarò: "Giuro che nessun uomo, tranne mio marito ed il giovane che or ora mi ha baciato, mi ha mai toccato!". Riconosciuta innocente per aver avuto la mano salva venne quindi scagionata. Furbezza e malizia della donna romana che davanti a tutti era stata baciata dal suo amante!”

    “…. in via dei Portoghesi, vicino piazza Navona, sotto l'antico Palazzo Scappucci…Narra la leggenda che a palazzo il padrone di casa tenesse come animale da compagnia e a mo' di vezzo una scimmia ammaestrata. Un giorno questa, forse gelosa del neonato figlio del nobile, rapì dalla culla il pargolo e lo portò piangente in cima alla torre, rifugiandosi nella zona più inaccessibile. La balia e la servitù provarono in tutti i modi a recuperare il bambino, ma ogni tentativo andò fallito e alla povera gente non rimase che invocare disperatamente l'aiuto della Vergine. Arrivato che fu, il papà del piccolo richiamò la scimmia col fischio usuale e questa, docilmente, riportò giù, sano e salvo, l'infante. Da quel giorno il palazzo è definito "palazzo della scimmia" e sulla torre un lume splende sempre dinanzi a un'edicola dedicata alla Madonna.”

    “Dietro piazza Navona, nella piazzetta omonima del rione Parione, all'angolo di Palazzo Braschi, sta ritorta e consunta dalle chiacchiere e dal tempo la statua di Pasquino…era la voce dello sberleffo e della satira, crudele e spietatissimo, pronto a mettere alla berlina potenti e porporati! All'antico torso greco, trovato nell'area in cui attualmente sorge palazzo Braschi, il nome Pasquino venne dato casualmente e fin dal 1500 invalse l'uso, frutto della necessità popolare di dare sfogo al risentimento contro i soprusi, d'attaccarvi biglietti satirici e provocatori alla base…Nonostante l'origine delle pasquinate fosse questa, la fantasia popolare, alimentata da tanti scrittori che costruirono sull'origine di Pasquino un'epopea di storie, diede vita ad una serie di leggende, tra le quali si impose quella di un Pasquino sarto, bottegaio di Parione, dalla lingua tagliente e puntuta come le sue forbici e i suoi aghi, che, a lavorare le vesti papali, veniva a conoscenza delle sozzure della corte e non riusciva proprio a tenerle per sé! A Pasquino diedero voce, nei secoli, grandi e piccoli spiriti caustici, non ultimo il poeta Trilussa…………"Quel che non fecero i barbari fecero i Barberini". La celebre pasquinata si diffuse sotto Urbano VIII in seguito alla decisione del papa di rimuovere il rivestimento di bronzo del Pantheon per realizzare le quattro colonne tortili del baldacchino di San Pietro e per fortificare Castel Sant'Angelo con 80 cannoni, in occasione del Giubileo del 1625.”

    “Festa di Pasquino…Roma ha molte statue “parlanti” ossia statue sulle quali di notte il popolo romano era solito affiggere lettere di proteste contro i soprusi e le immoralità del Papa. Ricordiamo le statue di Marforio, Babuino, Abate Luigi, Madama Lucrezia ma quella che è festeggiata ancora oggi con grande entusiasmo è la statua di Pasquino. La festa si svolse per la prima volta il 25 aprile del 1508 in occasione della festa di San Marco Evangelista. I giovani studenti ed i docenti dell’Archiginnasio della Sapienza ogni anno erano soliti addobbare la statua di Pasquino con una maschera mitologica che si addiceva al tema sul quale vertevano gli epigrammi composti per la festa. In quel periodo gli epigrammi erano ben accetti dal Pontefice perché non veniva denigrato, negli anni successivi ( fino al 1870, anno della caduta del potere pontificio) però i versi divennero mordaci e quindi temuti soprattutto dal clero”

    “Nel '400 a Roma si diffuse la festa del Carnevale romano, introdotto dal Papa Paolo II Barbo.La festa ogni anno vede la partecipazione di tutto il popolo romano, grandi e piccini, pieni di colori, che con giochi e tante maschere che ricordano i personaggi famosi del passato e dell'oggi….Le maschere romanesche … Cassandrino, Meo Patacca, Rugantino “
    “Nei pressi di piazzale Flaminio, in quel tratto delle mura definito "muro Torto", un cedimento strutturale nel V secolo d.C. diede origine ad una breccia…L'apertura nel secolo successivo non fu mai chiusa perché la tradizione popolare voleva che fosse difesa da San Pietro e per questo gli operai si rifiutavano di lavorarvi. ..Di fatto, quando i Goti tentarono di penetrare dentro Roma, non provarono mai a passare dalla famosa breccia e la fede nella leggenda si fece ancor più forte nel cuore della gente.”

    “Il biglietto da visita di michelangelo…Mentre eseguiva i suoi famosissimi affreschi nella villa della Farnesina, Raffaello, notoriamente assai geloso del proprio lavoro, aveva impartito severe disposizioni affinché nessun estraneo si avvicinasse. Ma un giorno, durante una temporanea assenza del "focoso" Urbinate, che si doveva "incontrare" con una delle sue preferite ammiratrici, il furbo Michelangelo, venuto a conoscenza della "tresca" e dell'orario abituale, eludendo la sorveglianza del custode, salì sull'impalcatura e riuscì ad ammirare con tutta tranquillità il lavoro del rivale. Poi, preso un pezzo di carbone, disegnò in una lunetta una bellissima testa di putto ed uscì senza esser visto. Al suo rientro Raffaello notò ovviamente il piccolo capolavoro e vi riconobbe subito la mano di Michelangelo; ma anziché rimproverare il custode e cancellare il prezioso disegno, come qualcuno gli suggeriva, riconoscendone onestamente l'alto valore, decise di lasciarlo intatto. Fin qui la leggenda. E' certo, comunque, che un disegno a carbone, di chiaro stile michelangiolesco, esiste e ancor oggi si ammira nella nona lunetta della parete sinistra di una delle sale più artisticamente importanti della Farnesina (e forse proprio la più preziosa): la stanza detta della Galatea. Ma l'opera non appartiene al genio di Michelangelo. Gli studiosi hanno riconosciuto che si tratta di una magnifica prova d'affresco dovuta all'arte di Baldassarre Peruzzi.”

    “Una strana e anacronistica leggenda narra che un giorno il duca Mattei, avendo perduto al gioco l'intero patrimonio, volle stupire il suo futuro suocero, il quale, venuto a conoscenza della cosa, rifiutava di dargli in moglie la sua bella e ricca figliola. E volle stupirlo dimostrandogli di essere, nonostante tutto, sempre un gran signore. Fece quindi realizzare nello spazio di una sola notte (!) quel magnifico gioiello che è la fontana delle Tartarughe che si ammira, appunto, in piazza Mattei.
    Il giorno successivo, convocati a palazzo padre e figlia per un "chiarimento", li fece ambedue affacciare ad una finestra da cui si poteva godere il meraviglioso spettacolo della fontana perfettamente funzionante, dicendo loro: "Ecco che cosa è capace di realizzare in poche ore uno squattrinato Mattei!". Seguirono naturalmente le scuse e la conferma del matrimonio. Ma perché nessuno potesse più affacciarvisi e a ricordo di quel giorno memorabile, il giovane duca ordinò di murare la finestra. E così è rimasta fino ai nostri giorni…Il fatto strano è che la fontana venne eseguita nel 1585 su disegno di Giacomo della Porta (gli efebi in bronzo sono dello scultore fiorentino Taddeo Landini), mentre il palazzo Mattei fu costruito, su progetto di Carlo Maderno, solo nel 1616. E qui la leggenda si arricchisce del particolare: la bellissima fontana, allora sconosciuta, sarebbe stata realizzata per il giardino privato di un palazzo principesco; il duca Mattei si sarebbe quindi limitato a chiederla in prestito ad un amico. E il trasferimento provvisorio, divenuto misteriosamente definitivo, avvenne proprio in quella fatidica notte.”

    “Sempre allo stesso tavolo d'angolo della medesima trattoria di via Sardegna, sedeva quasi tutte le sere, negli anni Cinquanta, un "barbone" straniero che parlava discretamente l'italiano e al quale l'oste non proponeva mai vini in bottiglia né piatti speciali; lo accontentava, cioè, soltanto con povere cose; ed anzi, poiché si trattava di cliente abituale assai modestamente vestito, gli faceva anche un po' di sconto…Una sera un giornalista romano notando nell'osteria la presenza del "barbone" e sembrandogli assurdo come egli fosse sistematicamente ignorato dal personale, si avvicinò all'oste, suo amico, e gli disse: "Ma tu sai chi hai l'onore di avere in sala? Ernest Hemingway, un grande scrittore americano, autore di "Addio alle armi" e di tanti altri libri, un milionario… premio Nobel per la letteratura…"…L'oste si precipitò al tavolino d'angolo e così si rivolse allo straniero: "Lo sa che lei mi deve almeno centomila lire?". "E perché?", fece lo scrittore. "Perché io non l'avevo riconosciuto e le facevo i prezzi ridotti perché credevo che fosse un poveraccio… Invece lei è Hemingway… te ne freghi!…". E l'americano calmo e tranquillo: "Ti preco, amico, non cretere favola miei milioni. Portami invece altro quirtino…".Fino a qualche decennio addietro l'oste mostrava ancora orgogliosamente il tavolino d'angolo dove negli anni Cinquanta sedeva con molta modestia il grande scrittore americano.”

    “Assaporare i piatti tipici di una città come Roma è immedesimarsi del tutto, anche se per poco tempo, nello stile e nella tradizione culinaria romana…Ricette storiche e famose in tutto il mondo si potranno così conoscere appieno, gustare nella loro essenza. Ed il ricordo di un viaggio a Roma sarà più completo, più reale, poiché ai piaceri della vista dovuti alle magnificienze dei monumenti si aggiungono quelli del palato, grazie a piatti indimenticabili come gli spaghetti alla carbonara, i bucatini all'amatriciana, la coda alla vaccinara, i carciofi alla romana, le fave col pecorino, senza contare i ben noti vini dei Castelli Romani ad innaffiare primi e secondi piatti degni del migliore degli appetiti.”

    “… una cucina che nasce "povera" … sono le frattaglie alla base dei famosissimi "rigatoni alla pajata”…tra i piatti di carne …i "saltimbocca alla romana", la "trippa" e il pollo con pomodori e peperoni… l'abbacchio al forno accompagnato dalle "puntarelle con acciughe” ..o è l'abbacchio "allo scottadito" …. i "carciofi alla giudia", che derivano dalla cucina di tradizione ebraica… i pomodori ripieni di riso…Gli "gnocchi alla romana" - tipici del giovedì -, fatti con il semolino, e la "pasta e ceci"… gli "spaghetti alla carrettiera" che derivano il nome dal fatto che erano il piatto tipico dei carrettieri che portavano a Roma l'altrettanto oggi famoso "vino dei Castelli", vino che fa da ingrediente fondamentale per la cottura di molti secondi piatti come, ad esempio, lo "stufatino alla romana"….. le "lumache alla romana", che si preparano nella notte di San Giovanni…..i formaggi sono tutti derivati dal latte di pecora ed accanto alla caciotta romana, alla ricotta romana e al canestrato, abbiamo il famosissimo "pecorino", dal sapore piccante, usato per i primi piatti, ma anche come formaggio da tavola accompagnato dalle fave…..Tra i dolci tipici della tradizione culinaria romana, oltre al Pangiallo, le frappe, le castagnole, non si può dimenticare il "maritozzo" accompagnato da panna fresca.”







    Caprarola (VT) Sagra della nocciola



    Le nocciole di Caprarola
    Caprarola è famosa per la grande produzione di nocciole, con le quali si preparano dolci tradizionali, tozzetti, amaretti, pampepati, da cui la spettacolare sagra che si celebra ogni anno alla fine di agosto.
    A Caprarola funziona una piccola industria artigianale che produce una Crema di Nocciola, simile alla Nutella, ma completamente senza coloranti e conservanti e si chiama Nellina.
    Dal 1982 è stata istituita la Riserva Naturale Lago di Vico, di cui il Comune di Caprarola è l'unico Ente gestore.





    Caprarola e Palazzo Farnese
    Alla decorazione del Palazzo lavorarono i pittori più importanti presenti a Roma.
    Gli architetti più illustri si dedicarono non solo alla realizzazione del Palazzo, ma anche alla ricostruzione del nucleo urbano che doveva essere adattato alla mole ed al pregio del Palazzo.
    Così oggi è possibile ammirare la complessa struttura architettonica, i mirabili affreschi persi tra le false immagini di porte, finestre, tende, marmi e statue ed un giardino armonicamente inimitabile.











    Riserva Lago di Vico
    La Riserva si estende per 3240 ha, ad una quota sul livello del mare compresa tra i 510 m circa del Lago di Vico e i 965 m circa del Monte Fogliano.
    In essa sono presenti ambienti con situazioni ecologiche completamente diverse tra loro ma condensate in un ambito territoriale ristretto e pertanto a contatto l'una con l'altra a costituire la caratteristica, forse più importante, di questo territorio.
    Seguendo il profilo altitudinale, gli ambienti più caratterizzanti sono rappresentati dal lago con il canneto che lo circonda quasi ovunque, la zona umida in corrispondenza della località Pantanacce, i prati-pascoli naturali, i seminativi, i coltivi a nocciolo e, più in alto, a castagneto da frutto; seguono il bosco ceduo e d'alto fusto con la cerreta e la faggeta nella parte più alta.









    Infiorata di Genzano

    A Genzano ogni anno, da oltre due secoli, si tiene nel mese di giugno l'Infiorata, immenso tappeto floreale che si estende, articolandosi in vari quadri, per circa 2000 mq sulla centrale Via Italo Belardi (già Via Livia). Per la realizzazione dei quadri, disegnati sul selciato, occorrono, oltre alle essenze vegetali, almeno 350.000 fiori; i singoli petali vengono utilizzati dagli infioratori così come i colori di una tavolozza dai pittori: il giallo della ginestra, l'azzurro della torrena, il rosso dei garofani, il verde del bosso e del finocchio selvatico. La manifestazione si articola in vari fasi: l'ideazione e la preparazione del bozzetto, la raccolta dei fiori e delle essenze vegetali, lo "spelluccamento" - separazione dei petali dalla corolla e loro conservazione nelle grotte del Comune - i disegni a terra (il sabato sera), la posa in opera dei petali (la domenica mattina), l'Infiorata completata (primo pomeriggio della domenica), la Processione del Corpus Domini (domenica sera), ed infine lo "spallamento" - quando i bambini correndo dalla scalinata della Chiesa di Santa Maria dìsfano i quadri infiorati.

    Storicamente l'Infiorata è una festa strettamente collegata alla celebrazione cristiana del Corpus Domini e le sue origini risalgono al XIII secolo, quando in occasione della Processione del SS. Sacramento "si spargevano alla rinfusa dei fiori a piene mani".
    Il 29 giugno 1625, poi, a Roma, nella Basilica Vaticana, per iniziativa di Benedetto Drei, Capo della Floreria Apostolica, per dare maggiore lustro alla Festa di San Pietro e Paolo, ebbe inizio la tradizione di decorare la chiesa con fiori disposti a mosaico, usanza questa che si estese in molti paesi cattolici. L'Infiorata di Genzano si distingue però dalle altre infiorate sia per le notevoli dimensioni dei suoi quadri sia per il suggestivo contesto scenografico della seicentesca Via I. Belardi (già Via Livia). L'origine dell'Infiorata di Genzano, così come oggi noi la conosciamo, è piuttosto incerta. Alcuni ricercatori riconoscono nel 1778 l'anno ufficiale di inizio nella nostra città della manifestazione. Un manoscritto anonimo del 1824, invece, intitolato "Storia dell'origine dell'Infiorata", conservato nella Biblioteca Nazionale di Roma, indica nel 1782 l'anno in cui venne realizzata, in occasione dell'ottavario della Festa del Corpus Domini, in Via Sforza la prima Infiorata totale - estesa cioè su un'intera strada - su iniziativa dei fratelli Arcangelo e Nicola Leofreddi. Don Arcangelo Leofreddi ottenne dal Vescovo di Albano che almeno una delle tre processioni passasse per Via Sforza e, quando nel 1782 passò per la prima volta su questa strada il Santissimo Sacramento, invitò tutti gli abitanti della via a realizzare dei tappeti di fiori ma non, come si usava fino ad allora, di piccole dimensioni e davanti alle case, bensì tutti insieme al centro della strada. Quell'anno demarca quindi la nascita della "vera" Infiorata: tappeto di fiori dai vivaci colori che rappresenta immagini religiose alternate a motivi decorativi. Da insieme di petali sparsi alla rinfusa diviene quindi tappeto di fiori disposti in modo tale da delineare una vera e propria opera d'arte, in cui ogni petalo racconta una storia. L'Infiorata ebbe luogo in Via Sforza soltanto fino alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Nel 1836 la fontana monumentale di San Sebastiano, opera di Virginio Bracci, eretta attorno al 1776, venne spostata dal centro della via corriera all'imbocco di Via Sforza, dove si trova ancora oggi. Gli abitanti di questa via, non tollerando la cosa, non vollero più partecipare alla manifestazione, che venne allora realizzata soltanto dagli abitanti di Via Livia (odierna Via Italo Belardi) che già agli inizi del secolo scorso imitarono i concittadini di Via Sforza. Dalla fine dell'800 l'Infiorata ebbe una sostanziale trasformazione: la realizzazione dei tappeti floreali non era più affidata unicamente agli abitanti di questa singola via, ma all'intera comunità cittadina. Nel corso della sua storia l'Infiorata di Genzano è stata visitata da molti personaggi illustri che, affascinati da un simile spettacolo, ne hanno lasciato testimonianza in alcune loro opere: H.C. Andersen, N. Gogol, Antonio Colarieti, Massimo D'Azeglio, August Bournonville. Garibaldi, in occasione di una speciale Infiorata realizzata in suo onore nel 1875, invitato dalle autorità genzanesi a passare sul tappeto di fiori, si rifiutò dicendo: "Certe cose divine non si calpestano". Nel corso dei secoli la nostra Infiorata da manifestazione popolare locale è divenuta manifestazione internazionale di arte, di cultura e soprattutto di fede - è realizzata infatti in onore della Festa del Corpus Domini ed è omaggio a "Colui che passa" - che attrae ogni anno migliaia di visitatori dall'Italia e dall'estero.



    Infiorata di Bolsena

    Capolavori d'Arte e Tradizione nell'Opera dei Fiori di Bolsena.

    Le prime infiorate "artistiche", come le conosciamo oggi, probabilmente hanno avuto la loro consacrazione ufficiale nel 1600. Ne riporta notizia Giovan Battista Ferrari nel suo "De Florum Cultura", dove il prete gesuita descrive l'infiorata composta in Vaticano il 29 giugno del 1625, per la celebrazione dei Santi Pietro e Paolo, alla quale parteciparono anche artisti di grande rilievo.
    La storia dell'Infiorata di Bolsena è antichissima come la storia di Bolsena stessa. Le prime popolazioni che abitarono le rive del Lago, gli Etruschi, i Romani, durante molti dei loro rituali sacri, utilizzavano fiori profumati, petali variopinti, erbe aromatiche e foglie di piante belle e significative per omaggiare le divinità e i loro sommi sacerdoti. Il Miracolo Eucaristico di Bolsena avviene nel 1263 e, l'anno successivo, Papa Urbano IV istituisce la solenne festività del Corpus Domini, celebrata in tutto il mondo cristiano. Per onorare il passaggio della processione eucaristica, il clero e le popolazioni locali vennero invitate, come riporta il Cerimoniale dei Vescovi, ad adornare le vie con tappeti, pitture, fiori e piante verdi, a seconda delle possibilità della natura del luogo. In tempi recenti, nelle celebrazioni di San Giorgio, di Sant'Antonio, della Madonna di Maggio o di Santa Cristina in Fiore, le composizioni floreali, oltre al lancio di petali al passaggio delle processioni, erano costituite da "macchine composte di fiori". Nel 1800 a Bolsena sono documentate grandi opere floreali sul tragitto della solenne Processione: nel 1811, epoca in cui lo Stato Pontificio era in mano ai francesi,questi, presenti sul territorio bolsenese, minacciarono di distruggere la basilica di Santa Cristina. Allora il sacerdote P. Francesco Cozza, per scongiurare il pericolo e allontanare le intenzioni sacrileghe dei francesi, fece portare solennemente in processione una delle Sacre Pietre insieme all’ostia consacrata, "su un percorso ricoperto completamente di fiori e con enorme concorso di popolo". Da quel momento, nel giorno del Corpus Domini, a Bolsena la processione percorre le vie dell'intero paese, passando su un meraviglioso tappeto di fiori, lungo tre chilometri e fatto di grandi quadri artistici, dove lo spazio lo permette, composti interamente di petali di fiori freschi, ancora raccolti nelle campagne intorno al Lago, o lunghe guide con disegni geometrici e floreali che si snodano per i vicoli del centro storico. La raccolta dei fiori, la scelta del disegno e tutto l'enorme lavoro di preparazione e messa in opera dell'Infiorata è affidato alla volontà dei cittadini bolsenesi che, legati strettamente alle loro tradizioni e fortemente orgogliosi di essere infioratori, si prodigano mirabilmente affinché l'Infiorata riesca ogni anno, senza aiuti, senza finanziamenti, senza premi, senza riconoscimenti di alcun tipo se non quello di essere gli artefici dell'Opera dei Fiori di Bolsena.



    Usanze tipiche e curiose degli antichi romani

    Pare che diverse tradizioni matrimoniali siano derivate dagli antichi romani, dall’usanza di prendere la sposa in braccio mentre si attraversa la porta della casa coniugale al lancio del riso, simbolo di abbondanza e fertilità. Anche il divorzio era previsto dalla legislazione romana; fu però considerato moralmente disdicevole, ancorchè consentito, a partire dall’età repubblicana.

    La casa era un aspetto molto importante della vita quotidiana dei romani, e al suo interno l’ambiente più vissuto era la sala da pranzo o triclinio. Le dimore patrizie erano dotate di comodità quali acqua corrente calda e fredda e riscaldamento, oltre a contenere vere e proprie opere d’arte, dai pavimenti musivi alle pareti affrescate, alle sculture.

    I piccoli romani ricevevano un’istruzione in apposite scuole pubbliche che con gli anni prevalsero sul più arcaico insegnamento individuale. L’anno scolastico iniziava a marzo ed erano previste vacanze estive. Le lezioni occupavano mattino e pomeriggio con una pausa verso mezzogiorno. Le classi erano miste, ma dopo i dodici anni di fatto solo i maschi più abbienti proseguivano gli studi, e le ragazze si sposavano e/o proseguivano gli studi privatamente.

    La mania delle scarpe, così diffusa ai nostri giorni, era già presente tra gli antichi romani. Un po’ come accade oggi, scarpe, sandali e stivali esibivano lo status sociale di chi li indossava, insieme ad altri tipi di ornamenti utilizzati sia dagli uomini sia dalle donne. Le donne romane si depilavano e utilizzavano cosmetici, dalle lozioni idratanti per viso e corpo al makeup.

    Lo street-food, tendenza così diffusa ai nostri giorni, era già tipica nell’antica Roma, dove si usava consumare i pasti per strada acquistando i cibi da venditori ambulanti; erano molto diffuse anche le taverne. I pasti degli antichi romani erano tre, e di questi il più importante era la cena, soprattutto per la classe povera e i lavoratori. Il condimento più diffuso presso l’antica Roma era la salsa garum, composta da acciughe salate e fermentate con l’aggiunta di erbe aromatiche.

    Il periodo pasquale, ormai imminente, aveva delle traduzioni che in qualche modo sono giunte fino a noi. Alcune fonti narrano infatti che gli antichi contadini romani usavano seppellire un uovo dipinto di rosso nei loro campi al fine di propiziare il raccolto; le uova erano infatti simboliche di vita e di rinascita, e in questo senso erano riconducibili all’arrivo della primavera dopo lo sterile inverno.

    Erano molte, a Roma, le feste primaverili che omaggiavano le divinità in qualche modo riconducibili all’abbondanza e alla prosperità; molte di esse si tenevano al Circo Massimo con spettacoli di vario tipo. Di queste usanze, una delle più macabre è il sacrificio delle vacche gravide a Tellus per garantire la fertilità del bestiame. Meno impressionante ma sicuramente curiosa è la festa denominata Parilia, che si svolgeva ogni anno il 21 aprile: in quell’occasione si pulivano accuratamente sia gli ovili sia gli armenti, in segno di purificazione della comunità e delle greggi e di rimozione degli aspetti negativi dell’esistenza; a questo scopo venivano anche accesi dei fuochi per illuminare le tenebre e simboleggiare l’arrivo della stagione più soleggiata e luminosa.

    Anche il nostro Carnevale con l’usanza del travestimento può trovare una corrispondenza con i Saturnalia, antica festività romana che si svolgeva tra il 17 e il 23 dicembre; in questa occasione, gli schiavi venivano considerati uomini liberi ed eleggevano un princeps che si travestiva da nobile, solitamente con un abito rosso, il colore degli dei; in questo senso, alcuni ritengono che derivi da qui la figura di Babbo Natale. Durante i Saturnalia era anche eccezionalmente permesso il gioco d’azzardo, e di qui deriverebbe l’usanza della nostra tombola natalizia. Ne nostre “strenne” prendono poi il nome dalle “strenae” degli antichi romani, che erano dei rametti portafortuna di una pianta propizia che venivano donati all’inizio dell’anno nuovo ad amici e parenti.

    Parlando di mode molto diffuse nel mondo di oggi, anche il tatuaggio era praticato dagli antichi romani. A differenza dei giorni nostri, però, il tatuaggio era associato all’umiliazione e all’emarginazione: erano tatuati gli schiavi, i malviventi, i gladiatori; pare che, di rado, venissero tatuati anche i nobili, qualora si macchiassero di qualche colpa o reato evidente.

    Parlando di ornamenti meno invasivi, anche i gioielli erano molto diffusi nell’antica Roma e in particolare erano gli orecchini a godere del favore delle matrone romane. Secondo alcune fonti, a volte le donne indossavano anche più orecchini su uno stesso orecchio.



    L’acconciatura nell’antica Roma


    è una materia il cui fascino arriva fino ai giorni nostri, come dimostrano alcuni tipi di styling che spesso vengono proposti in passerella o nei saloni di bellezza in caso di matrimoni e cerimonie di vario tipo. Osservando le sculture delle donne dell’antica Roma, si resta colpiti dalla creatività della acconciature, molto elaborate soprattutto se si tratta di donne sposate delle classi elevate. Se la moda romana rimase nei secoli relativamente semplice e immutabile, l’evidenza dello status sociale venne affidata perlopiù ai tipi di tessuto, ai gioielli, agli accessori e, appunto, alle acconciature.



    Se le fanciulle potevano anche solo raccogliere i capelli con una crocchia sul retro o con un nodo a spirale nella parte superiore della testa, le donne dedicavano alle acconciature molto tempo e sforzo. Erano assistite da esperti parrucchieri che aumentavano il volume della chioma o la allungavano tramite ciuffi posticci e parrucche. I capelli venivano tinti e decolorati, stirati e arricciati tramite ferri roventi, scolpiti con un esercito di forcine, retine e ausili meccanici di vario tipo. Grande importanza avevano poi gli accessori che venivano apposti sulle chiome: nastri, fermagli, forcine preziose erano accessori indispensabili affinché il risultato fosse sofisticato quanto si conveniva.



    Le tinture arrivavano dalle più svariate parti dell’impero: l’henné, ad esempio, molto usato durante l’epoca imperiale, veniva dall’Egitto. Le tonalità erano estremamente varie e pare arrivassero fino all’azzurro.



    I primi stili sono abbastanza semplici, e vanno dalla ciambella e chignon all’usanza di legare strettamente i capelli alla sommità della testa con dei nastri, all’usanza etrusca. Ben presto però queste semplici pettinature vennero sostituite con grandiose creazioni che per altezza e complicazione non hanno avuto rivali fino alla corte francese di Luigi XVI. La pettinatura era così importante che venivano commissionate acconciature rimovibili per i busti, in modo che l’immagine della persona ritratta venisse ricordata al culmine della moda dell’epoca.



    I capelli venivano anche profumati attraverso prodotti appositi; per l’acconciatura venivano usati diversi tipi di pettine e spazzole, nastri, retine in fili d’oro finemente intessute, nastri, ghirlande di fiori e gioielli preziosi: l’oro e le perle erano molto usati negli ornamenti per i capelli.



    Anche gli uomini, dal canto loro, col passare dei secoli presero a farsi arricciare e tingere i capelli – tra i primi che sfoggiarono boccoli artificiali ricordiamo l’imperatore Adriano e suo figlio Lucio Cesare; chi soffriva di calvizie iniziò a farsi applicare capelli posticci, la qual cosa era presa molto di mira dai poeti satirici romani.



    Sagra della Braciola Camerata Nuova

    La Sagra della Braciola rievoca annualmente il ricordo dell'incendio che nel 1859 distrusse il vecchio borgo di Camerata. Quest'anno la manifestazione assume un rilievo particolare in quanto cade il 150° anniversario. La tradizione vuole che ad incendiare il paese sia stato un incendio propagatosi da una casa nella quale alcune persone stavano arrostendo delle braciole di castrato.



    I Saturnali
    Il nostro Natale inteso come celebrazione della nascita del Messia ha naturalmente origini cristiane ed ebraiche, ma anche nell’antichità romana questo periodo dell’anno ospitava festeggiamenti celebrativi di culti diversi.

    I Saturnali erano dedicati al dio Saturno e si tenevano dal 17 al 24 dicembre; si trattava di una delle più importanti feste dell’antica Roma, caratterizzata da un’alta componente ludica e dall’inversione dei ruoli sociali tra schiavi e padroni, con risultati fortemente umoristici.

    I Saturnali furono introdotti circa 217 a.C. per sollevare il morale dei cittadini dopo una pesante sconfitta militare. Celebrati originariamente per un giorno, il 17 dicembre, la loro popolarità crebbe fino a trasformarli in uno spettacolo lungo una settimana, fino al 23 dicembre. Gli sforzi per accorciare la ricorrenza sono stati infruttuosi: Augusto cercò di ridurre la festa a tre giorni, e Caligola a cinque. I festeggiamenti includevano vacanze scolastiche, la realizzazione e la donazione di piccoli regali (Saturnalia et sigillaricia) e un mercato speciale (Sigillaria). Marziale nei suoi Epigrammi, Libro 14, cita alcuni esempi di regali che si offrivano durante i Saturnali: tavolette di scrittura, dadi, salvadanai, pettini, stuzzicadenti, un cappello, un coltello da caccia, una scure, diverse luci, balli, i profumi, un maiale, una salsiccia, un pappagallo, tavoli, bicchieri, cucchiai, capi di abbigliamento, statue, maschere, i libri e animali domestici.

    In questo periodo il gioco d’azzardo era consentito a tutti, anche agli schiavi, e in generale si trattava di un momento per mangiare, bere e divertirsi. L’approccio goliardico era enfatizzato anche dall’abbigliamento: generalmente durante i Saturnali non si indossava la toga, che cedeva il posto a un abbigliamento più informale.

    I Saturnali sono incentrati sulla celebrazione del raccolto e sulla preghiera per la prosperità di quello successivo, attraverso feste, banchetti, sacrifici, offerte e cerimonie religiose in onore delle divinità protettrici delle campagne. Le transazioni commerciali in questi giorni erano proibite. La tradizione di decorare gli alberi di Natale scaturisce in parte dalla pratica di appendere piccole bambole di ceramica chiamato “Sigillaria” sui rami degli alberi di pino.

    Il 25 dicembre probabilmente cadeva invece un’altra festività nell’antica Roma: la celebrazione del Sol Invictus, festa in onore dei dio Mitra identificato come il dio del sole. Secondo alcuni storici la festività fu indetta dall’imperatore Aureliano che il 25 dicembre 274 consacrò appunto il tempio del Sol Invictus; ma l’esistenza di tale festività in questa data è documentata per la prima volta nel Cronografo del 354 – calendario illustrato opera del calligrafo Furio Dionisio Filocalo.



    Pasti giornalieri degli antichi romani

    Il regime alimentare dei romani era discontinuo, capace di passare da un’estremità all’altra, da una somma di frugalità quotidiana, agli stravizi di vino e carne durante i banchetti nei quali l’eccesso era spesso di rigore.
    Il giorno iniziava al levare del sole. Il periodo tra l'alba ed il tramonto veniva diviso in 12 ore (horae). La durata delle ore era variabile in quanto dipendeva dal tempo effettivo di luce.
    Potremmo dire che al pari di una dieta odierna, tre pasti principali scandivano generalmente l'assunzione di cibo dell'antico romano: abbondante colazione al primo mattino (jentaculum), leggero pasto a mezzogiorno (prandium), e pasto principale nel tardo pomeriggio (cena).
    Il prandium era l’unico pasto dei romani impegnati nella guerra, nella politica e in qualsiasi altra attività che richiedesse uno sforzo (labor). Viceversa la cena apparteneva al tempo dell’ozio (otium), cioè del divertimento e della pace.
    La consistenza dei singoli pasti variava a seconda del periodo storico, dello status della famiglia, e se si abitava in un centro urbano o in campagna. Se un romano del periodo arcaico si accontentava di un pasto frugale alla sera (vesperna), a partire dal II sec. a.C. fu necessaria l’emanazione di apposite leggi suntuarie per limitare la spesa pro capite in occasioni di cene conviviali.
    Jentaculum avveniva fra la terza e la quarta ora, ovvero le otto e le nove del mattino, e spaziava dal pane intinto nel vino (consuetudine greca), ad olive, uova o formaggio, ai resti della sera precedente. Per i fanciulli era riservato il latte (ovino o caprino) accompagnato da brioche fresche, salate o addolcite col miele, magari acquistate sulla strada per la scuola dal pistur dulciarius (Marz. Apoph. XIV, 223), l'odierno pasticciere.
    Prandium consumato fra la sesta e la settima ora, cioè attorno a mezzogiorno. Solitamente uno spuntino fatto durante la pausa di lavoro, portato da casa o, per i più fortunati con qualche moneta in tasca, acquistato dai venditori ambulanti e nei locali pubblici. Si trovava da desinare con una certa facilità soprattutto in prossimità di luoghi molto frequentati durante il giorno, il Foro e le Terme, dove era un brulicare di posti di ristoro (popinae ); non era necessario neppure darsi troppo da fare a cercarne uno, giacché avveduti proprietari spedivano i propri garzoni per le vie del centro e dentro gli stabilimenti, a vendere appetitose cibarie calde o fredde, secondo le esigenze della stagione. Se si mangiava a casa c’erano gli avanzi del giorno prima o, comunque, si trattava di piatti freddi e veloci, da consumare in piedi e senza mensa.
    Cena cadeva verso le sedici (tra ora decima e undicesima), ma con il passare del tempo cominciò lentamente a spostarsi avanti per il raffinarsi dei costumi e l’introduzione dell’illuminazione domestica. Questo pasto poteva essere costituito da un piatto unico se si mangiava da soli (domicenium), o trasformarsi in un’occasione di convivio con addirittura circa 50 portate, come nel celebre banchetto di Trimalcione.
    Alla cena conviviale partecipavano gli uomini, sempre sdraiati, se intervenivano le donne esse erano tradizionalmente sedute. Si mangiava in un luogo coperto: casa, portico o giardino sormontato da un “velum”. I piaceri della tavola venivano condivisi all’interno di un gruppo sociale ben definito: famiglia, clientela, amici coetanei, collegio professionale o sacerdotale.
    I banchetti non erano prerogativa dei soli ricchi, e quando la situazione economica del padrone di casa lo richiedeva, erano gli stessi commensali a portare il loro contributo per il pasto.




    La cucina romana e laziale

    La cucina romana e laziale ha radici nella tradizione popolare e in diverse influenze che si sono fatte sentire in Italia soprattutto nella capitale. Vi sono infatti diversi piatti che la tradizione romana ha adottato e che sono, per esempio, piatti tipici della cucina ebraica. Nella cucina romana si possono trovare ricette di primi piatti sostanziosi dove fettuccine, bucatini, spaghetti, gnocchi di semolino, rigatoni si condiscono con sughi saporiti ed erbe aromatiche. Ottime anche le zuppe di legumi e verdure e le minestre particolari che diventano piatti prelibati e ormai famosi in tutto il mondo come la pasta e ceci, la pasta e fagioli o la pasta e fave. La cucina romana e laziale può vantare anche diversi piatti a base di carne e in questo caso non mancano i sapori forti. Sono diverse le ricette a base di agnello e di abbacchio, di pollo, maiale, lepre e coniglio. La carne viene cucinata in diversi modi: al forno, in umido, in padella, alla griglia, con le verdure e spesso vengono utilizzate le interiora per preparare piatti prelibati e molto gustosi che un tempo erano considerati piatti poveri; oggi, invece, sono considerati piatti sopraffini che hanno bisogno di una preparazione particolare. Un’altro vanto della cucina romana e della regione laziale è il formaggio, grazie al prosperoso allevamento di ovini che produce un’ottima varietà di formaggi e latticini. Da ricordare il pecorino romano, le scamorze, le provole, le caciotte, la mozzarella di bufala e la ricotta romana ottenute con il latte di bufala e di mucca. Nelle campagne romane sono coltivati ortaggi pregiati come i carciofi romani senza spine, la lattuga romana, i broccoli e i diversi tipi di fagioli e altri prodotti tipici del mediterraneo come i pomodori e i peperoni. Nella cucina romana si trovano anche ricette di pesce, nella costa viene usato il pesce di mare mentre all’interno, verso l’appennino si possono gustare piatti a base di pesci d’acqua dolce. La tradizione, comunque, vuole sulla tavola dei romani il baccalà, una pietanza dal gusto antico preparato in diversi modi e ancora in uso al giorno d’oggi. Anche l’anguilla diventa un piatto tipico soprattutto vicino al lago di Bracciano e in provincia di Viterbo. Possiamo finire con i dolci tradizionali della cucina romana che ancora oggi vengono preparati nelle case, soprattutto in occasione delle feste. Dolci particolari e speciali come i famosi tozzetti, i ravioli fritti, le frappe, le castagnole, i maritozzi, le fave dolci, il castagnaccio e i dolci di ricotta.
    Una cucina invitante dove non devono mancare i vini tipici laziali, rossi e bianchi, secchi, dolci o amabili... e una buona compagnia.

    Pasta alla carbonara

    è un piatto rustico caratteristico di Roma, famoso in tutto il mondo per la semplicità degli ingredienti impiegati, per il gusto intenso e piuttosto piccante. È un piatto ad alto contenuto calorico. Il tipo di pasta tradizionalmente più utilizzato sono gli spaghetti, anche se si prestano bene altri tipi di pasta lunga o alcuni tipi di pasta corta. In particolare a Roma, nelle osterie di maggiore tradizione, è d'obbligo abbinarla ai rigatoni.

    NA VOJA...


    Appena ho aperto ll’occhi stamattina
    c’ho avuto na sensazzione strana
    che nun era artro che na voja
    m’briacato de sonno l’ho cercata,
    pure sotto a maja
    ma nun l’ho trovata, annava e veniva
    come se volesse famme annà a male a giornata.

    Mentre me vestivo cor sole che ancora dormiva
    me so detto "ma tu guarda sta gran fija de na mignotta"
    proprio a me doveva capità na voja.
    Per fortuna che nun so’ donna,e per lo più incinta
    sinnò me veniva n’fijo co na macchia
    de quarcosa che se nasconne e nun parla.

    Me so’ buttato a capofitto drento a la fatica
    è dura ar cantiere a giornata, m’ha gonfiato le braccia e la testa
    ma sta voja de quarche cosa nun se n’è annata
    me girava n’torno, me chiamava e poi spariva
    lassandome su a pelle tutta sudata na striscia
    che più de na lumaca sembrava de na pomata.

    Ho sperato con tutto er core
    che na semprice frittata sposata co na ciriola
    potesse carmarla e invece... gnente
    nun ha fatto artro che aumentalla.

    Appena le gambe m’hanno riportato a casa
    ho provato a capì che era sta voja
    ma nun c’ho capito gnente
    e allora me so detto
    "mo’ me faccio n’bagno, cos’ se la voja è quella
    basta poco, un semprice movimento de na mano morta"
    Subbito dopo me s’ho mprofumato
    me so’ messo pure er borotarco
    ma la voja stava sempre lì
    e stavorta m’ha pure chiamato.

    So annato in cucina e chissà perchè
    m’e venuto da piagne
    de solito i lucciconi
    li fanni venì a cipolla e li dolori
    e visto che sto bbene
    la cipolla sicuramente è n’ingrediente.
    Allora me s’è accesa a lucetta
    e ho messo su l’acqua
    mentre lo tajavo er guanciale sorrideva
    e quanno ho mischiato l’ovo co li bucatini
    ho capito che la voja era de na cosa speciale
    che solo a Roma se magna, è unica
    come a città eterna
    nun ve dico nemmeno come se chiama
    tanto è finita, me la so’ magnata
    a voi ve basta sapè che era solo na voja...



    Vasellame da cucina


    Oggetti da cucina in metallo




    Il vasellame da cucina, di uso quotidiano e diffuso in tutto il mondo romano, era di ceramica comune, di modesto artigianato, e prodotto in fabbriche vicine al luogo di consumo per evitare costi elevati di trasporto. Le principali pentole usate in cucina erano:bollitoi, urnae, cacabus, pultarius, patellae o patinae, angularis Tra le stoviglie in cucina si usavano: kreagra, treles, chetron, coclearia oltre a numerosi attrezzi per attizzare il fuoco .



    Bollitoio-recipiente atto a scaldare acqua
    Cacabus-pentola in terracotta con pesante coperchio atta alla cottura di cibi a fuoco lento (bolliti,minestre)
    Pultarius- pentola in terracotta usata per le polente
    Patellae o patinae-padelle in terracotta o metallo
    Angularis-terrina a forma triangolare
    Kreagra-grande forchetta a tre punte per girare gli arrosti
    Treles-Colini in metallo forati per scolare gli alimenti
    Chetron-grandi cucchiai di legno per rimescolare le minestre in cottura

    ahaha Antonio tu sei un soldato quindi ti tocca... Va beh ti invito come ospite d'onore in una delle cene famose...


    Le cene famose



    Pollo con frutta


    Il cibo, perno sul quale era incentrata l’oziosa vita dell’aristocrazia romana, era motivo di incontri nei quali il padrone di casa esaltava le proprie ricchezze, spesso con smisurati sperperi per la gioia del proprio palato e dei convitati. Troviamo testimonianza di ciò nella “satira VIII” del libro I di Orazio e nel “Satyricon “di Petronio ,che ci offrono documentazioni riguardanti rispettivamente: il convito di Nasidieno e la cena di Trimalchione . Abbiamo modo di notare in entrambe un’auto-esaltazione non troppo velata da parte dei padroni di casa; se da una parte ,infatti ,questo fanatismo avviene attraverso il lusso e la non comune originalità nel servizio e nella presentazione delle portate , dall’altro troviamo nella satira una smodata esaltazione degli invitati illustri ,davanti ai quali Nasidieno si pavoneggia sfoggiando le proprie conoscenze in ambito culinario , non riuscendo , ad ogni modo, ad attirare l' interesse degli ospiti. L'intento degli autori è naturalmente parodistico.
    Un invito a cena un po’ speciale,tuttavia, ci viene presentato da Catullo



    IL GARUM

    L'arte del saper cucinare non consisteva solo nel saper mascherare l'aspetto di un cibo, ma anche il suo sapore (anche perchè i cuochi dell'epoca non disponendo dei moderni frigoriferi dovevano mascherare il sapore un po rancido di alcuni cibi non proprio freschi), questo veniva ottenuto con l'utilizzo di varie salse composte con ingredienti che avevano poco a che vedere con la pietanza principale del piatto; ad esempio l'aggiunta di salse di pesce o di frutta spiaccicata su ricette a base di carne. Fra queste la più importante era il garum (dal greco garon che era la specie di pesce utilizzata) o liquamen, una sorta di salsa ottenuta dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce con olio, vino, aceto e pepe; lasciata a riposo per una notte in un recipiente di terracotta e messa all'aperto, al sole, per due o tre mesi, rimescolata ogni tanto in modo da farla fermentare; quando la parte liquida si era ridotta per effetto del sole, si inseriva un cestino, il liquido che filtrava era la parte migliore e cioè il garum, la restante parte, lo scarto, era l'allec, la salsa secondaria. Il garum, avrebbe sicuramente avuto, per i nostri gusti, un odore ed un sapore

    nauseabondo, anche se questo era già riconosciuto da personaggi dell'epoca, infatti Marziale, per descrivere un certo Papilo, un individuo repellente , in uno dei suoi "Epigrammi" dice: "Unguentum fuerat, quod onyx modo parua gerebat: olfecit postquam Papylus, ecce, garumst."(era un unguento profumato quello contenuto fino a poco fa in un vasetto di onice; dopo che l'ha annusato Papilo, ecco, è garum).

    Il garum era di solito un liquido chiaro dall'aspetto dorato, che si conservava bene in anfore e veniva utilizzato per aggiungere un gusto saporito alle pietanze; era presente in quasi tutti i piatti e se saputo d osare, faceva la fortuna di molti cuochi. L'industria del garum era molto sviluppata nel Mediterraneo, quello più pregiato veniva prodotto in Spagna e aveva un prezzo molto elevato, tanto da essere paragonato al più caro dei profumi nonostante il suo acre o dore; veniva importato via mare in anfore con tanto di marchio del produttore e di anno di produzione. Una grande produzione veniva effettuata anche nella nostra penisola, di prim'ordine era quello prodotto a Pompei (officina del garum degli Ombricii).

    La città di Pompei era una delle maggiori produttrici di garum.



    VINO E OLIO

    Per quanto riguarda le verdure, si consumavano: lenticchie, fave, ceci, piselli, lattughe, cavoli, carote, rape, cipolle, zucche, carciofi e asparagi (più rari), cetrioli, erbe lassative come malve e bietole, menta e funghi (boleti) i quali erano molto ricercati. Le olive erano sempre presenti sia sulle tavole dei ricchi che su quelle dei poveri.

    L'olio di oliva fu una delle maggiori componenti dell'alimentazione dei Romani, usato anche per la medicina e per l'illuminazione; se ne trovava di varie qualità: L'olio vergine di prima spremitura (oleum flos), l'olio di seconda qualità (oleum sequens) e l'olio comunemente usato (oleum cibarium). Il consumo medio di olio di un cittadino romano era di circa 2 litri in un mese; Roma faceva la parte del leone in quanto è stato verificato che il Monte Testaccio ( un'autentica montagna artificiale formata da frammenti di anfore) è composta essenzialmente da resti di anfore olearie, in gran parte provenienti dalla regione della Betica (Spagna meridionale) che era il più grande esportatore di olio dell'epoca.


    La frutta era costituita da mele (mala), pere (pira), ciliege (cerasa), susine (pruna), noci, mandorle (nux amygdala), castagne, uva (fresca e passa) e pesche. Dall'Armenia giungevano le albicocche che venivano utilizzate spesso spiaccicate, ricavandone una salsa che accompagnava molti piatti di carne. Dall'Africa arrivavano i datteri (dactyli). La frutta oltre che consumata fresca veniva utilizzata anche per ricavarne marmellate ed era un componente importante per la preparazione di dolci.

    Il vino aveva un'importanza particolare per i Romani in quanto era la bevanda più amata e concludeva tutte le cene.


    Veniva prodotta sia la qualità rossa (vinum atrum), sia la qualità bianca (vinum candidum), er commerciato in larga scala e addirittura si formarono anche alcune cooperative per la vendita di questa bevanda ( collegium); a Roma è stata verificata l'esistenza di un porto e di un mercato attrezzati essenzialmente per la vendita del vino ( portum vinarium e forum vinarium).Il Vino era raramente limpido e veniva di solito filtrato con un passino (colum), si beveva quasi sempre allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo da ridurne la gradazione alcolica di solito da 15/16 a 5/6 gradi. I tipi più pregiati erano il Massico e il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l' Albano e il Sabino (dal Lazio) e il Setino; i più scadenti erano il Veietano (come tutti i vini dell'Etruria era considerato di qualità scadente), quello del Vaticano e quello di Marsiglia ( i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti ); vi erano anche alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità in quanto la resina si aggiungeva ai vini più scadenti in modo che si conservassero più a lungo. Sulle anfore utilizzate per il trasporto era impressa in una targhetta (pittacium) l'origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già in quell'epoca esistevano casi di adulterazione; ad esempio in una ricetta di Apicio si insegna a trasformare il vino rosso in bianco. I vini aromatizzati sono indicati sotto il nome di Aromatites, di Mirris, uno dei più apprezzati. Si aveva infatti l'abitudine di fare un vino aromatico, preparato all'incirca come i profumi, prima con mirra poi canna, giunco, cannella, zafferano e palma. Il Gustaticium è un vino aperitivo che si beve a digiuno prima del pasto, era un vino al quale si aggiungeva miele. Infine erano ricchi di vini medicinali, si mescolava vino e miele e il prodotto era chiamato Mulsum. Il Passum era un vino fatto con uve secche ma che serviva per i malati. Certe famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le anfore di mulsum.I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano di grande pregio sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti. Esistevano anche surrogati del vino come la lora, ricavata dall a fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Il consumo del vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale per lo più nelle zone di produzione e nelle grandi città come Roma dove per le enormi esigenze dovute all'alta densità della popolazione portarono anche ad una distribuzione gratuita di questa bevanda (imperatore Aureliano, ultimi decenni del III sec. d.C.) e al conseguente afflusso di grandi quantità di vino sia italico che di importazione. I prezzi andavano dai 30 denari al sestiario (0,54 l) per i vini pregiati (falernum, sorrentinum,Tiburtinum), ai 16 denari al sestiario per i vini di media qualità, agli 8 denari per i vini di basso pregio. Il consumo medio di vino in un anno è stato calcolato in 140 - 180 litri a persona, questo grande consumo si pensa che sia dovuto anche al grande apporto calorifero che dava alla dieta romana costituita in gran parte da cereali e vegetali.






    Spaghetti Cacio e Pepe



    Spaghetti Cacio e Pepe



    Lucio Licinio Lucullo

    fu un importante rappresentante del ceto aristocratico che si distinse per la profonda cultura e le qualità di comandante militare. Per uno strano paradosso quest'uomo è passato alla storia soprattutto per la sua grande passione verso il cibo e l'arte del banchettare. Ancora oggi ad un pasto particolarmente ricco e abbondante viene assegnata la definizione di pranzo "luculliano", in ricordo dei banchetti fastosi con cui il ricchissimo aristocratico intratteneva i suoi amici.
    Viene quindi spontaneo pensarlo come un uomo grasso intontito da cibo e vino. Ma questa tipica associazione è lontana dalla verità, visto che Lucullo, in virtù di un'attenta alimentazione e un intenso addestramento militare, fu un uomo dal fisico asciutto e dalla mente lucida: era rinomata la sua padronanza sia della lingua latina che di quella greca. Dopo la vittoria su re Mitridate (69 a.C.) visse tra la villa di Roma e quella di Baia, dove fu un vero innovatore della pescicoltura di specie pregiate come aragoste, murene e gamberi.



    Fra le storie riguardanti la fama di buongustaio di Lucullo, oltre a quella secondo la quale avrebbe introdotto in Italia il ciliegio, riportiamo l’episodio che lo vede protagonista con Cicerone. L'oratore insinuava che se qualcuno fosse andato a casa dell'aristocratico senza preavviso, avrebbe trovato sì e no un misero pasto da plebei. Per smentire questa insinuazione, Lucullo invitò seduta stante Cicerone e gli amici a cenare da lui, senza avvertire i cuochi. Chiese soltanto di mandare un servo a pregare i camerieri di apparecchiare "nella sala d'Apollo". I camerieri capirono con quella parola d'ordine che bisognava allestire un banchetto per gente importante e numerosa. Così avvenne, e con incredula sorpresa dei commensali fu servito un menù di frutti di mare, asparagi, scampi, pasticcio d'ostrica, porchetta, pesce, anitra, lepre, pavoni, pernici frigie, murene, storione di Rodi, dolci e vini.
    Lucullo, che sembra avesse una predilezione speciale per la carne di tordo, pranzava in grande stile anche quando era solo. A lui viene attribuita la frase: "Hodie Lucullus cum Lucullo edit" (oggi Lucullo mangia con Lucullo), rivolta allo schiavo capocuoco dopo l'elaborata preparazione del menù di un ricco banchetto.


    [QUOTE=loveoverall,15/3/2010, 15:03]
    Pasta alla griciaA Roma è uno dei primi piatti più amati insieme al Cacio e Pepe, alla Amatriciana e alla Carbonara. E con questi primi condivide l'incertezza sulla sua preparazione ("ma la Gricia qual è?"), spesso liquidata come "l'amatriciana senza pomodoro". In realtà questi piatti hanno in comune i seguenti ingredienti: pecorino romano e pepe nero, a volte combinati con il pomodoro, a volte col guanciale, a volte con l'uovo. La gricia utilizza solo guanciale, pecorino e pepe nero e la sua preparazione è quanto mai semplice e veloce, ma gustosissima.(IMG:http://i42.tinypic.com/j8lc94.jpg)



    Cibo di strada lo Street food dell’antica Roma

    Street Food, ovvero mangiare per strada. L'hanno invento circa tremila anni fa i popoli nomadi, i romani ne fecero un vanto, tanto che gran parte della popolazione consumava i pasti in piedi, velocemente, sostando in locali semi-aperti adiacenti alla strada. Di queste strutture rimangono importanti vestigia a Pompei. Qui le taverne erano oltre che meta dei viaggiatori di passaggio anche il luogo dove i poveri si facevano riscaldare le vivande (non sempre disponevano di fornelli a casa loro).
    Pratiche popolari del genere erano però considerate di cattivo gusto dai notabili, i quali vedevano scadere la propria reputazione se erano visti far colazione alla taverna, perchè vivere per la strada non era serio.
    Oltre alle "cauponae" e alle "tabernae" dove i passanti compravano o consumavano bevande fresche o vino caldo, numerosi erano i venditori ambulanti che offrivano pane, frittelle, salsicce, ecc. Le classi popolari urbane conoscevano il piacere di consumare a tavola solo il pasto serale.
    Lo scrittore latino Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’Urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi: “Non più fiaschi appesi ai pilastri… barbiere, bettoliere, friggitore, norcino; nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino”.





    Traiano e il primo centro commerciale

    Marcio Ulpio Traiano divenne imperatore nel 98 d.C., non per diritto dinastico ma per adozione (fatto eccezionale), essendo considerato il miglior candidato possibile. Riuscì in un'impresa non facile per un sovrano: fu apprezzato da tutti. Dal Senato con cui collaborò senza problemi; dai provinciali che lo amarono per le origini ispaniche; dai legionari che ne riconobbero il valore militare e dagli intellettuali che ne apprezzarono la cultura stoica.
    Traiano fece a Roma grandi lavori, dalla ristrutturazione del foro, all’acquedotto, ed edificò un insieme di edifici articolati su più livelli: i Mercati Traianei.
    Apollodoro di Damasco nel II sec. progettò questo primo centro commerciale coperto della storia, considerato nell'antichità una delle meraviglie del mondo classico (oggi se ne può ammirare solo una piccola parte).
    Sei erano i piani su cui si sviluppava, con 150 negozi dove si vendeva un po' di tutto. Fiori, frutta, olio, vino, grano, pepe, spezie pregiate. All'ultimo piano si poteva acquistare pesce, conservato vivo in vasche d'acqua dolce o di mare rifornite mediante appositi acquedotti. C'era perfino una tavola calda e una specie di banca. Tra una spesa e l'altra, commercianti e clienti si fermavano nelle osterie del piano terra (tabernae) per fare due chiacchiere, bere e giocare a dadi.




    I mercati generali di Giulio Cesare

    Già al tempo di Giulio Cesare era stato realizzato il primo mercato romano di specialità gastronomiche, che si presentava come un grande edificio di forma quadrata.
    Sulle facciate prospicienti il grande e luminoso cortile interno si aprivano, ovunque, piccoli negozi.
    Per proteggere le merci dai raggi del sole venivano stese pelli di animali.
    Qui era soprattutto abbondante l’offerta di verdure ed ortaggi , i prodotti cioè di un campo nel quale gli agronomi del tempo operavano con risultati apprezzabili.
    Erano riusciti, ad esempio, a coltivare per la prima volta la lattuga cappuccina e a far raggiungere ad asparagi e cavoli le dimensioni che ancora oggi mantengono.
    Un cronista dell’epoca descrive così il mercato:
    “Si potevano trovare 38 qualità di pere e 23 di mele. Strettamente addossati l’una a l’altro, stavano i banchi dei verdurieri, che urlando, vantavano la qualità delle proprie merci. Pepe, cardamomo e valeriana dell’India, cumino dall’Etiopia, zenzero dall’Arabia.
    I volatili erano appesi a lacci, così come il pesce secco. Accanto vi erano botti con il sale nelle quali si trovavano ostriche ancora vive.
    Si era imposto anche il luogo comune che un cibo doveva essere tanto più gustoso quanto più esotico ne fosse stato il paese d’origine. I nobili romani erano tanto amanti della vita gaudente, che vedevano nel lusso della tavola una dei massimi valori della vita.
    Ad esempio la richiesta di poter disporre di pesci e di altri frutti di mare quanto più freschi, portò coloro che commerciavano in prodotti ittici, prima a trasportare il salmone del Reno in speciali carri cisterna lungo le strade dell’impero rinnovando l’acqua ad ogni posta, poi ad erigere un’imponente costruzione all’interno del perimetro del mercato all’ingrosso.





    b>Campoli Apennino (FR) Festa del Tartufo




    Campoli Appennino


    C’è un punto del mondo dove storia e tradizione si fondono con la natura.

    C’è un posto in Italia dove l’arte sfida il tempo.

    C’è un posto in Ciociaria dove la buona cucina e l'aroma del tartufo convincono anche i palati più raffinati.

    Questo posto è Campoli Appennino, rifugio di tranquillità e montagne innevate d’inverno, paesaggi incantati e frizzanti serate d’estate, perfetto per le vostre vacanze!

    E poi ancora un tuffo nel passato tra i resti del centro storico con la torre medievale, possibilità di escursioni tra le bellezze del Parco Nazionale d’Abruzzo, la festa del tartufo di Campoli Appennino (sagra del tartufo)... per conoscerne di più e per sapere come fare per raggiungerci visitate questo sito, ne vale la pena!!!

    Con più di 1,800 abitanti, Campoli Appennino (FR) è un paese della Ciociaria, costruito a ferro di cavallo intorno ad una dolina carsica "Tomolo", a ridosso della catena degli Appennini centro-meridionali, versante laziale del Parco Nazionale d'Abruzzo.

    Campoli Appennino è situato sulla superstrada Sora-Pescasseroli, a meno di un'ora di macchina da Roma e, poco più, da Napoli.


    24a FESTA DEL TARTUFO NERO PREGIATO DI CAMPOLI APPENNINO
    20 - 21 Febbraio 2010, Campoli Appennino (FR)

    FESTA DEL TARTUFO DI CAMPOLI APPENNINO
    3° Fine settimana di Giugno

    3° Fine settimana di Novembre







    Abbacchio alla Scottadito

    tipico piatto romano, è semplicissimo cucinare questo piatto, qui a roma l' abbacchio è una tradizione, e per il pranzo di Natale non può mancare, ma si mangia durante tutto l' anno non solo a Natale, è davvero speciale e la preparazione è semplicissima, a casa mia nei giorni delle feste se ne prende uno intero e si fa al forno a legna, ma potete anche prendere delle braciolette e cucinarle nel forno di casa, andiamo a vedere come procedere e ricordate sempre di accompagnarlo con delle Patate al Forno.....




    Coda alla Vaccinara

    Nata nel cuore di Roma, nel rione Regola dove abitavano i vaccinari, la coda alla vaccinara è la regina del quinto quarto. Da sempre considerata emblema di una particolare romanità "greve e caciarona" è un piatto che va rivalutato e rispettato, dice Livio Jannattoni, a causa della difficoltà di preparazione, un piatto che tutti vorrebbero fare ottenendo, però, niente più che una coda lessa.



    Pajata

    è il termine con il quale si identifica l'intestino tenue del vitellino da latte, che viene tipicamente utilizzato per un piatto di pasta, tipicamente i rigatoni. Questa è un ricetta tipica della cucina romana. In questa ricetta, l'intestino viene lavato, ma non privato del latte, in modo tale che, una volta cucinato, possa dar forma ad una salsa di sapore acre e forte, normalmente ottenuta utilizzando anche pomodoro.



    Pajata

    è il termine con il quale si identifica l'intestino tenue del vitellino da latte, che viene tipicamente utilizzato per un piatto di pasta, tipicamente i rigatoni. Questa è un ricetta tipica della cucina romana. In questa ricetta, l'intestino viene lavato, ma non privato del latte, in modo tale che, una volta cucinato, possa dar forma ad una salsa di sapore acre e forte, normalmente ottenuta utilizzando anche pomodoro.



    Coratella di abbacchio con i carciofi



    I saltimbocca alla romana


    come suggerisce anche il nome, sono il cavallo di battaglia, insieme alla pasta alla carbonara, della cucina tipica Romana. Si tratta di un piatto ormai conosciutissimo in tutto il mondo, forse il piatto italiano più noto dopo gli spaghetti all'estero. In realtà le origini di questo gustoso piatto sono dubbie: accanto alla più tradizionale origine Romana qualcuno ha voluto rivendicare anche un origine Bresciana. In ogni caso sappiamo che Pellegrino Artusi, che l'ha descritta fin dalla fine dell'800, abbia assaggiato i saltimbocca nella trattoria storica di Roma "Le Venete" anche se, dopo poco tempo iniziarono ad essere serviti anche in altre trattorie tipiche Romane.



    Porchetta

    tipica delle zone dei castelli e in particolare di Ariccia. Ad Ariccia, città del Lazio in provincia di Roma ai confini con la provincia di Latina, si continua a preparare la porchetta secondo la millenaria ricetta etrusca. Preparare la porchetta è un arte che è stata trasmessa di generazione in generazione: la fase della legatura costituisce un elemento culturale significativo nel confezionamento della porchetta di Ariccia. E' una lavorazione prettamente manuale, praticata con ago e spago, eseguita in modo da conferire alla porchetta la conformazione caratteristica del suino e soprattutto deve essere calibrata in modo da garantire una perfetta cottura della carne ed il mantenimento della compattezza della porchetta durante e dopo la cottura. La porchetta si può mangiare calda, ma è più classica fredda; ha un sapore di carne suina aromatizzata al rosmarino, aglio e pepe nero e al taglio la fetta si presenta compatta ed omogenea, con la parte grassa ben separata da quella magra, e con la crosta esterna croccante, di colore dorato e gusto sapido. La porchetta è il tradizionale alimento dei laziali itineranti per sagre e fiere, da gustare con del pane casareccio e un vino rosso di questa zona, come ad esempio un Castelli Romani Rosso.



    I Carciofi romaneschi


    Senza spine, molto grossi, forma sferica.... quasi rotondi, i carciofi romaneschi sono il simbolo del Lazio vegetale. "Il Carciofo Romanesco IGP ha forma sferica, compatta, con foro all'apice, colore da verde a violetto, diametro non inferiore a centimetri dieci e viene coltivato e raccolto, da gennaio fino a maggio, in alcuni comuni delle province di Viterbo, Roma e Latina". Si cucina alla romana o alla giudia. Un consiglio per chi gradisse cimentarsi nella cottura in casa del carciofo alla giudia: è opportuno scegliere sempre un buon olio d'oliva e non affidarsi agli oli di semi, soprattutto quelli di semi vari. L'olio d'oliva, infatti, regge molto meglio alle alte temperature, rende i piatti più gustosi e più digeribili.

    Carciofi alla giudia

    I carciofi alla giudia sono un tipico contorno della gastronomia Laziale, in particolar modo della città di Roma, dove questo piatto è stato inventato. I carciofi alla giudia sono un piatto classico, molto semplice da preparare ma allo stesso tempo capace di esaltare l'aroma e il sapore di questo ortaggio. La storia di questo piatto ci riporta indietro nel tempo e nello spazio, nel ghetto ebraico di Roma. Qui, le massaie Ebree, utilizzando la "mammola" romana, ovvero il carciofo tipico del Lazio, preparavano questo piatto semplice ma gustoso che veniva mangiato in particolar modo nel periodo della ricorrenza di Kippur. Kippur, chiamata anche festa dell'espiazione, è un giorno di digiuno totale, in cui ci si astiene dal mangiare, dal bere e da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento e alla preghiera. Dopo avere passato 24 ore di digiuno, gli Ebrei solitamente mangiavano i carciofi che per questo motivo furono chiamati "alla giudia".



    Gli altri sapori regionali da provare sono: da Genzano il pane casareccio al quale l'Unione Europea ha riconosciuto il marchio di Denominazione di Origine Protetta. Per la sua tutela è nato un consorzio del Pane Casareccio di Genzano a garanzia del fatto che i panificatori osservino un disciplinare severo per ciò che riguarda le caratteristiche dei filoni e delle pagnotte, lo spessore della crosta, il colore bianco avorio della pasta interna, il profumo di cereale, il sapore sapido, l'umidità e il peso specifico e la cottura nei forni a legna. L'olio di Tivoli, con il suo profumo intenso - sa di oliva matura - e il suo sapore genuino e' ingrediente della cucina romana più' autentica



    E ora per finire i dolci ... sempre appartenenti alla tradizione romana ...

    I maritozzi


    sono i tipici dolcetti romani, confezionati dai fornai con il lievito di birra e cotti nei forni in muratura... Devono il loro nome al fatto che venivano regalati dai ragazzi alle proprie fidanzate e potevano essere usati per nascondervi piccole sorprese in oro.

    ... Maritozzi con panna ...



    Crostata con la ricotta



    Bignè di S. Giuseppe



    Frittelle di riso



    Fave dolci

    Era un’ abitudine (che purtroppo sta lentamente scomparendo) di mamme e nonne preparare questi dolci (ultracalorici) a novembere, in corrispondenza del giorno dei morti. Il nome non si riferisce solo alla forma dei dolcetti; pare infatti che già all’epoca dei Romani vi fosse la tradizione di mangiare le fave nel tempo della commemorazione dei defunti, che però avveniva in maggio e non in novembre.

    ... ehm .. questo dolcetto pur buonissimo ha un nome poco incoraggiante ... ma se non ci soffermiamo al nome e gustiamo la bontà ... Le "fave dei morti" sono una ricetta tradizionale per festeggiare la commemorazione dei defunti. Il nome stesso indica quanto l'origine sia antica: la tradizione di offrire fave (quelle vere però) ai defunti risale addirittura all'epoca etrusca. Con il tempo i legumi secchi hanno lasciato il posto ai dolci, colorati e un pochino più grossi.



    Zuppa inglese



    Frappe e castagnole

    FRAPPE


    CASTAGNOLE



    MOSTACCIOLI ROMANI

    Un dolce tipico delle fiere organizzate durante le feste comandate. In particolare nei mercatini dedicati alla Befana ed ai suoi doni si trovano bancarelle piene di questi tenaci, tradizionali e deliziosi dolci.



    Ingredienti per 4 persone:
    70 g di farina 00
    2 etti di noci sgusciate
    2 albumi d’uovo
    1 ½ etti di miele
    Cannella e pepe qb



    Procedimento:
    preparate un impasto omogeneo con tutti gli ingredienti. Stendetelo con cura in modo da formare uno strato rettangolare alto circa un centimetro e mezzo. Tagliate in rombi la pasta e disponeteli su una teglia antiaderente, che metterete in forno a 160 gradi per 25 minuti circa. Togliete la teglia dal forno e lasciate freddare i mostaccioli. Buon appetito e … attenzione alle mascelle!




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    Pizza di Pasqua

    Eh sì, non si tratta del classico gioco di parole tra prima e seconda colazione-pranzo: a Roma il pasto più importante del giorno di Pasqua, quello che proprio non si può mancare in famiglia, è proprio la colazione mattutina, quando le tavole dei romani si ricoprono di ogni ben di Dio (vedi foto accanto). Ognuno ha le sue abitudini, ma ci sono alcuni cibi che fanno parte, per così dire, della tradizione cittadina. Tra questi troviamo innanzitutto l’abbacchio, che a Pasqua viene consumato in versione light, il cosiddetto ‘brodetto pasquale’. L’agnello per i cristiani simboleggia il corpo innocente di Gesù crocifisso, ma è presente anche nella festività ebraica, legato al passaggio dalla schiavitù alla libertà della terra promessa. Stessa ambivalenza per le uova, che tradizionalmente vengono dipinte dai bimbi di casa ma oggi sono per lo più consumate nella versione di cioccolata: per i cristiani sono il segno della Resurrezione di Cristo; nella tradizione ebraica simboleggiano nuova vita. Per il resto, potete trovare il salame tipo corallina, spesso accompagnato dalla pizza di Pasqua, la classica ‘coratella co li carciofi’, la frittata di asparagi e una grande varietà di torte salate. Da bere? Per i più piccoli (e sfido anche voi se avete coraggio di provare l’abbinamento) il tipico ‘squajo’.



    Lo 'squaglio'

    lo ’squaglio’, oppure, in dialetto, ’squajo’: a Roma fa parte del tradizionale banchetto pasquale, assai più importante quello appena alzati, ancora più del pranzo in famiglia. Cosa vi occorre: 5 g di cacao amaro per ogni tazza di ’squaglio’, acqua bollente a volontà, zucchero e, se proprio volete cedere alla gola, panna montata. Come si fa: fate bollire l’acqua e versatela nelle tazze in cui scioglierete il cacao amaro, nelle dosi consigliate. Zuccherate a piacere ed eventualmente guarnite con la panna. Se volete che il vostro ’squaglio’ sia ancora più nutriente (leggi più grasso) utilizzate il latte al posto dell’acqua. E ricordate di leccarvi i baffi.



    Come viveva e lavorava un cives romanus? Che cosa mangiava? Quali erano le sue abitudini e come trascorreva il tempo libero? La risposta a tutte queste domande è il nuovo libro di Alberto Angela Una giornata nell’antica Roma, uno straordinario ed affascinante viaggio di ventiquattro ore, dall’alba al tramonto, nella Roma di duemila anni fa.



    ….Alle prime luci dell’alba, in una domus patrizia, si assiste al diverso risveglio di schiavi e padroni, si esplora la casa con le sue pareti ricche di affreschi vivi e colorati, con il suo arredamento fatto di panche e sgabelli ma anche di suppellettili egiziane o etrusche. Si illustrano le attività che riguardano la cura della casa per poi soffermarsi sul rituale della vestizione del dominus e sui segreti dell’abbigliamento e del trucco della padrona di casa. Dal silenzio della domus si passa nelle affollate e rumorose strade della capitale che si sta svegliando, dove, addentrandosi tra le botteghe e le case della Roma popolana, si osservano i colori accesi delle statue, personaggi dediti a ogni sorta di traffici commerciali, i motti arguti e i graffiti “osé” incisi sui muri scrostati delle case popolari, si aprono le porte degli appartamenti delle insulae e si osservano i loro interni. Nelle insulae, quartieri formati da caseggiati verticali, veri e propri “palazzi” che potevano raggiungere anche altezze eccezionali per l’epoca, si muoveva confusamente una varia umanità: portinai, ex legionari, schiavi impegnati nei lavori più diversi, amministratori di condominio pronti a riscuotere affitti e subaffitti.


    Non mancano le soste ai Fori, cuore economico e politico della Roma imperiale o alle terme, per ascoltare dottissime arringhe o triviali barzellette; si entra nel circo o al Colosseo per assistere ai combattimenti dei leggendari gladiatori; si scopre il lavoro dei cuochi che preparano un banchetto, si indaga sui segreti inconfessabili e sui vizi della vita sessuale di patrizi e plebei…..



    Il Teatro dell'Opera di Roma ha il privilegio di possedere il lampadario di cristallo più grande del mondo. Un lampadario che è un vero e gigantesco gioiello "incastonato" nella cupola del grande salone curvilineo, contornato da stucchi dorati e da bellissime decorazioni eseguite dal pittore Annibale Brugnoli (Perugia 1843-1911). Al centro di queste splendide armonie di figure e di colori campeggia, dunque, maestoso, il singolare e caratteristico lampadario che ha la forma circolare, con un diametro di sei metri, un'altezza di tre metri e mezzo, un volume di ben 36 metri cubi ed un peso di oltre 3.000 chilogrammi. Realizzato a Murano, il lampadario è un autentico capolavoro dell'arte vetraria italiana. Fu voluto da Domenico Costanzi proprietario del teatro e venne posto in opera nel 1878, anno di inaugurazione del tempio romano della lirica. La struttura metallica di sostegno del grande lampadario è costituita da 17 anelli concentrici, verticalmente collegati tra loro da un elemento tubolare centrale in ottone e orizzontalmente da catene di ripartizione. La parte ornamentale è composta da elementi di cristallo variamente foggiati, disposti su file verticali, appesi ai 17 ordini, per un totale di 560 strisce che contengono oltre 48.000 cristalli prismatici. Pezzo unico di valore inestimabile, naturalmente. Più di mille metri di cavo elettrico unipolare raggiungono le 270 lampade ad incandescenza abilmente disposte all'interno del monumentale lampadario, per accendere le quali occorre una potenza di 18.000 Watt, pari a quella necessaria per alimentare sei appartamenti! Restaurato una prima volta agli inizi del secolo e poi nel 1926, in occasione della ristrutturazione dell'intero edificio, da allora la "toilette" al vecchio lampadario viene effettuata in media ogni cinque anni. Si tratta di una operazione assai delicata e complessa, che costa anche molti milioni, eseguita da maestranze specializzate che utilizzano un grosso argano per far scendere e sollevare l'enorme "gioiello". Gli operai praticamente smontano tutto il lampadario, ne puliscono accuratamente le varie parti e ne controllano l'intero impianto elettrico."

     
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