GABRIELE D'ANNUNZIO

Poeta

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  1. gheagabry
     
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    Amando definire «inimitabile» la sua vita,
    ....... costruisce intorno a sé
    il mito di una vita come un'opera d'arte.



    GABRIELE D'ANNUNZIO





    Nato a Pescara il 12 Marzo 1863 da Francesco D'Annunzio e Luisa de Benedictis, Gabriele é il terzogenito di cinque fratelli. Fin dalla più tenera età spicca tra i coetanei per intelligenza e per una precocissima capacità amatoria. Il padre lo iscrive al reale collegio Cicognini di Prato, costoso convitto celebre per gli studi severi e rigorosi. La sua é una figura di allievo irrequieto, ribelle e insofferente alle regole collegiali, ma studioso, brillante, intelligente e deciso a primeggiare. Nel 1879 scrive una lettera al Carducci, nella quale chiede di poter inviare al «gran vate» della poesia italiana, alcuni suoi versi; nello stesso anno a spese del padre pubblica l'opera «Primo Vere», che viene però sequestrato ai convittori del Cicognini per i suoi accenti eccessivamente sensuali e scandalistici;
    il libro fu però recensito favorevolmente dal Chiarini sul «Fanfulla della domenica».
    Al termine degli studi liceali consegue la licenza d'onore; ma fino al 9 di luglio non torna a Pescara. Si ferma a Firenze, da Giselda Zucconi, detta Lalla, il suo primo vero amore; la passione per «Lalla» ispirò i componimenti di «Canto Novo». Nel novembre 1881 D'Annunzio si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di lettere e filosofia, ma si immerge con entusiasmo negli ambienti letterari e giornalistici della capitale, trascurando lo studio universitario.
    Collabora al Capitan Fracassa e alla Cronaca Bizantina di Angelo Sommaruga e pubblica qui nel maggio 1882 il «Canto Novo» e «Terra Vergine». Questo è anche l'anno del suo matrimonio con la duchessina Maria Altemps Hordouin di Gallese, figlia dei proprietari di palazzo Altemps, di cui il giovane D'Annunzio frequentava assiduamente i salotti. Il matrimonio è osteggiato dai genitori di lei, ma viene ugualmente celebrato.
    Nasce il suo primogenito Mario, mentre lo scrittore continua la collaborazione con il Fanfulla, occupandosi più che altro di costume e aneddoti sulla società dei salotti. Nell'aprile 1886 nasce il secondo figlio, ma D'Annunzio riacquista l'entusiasmo artistico e creativo solo quando incontra ad un concerto il grande amore, Barbara Leoni, ossia Elvira Natalia Fraternali.
    La relazione con la Leoni crea non poche difficoltà a D'Annunzio che, desideroso di dedicarsi alla sua nuova passione, il romanzo, e di allontanare dalla mente le difficoltà familiari, si ritira in un convento a Francavilla dove elabora in sei mesi «Il Piacere».
    Nel 1893 la coppia affronta un processo per adulterio, che non fa altro che far nascere nuove avversità nei confronti del poeta negli ambienti aristocratici. I problemi economici spronano D'Annunzio ad affrontare un intenso lavoro (infatti, oltre ai debiti da lui contratti si sommano quelli del padre deceduto il 5 giugno 1893).
    Il nuovo anno si apre nuovamente nel segno della solitudine del convento, dove D'Annunzio elabora il "Trionfo della morte". In settembre, trovandosi a Venezia, conosce Eleonora Duse, già avvicinata a Roma in veste di cronista della Tribuna. In autunno si stabilisce nel villino Mammarella, a Francavilla con la Gravina e la figlia e inizia la faticosa elaborazione del romanzo "Le vergini delle rocce" apparso a puntate sul convito e poi in volume presso Treves con data 1896.
    Nell'estate 1901 nasce invece il dramma "Francesca da Rimini", anche se questi sono anni prevalentemente contrassegnati dall'intensa produzione delle liriche di "Alcyone", e del ciclo delle Laudi.
    In estate D'Annunzio si trasferisce a villa Borghese dove elabora la "Figlia di Iorio". Il dramma, rappresentato al Lirico di Milano, riscuote un enorme successo grazie alla superbia interpretazione di Irma Gramatica...Venuto meno il sentimento tra la Duse e D'Annunzio e incrinatosi definitivamente il loro rapporto, il poeta ospita alla Capponcina, una residenza estiva, Alessandra di Rudinì, vedova Carlotti, con la quale instaura un tenore di vita oltremodo lussuoso e mondano, trascurando l'impegno letterario. La bella Nike, così era denominata la Di Rudinì, lungi dall'essere la nuova musa ispiratrice favorisce lo snobismo del poeta, spronandolo ad un oneroso indebitamento, che decreta in seguito l'imponente crisi finanziaria. Nel maggio del 1905 Alessandra si ammala gravemente, travolta dal vizio della morfina: D'Annunzio la assiste affettuosamente ma, dopo la sua guarigione, la abbandona. Lo choc per Nike è enorme, tanto che decide di ritirarsi a vita conventuale. Segue poi un rapporto tormentato e drammatico con la contessa Giuseppina Mancini, rievocato nel diario postumo "Solum ad Solam". Assediato dai creditori, fugge in Francia, dove si reca nel marzo 1910, accompagnato dal nuovo amore, la giovane russa Natalia Victor de Goloubeff. Trascorre anche qui cinque anni immerso negli ambienti mondani intellettuali. La permanenza è allietata non solo dalla russa, ma anche dalla pittrice Romaine Brooks, da Isadora Duncan e dalla danzatrice Ida Rubinstein, a cui dedica il dramma "Le martyre de Saint Sébastien", musicato in seguito dal superbo genio di Debussy.
    Il canale che permette a D'Annunzio di conservare la presenza artistica in Italia è "Il Corriere della sera" di Luigi Albertini (dove fra l'altro sono state pubblicate le "Faville del maglio"). L'esilio francese è stato artisticamente proficuo. Nel 1912 compone la tragedia in versi "Parisina", musicata da Mascagni; dopo aver collaborato alla realizzazione del film "Cabiria" (di Pastrone) scrive la sua prima opera cinematografica, "La crociata degli innocenti". Il soggiorno francese termina all'inizio della guerra, considerata da D'Annunzio l'occasione atta ad esprimere con l'azione gli ideali superomistici ed estetizzanti, affidati, sino ad allora, alla produzione letteraria.
    Inviato dal governo italiano a inaugurare il monumento dei Mille a Quarto, D'Annunzio, il 14 maggio 1915 rientra in Italia presentandosi con una orazione interventista e antigovernativa. Dopo aver sostenuto a gran voce l'entrata in guerra contro l'impero Austro-ungarico, non esita ad indossare i panni del soldato l'indomani della dichiarazione. Si arruola come tenente dei Lancieri di Novara e partecipa a numerose imprese militari. Nel 1916 un incidente aereo gli causa la perdita dell'occhio destro; assistito dalla figlia Renata, nella «casetta rossa» di Venezia, D'Annunzio trascorre tre mesi nella immobilità e al buio, componendo su liste di carta la prosa memoriale e frammentaria del "Notturno". Tornato all'azione e desiderando gesti eroici si distingue nella Beffa di Buccari e nel volo su Vienna con il lancio di manifestini tricolori. Insignito al valor militare, il "soldato" D'Annunzio considera l'esito della guerra una vittoria mutilata. Caldeggiando l'annessione dell'Istria e della Dalmazia e considerando la staticità del governo italiano, decide di passare all'azione: guida la marcia su Fiume e la occupa il 12 settembre 1919. Dopo l'esperienza militare D'Annunzio elegge come sua dimora la villa Cargnacco sul lago di Garda.
    I rapporti di D'Annunzio con il fascismo non sono ben definiti: se in un primo tempo la sua posizione è contraria all'ideologia di Mussolini, in seguito la adesione scaturisce da motivi di convenienza, consoni allo stato di spossatezza fisica e psicologica, nonché a un modus vivendi elitario ed estetizzante. Non rifiuta, quindi, gli onori e gli omaggi del regime: nel 1924, dopo l'annessione di Fiume il re, consigliato da Mussolini, lo nomina principe di Montenevoso, nel 1926 nasce il progetto dell'edizione "Opera Omnia" curato dallo stesso Gabriele; i contratti con la casa editrice "L' Oleandro" garantiscono ottimi profitti a cui si aggiungono sovvenzioni elargite da Mussolini: D'Annunzio, assicurando allo stato l'eredità della villa di Cargnacco, riceve i finanziamenti per renderla una residenza monumentale: nasce così il «Vittoriale degli Italiani», emblema del vivere inimitabile di D'Annunzio. Al Vittoriale l'anziano Gabriele ospita la pianista Luisa Bàccara, Elena Sangro che gli rimane accanto dal 1924 al 1933, inoltre la pittrice polacca Tamara De Lempicka.
    Entusiasta della guerra di Etiopia, D'Annunzio dedica a Mussolini il volume "Teneo te Africa".
    Ma l'opera più autentica dell'ultimo D'Annunzio è il "Libro segreto", a cui affida riflessioni e ricordi nati da un ripiegamento interiore ed espressi in una prosa frammentaria. L'opera testimonia la capacità del poeta di rinnovarsi artisticamente anche alle soglie della morte, giunta l'1 marzo 1938.





    .....il padre.....



    Il padre di Gabriele d'Annunzio,Francesco Paolo Rapagnetta, nato nel 1838, era stato adottato da una sorella della madre Rita, Anna Lolli, che aveva sposato in seconde nozze, dopo la morte del primo marito, un facoltoso commerciante ed armatore, Antonio d'Annunzio. Camillo Rapagnetta e Rita Lolli cedettero il sesto figlio agli zii: l'adozione fu approvata dalla Corte Civile de L'Aquila con decreto del 4 Dicembre 1851.
    Il Poeta descrive la figura del padre in alcuni brani del Il compagno dagli occhi senza cigli in Le Faville del maglio:

    “ Mio padre è là corpulento e sanguigno, un poco ansante, con quel suo sguardo un poco torvo in cui passava talvolta uno strano ardore come di fosforo che vi s'accendesse.
    M'è vicino e m'è lonatano, è fatto della mia stessa sostanza e m'è sconosciuto. Ho potuto vivere lungo tempo discosto da lui, talvolta ho potuto avversarlo, talvolta perfino dimenticarlo...
    Spirito tirannico quan'altri mai, egli aveva da tempo abdicata la sua autorità sopra me, solo attento a vigilare le mie tendenze e a spiare l'ombra dei miei sogni.”





    ...........Fiume............



    Il 4 Settembre 1917 il poeta ardito vola sul Garda stillando brevi versi dedicati al lago
    " Tutto è azzurro, come un'ebbrezza improvvisa, come un capo che si rovescia
    per ricevere un bacio profondo. Il lago è di una bellezza indicibile ".

    Nello stesso 1917, prima del raid su Pola, nasce l'esclamazione di sfida D'Annunziana
    " Eia, eia, eia. Alalalà "
    destinata a risuonare per più di un ventennio.

    Successivamente all'impresa fiumana " O Italia o morte ! " lo stesso Mussolini "seguace" del suo ispiratore D'Annunzio pronucia questa frase :
    << Gabriele D'Annunzio è come un dente marcio o lo si estirpa o lo s ricopre d'oro...io preferisco ricoprirlo d'oro >>
    Questa frase rappresentò la fortuna del Vate, il quale avendo dimostrato in parte adesione al pensiero Fascista si ritrovò a poter costruire il Vittoriale a spese del regine, in cambio però di dover donare allo stato tutto il Vittoriale dopo la propria morte. Da qui il nome " Vittoriale degli Italiani " poiché più che di D'Annunzio era di tutti gli Italiani e da qui la massima che si trova alle soglie del Vittoriale
    " IO HO QUEL CHE HO DONATO "



    ...... il Vittoriale .......



    Il Vittoriale non è semplicemente una dimora dove Gabriele d'Annunzio visse i suoi ultimi anni,ma un vero e proprio museo in cui sono contenute reliquie, ricordi, cimeli e tracce del suo "esagerato" vivere.
    Il Governo Italiano che ha espropriato nel 1918 il proprietario Henrich Thode, l'affida a D'Annunzio, che vuole fare di questa dimora il luogo dove "riporvi i resti dei miei naufragi" con l'accordo che questa tornerà allo Stato Italiano dopo la sua morte.
    D'Annunzio, il vecchio, fantasioso poeta-guerriero, costruisce intorno al suo mito una piccola città museo.

    "...io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e trasfigurazione.
    Tutto, infatti, è qui da me creato o trasfigurato.
    Tutto qui mostra le impronte del mio stile, nel senso che io voglio dare allo stile.
    Il mio amore d’Italia, il mio culto delle memorie, la mia aspirazione all’eroismo, il mio presentimento della Patria futura si manifestano qui in ogni ricerca di linea, in ogni accordo o disaccordo di colori.
    ...Ogni rottame rude è qui incastonato come una gemma rara.
    La grande prova tragica della nave "Puglia" è posta in onore e in luce sul poggio, come nell’oratorio il brandello insanguinato del compagno eroico ucciso.
    ...Tutto qui è dunque una forma della mia mente, un aspetto della mia anima, una prova del mio fervore."





    ..... i suoi motti ....



    "Piegandomi lego"

    Motto impresso sulla carta da lettere e sugli ex libris con l'immagine di un salice pingente che si piega legandosi ad un altro albero.Non è escluso che si "piega" alla volontà di Mussolini che lo vuole lontano dalla vita politica della nazione.

    "Suis viibus pollens possente di sua propria forza"

    Una delle frasi predilette dal d'Annunzio che la fece incidere sui sigilli dorati con cui chiudeva le buste e sugli oggetti che usava donare agli amici:gemelli e portasigarette d'argento.E' inscritta in un tondo recantee l'immagine di un elefantee con la proboscite in alto.

    "Resto dentro di me"

    La frase latina è legata alla immagine della tartaruga che resta nel suo guscio.D'Annnunzio la fece incidere su una placca che inviò a Mussolini ne '35.Il Poeta era solito regalare agli amici piccole tartarughe d'argento che usava come "talismani".

    "Cosa fatta capo ha"

    Celebre frase dantesca usata da d'Annunzio per sancire la sua impresa divenuta dopo pochi giorni gia' leggendaria.Per i Poeta la parola "capo" ha il doppio significato di "principio" e di "comandante". D'Annunzio fece disegnare per il motto,da Adolfo De Carolis,la figura di un nodo tagliato da un pugnale:rappresenta il nodo scorsoio che il presidente Wilson aveva messo intorno alla gola dell'Italia,stabilendo le umilianti condizioni di pace. Il motto fu gridato dal Comandante il 12 settembre 1920 nell'annunciare che avrebbe inviato al Senato americano la nuova delibera del Consiglio di Fiume contro il Patto di Londra.

    "Indeficienter"

    Si trova sullo stemma che Leopoldo I concesse aal città di Fiume nel 1659, sotto un'urna che versa acqua perenne,sovrastata da un'aquila ad ali spiegate. Secondo la leggenda l'acqua di Fiume serviva a guarire tutti i mali. "L'Urna inesausta" del vecchio stemma fu ripresa da d'Annunzio come simbolo della città occupata dai legionari e impressa sui francobolli della "Reggenza del Carnaro".




    Scriveva negli ultimi giorni della sua vita...
    "Io resto con il nulla che mi sono creato...La passione in tutto.
    Desidero le più lievi cose perdutamente,
    come le più grandi. Non ho mai tregua…"




    ...... poetica .....



    La poetica dannunziana (ma forse sarebbe più esatto parlare di poetiche, o d’una poetica composita) è l’espressione più appariscente del Decadentismo italiano. Dei poeti «decadenti» europei D’Annunzio accoglie modi, forme, immagini, con una capacità assimilatrice notevolissima; quasi sempre, però, senza approfondirli, ma usandoli come elementi della sua arte fastosa e portata a un’ampia gamma di sperimentazioni. Per quest’ultimo aspetto lo si può avvicinare al Pascoli, anch’egli impegnato in una ricerca di nuove tematiche linguistiche.
    Anche per D’Annunzio fu importante l’incontro col Simbolismo europeo, soprattutto francese, a cominciare dal Poema paradisiaco (1893; ma le liriche sono frutto d’un triennio), dove s’avverte la ricerca della parola suggestiva, dell’analogia simbolistica, l’ansia d’una poesia che evochi li «mistero» attraverso raffinate atmosfere sentimentali e di sensibilità e oggetti ridotti a emblemi d’una realtà più profonda: il non dicibile delle cose e dell’animo, aperto soltanto all’intuizione, al presentimento, alla ricerca d’una rifondazione poetica della realtà...Del D’Annunzio in particolare si può dire che egli aderì soprattutto alla tendenza irrazionalistica e al misticismo estetico, fondevoli con la propria ispirazione naturalistica e sensuale, ben evidente nelle sue prime raccolte poetiche e non mai rinnegata.
    Nasce di qui quello che fu detto il panismo di molta poesia dannunziana: per un verso un dissolversi dell’io, un suo farsi forma, colore, suono, un immergersi totale nelle cose, dietro la suggestione dei sensi e dell’istinto; per un altro verso, una nuova creazione della realtà in una luce di bellezza, coincidente con l’impeto inesausto della vita, con il moltiplicarsi costante delle forme davanti alla vigile «attenzione» del poeta. La poesia diviene così per D’Annunzio scoperta dell’armonia del mondo; il poeta a suo avviso continua e completa l’opera della natura.



    ..... una poesia ....



    Rimani! Riposati accanto a me...Non te ne andare.
    Io ti veglierò. Io ti proteggerò.
    Ti pentirai di tutto fuorchè d'essere venuto a me, liberamente, fieramente.
    Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;
    non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.
    Lo sai. Non vedo nella mia vita altro compagno, non vedo altra gioia
    Rimani. Riposati. Non temere di nulla.
    Dormi stanotte sul mio cuore....



     
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  2. gheagabry
     
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    Lo scrittore fa parlare il padre de protagonista, uomo d'arte, che cresce il proprio figlio guidandolo nell'arte e nel piacere della bellezza. Fin qui nulla di particolarmente interessante...ma alcune frasi del libro rimandano ad una più attenta analisi. Il padre di Andrea Sperelli disse: "bisogna fare la propria vita come si fa un opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui" e poi ammoniva "bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebrezza: la regola dell'uomo d'intelletto eccola -habere, non haberi-". Una filosofia estetica, un'immergersi nel godimento che concede tutta l'opera d'arte, l'ebrezza che dà all'occhio nel momento in cui osserva, come si osserva un piatto prelibato prima di assaggiarlo, la forma che lo pervade tutto di emozione. Naturalmente tutto questo trascende nel piacere carnale, perciò ci vuole poco a comprendere che questa non è altro che l'espressione di una filosofia edonistica. Il piccolo problema, non di lieve impedimento, è la dipendenza. E' possibile all'interno di questa filosofia habere, non haberi? A mio parere è al quanto difficile pensare di non cadere nell'effetto dell'oggetto desiderato. Come in una sorta d'incantesimo l'adoratore dell'opera d'arte diventa preda della stessa, che sia scultorea o di carne. Non può fare a meno di osservare e tanto più la possiede con lo sguardo, tanto più ne è posseduto! Allora cosa vuole il piacere per essere goduto senza cadere nella dipendenza? Una regola. Una qualsiasi che lo educhi alla misura! Se invece di cadere nel sofisma e oscurare la verità, arte che il padre di Sperelli gli aveva tramandato, si cercasse la misura, lo scopo, la meta di quel piacere, allora si potrebbe tentare di trovare tramite esso l'essenza della nostra arte, il cuore pulsante della nostra ispirazione, la verità profonda della nostra ricerca che non è cadere da un piacere all'altro senza sosta, ma cadere nelle braccia dell'oggetto che emana un piacere intemporale, una fluidità di fremiti e sospiri che intrecciano ad ogni passo il suo destino al nostro, l'opera d'arte assoluta.
    Un uomo o una donna (la nostra metà -o meta-) che produca e rinnovi ad ogni gesto quel piacere che non è più l'attimo fuggente, ma una promessa d'eternità. La Musa, la diletta forma che mai ci stanca.

    A.Filippi - dal web
     
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  3. gheagabry
     
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    L'ARTE di essere D'ANNUNZIO



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    La storia letteraria e non, d’Annunzio l’ha molto lapidato. Era inevitabile se uno non crede, in arte, al primato della leggenda. Siccome Gabriele d’Annunzio — nato il 12 marzo 1863, giusto 150 anni fa — è stato con un piede di qua e uno di là, tanto peggio; magari a vantaggio di tomi vergati di pettegolezzi e aneddoti. È stato sempre complicato accettare che un omino alto un metro e sessantadue centimetri, con il sedere un po’ grosso, l’addome uccellesco, le braccia troppo lunghe, una incipiente calvizie, un accento abruzzese che neppure le frequentazioni con Debussy riuscirono a cancellare, dunque provinciale di Pescara, per giunta con i denti guasti, si ergesse a poeta-soldato, a sceneggiatore di film erotici, a scrittore post-verghiano e dandy compulsivo, sciupafemmine e amante di Eleonora Duse, la donna con il volto velato che, nello studio del Vittoriale dai legni chiari e dalla porta inventata come il giogo romano, fa da musa ispiratrice. Era ed è difficile incollare la sua amicizia con Guido Keller alle pagine del Notturno. Ci sarebbe voluto un briciolo di luna in testa, cioè di follia, per capire che il d’Annunzio di Primo Vere e Andrea Sperelli sono uno e indivisibile, eppure prisma; non è stato scontato per decenni accettare, e magari amare, che i Canti della guerra latina fossero di colui che scrisse le Laudi. Neppure Guido Gustavo Gozzano, cresciuto nel giardino torinese del melo, con la sua tisi, il suo dannunzianesimo vintage, con l’innamorata Amalia Guglielminetti che tenta di scaricare a vantaggio degli amici, e non di tenere al pianoforte di Gardone come la Luisa Baccara, aiuta ad ammorbidire i toni sulle contraddizioni del Vate e le varie «Beffe» e il volo su Vienna e le arringhe ai soldati sull’Isonzo e gli isolamenti di Francavilla dove scrisse Il piacere.

    Storia e leggenda egli le ha calzate e scambiate di ruolo. Ma sappiamo che la storia lascia eredi con nome e cognome, mentre la leggenda si incontra per empatia, oppure per affinità. Forse perché il poeta di Rimini, Urbino, Lucca, Assisi, Carrara, Bergamo, Ravenna, Volterra… (Le città del silenzio: per dire come l’Italia è sfarzo non di cento campanili ma di mille Capitali) l’ho incontrato per caso, ora mi tornano in mente frammenti galleggianti nell’unico mare possibile: l’Adriatico.

    D’Annunzio amava le cravatte nere come Enrico Cuccia; a Fiume, nel «Natale di sangue» del 1920, sotto il cannoneggiamento del governo italiano, ha ancora il coraggio di ordinarne «due dozzine». D’Annunzio al Cicognini di Prato fu un discolo. La Capponcina di Settignano a Firenze dovrà essere abbandonata (per debiti) come un’opera incompiuta. È vero: a Fiume comandava, attraverso «il compagno» che sapeva parlare «all’aquila» (Keller), gli Arditi e i Disperati della Disperata che, non avendo niente da perdere e da fare, bighellonavano tutto il giorno tra i cantieri navali deserti. Si tuffavano dalle gru, usavano cocaina; erano bestie e bimbi, sembrano uscire da quadri di De Pisis e Gian Marco Montesano; poi marciavano a torso nudo per le vie della città; infine, presso La Torretta, una località remota, giocavano alla guerra, lanciandosi addosso bombe a mano.

    L’«Orbo veggente», nella baia di Buccari (Bakar), a cavallo di un motosilurante (Mas), lasciò tre bottiglie ornate di nastri tricolore contenenti messaggi appunto beffardi contro il nemico. D’Annunzio, ricordavo, l’ho incontrato già da dodicenne sui luoghi che poi gli sono stati cari: Trieste. Da ragazzino la vidi dama cicatrizzata, con una luce non accecante, tipo vuota e estiva, bensì bianca e spessa come imbalsamasse persone, palazzi, bagnanti, strade e mare. Nel Notturno il pescarese scrisse: «Trieste laggiù come una forma di luce».

    Per uscire dall’incantamento dei frammenti, ho sempre sostenuto che La pioggia nel pineto sia il terzo grande Canto della poesia italiana di sempre. Canto notturno di Giacomo Leopardi è una corsa ciclistica di uno sconfitto dalla malignità della natura; Dei Sepolcri di Ugo Foscolo: l’inno eroico e fallocentrico contro la morte. Il canto di Alcyone, invece, è una musica fatta di acqua. Pioggia che snoda piante e corpi. Composizione di gocce. Acqua di mare dove Ermione è ermafrodito ma soprattutto madre. È la nostra madre poetica.

    Quando molti anni fa andai in visita a Gardone e al Vittoriale, la dimora di d’Annunzio non mi colpì né suggestionò rispetto alla eccentricità del bagno Blu, oppure della stanza del Mappamondo, della Cheli, della Musica, della Leda, della Zambracca. Non rimasi sbalordito da tanto spazio (in realtà piccolo se si pensa alle ville dei divi di Hollywood), colmo di una foresta di idoli, ex voto, calchi, tappeti, libri, boccette e penne di Buccellati e testa di aquila di Renato Brozzi. Mi parve di intuire, invece, che in quei corridoietti bui o sentieri scavati tra quintali di reliquie, feticci e masserizie varie, scodinzolasse non il poeta-guerriero-romanziere-politico-aviatore-marinaio, bensì un topolino con un occhio pettinato, come truccato, che si segrega nelle stanze per rosicchiare concentrato e assorto il cadavere di sua madre.

    Ma fu quando osservai nei giardini lo specchio del lago di Garda che capii meglio. Il Garda era identico all’Adriatico. Il mare lunare, femminile,materno, stagnante e «musicale» quanto il liquido amniotico. Il mare dell’alba, dunque della nascita. Il mare da dove principia il giorno, la luce.

    Gabriele d’Annunzio, prima di puntare la prua della nave Puglia a est, dunque verso il mare della Madonna di Loreto (pensate alla narrazione che indica nella basilica la casa in muratura della Vergine approdata al di qua dell’Adriatico, «per ministero angelico»), non sapeva il perché cercasse una casa sul Garda dopo il ripiegamento di Fiume. Lasciando Venezia, prima di acquartierarsi con un centinaio di reduci presso il Grand Hotel Gardone, al suo segretario Tom Antongini disse: «Attribuisco a te il lago di Garda, perché sento che è là che il mio destino mi spinge ad abitare». Dunque Garda come Adriatico. Acqua per sempre. Perché materna e vitale.

    La pioggia nel pineto è il Canto d’acqua, con Ermione sacerdotessa. È il canto-manifesto di una gioia per la vita che non abbandonerà mai il poeta. Neppure in Maia (Laus Vitae): «O Vita, o Vita,/ dono terribile del dio,/ come una spada fedele,/ come una ruggente face,/ come la gorgóna,/ come la centàura veste;/ o Vita, o Vita,/ dono d’oblìo,/ offerta agreste,/ come un’acqua chiara,/ come una corona…». In Per i morti del mare, addirittura, l’abruzzese pretende che l’acqua trattenga i cadaveri, pensi lei a custodirli, a non riconsegnarli alla terra perché il suo ventre possa mantenerli in vita. L’irriquietezza o l’umoralità del mare è vita che infonde vita anche ai morti.

    Ho riflettuto a intermittenza su questo tema. Però il saggio non l’ho scritto. Resta il rossore di vedere tanti antidannunziani in dieta compulsiva (È inutile lamentarsi sopra una tomba…), pensando a poeti e scrittori «adriatici» coevi o venuti dopo (Svevo, Berto, Parise, Comisso, Flaiano, Zanzotto) che hanno nuotato nell’acqua, nella gioia del ventre materno.

    Aurelio Picca,lettura corriere
     
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