SQUALI, RAZZE E CHIMERE

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted


    [...] Frattanto i pesci ..Dai quali discendiamo tutti ..Assistettero curiosi ..Al dramma collettivo
    Di questo mondo ..Che a loro indubbiamente ..Doveva sembrar cattivo ..
    E cominciarono a pensare ..Nel loro grande mare ..Com'è profondo il mare
    E' chiaro ..Che il pensiero dà fastidio ..Anche se chi pensa ..
    E' muto come un pesce ..Anzi un pesce
    E come pesce è difficile da bloccare ..Perchè lo protegge il mare ..Com'è profondo il mare
    Certo ..Chi comanda ..Non è disposto a fare distinzioni poetiche ..Il pensiero come l'oceano
    Non lo puoi bloccare ..Non lo puoi recintare ..
    Così stanno bruciando il mare ..Così stanno uccidendo il mare ..
    Così stanno umiliando il mare ..Così stanno piegando il mare
    - Lucio Dalla -



    LA RAZZA




    La famiglia dei Raidi è quella delle razze. Si tratta di raiformi ovipari il cui corpo è più o meno quadrato. Hanno coda lunga e sottile, provvista da due pinne dorsali, e la loro pelle rugosa è ornata di macchie colorate. Vivono in tutti i mari, ma in particolari in quelli temperati e nell'emisfero boreale. Alla razza appartengono diverse specie: la razza chiodata, quella bavosa o cappuccina e la razza monaca o dal muso lungo. La razza chiodata misura circa 90 centimetri a metri 1,25 di lunghezza, compresa la coda . Si chiama così perchè presenta delle protuberanze dure, senza una forma geometrica ben definita, presenti sulla pelle. Ha il corpo di colore grigio-bruno macchiato di nero. Vive nell'Atlantico orientale, nel Mediterraneo e nel Baltico. Caccia all'agguato affondandosi nella sabbia, da dove sorveglia i dintorni servendosi dei suoi occhi dorsali e poi quando avvista le prede, piomba all'improvviso su di esse. Si nutre di pesci e di crostacei, che cattura coprendoli col proprio corpo. Le uova sono molto grandi e vengono deposte a gruppi nel fondo.Esse sono costituite da un guscio corneo rettangolare, che può misurare fino a 9 centimetri di lunghezza ed è provvisto, agli angoli, di appendici cave dalle quali penetra l'acqua necessaria alla respirazione dell'embrione; sono presenti anche dei filamenti di attacco che permettono l'adesione dell'uovo alle rocce ed alla vegetazione sottomarina.

    La manta è una nomade del blu: uno dei più grandi pesci pelagici. E’ uno smisurato pesce cartilagineo, superato in lunghezza solo dallo squalo balena e dal cetorino, che non si alimenta sul fondo, come fanno tanti altri pesci dal corpo appiattito, ma si muove alla ricerca di cibo presso la superficie. La manta o grande diavolo del mare è il più grosso di tutti i raiformi: ha un'apertura che può superare gli 8 metri e il suo peso può avvicinarsi alle 3 tonnellate. Caratteristica è la posizione della sua bocca, situata non ventralmente, ma all'estremità del muso, fra le 2 caratteristiche corna. Ha una coda relativamente corta, armata di spine e pelle molto rugosa. Vive nell'Atlantico tropicale e nel Pacifico orientale. E' del tutto inoffensiva e rappresenta un'ambita preda per i pescatori subacquei. Le mante vivono nelle acque tropicali e temperate calde di tutti gli oceani, e sono frequenti soprattutto vicino alle coste. Quasi tutti i Mobulidi sono saltatori, vivono soli o a coppie e qualche specie si incontra anche in piccoli branchi. Questi pesci hanno abbandonato i costumi tipicamente bentonici che contraddistinguono numerose specie di Raiformi e, pur trascorrendo parecchio tempo sul fondo per riposare, nuotano spesso in prossimità della superficie muovendo lentamente le ampie pinne pettorali dall'alto verso il basso.
    Durante la notte sono più attive e compiono talvolta spettacolari e fragorosi balzi fuori dall'acqua, volando qualche metro al di sopra della superficie con un poderoso battito delle immense “ali”.

    La famiglia dei torpedinidi comprende raiformi in grado di emettere potenti scariche elettriche. Hanno 2 pinne dorsali sulla coda, non posseggono nè scaglie, nè aculei, hanno corpo meno piatto degli altri raiformi e sono vivipari. La torpedine ocellata è il rappresentante più noto della famiglia. Vive nel Meditterraneo e nell'Atlantico orientale, su fondali sabbiosi, a profondità variabili da un metro a più di cento. E' lunga al massimo 60 centimetri, ha un dorso bruno con macchie blu-cenere e nere. Possiede due organi elettrici posti nella parte anteriore del corpo, fra la testa e la pinna pettorale, che essa utilizza sia come armi difensive sia per parallizzare le prede. Questi organi sono muscoli modificati, funzionanti come una batteria elettrica. A forma di reni, essi sono composti di un gran numero di piccoli prismi disposti verticalmente, in colonne, fra la superficie dorsale e quella ventrale del pesce; al microspcopio ogni prisma si presenta formato da una decina di minuscoli dischi, sovrapposti come in una pila, il cui polo positivo è rivolto verso il dorso e il poli negativo verso il ventre dell'animale. Una torpedine di medie dimensioni può contare più di 300 mila di questi dischi contenuti nei due organi elettrici. La loro innervazione è assicurata da fasci di fibre che partono dai lobi elettrici dell'encefalo e si ramificano fra i prismi. L'entità delle scariche non supera i 60-80 volt. Essa dipende dalle dimensioni del pesce e dalla sua condizione fisica, e diminuisce quando le scariche si ripetono. Un pesce spossato da numerose scariche produce, toccandolo, solo un tremito e impiegherà parecchi giorni per riportare la tensione della propria batteria al livello normale. Le scosse sono più violente sott'acqua e più sensibili quando toccano contemporaneamente le superfici superiore ed inferiore del pesce. Le scosse più forti possono gettare a terra un uomo. Le torpedini sono pesci vivipari aplacentati. Gli embrioni si sviluppano nell'utero della madre grazie alle branchie embrionali molto sviluppate, che estraggono l'ossigeno e gli elementi indispensabili per la crescita dalle secrezioni uterine. Tra le altre torpedini che frequentano i nostri mari ricordiamo: la torpedine marmoreggiata o bruna, che supera il metro di lunghezza e la torpedine nera, delle stesse dimensioni, il cui dorso è di colore bruno-violaceo. Tutti vivono nello sfondo e si nutrono di pesci, molluschi, ecc.





    .....miti e leggende.....



    La manta deve il suo nome al caratteristico aspetto del corpo, simile ad un grande scialle o mantello, una coperta ondeggiante nel nuoto.
    Il nome venne dato dai navigatori spagnoli quando incontrarono per la prima volta le mante nei mari tropicali durante i grandi viaggi di esplorazione del sedicesimo secolo. Manta, in castigliano, significa coperta. Infatti, vista dal ponte di una nave, mentre nuota sotto la superficie del mare, la manta sembra proprio una grande coperta scura alla deriva, mentre vista da sotto appare come un gigantesco fantasma tutto bianco. Viene chiamata anche diavolo di mare, pesce diavolo, vacca marina o razza cornuta per via delle lunghe appendici carnose ai lati della testa che sembrano due corna (i lobi cefalici).
    Le pacifiche mante per le loro dimensioni sono state oggetto di strane e terrificanti leggende. Questo elegantissimo pesce cartilagineo, infatti, è leggendariamente temuto dagli indigeni di numerose regioni tropicali per le colossali dimensioni e l'aspetto inquietante. E’ il mostro insidioso, che negli antichi miti tramandati dai popoli dell'Oceania tenderebbe un abbraccio mortale ai pescatori di perle,
    ma che in realtà è solo un inoffensivo gigante.
    Un tempo si riteneva che le mante potessero attaccarsi con le appendici cefaliche alle catene delle ancore, esercitando poi una trazione così forte da strapparle, si diceva anche che se si aggrappavano ad un cavo pendente dal bordo, potevano trascinare a rimorchio una nave di grandi dimensioni. Erano dunque considerate creature maligne, feroci e diaboliche.





    .......... un racconto............



    (…)Mentre tutto questo accadeva avevamo già visto cinque o sei mante schizzare piroettando fuori dal mare. Avevamo doppiato il capo sud dell’isola, navigando al di là della barriera. Avevamo osservato altre volte e un pò dovunque, in quegli ultimi giorni, piccole mante schizzare improvvisamente dal mare: facevano tre o quattro capriole verticali, fino anche a quattro metri d’altezza, e ripiombavan di piatto nell’acqua con uno schianto. La scena era fulminea, bisognava coglierla come si sorprende una stella cadente, e poche volte riuscimmo a formulare un desiderio marino. Certamente dovevano correre nel mare a perdifiato per una cinquantina di metri prima di poter sprigionare una serie di salti mortali tanto alti nell’aria; ma come facevano a piroettare e a ricadere proprio nel punto da cui erano uscite? Erano piccole mante, bambini di mante; giocavano, forse. Non c’era niente di più allegro e di più pazzo nel mare di quei salti mortali.
    (…)La prima manta grande la incontrammo da sola. La vide Tesfanchièl alle mie spalle. Gridò e tese il dito. Ci volgemmo appena in tempo per scorgerla venire a galla col ventre bianchissimo nel viola delÌ acqua, e poco sotto la superficie incurvarsi all’indietro, sparire nel buio con una capriola lenta, solenne.



    Era la prima volta che vedevamo una manta fare così.
    Cento metri dopo, un’altra manta, a prua. Anch’essa venne a galla dal fondo, in cabrata verticale, e quando fu sotto il pelo si girò all’indietro tendendo le corna, si rovesciò sulla schiena, disparve a capofitto senza rumore. Cecco mi guardò, mormorò: “Che fanno, perdio?” Scossi la testa. “Andiamo avanti,” risposi. Forse succede qualcosa, pensavo, e intanto guardavo a occidente. Il sole, adesso, doveva essersi fermato. Le nubi si erano distese lunghe e sottili, come tanti orizzonti successivi sul mare, e su ciascun orizzonte divampavano fuochi giganteschi. Tutto il cielo, poco a poco, andava prendendo fuoco. “È tabù, Tesfanchièl, un cielo così?” dissi adagio. Tesfanchièl mi fissò, poi guardò il mare: una terza manta veniva a galla e girava col ventre bianco. Il cielo andava divampando come una pineta.
    “Può essere,” disse sottovoce. “Io non so.”
    Erano ora forse le sei. Camminavamo molto piano, col motore al minimo, la barca frusciava sull’olio. Ci avvicinavamo alla punta di settentrione, sempre al largo, sopra un fondale di una cinquantina di metri. Quand’ecco, prima a poppa poi a prua, due mante colossali apparvero nel solito giro. Una ne apparve col muso nero e bianco e le corna, le corna uscirono come braccia fuori dall’acqua e la bestia si ripiegò indietro di schiena spalancando al cielo le dieci branchie dilatate e poi il ventre, inabissandosi a picco. Ma altre, altre mante scorgemmo poco lungi ripetere il giro della morte, e andammo avanti, avanti ancora; mante di cinque metri di apertura alare, mante di sei, sette quintali erompevano dappertutto dal fondo del mare, protendevano le braccia in una incomprensibile invocazione e si capovolgevano lentamente intorno alla barca. Il mare si muoveva, molte braccia parallele sorgevano dalle acque e sparivano inghiottite. Ed ecco, là a occidente della punta, con un’esclamazione soffocata individuammo finalmente il centro motore della grande danza del mare. Il mare vi ribolliva, ma senza schiume, come rimescolato dal fondo da un vortice di duecento e più metri di diametro.
    Nessun uomo vide mai quello che noi vedemmo in quell’ora di tramonto o nessun uomo che vide volle mai raccontarlo.
    Quaranta e forse più mante in una giostra ininterrotta e quasi a catena, salivano dal baratro in volo verticale con le ali e le corna tese, aprivano il mare e a braccia spalancate si rovesciavano, calavano ancora a testa in giù e là nel profondo, a venti o a trenta metri, riprendevano quota come aeroplani per tornare in superficie. Quaranta o cinquanta mante turbinavano nei loro ininterrotti giri della morte, dal cielo all’abisso dall’abisso al cielo, e ovunque nel mare in subbuglio tendevano le corna al sole ormai moribondo tra le nubi, mostravano le pance bianche sull’acqua arancione, nere e spettrali sprofondavano per ricomparire venti secondi più tardi. La barca rollava, Tesfanchièl era divenuto di pelle grigia, si volgeva a destra e a sinistra a guardare le mante che a pochi metri e lontane sgorgavano improvvise e immense dall’acqua sanguigna. Alcune ci passarono sotto, altre emersero a due metri minacciando involontariamente di capovolgerci: potemmo così misurarle in proporzione alla barca, che era lunga quattro metri: erano mante di cinque, di sei metri in larghezza e di quasi altrettanto in lunghezza, mante.di oltre una tonnellata. E una, una cattedrale che eruppe dal mare grondando ondate a forse cinque metri da noi, non era meno di sette metri; l’ondata ci colse, gettò Cecco sui paglioli, affogò la barca, io mi trovai avvinghiato alla barra del timone completamente lavato. Cecco si rialzò, si drizzò in piedi – mi par di rivederlo – allargò le braccia e urlò:”Gran Dio!”
    Il sole divampò un’ultima volta sul mare, poi si fece verde e sparì di colpo. Il mare, di colpo, tornò viola e trasparentissimo. Così, con la testa fuori dal bordo, potemmo scrutare nella voragine. E vedemmo le mante girare nel fondo. Si scorgevano lontane, quasi invisibili; più che vedere potevamo intuire la loro cabrata, poi in pochi secondi quelle cose infinitesime, sperdute in quella grande sala turchina e profondissima, ingrandivano smisuratamente fino a essere mostri lanciati a velocità possente. Arrivavano verso di noi col loro volo verticale e le corna proiettate in avanti, a invocare o a ghermire qualcosa, esplodevano fuori e giravano, giravano, giravano. La danza durava da mezz’ora.
    Ma perché? Perché quel convegno? A un tratto frullò in superficie qualcosa, una faccenda lunga, come la scia di un mitico serpente marino. Guardammo senza capire. Ma dopo dieci minuti che la scia si era eclissata al largo, un’altra eguale si disegnò a cinquanta metri e ci venne incontro diritta, senza piegare. Cecco cercò affannosamente l’arpione, ma quello strano serpente di una trentina di metri già ci era addosso, ci investiva, ci investì passandoci ai lati: erano piccolissime mante in schiera, in fila per due, affarini di neppure un metro. Sbatacchiavano freneticamente le alucce e si dirigevano anch’esse in alto mare. Dopo altri dieci minuti ci passò accanto una nuova schiera di mante bambine, e intanto le madri giravano, giravano, giravano… “Le madri, Cecco!” gridai. “Questi sono i neonati! È il parto delle mante!” Cecco non mi rispose, guardava e gli tremavan le mani. Nessuno mai al mondo aveva visto partorire le mante, e ancor oggi non si conosce quanti figli esse mettano al mondo volta per volta. I testi dicono uno. Ma quando una manta di quelle enormi venne fuori intera col ventre a tre metri da me, io so di aver visto benissimo spuntare i codini dalla cloaca, e i codini erano due non uno! E con due codini penzoloni dalla cloaca vidi altre mante ancora, e sempre due e non tre e non uno!
    I plotoni delle mante bambine, sempre in fila per due, ci incrociarono cinque o sei volte; tutti viaggiavano decisi al largo, abbandonando le madri (o le madri che avevano partorito – se questo era vero – li seguivano dal basso?). Andavano tutti e senza fallo a occidente,
    verso gli ultimi bagliori di luce, si perdevano nelle ombre nere del mare.
    “Cecco,” gridai, e mi asciugavo la faccia dagli spruzzi e tenevo stretta la barra. “Cecco, è il parto delle mante! Si capovolgono così in tondo per aiutarsi! Guarda come fanno, si stirano sul ventre e spingono girando contro l’acqua, l’attrito dell’acqua le aiuta!” Un’ondata mi strozzò la frase, mi asciugai ancora. “I piccoli si radunano e partono insieme! Vedi che le mante sono diventate la metà: le altre hanno già partorito, se ne sono andate! Guarda le altre come si sforzano, giuro che soffrono, non vedi che accelerano i giri? Là, là guarda i piccoli! Ma dimmelo che sono le mante che partoriscono!” Cecco guardava avvinghiato alla prua. Il mare era diventato nero, le pance delle mante
    che ancora roteavano parevano spettri improvvisi nel buio.
    Le acque, lentamente, si andavano quietando, la danza moriva.
    Il cielo ora era sgombro. terso; nell’azzurro tremavano le prime stelle.
    Gianni Roghi




    "...Lo stesso ragazzo che mi ha mandato quelle foto Vulcano Storm Patagonia, ha trasmesso le immagini di una migrazione di massa di pastinache. Per citare la nota che ho ottenuto, sembrano <gigantesche foglie galleggianti in mare." Ho pensato che fosse una specie di coperta, un motivo a scacchi su una coperta. >"
    Le foto sono state scattate al largo della penisola dello Yucatan da Sandra Critelli





    .
     
    Top
    .
18 replies since 12/2/2011, 00:59   12373 views
  Share  
.