IMPERATORI ROMANI

civiltà romana

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  1. gheagabry
     
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    "All'età di diciannove anni, con mia personale decisione e a mie spese personali costituii un esercito con il quale restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione".... iniziano così le "Res Gestae divi Augusti", le memorie e il manifesto politico-propagandistico del fondatore dell'Impero romano, incise per disposizione testamentaria su due pilastri di bronzo davanti al suo mausoleo a Roma e lette, per espressa volontà del Senato, in tutte le Province.



    OTTAVIANO AUGUSTO



    È il giugno del 44 a.C., a poco meno di due mesi dall'uccisione del dittatore a vita Cesare per mano dei congiurati capitanati da Bruto e Cassio, quando il giovane Ottavio, il futuro Augusto, si presenta a Roma in veste di figlio adottivo per vendicarlo, raccoglierne l'eredità e realizzare ciò che al padre era costato la morte e che i suoi concittadini consideravano da secoli indigeribile: la monarchia. Quella forma di governo dalla quale i romani si erano liberati alla fine del VI sec. a.C. con l'uccisione del re Tarquinio il Superbo per mano, ironia della sorte, di un Bruto. Un risultato che Ottavio costruisce sul sangue di cinque guerre civili, di tribunali speciali e liste di proscrizione, pazientemente tessuto ("festina lente", affrettati con calma, è il suo motto) attraverso compromessi e repentini cambiamenti di fronte e mascherato da restaurazione della repubblica. Sulle basi della sua indiscussa "auctoritas" (misto di carisma e accentramento del potere nel rispetto formale delle regole repubblicane) nasce e si sviluppa il Principato. Per quarantaquattro anni, dal 30 a.C. al 14 d.C., Roma vive nel suo nome, tributandogli gloria e onori mai visti (basti ricordare i 13 consolati, le 21 acclamazioni imperatorie e i titoli di Augusto e di Padre della patria), e si espande, anche se a prezzo di enormi perdite, sia in Europa che in Asia come mai nello stesso lasso di tempo. Al contempo un "baro", come lo definisce Spinosa, e un uomo di stato al cui bilancio i successori non potevano che impallidire, come sottolinea lo storico tedesco Werner Eck, alla sua morte soppravviveranno il principato, la fama e i titoli. I suoi successori saranno tutti Augusti: a lui si richiamerà esplicitamente nel 535 l'imperatore bizantino Giustiniano quando tenterà di riconquistare all'Impero un'Europa in preda ai barbari, e "Augusto" sarà anche Carlo Magno, il rifondatore dell'impero in Occidente, incoronato nel Natale dell'800 da Papa Leone III.
    Origini da nascondere e segni premonitori. Gaio Ottavio nasce all'alba del 23 settembre del 63 a.C. in una casa sul colle Palatino. È l'anno 691 dalla fondazione di Roma, l'anno del consolato di Cicerone e del fallito assalto al potere di Catilina. Il padre C. Ottavio, il primo della famiglia degli Ottavi ad essere entrato in Senato, vanta origini "equestri", proviene cioè da quella "borghesia" cittadina dedita a svariate attività produttive e capace di raccogliere ingenti patrimoni. È il serbatoio di quegli "novi homines" che Augusto assocerà alla gestione del potere con l'affidamento di compiti delicati e posizioni di indubbio prestigio. Il nonno paterno aveva esercitato il mestiere di banchiere a Velletri, una cittadina a una trentina di chilometri dalla capitale, ed è probabile che le ricchezze da lui accumulate e poi lasciate al figlio, derivassero da prestiti concessi ad alti interessi. Nobile è invece la madre Azia. In quanto figlia di Marco Azio Balbo, senatore legato a Pompeo Magno e di sangue africano, e di Giulia sorella di C. Giulio Cesare, aveva portato in dono al marito una parentela tale da facilitargli la scalata politica: alla carica di pretore nel 60, sarebbe seguita due anni dopo quella di governatore della Macedonia con tanto di un trionfo per la vittoria sui Bessi e sui Traci. Sarà solo la morte, avvenuta nel viaggio di ritorno verso Roma, ad impedirgli l'ascesa al consolato.
    Nel pieno delle guerre civili le origini del futuro imperatore saranno un argomento della propaganda degli avversari che lo accuseranno di aver avuto come bisavolo un liberto cordaiolo, per nonno paterno un incettatore di voti elettorali a pagamento e usuraio e per nonno materno un umile mugnaio africano. Di tutt'altro segno saranno invece, a quanto riporta il biografo Svetonio, le voci circolanti in pieno principato: la famiglia degli Ottavi sarebbe stata ammessa al Senato dal re Tarquinio Prisco e poi elevata al patriziato, la nobiltà per definizione, dal successore Servio Tullio; la madre Azia, addormentatasi al termine di una cerimonia nel tempio di Apollo, sarebbe stata raggiunta e violata da Apollo trasformato in serpente e dopo nove mesi avrebbe partorito Ottavio, il figlio del dio.
    Alla morte del padre, Ottavio ha quattro anni e lascia la madre, sposatasi con il futuro console Lucio Marcio Filippo, per entrare in casa della nonna Giulia dove rimane fino alla morte di quest'ultima nel 51 a.C. Un tragico avvenimento che coincide con la prima uscita pubblica del giovane che pronuncia nel Foro l'orazione funebre, mettendo in risalto le proprie capacità oratorie. Ritorna quindi dalla madre che, insieme al patrigno, ne cura l'educazione improntandola allo studio delle lettere latine e greche. Come tutti i giovani rampolli della nobiltà affronta la retorica, materia indispensabile per la carriera politica, e si diletta nella lettura di poesie, tragedie, opere storiche e geografiche. Nasce una passione che non lo abbandonerà neppure nelle situazioni più critiche. Si racconta infatti che anche in piena battaglia il principe non mancasse di scrivere, leggere e declamare ogni giorno.
    Numerosi avvenimenti, apparsi in forma di "prodigia", avrebbero rivelato fin dall'inizio la sua futura grandezza: nel giorno della sua nascita il padre sarebbe arrivato in ritardo in Senato e un suo collega, il matematico e filosofo Nigidio, saputo il motivo del ritardo avrebbe esclamato che era nato il padrone dell'universo; il piccolo Ottavio, sparito dalla culla, sarebbe riapparso il giorno successivo sulla torre più alta di Velletri con la faccia rivolta al sole sorgente; da poco in grado di parlare e infastidito dal gracidare delle rane, avrebbe ordinato loro con successo di zittirsi; nell'indossare nel Foro la toga virile, nel corso di una cerimonia che a 14 anni segnava simbolicamente l'ingresso in età adulta, la sua toga praetexta, simile a quella dei senatori, sarebbe caduta a suoi piedi, facendo capire che un giorno il senato avrebbe seguito ugual sorte.
    Sulle orme di Cesare. Quando il 10 gennaio del 49 a.C. Cesare, il conquistatore della Gallia, attraversa il Rubicone alla testa della sua legione per affrontare Pompeo e per imporre a Roma la propria volontà, Ottavio ha 13 anni. La madre Azia, su consiglio del padre, lo spedisce prudentemente in una tenuta familiare nei pressi di Velletri. Il giovane ritorna a Roma soltanto all'indomani dell'ingresso vittorioso di Cesare e comincia la sua scalata al potere. Nel 47 viene nominato "praefectus urbi" (una carica straordinaria con il compito di garantire l'ordinaria amministrazione in assenza dei magistrati) e per la prima volta svolge nel Foro funzioni giudiziarie. Entra nel collegio dei pontefici, carica religiosa di forte prestigio, mettendo così piede nella prestigiosa cerchia del patriziato, la nobiltà romana. A sostenerlo è il dittatore Cesare, privo di figli legittimi - Cesarione è il frutto impresentabile della relazione adultera con Cleopatra - e in cerca di una propria legittima discendenza. Nel 46, dopo la vittoria sui pompeiani in Africa, lo vuole con sé per celebrare il trionfo e gli concede gli onori militari. Successivamente Ottavio raggiunge in Spagna il prozio che ha appena liquidato le ultime resistenze pompeiane e, pur non partecipando ad azioni belliche, mette in mostra le proprie capacità politiche partecipando all'amministrazione della giustizia e alla riorganizzazione della provincia. Negli ultimi mesi del 45 ottiene la prestigiosa nomina di "magister equitum" (capo della cavalleria) in vista della campagna militare che Cesare vuole intraprendere in Oriente contro i Parti. Ottavio parte quindi per Apollonia in Macedonia, luogo prescelto per il concentramento della 6 legioni, in compagnia di Vispanio Agrippa, un coetaneo di origine etrusca, che si rivelerà un compagno fedele e valoroso. Il suo apprendistato militare e la prevista spedizione sono, però, bruscamente interrotte il 15 marzo del 44 dall'assassinio di Cesare per mano di Bruto e Cassio con lo scopo di ripristinare la libertas repubblicana e le prerogative senatorie cancellate dal "tiranno". Ma il prozio aveva già regolato la propria successione: nel testamento compilato nel settembre del 45 adottava il nipote e lo designava erede per i tre quarti del proprio patrimonio.
    La notizia dell'assassinio arriva ad Ottavio cinque giorni dopo per mano di un liberto inviatogli dalla madre che, consapevole dei possibili rischi per i parenti del dittatore, gli consiglia di ritornare immediatamente in Italia. Sbarcato nei pressi di Lecce dopo aver attraversato lo Ionio su una piccola imbarcazione, si ferma nel sud della penisola dove ha la possibilità di informarsi sugli sviluppi della situazione politica e di raccogliere intorno a se un esercito utilizzando parte del denaro preparato per la spedizione partica e il tributo annuale della provincia d'Asia, incassato senza alcun diritto. È in questo periodo che consulta a Pozzuoli l'anziano Cicerone, idealmente vicino ai congiurati, ma sempre più deluso dalla piega presa dagli avvenimenti. Infatti a Roma la situazione politica si era tutt'altro che chiarificata.

    Mentre i Bruto e Cassio si erano riparati nel tempio di Giove in Campidoglio, nella seduta del 17 marzo il Senato aveva ratificato un compromesso, proposto dal repubblicano Cicerone e dal console Antonio, già braccio destro di Cesare, in base al quale veniva concessa l'amnistia ai cesaricidi e si riconosceva validità a tutti gli atti del defunto, testamento compreso. Ma ad agitare la scena e a rendere instabile il fragile equilibrio istituzionale c'era la persistente agitazione dei veterani e della plebe romana che chiedono a gran voce la vendetta contro i congiurati. Richieste che non venivano accolte da Antonio che, dopo aver fatto cacciare dalla città Bruto e Cassio all'indomani dei funerali di Cesare, era impegnato a riportare l'ordine e a consolidare la propria posizione di potere.
    Il figlio di Cesare e le guerre civili Quando il 6 maggio entra a Roma per accettare e raccogliere l'eredità di Cesare, Ottavio ha diciotto anni ed è già un politico accorto, capace di valutare con lucidità e freddezza la magmatica situazione politica. Come sottolinea lo storico Augusto Fraschetti si sente ormai "investito come di una missione" per la quale si prepara ad agire con assoluta spregiudicatezza. Come da testamento del padre, distribuisce 300 sesterzi a ciascuno dei membri della plebe cittadina e organizza personalmente i giochi in onore delle vittorie di Cesare, durante i quali la comparsa di una cometa testimonia l'ascensione del padre tra gli dei. Ottavio, divenuto il figlio di un dio, si dimostra capace di costruire il consenso. Fallita una marcia su Roma alla testa dei veterani raccolti in Campania, capisce che per rafforzare la propria posizione è necessaria l'intesa con il senato dominato da una maggioranza repubblicana e, soprattutto, con l'autorevole Cicerone, preoccupato per l'aumento di potere di Antonio che si è fatto assegnare le province della Gallia Cisalpina (Italia settentrionale) e Comata. Per l'anziano senatore la lotta contro una nuova possibile tirannia giustificava un accordo con il figlio del tiranno defunto e con le sue legioni. Viene quindi conclusa nel gennaio del 43, un'alleanza innaturale che permette ad Ottavio di fare il suo ingresso nell'antica assemblea col rango di pretore e di ottenere un "imperium" (comando militare) con l'incarico di muovere guerra insieme ai consoli Irzio e Pansa contro Antonio che assedia a Modena il governatore repubblicano Decimo Bruto. L'operazione si conclude il 21 aprile con la fuga di Antonio verso la Gallia e con la morte sul campo di entrambi i consoli le cui legioni passano ad Ottavio. Quest'ultimo, ora in posizione di forza, decide di marciare nuovamente su Roma e, questa volta, ottiene dal Senato, a soli vent'anni e senza ricoprire alcuna magistratura, la nomina a console. È il 19 agosto e il progetto ciceroniano di salvare la repubblica rivolgendosi al figlio di Cesare si rivela un clamoroso autogol.
    Il nuovo console non perde tempo e distribuisce soldi ai veterani, onorando il testamento del padre, e imprime una sterzata alla propria politica: istituisce un Tribunale straordinario contro i cesaricidi e toglie la delibera senatoria che dichiarava Antonio "nemico dello stato". Sono mosse che facilitano la conciliazione all'interno del "partito" cesariano. Così, mentre Bruto e Cassio si rafforzano in Oriente con il beneplacito di Cicerone, nell'ottobre del 43 Ottavio, Marco Antonio e Emilio Lepido (governatore della Gallia Narbonense e della Spagna Citeriore) si incontrano a Bologna e stringono un'alleanza con lo scopo di vendicare Cesare e di riorganizzare la Repubblica (tresviri rei publicae constituendae). Un patto quinquennale, legittimato da una delibera popolare, che riconosce ai triumviri il potere legislativo e che spartisce tra loro l'occidente romano: ad Antonio vanno le Gallie Cisalpina e Comata, ad Ottavio la Sicilia, la Sardegna e l'Africa, mentre Lepido si vede confermate le sue. La messa fuori legge dei cesaricidi e dei loro fiancheggiatori è la premessa di una spietata azione repressiva: come già fece Silla nella sua restaurazione conservatrice, vengono compilate liste di proscrizione segrete (300 i senatori e 2000 i cavalieri inseriti) e per i proscritti sono previste la privazione di ogni diritto, la confisca dei patrimoni, mentre i sicari che consegnano le loro teste ricevono ricompense in denaro. L'élite senatoria di ispirazione repubblicana è duramente colpita e viene sostituita dai fedeli dei triumviri, mentre uomini delle legioni cesariane entrano nelle classi dirigenti locali. Ma la vittima più illustre del terrore è Cicerone, l'indefesso difensore della repubblica, ucciso sotto i colpi dei sicari di Antonio.
    La morte del vecchio senatore e la successiva sconfitta a Filippi nell'ottobre del 42 delle legioni di Bruto e Cassio, ultime speranze armate dei repubblicani, segnano definitivamente il tramonto della Roma repubblicana. Il merito della vittoria cesariana è di Antonio, mentre Ottavio, inizialmente sconfitto e assente nella battaglia finale, si limita ad inviare a Roma la testa di Bruto per farla rotolare ai piedi della statua del padre.

    La vendetta è finalmente consumata e ai vincitori non resta che dividersi l'intera posta: Antonio, il vero trionfatore, si prende l'Oriente, Ottavio le province spagnole, mentre Lepido viene messo in disparte.
    Ad Ottavio spetta però il delicato compito della assegnazione delle terre ai veterani e ai legionari ai quali, prima di Filippi, era stato assicurato il congedo. Si tratta di una operazione necessaria per conservare la loro fedeltà e, al contempo, esplosiva perché prevede il ricorso ad espropri (tra i colpiti ci sarà il poeta Virgilio). Le città interessate all'operazione sono diciotto; in alcune si assiste alla espulsione dell'intera popolazione mentre altre devono cedere una parte del proprio territorio. Per tutta la penisola sale il risentimento degli espropriati che trovano nel console Lucio Antonio, fratello del triumviro, il proprio difensore ed ottengono l'appoggio della maggioranza del senato. La risposta di Ottavio è decisa e tremenda. All'inizio del 40, dopo sei mesi di assedio, sconfigge a Perugia i rivoltosi e, lasciato libero Lucio Antonio, procede alla vendetta: saccheggia la città, massacra numerosi cittadini e il 15 marzo, anniversario della morte di Cesare, giustizia ai piedi di una statua del padre ben 300 senatori. L'Italia, presidiata da legionari e veterani gratificati ("il presidio italiano della rivoluzione" come li definisce Santo Mazzarino), è nelle sue mani e per gli oppositori non c'è altra via che la fuga. Alcuni si dirigono verso il repubblicano Sesto Pompeo padrone con la sua flotta del mediterraneo occidentale e quindi in grado di impedire i rifornimenti granari a Roma. Ottavio deve ora ostacolare un possibile accordo tra questi e un Antonio sempre più preoccupato per la situazione in Italia. Agisce con la solita lucidità lungo due direzioni: rinnova nel 40 a Brindisi l'alleanza con Antonio, provvedendo ad una nuova spartizione territoriale (l'occidente ad Ottavio, l'oriente ad Antonio e l'Africa a Lepido) e affidandogli in moglie la sorella Ottavia; sposa Scribonia, figlia del suocero di Sesto Pompeo, e conclude con quest'ultimo nel 39 a Miseno un trattato, accordandogli il controllo di Sardegna, Corsica, Sicilia e Peloponneso, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti all'Urbe.
    La lotta finale. Nella quarta egloga delle Georgiche, Virgilio canta l'inizio di una nuova epoca di pace in cui spariranno i delitti, ma la realtà corrisponde solo per breve tempo a questa visione. Se Antonio, sempre più legato alla regina egiziana Cleopatra, è lontano in Oriente e medita la spedizione contro il regno dei Parti, Sesto Pompeo è, invece, un alleato scomodo, potente e troppo vicino. Ottavio, conscio della precarietà dell'accomodamento, prepara il terreno per l'ennesima resa dei conti. Nel 38 ripudia Scribonia per unirsi in matrimonio con Livia che divorzia consensualmente dal marito Tiberio Claudio Nerone, già vicino ai cesaricidi e membro della gens Claudia, una delle più nobili famiglie di Roma. Con questa mossa rafforza la sua posizione nell'alto patriziato e tra i conservatori. Affida ad Agrippa la preparazione della propria flotta e nel settembre del 37 a Taranto rinnova per altri 5 anni il triumvirato. Nell'occasione conclude un accordo militare con Antonio, dal quale ottiene 120 navi in cambio dell'invio di venti legioni per la spedizione contro i Parti. Così rafforzato si lancia contro Sesto Pompeo e, grazie alla capacità dell'ammiraglio Agrippa, lo sconfigge nelle battaglie navali di Milazzo (agosto 36) e Nauloco (settembre 36) nel nord della Sicilia. Ottavio, invece, all'inizio della battaglia riesce persino a cedere ad un colpo di sonno. La vittoria nella "guerra piratica" - così la presenta nelle "Res gestae" per togliere ogni legittimazione all'avversario - gli consente di tornare in trionfo a Roma e di ottenere la "sacrosanctitas", ovvero l'inviolabilità della persona riconosciuto ai Tribuni della plebe. Da questo momento senato e popolo gli garantiscono particolare protezione. Lepido, ormai messo da parte, conserverà fino alla sua morte la carica di Pontefice massimo.
    Mentre Ottavio si rafforza a Roma e consente agli "homines novi" al lui vicini l'accesso alle magistrature e al senato, Marco Antonio viene sconfitto dai Parti in una guerra che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto dargli immensa fama (Cesare aveva nutrito lo stesso progetto). E , per di più, delle truppe promesse da Ottavio non era arrivata che una minima parte. Tra i due si respira ormai una atmosfera da "guerra fredda" che Ottavio, maestro nella propaganda, riesce a capitalizzare con successo. Accusa il collega di essersi gettato tra le braccia di una barbara, Cleopatra, preferendola alla moglie romana e di voler svendere grandezza e gloria di Roma. E la prova del tradimento è il testamento di Antonio, sottratto da Ottavio alle Vestali che lo custodivano, nel quale dichiara di voler essere sepolto ad Alessandria d'Egitto e di lasciare i regni vassalli a Cleopatra e ai suoi figli (tra questi c'è Cesarione figlio della regina e di Cesare). Ottavio astutamente, quasi a sottolineare il suo indissolubile legame con Roma, inizia la costruzione del proprio mausoleo in Campo Marzio.

    Il senato, abbandonato da 300 componenti accorsi in Oriente e, quindi, nelle mani di Ottavio, priva Antonio di tutti i suoi poteri, lo retrocede a nemico pubblico e dichiara guerra a Cleopatra. È lo scontro decisivo e Ottavio lo conduce sulla base del giuramento di tutti i cittadini romani ("consensus universorum" nelle Res gestae) che gli affidano il ruolo di "dux", comandante in capo dell'esercito. Il 2 settembre del 31 ad Azio la sua flotta mette in fuga Antonio e Cleopatra. La battaglia decisiva si svolge il 1 agosto del 30 ad Alessandria d'Egitto e si conclude con la vittoria di Ottavio e con il suicidio dei suoi nemici. Antonio si trafigge con la propria spada, mentre Cleopatra, per sfuggire all'ingrato ruolo di trofeo personale del vincitore, preferisce abbandonarsi al morso velenoso di un serpente. Invano Ottavio fa arrivare degli psilli (tribù africana che si pensava capace di incantare i serpenti o di guarire i loro morsi) per succhiarle il veleno dalle ferite.
    Dopo quattordici anni di guerre, Ottavio non ha più avversari e Roma, cui porta in dote il ricco Egitto, è ai suoi piedi. Per l'Urbe è l'inizio di una nuova era che viene accolta da tre giorni di festa e trionfo, dalla distribuzione del bottino egiziano e dalla chiusura del tempio di Giano Quirino, simbolica testimonianza della fine delle guerre. Il figlio di Cesare è ormai l'uomo della pace e con la dolcezza di questa, per usare un'espressione di Tacito, conquista il consenso di nuovi e vecchi proprietari desiderosi di tranquillità dopo una interminabile serie di sconvolgimenti.
    La monarchia mascherata da repubblica. Per il vincitore è giunto il momento di consolidare dal punto di vista istituzionale il proprio potere. È una operazione delicata, potenzialmente fatale e oggetto di incessanti discussioni nella cerchia dei fedelissimi. Lo storico greco Cassio Dione (III sec. d.C.) ce ne riporta una (si tratta con ogni probabilità di una invenzione) in cui Agrippa consiglia caldamente il ritorno alla tradizionale repubblica, mentre il ricco e colto Mecenate spinge per una aperta costituzione monarchica. Ottavio, che ha ben presente quanto è successo al padre accusato di instaurare un regno, è consapevole che un regime formalmente monarchico è incompatibile con la mentalità romana, e con l'ethos della classe dirigente abituata da cinquecento anni alla repubblica e sospettosa di chi, in quel quadro, concentrava troppo potere. Ancora una volta l'ex triumviro mostra le sue raffinate capacità politiche decidendo di fondare il proprio dominio nella restaurazione "formale" della repubblica, non concentrando su di se più cariche magistratuali, ma limitandosi ad ottenerne solo la sostanza. È una mossa meditata, dietro la quale c'è la consapevolezza di un potere personale ormai vasto: carica di console, potere di creare nuovi patrizi, vaste clientele e seguaci all'interno delle istituzioni, legionari e veterani fedeli ed enormi ricchezze, cui si sono aggiunti onori come l'inclusione del nome in tutte le preghiere dei sacerdoti dello stato.
    Il giorno scelto per la "messa in scena" è il 13 gennaio del 27 a.C.; dopo aver già abrogato tutte le misure adottate nel periodo triumvirale, si presenta di fronte ai senatori e dichiara di restituire al senato e al popolo romano tutte le loro prerogative: "Rifiuto integralmente il potere - questa la ricostruzione di Cassio Dione - e vi restituisco letteralmente tutto, gli eserciti, le leggi e le province, non solo ciò che mi avete affidato voi, ma anche quello che in seguito vi ho fatto guadagnare, affinché siano i fatti stessi a provarvi che non ho mai ambito alla signoria, ma che ho voluto realmente vendicare il sanguinoso assassinio di mio padre e liberare la città da grandi e ripetuti soprusi". E il senato risponde decretandogli altri onori e conferendogli nuove prerogative. Nella sede dell'antica istituzione viene posto uno scudo sul quale sono riportate le virtù - coraggio, clemenza, giustizia e pietà - che vengono riconosciute ad Ottavio e la porta di casa sua viene ornata con una "corona civica", concessa per aver salvato la vita dei cittadini romani. Ma sono altre due le decisioni senatorie di maggior peso: attribuzione di un mandato decennale sulle province di Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto con il compito di riportarvi ordine e, infine, conferimento del titolo e nome di "Augusto". Nel primo caso ottiene il controllo di ricchi e prestigiosi territori e, quindi, delle molte legioni ivi stanziate, mentre nel secondo un riconoscimento di superiorità e uno status di natura quasi religiosa. In verità l'attribuzione del nuovo nome - d'ora in poi sarà Imperator Caesar Augustus Divi filius - non era una iniziativa spontanea, ma studiata a tavolino e presentata poi all'assemblea dal senatore compiacente Munazio Planco. In precedenza era stato scartato per opportunità il nome "Romolo" perché avrebbe ricordato l'odiata monarchia. Per la stessa ragione, con un gesto plateale, rifiuterà la dittatura quando ad offrirgliela saranno i cittadini colpiti dalla carestia. In quell'occasione, con un gesto plateale, arriverà a strappare pubblicamente la veste del dittatore.

    La rivoluzione augustea partorisce un regime ambiguo dalla connotazione autocratica ma mai dichiaratamente monarchico. A chiarire ogni dubbio è Augusto in persona: "da allora in poi fui superiore a tutti in autorità, sebbene non avessi maggior potere di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna magistratura". Nel rispetto formale della tradizione si è assicurato il primato, è ormai il "princeps". Nelle sue memorie tace però su altri fondamentali poteri, non legati a cariche ufficiali, che gli vengono riconosciuti. Nel 23 a.C. si dimette dal consolato, ricoperto senza interruzioni dal 31, e riceve un "imperium proconsolare maius et infinitum", vale a dire il potere di intervento sulla gestione di tutte le province dell'Impero, e la "tribunicia potestas", cioè i diritti di un tribuno della plebe: convocare il senato, far votare plebisciti con valore di legge e usare il diritto di veto. Ed è sull'ultima, sulla sua capacità di incidenza politica, che fonda maggiormente il suo dominio. Santo Mazzarino parla, a questo proposito, di principato come "epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico", tanto che i principi successivi dateranno il loro regno proprio a partire dall'assunzione di questa.
    Il processo di accentramento del potere riceve negli anni successivi la sanzione finale. Nel 12 a.C., alla morte dell'ex triumviro Lepido, viene eletto dai comizi popolari, affollati come non mai, Pontefice massimo, aggiungendo così un carattere sacrale al proprio dominio; è lui l'intermediario fra gli dei e Roma. Trascorrono dieci anni e gli viene attribuito il titolo di "Padre della Patria"; titolo che Augusto rifiuta una prima volta quando gli viene tributato ad Azio da una delegazione della plebe, ma che accetta, con forte commozione, dopo che in senato Valerio Messala - già alleato di Crasso - lo invoca per bocca di tutti: "Le mie parole siano un presagio di bene e di felicità per te e per la tua famiglia, Cesare Augusto! Così noi crediamo di invocare eterna prosperità e gioia perenne per lo Stato: il Senato con il consenso del popolo romano, ti saluta padre della patria". Nessuno può ormai oscurarne la fama; i successi di Roma sono successi di Augusto. Dal 19 a.C. infatti nessun generale vittorioso, se non i figli del principe, poteva più celebrare in città il proprio trionfo, ma doveva accontentarsi di una cerimonia più discreta - gli "ornamenta triumphalia" - e di una statua di bronzo che andava ad arricchire il Foro di Augusto.
    Con la decisione del 27 a.C. Ottavio aveva restituito al senato prerogative e poteri, ripristinando il normale funzionamento dell'agone politico romano e la rincorsa elettorale alle magistrature. Ma l'assemblea aveva subito profondi cambiamenti quali la scomparsa nelle guerre civili di molte delle antiche famiglie e l'immissione di molti seguaci dei triumviri prima e di Augusto poi, espressione di popolazioni italiche ancora lontane dal potere e di province come la Gallia e la Spagna. Ingrossatosi fino a 1000 componenti - "folla indecorosa e senza prestigio" sottolinea Svetonio -, il senato subisce nel 18 a.C. un drastico processo di selezione che lo riporta a quota 600. Falliti i meccanismi di autoselezione affidati ai senatori stessi, l'operazione viene condotta personalmente da Augusto e Agrippa che possono inoltre sbarazzarsi degli ultimi oppositori. Svetonio racconta come il principe si presentasse in quei giorni alle sedute protetto da una corazza, con un pugnale alla cintura e circondato da una guardia del corpo composta da dieci dei senatori più robusti. D'ora in poi chi vuole intraprendere la carriera senatoria deve averne la dignità e, parte di questa, è misurata in sesterzi, esattamente nel requisito minimo di un milione. La distinzione con la classe dei cavalieri è netta (questi devono avere almeno un patrimonio di 400.000 sesterzi) e l'appartenenza all'ordine senatorio diventa una questione ereditaria: ai senatori e ai discendenti viene proibito di sposarsi con liberti o con persone dalle professioni "indegne"e la striscia di porpora - il latis clavus - ne diventa il simbolo esteriore. Contemporaneamente alla revisione Augusto si preoccupa di garantire la persistenza nel tempo dei ceti dirigenti. Con la "lex Iulia de maritandis ordinibus" cerca di indurre i cittadini più facoltosi, senatori e cavalieri, ad unirsi in matrimonio e di procreare più figli ponendo, in caso contrario, restrizioni in materia di eredità. Ad essere premiate sono le famiglie numerose cui sono assicurati percorsi privilegiati nella carriera militare e in quella politica.
    Il senato cessa di essere un organo di indipendente iniziativa politica. Augusto può controllare il processo elettorale imponendo alcuni candidati come propri e nel 2 d.C. istituisce due commissioni, composte da senatori e cavalieri, con il compito di operare una scelta preventiva tra i candidati alle magistrature. La possibilità di discussione è limitata dalla presenza di una commissione in parte rinnovabile - formata da Augusto, Agrippa, 1 console, 1 pretore, 1 tribuno, 1 edile, 1 questore e 15 senatori - nella quale vengono preliminarmente discusse le più importanti questioni politiche.
    L'Egitto, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea
    Tutto questo non preclude una forte partecipazione del senato alla gestione dell'impero. Da questo, oltre che dai cavalieri, sono tratte infatti le risorse per i più importanti settori amministrativi, sia per quelli tradizionali che per quelli introdotti dall'opera razionalizzatrice di Augusto.
    Il governo di Roma e dell'impero. Con l'attribuzione ad Augusto nel 27 a.C. della responsabilità diretta su alcune importanti province, viene stabilita la modalità di gestione dell'impero e delle sue articolazioni periferiche. Da quel momento si delinea la distinzione tra "province del popolo" e "province del Principe". Mentre le prime sono amministrate da senatori con rango proconsolare estratti a sorte dal senato e con mandato annuale, le seconde, quelle in cui staziona la gran parte delle legioni, sono amministrate da senatori personalmente nominati dal Principe, detti "Legati Augusti propraetore", con un mandato generalmente triennale. Un'unica e importante eccezione è costituita dell'Egitto, la conquista personale di Augusto. Questa, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea e i senatori non possono neppure accedervi senza l'assenso del principe. Le legioni ivi stanziate sono anch'esse comandate da legati di rango equestre nominati dal principe. Si tratta di una soluzione legata alla "eccezionalità strategica, economica e politica di un paese difficile da conquistare e facile da difendere, che era contemporaneamente il granaio di Roma" (Adam Ziolkowski). Nelle proprie province Augusto inviava dei "procuratori" di rango equestre con compiti legati al controllo della riscossione dei tributi e responsabili esclusivamente verso di lui. Ma l'influenza di Augusto si fa sentire anche sulle province del popolo: secondo la ricostruzione di Cassio Dione, al momento dell'insediamento di tutti i governatori, l'imperatore invia delle direttive, dette "mandata", nelle quali sono elencate precise istruzioni da seguire.
    Per quanto riguarda l'amministrazione di Roma, Augusto non apporta alcuno stravolgimento di competenze, ma avvia una riorganizzazione, che si prolunga per tutta la durata del suo dominio, basata su criteri di razionalizzazione che rispondono ai problemi di una città con più di mezzo milione di abitanti ai quali occorre garantire approvvigionamenti e sicurezza. E anche in questo caso suddivide le responsabilità tra senatori e cavalieri, provvedendo direttamente alla nomina degli incaricati. Nell'8 d.C., in periodo di carestia e dopo soluzioni solamente contingenti e che avevano visto il principe impegnato in prima persona, viene nominato un "praefectus annonae" di rango equestre stabilmente responsabile dell'approvvigionamento alimentare. Sempre di rango equestre è il comandante dei vigili del fuoco, organizzati in sette reparti da 500-1000 componenti ognuno, con il compito, a partire dal 6 d.C., di tenere sotto controllo gli incendi facili a divampare nei vicoli romani. Ai senatori sono invece affidati l'approvvigionamento idrico della città, la manutenzione degli edifici pubblici e, soprattutto, il ruolo di "praefectus urbi". Quest'ultimo, che in precedenza sostituiva i magistrati assenti dalla città, si occupa stabilmente della sicurezza pubblica e della repressione della criminalità, avendo a disposizioni tre coorti di 500 uomini ciascuna. A due cavalieri è affidato il delicato e importante ruolo, soprattutto per le vicende politiche successive, di "Prefetto del pretorio", una guardia personale del principe formata da nove coorti con uno stipendio che Augusto aveva subito raddoppiato rispetto a quello dei semplici legionari. All'esercito, alle legioni romane, il puntello armato del proprio potere, il principe rivolge una attenzione particolare e non si ritrae dal sottolinearlo: "Stanziai colonie di soldati in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due province di Spagna, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. L'Italia ha poi vent'otto colonie stanziate per mia decisione, le quali durante la mia vita furono intensamente popolate e prospere". Le guerre civili avevano dimostrato come il controllo e la fedeltà delle truppe fossero indispensabili per l'ascesa al potere e Ottavio, fin dalla sua comparsa sul palcoscenico della politica romana, l'aveva ben compreso, non esitando a mettere mano al proprio patrimonio per elargire premi e acquistare terreni per la colonizzazione. Dopo Azio, erano state sciolte molte delle 60 unità impegnate su entrambi i fronti, riducendole a 26-28 per un numero di circa 170.000 effettivi, cui si dovevano, però, aggiungere le unità degli "auxilia", reclutate tra i popoli sottomessi, e quelle messe a disposizione dagli alleati. Si trattava di un organismo che succhiava molte delle risorse finanziare romane e che pesava dal punto di vista fiscale, soprattutto, sulle province. La situazione si complica nel momento in cui Augusto decide di pagare la pensione ai veterani non più con l'assegnazione di terreni ma con pagamenti in denaro. Non potendo aggravare il peso sostenuto dalle province, chiede un sacrificio ai romani: nel 6 d.C introduce la "vicesima hereditatum", una tassa del cinque per cento che colpisce le eredità e i lasciti dei cittadini romani. Le risorse ottenute, a cui si aggiungono i versamenti personali del principe, vanno ad alimentare l"aerarium militare", una cassa per l'esercito amministrata da tre prefetti di rango senatorio nominati da Augusto.
    La pace di Augusto. La fama di Augusto non è certamente legata a spiccate doti militari. Augusto non aveva certamente spiccate doti militari. Il generale doveva i suoi successi ad Antonio e, soprattutto, al fedele Agrippa
    Lui, il generale acclamato vittorioso per ben ventuno volte, nelle guerre civili doveva i suoi successi ad Antonio e, soprattutto, al fedele Agrippa. Ma è nel suo nome che Roma, come ricorda Eck, acquisisce "un territorio maggiore di quanto non avesse guadagnato in passato in un lasso di tempo paragonabile": il nord della Spagna, l'arco alpino con la Rezia e il Norico, l'Illirico e la Pannonia e anche l'intera regione a nord dell'Acaia e della Macedonia, fino al Danubio; in oriente divengono province una parte del Ponto, la Paflagonia, la Galizia, la Cilicia e la Giudea. Alle conquiste si aggiungono, come tiene a ricordare Augusto, una serie di "prime volte" come le visite da lui ricevute di ambasciatori indiani, e le spedizioni in terre lontane come il regno etiopico e quello dei Sabei nella penisola arabica sud-orientale.
    Sono questi i risultati della "Pax Augustea", di un'epoca di pace da interpretare in una prospettiva esclusivamente interna all'impero e che viene simbolicamente rappresentata, oltre che con al chiusura del Tempio di Giano Quirino, con l'erezione nel 13 d.C. dell'ara Pacis Augustae (altare della pace augustea): le uniche guerre finite sono quelle civili. Non tutto è il risultato di campagne militari, ma anche dell'uso sapiente dell'influenza e del potere romano, capace di sfruttare discordie e divisioni, e di ponderate azioni diplomatiche. E, fatta eccezione per la Spagna dal 26 a.C., a condurre le spedizioni non è Augusto, ma Agrippa ed i figliastri Tiberio e Druso (figli di primo letto della moglie Livia).
    In oriente c'era da rimarginare una ferita che da troppo indispettiva l'orgoglio romano: le sconfitte inferte a Crasso nel 53 a.C. e ad Antonio nel 36 a.C. dai Parti che tenevano nelle loro mani le insegne delle legioni sconfitte. Augusto, per riparare l'onta, preferisce all'azione armata in un territorio lontano e contro un nemico potente la trattativa diplomatica, tenendo comunque all'erta l'esercito stanziato in Siria. A condurre in porto la trattativa è Druso che, nel 20 a.C., riesce ad ottenere la restituzione delle insegne. Per il principe è un'ulteriore occasione di propaganda: il senato e il popolo fanno erigere a Roma un arco sul quale, oltre ad Augusto sul carro trionfale, sono rappresentate le insegne. Le operazioni militari vere e proprie si svolgono in Europa, sui fronti renano e danubiano. Dopo la conquista di Rezia e Norico, che hanno creato un cordone protettivo intorno all'arco alpino, partono nel 18 a.C. le offensive di Druso contro i germani a destra del Reno e di Tiberio contro le popolazioni pannoniche. Quest'ultima campagna viene portata a termine quattro anni dopo, mentre nell'anno precedente le legioni romane sono giunte all'Elba. L'anno seguente Druso muore a seguito di un incidente a cavallo e al comando gli succede il fratello. Ma il dominio romano è messo a dura prova dalle ribellioni delle popolazioni sottomesse. Nel 5 d.C., mentre si prepara la spedizione contro il regno boemo di Maroboduo, scoppia la rivolta in Pannonia. Il pericolo è grande, Augusto fa sorvegliare la capitale, recluta schiavi frettolosamente liberati e procede a leve forzose. La situazione viene portata a normalità nel 9 d.C. da Tiberio che, a prezzo di enormi perdite, soffoca la rivolta. Passa poco e a ribellarsi sono i germani ad est del Reno agli ordini di Arminio, un cherusco che aveva servito nell'esercito romano come prefetto degli auxilia. I germani riescono ad annientare nella selva di Teotoburgo le tre legioni comandate da Quintilio Varo. Per Roma, per le sue stremate risorse finanziarie ed umane, è un duro colpo e Augusto stesso è tramortito. Racconta Svetonio come si mostrasse costernato, con barba e capelli lunghi, e sbattesse la testa contro le porte esclamando "Quintilio Varo, restituiscimi le mie legioni". Nonostante le successive operazioni di Tiberio e Germanico, figlio di Druso, il dominio romano al di là del Reno resta un progetto incompiuto. E le sue acque segneranno, in definitiva, la frontiera di Roma sul "barbaricum".
    Il funerale e l'ingresso tra gli dei. Augusto muore a Nola, nella stessa casa in cui era spirato il padre, il 21 agosto del 14 d.C., lo stesso giorno del suo primo consolato, all'età di quasi 76 anni e dopo aver governato per 44 anni. A vegliare su di lui ci sono la moglie Livia, che ha fatto isolare e circondare la casa, e il figlio Tiberio. Prima di morire si limita a chiedere se "avesse ben recitato fino in fondo la farsa della vita". Il suo corpo viene portato via da Nola dai notabili di ogni città attraversata fino nei pressi di Roma dove viene preso dai cavalieri che lo portano in città col favore della notte. Il giorno successivo si riunisce il senato: vengono letti il testamento, nel quale designa suoi eredi la moglie e il figlio, le indicazioni lasciate per il funerale, il resoconto di tutte le sue imprese, le relazioni sull'esercito e sulla situazione finanziaria e alcune raccomandazioni rivolte a Tiberio. Tra queste c'è quella di non proseguire nelle conquiste perché l'impero, già ampio, sarebbe stato difficilmente controllabile.
    Il giorno del funerale i soldati vengono spiegati in servizio d'ordine e il feretro, fatto d'avorio e d'oro, viene trasportato dal Palatino al Campo Marzo dai magistrati designati per l'anno successivo. Con le immagini del defunto sfilano anche quelle dei suoi avi e dei grandi della storia di Roma, che in questo modo, sembrava congiungersi nella persona del principe. Dopo il discorso rievocativo di Tiberio, che ricorda come Augusto avesse come un buon medico restituito guarito il corpo ferito dello stato, i magistrati sollevano il feretro e lo conducono attraverso la porta trionfale e la salma viene deposta sulla pira dove accorrono i sacerdoti, i cavalieri e la fanteria di guarnigione. Tutta Roma è presente. I centurioni, come da decisione del senato, prendono le fiaccole e accendono la pira. In quel momento un'aquila si stacca dalla pira e si alza in volo: è il segno che l'anima di Augusto è stata accolta in cielo. Come Cesare, anche lui è entrato nel consesso degli dei e a testimoniarlo c'è l'ex pretore Numerio Attico che giura di averlo visto salire in cielo e, per questo, riceve un premio in denaro da Livia. Al suo culto vengono dedicati dei riti sacri e dei sacerdoti, tra i quali c'è la stessa moglie.
    Ma durante il funerale, come tiene a sottolineare un critico Tacito, non tutti si mostrano concordi sull'operato del primo imperatore. Accanto ai tanti, sinceri od opportunisti, incensatori, c'è chi si meraviglia di come "un vecchio principe, con alle spalle un lungo potere, dopo aver lasciato i mezzi di dominio sullo stato già collaudati anche per gli eredi, si trovava nella condizione di essere protetto dall'aiuto dei soldati, perché la sua sepoltura avvenisse senza incidenti", e chi sostiene che, non l'amore per il padre e la cura per lo stato lo avevano spinto all'azione, ma la sete di dominio e di denaro. Ma, ormai, il principato è diventato normalità, in questo quadro è nata e vissuta una intera generazione, e quasi nessuno di quelli che avevano visto l'antica repubblica era ancora in vita. Il potere passa, senza scosse e nel segno di una monarchia ereditaria, a Tiberio, il figlio adottato nel 4 d.C., e che nel 13 d.C aveva ottenuto, grazie ad una legge popolare, un "imperium" parificato a quello di Augusto.
    (storiain)




    La figura di Augusto, passaggio dalla repubblica al principato

    di Alissa Peron



    Il periodo tra la fine dell’epoca repubblicana e l’inizio di quella imperiale è uno dei meglio documentati e su cui abbiamo più informazioni: le nostre fonti su Cesare sono due storici greci di rilievo, Appiano e Cassio Dione, e sulla crisi della repubblica abbiamo fino all’anno 43 l’epistolario di Cicerone; su Augusto abbiamo i frammenti della prima autobiografia e le res gestae, una delle più famose iscrizioni del mondo antico. Dunque abbonda il materiale su questo periodo della storia antica, e non mancano biografie anche più tarde, per Cesare di Plutarco e Svetonio, di Augusto solo di Svetonio. La storia romana tra il 90 e il 30 fu sconvolta da cinque guerre civili: guerra sociale, Mario e Silla, Pompeo e Cesare, cesariani e cesaricidi, Antonio e Ottaviano. Per i 44 anni successivi, pur essendoci ancora guerre di conquista, nell’impero regnò la pace sotto il governo di un princeps, Augusto. Il regno di Augusto fu dunque tanto lungo che al suo finire pochi nell’impero avevano sperimentato la repubblica, ciò che era venuto prima. L’ascesa di Augusto fu dunque precoce, a differenza di quella di Cesare, che si presenta sulla scena politica nel 63 a 37 anni come pontefice massimo, già maturo per i parametri della nobilitas romana. Gaio Ottavio nasce nel 63 figlio di un cavaliere di Velletri, dunque di estrazione sociale inferiore rispetto a Cesare, che era un patrizio romano; la madre Azia era imparentata con Cesare, il quale non aveva eredi legittimi, aveva il figlio di Cleopatra che riconobbe nonostante il parere contrario degli amici e gli fece portare il nome di Cesare; fu proprio questo nome a condannarlo a morte, poiché Gaio Ottavio sosteneva che solo a lui dovesse essere concesso di portare quel nome. Dunque Cesare adottò Gaio Ottavio e gli trasmise il suo potere, essendo egli il parente maschio giovane a lui più vicino; a differenza di Cesare egli non era un talento militare. Nell’anno in cui fu ucciso, Cesare avrebbe dovuto regolare i conti con i Parti, i cui rapporti con Roma erano tesi dopo l’iniziativa di Crasso a Carre nel 53 a. C. Gaio Ottavio che si trovava ad Apollonia decise di tornare in Italia e raccogliere la sfida, e prima di trasferirsi a Carre omaggiò Cicerone a Roma e giurò fedeltà al Senato e alle istituzioni repubblicane. A Roma chiese al pretore che venisse convalidato il testamento di Cesare che lo adottava, e da ciò egli si chiamò Gaio Giulio Cesare Ottaviano, diventando l’’erede riconosciuto e unico, operazione possibile grazie al diritto romano privato. Egli si presenta così come il nuovo Cesare agli amici Caesaris, tra i quali vi era Gaio Mazio, uno dei maggiori banchieri di Roma che gli offrì così finanziamenti illimitati; si presentò ai soldati delle legioni come nuovo Cesare e concesse loro donativi in denaro. Ottaviano aveva dalla sua parte Agrippa, uno dei maggiori talenti militari di Roma, che contribuiva a guidare il suo esercito. La guerra di Modena del 43 fu tra eserciti della Repubblica tra cui quello di Ottaviano e l’esercito di Antonio; quest’ultimo fu respinto da Modena, e Antonio e Ottaviano si accordarono indotti dalle proprie truppe, poiché soldati di Cesare si rifiutavano di combattere contro altri soldati di Cesare, e cercavano di evitare dissidi nella fazione cesariana. Si ebbe così il II triunvirato, formato da Ottaviano Antonio e Lepido, che era ratificato come magistratura a differenza del primo, puro accordo privato; fu scelto Lepido perché sincero collaboratore di Cesare e nuovo pontefice massimo dopo la sua morte. Nello stesso 43 i cesariani marciarono su Roma e se ne impadronirono, eliminando a forza gli avversari politici di ogni estrazione sociale compreso Cicerone; scomparvero intere famiglie della nobilitas, e Ottaviano non fu mosso da odio ma da motivazioni personali di pietas, egli vendicava la morte del padre adottivo eliminando i responsabili, atto non consentito ma obbligato per la mentalità romana. Si formò un’opposizione in Oriente intorno a Bruto e Cassio, e l’atto finale della quarta guerra civile fu la battaglia di Filippi del 42 a. C., in cui dopo una vittoria soprattutto di Antonio Bruto e Cassio si tolsero la vita. Ma da Filippi anche il governo repubblicano cessò di esistere; emerse la capacità militare e la tenacia di Antonio, che sottovalutò Ottaviano e pensò di potersi impadronire del potere; inviò dunque Ottaviano in Italia con il compito di confiscare terre da donare ai veterani, operazione socialmente brutale, mentre lui restava in Oriente per condurre la politica imperiale. La confisca delle terre provocò la grande rivolta di Perugia del 41, che Ottaviano represse nel sangue con fermezza; con la pace di Taranto fu nuovamente stabilito l’accordo tra Antonio e Ottaviano, sancito dal matrimonio di Antonio con la sorella di Ottaviano, e i patti erano che Antonio si occupasse dell’Oriente, più ricco e che secondo lui gli avrebbe fruttato gloria contro i Parti, e Ottaviano dell’Occidente, costituito da province barbariche. Ottaviano dimostrò intelligenza politica poiché teneva conto dell’opinione pubblica non romana ma italica, e mirava a quella che Cesare chiamava auctoritas Italiae e lui chiamò consensus totius Italiae. Gli rimaneva da affrontare Sesto Pompeo figlio di Pompeo che era diventato padrone della Sicilia, contro cui fece una spedizione navale e fu sconfitto; riarmò la flotta e ne affidò il comando ad Agrippa, e nel 36 egli sconfisse Sesto e consegnò la Sicilia ad Ottaviano. Per guadagnare gloria anch’egli contro i barbari combattè tra 34 e 33 nell’Illirico, e anche in questo caso grazie ad Agrippa i barbari furono sconfitti. Intanto Antonio nella durissima campagna militare contro i parti nel 35 arrivò al mar Caspio e fece entrare l’Armenia nella sfera di influenza romana, pur senza renderla provincia. Ottaviano si inserì nella nobilitas romana con fatica per la sua origine non patrizia, ed ancora nella battaglia di Azio alcuni nobili romani si schierarono con Antonio poiché era della loro stessa estrazione sociale. Nel 38 sposò Livia, imparentata con la famiglia dei Claudi, ed in questo modo egli si avvicinò parzialmente alla nobiltà. Col ritorno di Antonio dall’Oriente iniziò la quinta guerra civile, che Ottaviano presentò come un bellum externum, contro l’egitto di Cleopatra presso cui vi erano traditori romani come Antonio. Ad Azio nel 31 la flotta di Antonio e Cleopatra fu sbaragliata da Agrippa, che sconfisse Antonio stesso nell’ultima battaglia di cavalleria. In seguito Ottaviano procedette alla fondazione del principato, che chiamò rem publicam restituere; il Tedesco Momsen insistette sul carattere diarchico tra Ottaviano e il Senato, sottolineando la differenza tra lui e Cesare, che durante la dittatura non riconosceva al Senato alcun ruolo. Da un lato Ottaviano essendo cavaliere esitava a togliere autorità ad un Senato di cui la sua famiglia non faceva parte, dall’altro riteneva che una conciliazione con il Senato fosse un provvedimento politico più saggio e che non metteva in pericolo la sua vita come era avvenuto per quella di Cesare. Gli storiografi del Novecento, tra cui Syme e Gabba, hanno invece insistito sul carattere monarchico del principato augusteo; l’accordo con il Senato era solo formale, ad esempio Senato e princeps si erano divisi i candidati a governatori delle province, ma il senato eleggeva solo persone gradite ad Ottaviano. Anche i comizi,che ancora votavano, apparivano svuotati dei loro contenuti. Il princeps organizzò il potere tra 27 e 23 e fece in modo di controllare la politica interna grazie alla tribunicia potestas: poteva presentare leggi, aveva diritto di veto, poteva convocare senato e comizi. Ottenne poi l’imperium proconsulare che gli consentiva di controllare esercito e politica estera. Gli mancava l’autorità sacrale importante per l’opinione pubblica romana e italica; pontefice massimo era Lepido, dunque non poteva aspirare a quella carica prima della sua morte poichè era vitalizia.
    Nel 27 su proposta di Lucio Munazio Planco, un amico di Cesare, il Senato conferì ad Ottaviano il nome di Augusto, ed egli diventò imperator Caesar Divi filius Augustus, Cesare era stato divinizzato nel 42. Augustus, da augeo accrescere, è un participio dalla doppia diatesi passiva ed attiva, dunque è stato aumentato nelle sue virtù dagli dei, e perciò è in grado di accrescere la repubblica romana. Augusto divenne pontefice massimo alla morte di Lepido nel 12 a. C., e da allora gli imperatori divennero anche capi supremi della religione capitolina. La ristrutturazione di Augusto dell’impero si basava sulla centralità dell’Italia divisa in 14 regioni che arriva fino alle Alpi con l’abolizione della Gallia Cisalpina come provincia, poiché Cesare nel 49 a. C. aveva concesso a tutti gli abitanti la cittadinanza romana, e per questa contraddizione giuridica la provincia fu abolita e furono estesi i confini dell’Italia. Augusto mantenne lo status quo in Oriente, non vi costituì province tranne l’Egitto, e si espanse invece nel Barbaricum Europaeum,continuando l’opera di Cesare che aveva spostato ad Occidente il baricentro dell’Impero; conquistò territori alpini, si spinse fino al Danubio e all’Elba, fu istituita la provincia del Norico, furono conquistate la Baviera e la Pannonia, la Germania fu resa provincia dal Reno all’Elba nell’8 a. C. circa. Augusto afferma nelle res gestae scritte nel 2 a. C. di aver pacificato la Germania, che però fu persa con la sconfitta di Varo a Teutoburgo. Augusto rinunciò invece alla conquista della Britannia, territorio già toccato da Cesare, poiché lo sforzo militare ingente necessario non sarebbe stato compensato da un ritorno economico.
     
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