IMPERATORI ROMANI

civiltà romana

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  1. gheagabry
     
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    Imperator



    L'Imperator è il titolo della massima autorità dello Stato romano usato con tale significato dal I sec. d.C..
    Nell'epoca repubblicana Il termine Imperator era il titolo del generale che entrava vittorioso nell'Urbe, e che quindi riceveva momentaneamente l'Imperium cioè il comando delle forze armate. Con Caio Giulio Cesare il titolo per la prima volta va a indicare un'autorità politica anzi che un potere militare, anche se fino a Nerone il titolo indicherà ancora il potere militare. Successivamente ai ha con la creazione da parte di Vespasiano della Lex de Imperio Vespasianii, una legge che regolamenta le funzioni del Princeps e dei suoi poteri di fronte al Senato.
    A partire da Ottaviano Augusto al titolo di Imperator si aggiunsero anche nomi, ed altri appellativi detti cognomina ex virtute. Ecco dunque che con il passare del tempo si andò a formare una titolazione alquanto complessa.


    IMPERATOR-DIVI-CESARI-F-OCTAVIANVS-AVGVSTVS-
    PONT-MAX-TRIB-POT- XXXVII-IMP-XXI-COS-PP


    Dunque per capire il significato di tutte queste sigle e nomi, è innanzitutto necessario distinguere la parte onomastica, cioè relativa al nome proprio, da quella della titolazione e dagli appellativi. Ecco dunque che abbiamo la prima parte 'Ottaviano figlio del divo Cesare' e la seconda ' Augusto, Pontefice Massimo, Trbuno della Plebe per 37 volte, 21 volte Imperator, Console e Padre della Patria.



    L'età imperiale, successiva al periodo della repubblica, iniziò con Augusto, considerato il primo Imperatore di Roma, anche se già con Giulio Cesare e – se pur parzialmente – ancor prima con Silla, si era affermata una gestione di natura monarchica delle istituzioni repubblicane.
    Ottaviano, dopo aver sconfitto Marco Antonio nella battaglia di Azio (31 a.C.), assunse un controllo pressoché assoluto sulla vita politica romana. Nel 27 a.C. il Senato gli attribuì il titolo onorifico di "augusto" (che significa "colui che ha l'autorità morale"), in seguito divenuto sinonimo di Imperatore.
    Fu proprio attraverso la propria autorità morale (auctoritas) che egli accentrò nella propria persona titoli e poteri un tempo attribuiti esclusivamente ai magistrati repubblicani, senza giungere mai a una formale modifica di carattere costituzionale; assunse anzi il ruolo di difensore delle istituzioni repubblicane, dando vita così a una vera e propria finzione, poiché di nome continuava a esistere la repubblica, mentre di fatto vi era una gestione del potere di tipo monarchico.
    Nel 23 a.C. Augusto ricevette la tribunicia potestas, cioè l'insieme dei poteri dei tribuni della plebe, che comportava l'inviolabilità personale (sacrosanctitas) e il possibile diritto di veto nei confronti di provvedimenti legislativi (intercessio); tale era l'importanza di questa funzione, che egli si premurò che fosse costantemente rinnovata. Il Senato lo investì a vita anche della dignità proconsolare, conferendogli poteri superiori (il cosiddetto imperium maius) a quelli degli altri proconsoli. L'insieme di queste prerogative, sommate alla carica di console che assunse ben tredici volte, conferì ad Augusto un potere che non poteva più avere alcun elemento di "bilanciamento" nella vita dello stato: un potere che faceva di lui il princeps – come amava essere definito – e cioè "il primo" dei cittadini di Roma.

    Oltre all'auctoritas, di cui si è detto, deteneva infatti la potestas (cioè l'autorità civile), conseguita proprio attraverso l'assunzione della tribunicia potestas, e l'imperium (cioè il potere di comandare gli eserciti), implicito nelle funzioni consolari e proconsolari. Si fece dunque chiamare Imperator ("colui che ha l'imperium"), Caesar ("il successore di Giulio Cesare", divenuto cesare lui stesso), Divi Caesaris filius ("il figlio del divo Cesare"), Octavianus (quel che restava del suo vero nome), Augustus ("colui che ha l'autorità morale"), ideando uno schema di titolatura che sarà fatta propria dai suoi successori. Nel 12 a.C. venne inoltre proclamato pontefice massimo (pontifex maximus), la più alta carica sacerdotale dello stato, controllando così anche la sfera religiosa; e nel 2 a.C. assunse quel titolo di "padre della patria" (pater patriae) che la tradizione aveva fino ad allora assegnato solo a Romolo e a Marco Furio Camillo.

    Il Senato conservò un controllo sempre più formale su Roma, sull'Italia e sulle province, escluse quelle di frontiera, in cui era necessario stanziare le legioni: tali province erano governate da legati nominati e controllati dall'Imperatore stesso. Augusto promosse numerose riforme allo scopo di restaurare l'ordine sociale, e impose l'osservanza delle tradizioni morali, religiose e del costume romano (il mos maiorum); creò inoltre una solida ed efficiente burocrazia imperiale e abbellì Roma con templi, basiliche e portici, trasformandola – come lui stesso dichiarò – da una città di mattoni in una città di marmo. Il periodo augusteo rappresentò il momento di massimo splendore della letteratura latina, con l'opera poetica di Virgilio, Orazio e Ovidio, e la prosa della monumentale Storia di Roma di Tito Livio.



    La lingua Latina ha lasciato in eredità al mondo moderno tutta una serie parole, frasi celebri, sentenze e modi di dire che spesso capita di sentire anche nel parlato comune, o più frequentemente nello scritto.



    Alea iacta est.


    Il dado è stato tratto


    Pronunciata da Caio Giulio Cesare nel 49 a.C. sulle sponde del Rubicone



    Acta est fabula


    Lo spettacolo è finito


    Le celebri parole dell'Imperatore Ottaviano che proferì poco prima di morire.



    Audaces fortuna adiuvat


    La fortuna aiuta gli audaci.


    Terenzio


    (dal web)


    (Gabry)



    Edited by gheagabry1 - 17/1/2022, 14:18
     
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  2. gheagabry
     
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    maximino1




    Gaio Giulio Vero Massimino, meglio noto come Massimino Trace, fu un imperatore romano che regnò dal 235 al 238 CE. Nativo della Tracia, fu il primo soldato barbaro ad essere nominato imperatore dalle sue truppe, dopo aver detronizzato Alessandro Severo. La sua vicenda non avrebbe niente di singolare, tranne il fatto che dopo di lui si succedettero ben sei imperatori in meno di un anno. Quel che colpisce di Massimino Trace è la sua altezza: alla sua morte lo scheletro misurava otto piedi e mezzo, pari a 2,59 metri. Si trattava di un vero colosso, che superava di oltre un metro i soldati contemporanei e descritto dagli storici come fortissimo nel fisico e robusto come un toro, capace di trainare da solo un carro, abbattere con un pugno un cavallo e spaccare massi a mani nude. Per alcuni studiosi era un discendente degli umani che vissero nelle epoche pleistoceniche caratterizzate dalla Megafauna, nei cui geni era dunque ricomparso il Dna dei Giganti presenti in tutte le mitologie. Per altri la sua statura è dovuta alla sua ascendenza alana: gli Alani erano un popolo alto e forte, di stirpe sarmata, che viveva nell'area del Mar Caspio. La loro parentela con gli Sciti e i Tocari rendeva possibili dimensioni fisiche con questi valori.

    Edited by gheagabry1 - 17/1/2022, 14:19
     
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  3. gheagabry
     
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    Meglio vivere osando che non conoscere ne vittoria né sconfitta.



    GIULIO CESARE



    cesare1


    Caio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C. Faceva parte dell'antichissima e nobile "gens Julia", discendente da Julo, figlio di Enea e, secondo il mito, a sua volta figlio della dea Venere.
    Era anche legato al ceto plebeo, in quanto sua zia Giulia aveva sposato Caio Mario.
    Finiti gli studi, verso i sedici anni, partì con Marco Termo verso l'Asia, dove era in corso una guerra. In Oriente conobbe Nicomede, re di Bitinia, dove si fermò per quasi due anni.
    Tornato a Roma diciottenne, Cesare sposò, per volere del padre, Cossuzia, ma alla morte di questi, la rinnegò per prendere in moglie la bella Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario, scatenando così l'ira del potente dittatore Silla, che per altro aveva intuito le qualità del giovane. Le disposizioni del tiranno prevedevano che Cesare ripudiasse la moglie Cornelia, in quanto figlia di uno dei capi del partito democratico. Cesare si rifiutò: la cosa gli costò la condanna a morte e la confisca della dote della moglie; la condanna in seguito, su intervento di amici comuni, fu mutata in esilio.
    Esiliato appunto in Oriente, vi fece importanti esperienze militari, per terra e per mare. Rientrato nuovamente a Roma nel 69, intraprese il cosiddetto "cursus honorum": venne eletto alla carica di questore, grazie ai voti acquistati con il danaro prestatogli da Crasso. La carica gli fruttò il governatorato e un comando militare in Spagna, dove per un po' di tempo fronteggiò i ribelli, tornando poi in Patria con la fama di ottimo soldato e amministratore. Tre anni dopo fu nominato propretore in Spagna ma, pieno di debiti, poté partire solo dopo aver saldato tutti i contenziosi, cosa che fece grazie ad un prestito del solito Crasso. Divenne inoltre Pontefice Massimo nel 63 e pretore nel 62. In Spagna sottomise quasi del tutto gli iberici, riportò un bottino enorme e il senato gli concesse il trionfo, a causa del quale Cesare doveva ritardare il ritorno a Roma. In questo modo gli veniva impedito di presentare la sua candidatura al consolato, infatti la candidatura non poteva essere presentata in assenza del candidato. Cesare andò ugualmente a Roma, lasciando l' esercito fuori dalla città. Qui, strinse accordi di alleanza con il suo finanziatore Crasso e con Pompeo, in quel momento politicamente isolato: si formò allora un patto a tre, di carattere privato, consolidato da un solenne giuramento di reciproca lealtà , che aveva come fine, attraverso una opportuna distribuzione di compiti, la completa conquista del potere (luglio del 60). Il patto è conosciuto con il nome di "Primo Triumvirato". Nel frattempo, i legami con Pompeo erano stati stretti attraverso il matrimonio di quest' ultimo con Giulia, figlia di Cesare. Per l' anno 58, alla fine del suo mandato, Cesare fece eleggere come suoi successori Gabinio e Pisone; del secondo sposò la figlia Calpurnia, in quanto aveva divorziato dalla terza moglie, Pompea, a seguito di uno scandalo in cui era rimasta coinvolta. Nello stesso periodo chiese e ottenne il consolato della Gallia.




    Gli uomini credono volentieri ciò che desiderano sia vero.
    (da De bello gallico, III 18)



    Cesare aveva scelto le Gallie a ragion veduta: egli sapeva di aver bisogno, per poter aspirare al supremo potere, di compiere gesta militari di grande importanza e, soprattutto, di forte impatto. Le Gallie, da questo punto di vista, gli avrebbero appunto offerto l'occasione di conquistare territori ricchi di risorse naturali e di sottomettere un popolo ben noto per le proprie virtù militari e, per questo, molto temuto. I fatti confermarono pienamente i calcoli di Cesare. Anzi, riuscì ad ottenere risultati che andavano al di là di quanto egli stesso avrebbe mai osato sperare. Le vicende belliche gli offrirono oltretutto l'occasione di costituire un fedelissimo esercito personale e di assicurarsi fama imperitura e favolose ricchezze. Fu in particolare la fase finale del conflitto, quando dovette domare una ribellione capeggiata dal principe Vercingetorige, a mettere in risalto le straordinarie capacità militari di Cesare, che riuscì a sbaragliare il nemico nel proprio territorio e a fronte di perdite ridotte al minimo per i romani. La campagna militare, cominciata nel 58 a.C. e conclusa nel 51 a.C., fu minuziosamente - e magnificamente - narrata dallo stesso Cesare nei suoi Commentari (il celebre "De bello gallico"). Morto Crasso, sconfitto e ucciso a Carre (53 a.C.) nel corso di una spedizione contro i parti, il triumvirato si sciolse. Pompeo, rimasto solo in Italia, assunse pieni poteri con l'insolito titolo di "console senza collega" (52 a.C.). All'inizio del 49 a.C., Cesare rifiutò di obbedire agli ordini di Pompeo, che pretendeva, con l'appoggio del senato, che egli rinunciasse al proprio esercito e rientrasse in Roma come un semplice cittadino. In realtà Cesare rispose chiedendo a sua volta che anche Pompeo rinunciasse contemporaneamente ai propri poteri, o, in alternativa, che gli fossero lasciate provincia e truppe fino alla riunione dei comizi, davanti ai quali egli avrebbe presentato per la seconda volta la sua candidatura al consolato. Ma le proposte di Cesare caddero nel vuoto: prese allora la difficile decisione di attraversare in armi il Rubicone, fiume che delimitava allora l'area geografica che doveva essere interdetta alle legioni (fu in questa occasione che pronunciò la famosa frase: "Alea iacta est", ovvero "il dado è tratto"). Era la guerra civile, che sarebbe durata dal 49 al 45. Anch'essa fu molto ben raccontata da Cesare, con la consueta chiarezza ed efficacia, nel "De bello civili" Varcato dunque il Rubicone, Cesare marciò su Roma. Il senato, terrorizzato, si affrettò a proclamarlo dittatore, carica che mantenne fino all'anno seguente, quando gli fu affidato il consolato. Pompeo, indeciso sul da farsi, si rifugiò in Albania. Fu sconfitto a Farsalo, nel 48 a.C., in una battaglia che probabilmente è il capolavoro militare di Cesare: quest'ultimo, con un esercito di ventiduemila fanti e mille cavalieri, tenne testa vittoriosamente ai cinquantamila fanti e ai settemila cavalieri schierati da Pompeo, perse soltanto duecento uomini, ne uccise quindicimila e ne catturò ventimila.
    Pompeo fuggì in Egitto, dove venne assassinato dagli uomini di Tolomeo XIV, il quale credeva in tal modo di ingraziarsi Cesare. Cesare, invece, che aveva inseguito l'avversario in Egitto, inorridì quando gli presentarono la testa di Pompeo. In Egitto Cesare si trovò nella necessità di arbitrare un'intricata disputa su problemi di successione e conferì il trono all'affascinante Cleopatra, con la quale ebbe un'intensa storia d'amore (ne nacque un figlio: Cesarione).
    Nel 45 - ormai padrone assoluto di Roma - fece solenne ingresso nell'Urbe, celebrando il suo quinto trionfo. Da quel momento in poi Cesare detenne il potere come un sovrano assoluto, ma con l'accortezza di esercitarlo nell'ambito dell'ordinamento repubblicano. Infatti, si guardò bene dall'attribuirsi nuovi titoli, facendosi invece concedere e concentrando nelle proprie mani i poteri che, normalmente, erano divisi tra diversi magistrati. Ottenne pertanto un potere di fatto dittatoriale (prima a tempo determinato e poi, forse dal 45 a.C., a vita), cui associò come magister equitum l'emergente Marco Antonio. Non meno importanti furono la progressiva detenzione delle prerogative dei tribuni della plebe, dei quali Cesare assunse il diritto di veto e l'inviolabilità personale, e l'attribuzione del titolo permanente di imperator (comandante generale delle forze armate) nel 45 a.C.
    Infine, alla sua persona furono attribuiti onori straordinari, quali la facoltà di portare in permanenza l'abito del trionfatore (la porpora e l'alloro), di sedere su un trono aureo e di coniare monete con la sua effigie. Inoltre, al quinto mese dell'antico anno venne dato il suo nome (luglio = Giulio) e nel tempio di Quirino gli fu eretta una statua: sembra che Cesare vi fosse venerato come un dio sotto il nome di Jupiter- Iulius.
    Nel periodo che va dal 47 al 44 a.C. Cesare attuò varie riforme, molte delle quali contenevano gli elementi cardine del futuro principato, tra cui la diminuzione del potere del senato e dei comizi. Dal punto di vista economico promosse alcune riforme a favore dei lavoratori agricoli liberi, riducendo il numero di schiavi e fondando colonie a Cartagine e a Corinto; promosse numerose opere pubbliche e la bonifica delle paludi pontine; introdusse inoltre la riforma del calendario, secondo il corso del sole e non più secondo le fasi della luna.
    I malumori contro un personaggio di così grandi capacità e ambizioni, in Roma, non si erano mai sopiti. Vi era, ad esempio, il timore che Cesare volesse trasferire a un successore i poteri acquisiti (aveva adottato Ottaviano, il futuro imperatore Augusto), e nel contempo si riteneva inevitabile, o per lo meno altamente probabile, una deriva monarchica dell'avventura umana e politica di Giulio Cesare. Per questo, negli ambienti più tradizionalisti e nostalgici dei vecchi ordinamenti repubblicani fu ordita una congiura contro di lui, guidata dai senatori Cassio e Bruto, che lo assassinarono il 15 marzo del 44 a.C. (passate alla storia come le "Idi di marzo").
    Tra gli innumerevoli ritratti che di lui ci sono stati conservati, due sono particolarmente significativi, ossia quello relativo al suo aspetto fisico, tracciato da Svetonio (nelle "Vite dei Cesari"), e quello morale, tracciato dal suo grande avversario Cicerone in un passo della seconda "Filippica". Ecco quello di Svetonio: "Cesare era di alta statura, aveva una carnagione chiara, florida salute[...] Nella cura del corpo fu alquanto meticoloso al punto che non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma addirittura si depilava, cosa che alcuni gli rimproveravano. Sopportava malissimo il difetto della calvizie per la quale spesso fu offeso e deriso. Per questo si era abituato a tirare giù dalla cima del capo i pochi capelli[...] Dicono che fosse ricercato anche nel vestire: usava infatti un laticlavio frangiato fino alle mani e si cingeva sempre al di sopra di esso con una cintura assai lenta". Non meno incisivo quello di Cicerone: " Egli ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo stato. Non aveva avuto per molti anni altra ambizione che il potere, e con grandi fatiche e pericoli l'aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l'era conquistata coi doni, le costruzioni, le elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza, insomma aveva dato ad una città, ch'era stata libera, l'abitudine di servire, in parte per timore, in parte per rassegnazione".





    Amo il tradimento, ma odio il traditore.



    ..........le idi di marzo...........



    Alle Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso durante una seduta del Senato di Roma.
    Fu assassinato dai nemici a cui aveva concesso la sua clemenza, dagli amici a cui aveva concesso onori e gloria, da coloro che aveva nominato eredi nel suo testamento.
    Il popolo di Roma lo pianse.
    Di Cesare fu scritto:
    "Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore" (Th. Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V - Cap. XI)
    Presero parte alla congiura più di 60 persone. A capo ne erano gli ex-pompeiani Caio Cassio, praetor peregrinus, e Marco Bruto, praetor urbanus. Alla congiura aderirono anche alcuni cesariani, tra cui Decimo Bruto, console designato per l'anno seguente, e Trebonio, uno dei migliori generali di Cesare .... Cassio era il promotore e il vero capo della congiura. Marco Bruto aderì poco prima dell'assassinio, dando una parvenza di nobiltà all'azione. Infatti Marco Bruto era considerato un filosofo stoico, al di sopra degli interessi venali personali o di classe, benché facesse l'usuraio.
    A casa di Cesare...Il giorno delle Idi Cesare non si sentiva bene. Calpurnia, sua moglie, aveva avuto dei tristi presentimenti e lo scongiurava di non andare in Senato. Gli indovini avevano fatto dei sacrifici e l'esito era stato sfavorevole. Cesare pensò di mandare Marco Antonio ad annullare la seduta del Senato.
    Allora i congiurati inviarono Decimo Bruto ad esortare Cesare a presentarsi in Senato perchè i senatori erano già da tempo arrivati e lo stavano aspettando. Annullare la seduta a quel punto sarebbe stata un'offesa per i magistrati.
    Cesare credette a Decimo Bruto, all'amico fedelissimo, addirittura nominato suo secondo erede nel testamento. Verso l'ora quinta, circa le undici del mattino, Cesare si mise in cammino. Effettuò le pratiche religiose previste ed entrò nella Curia. Il console Marco Antonio rimase fuori trattenuto da Trebonio.
    Cesare era senza la guardia del corpo di soldati ispanici perchè poco tempo prima aveva deciso di abolirla. Solo senatori e cavalieri erano i suoi accompagnatori...Appena si fu seduto, i congiurati lo attorniarono come volessero rendergli onore.
    Cimbro Tillio prese a perorare una sua causa. Cesare fece il gesto di allontanarlo per rinviare la discussione. Allora Tillio lo afferrò per la toga. Era il segnale convenuto per l'assassinio.
    Publio Servilio Casca colpì Cesare alla gola. Cesare reagì, afferrò il braccio di Casca e lo trapassò con lo stilo. Tentò di alzarsi in piedi, ma venne colpito un'altra volta.
    Cesare vide i pugnali avvicinarsi da ogni parte. Allora si coprì la testa con la toga e con la mano sinistra la distese fino ai piedi. Voleva che la morte lo cogliesse dignitosamente coperto.
    Ricevette 23 ferite. Solo al primo colpo si era lamentato. Poi solo silenzio.
    Cadde a terra esanime. I senatori fuggirono in preda al panico. Rimasero solo i congiurati.
    Tre schiavi deposero il cadavere su di una lettiga e lo riportarono a casa. Cesare aveva 56 anni.
    La vigilia delle Idi, discutendo su quale fosse la morte migliore, aveva detto a Marco Lepido
    "Ad ogni altra ne preferisco una rapida ed improvvisa". E così era stato.
    In seguito.....La Curia dove era avvenuto l'assassinio venne murata.
    Le Idi di marzo presero il nome del "Giorno del parricidio".Venne proibito di convocare il Senato in quel giorno.
    Nel Foro venne innalzata una colonna di marmo con la scritta "Parenti Patriae", al Padre della Patria.

    Le sue ultime parole


    Kαὶ συ, τέκνον;
    Kai sy, téknon?

    Anche tu, figlio mio?

    Tu quoque, Brute, fili mi?
    Anche tu Bruto, figlio mio?

    Et tu, Brute?
    Anche tu, Bruto?





    .......Il celebre discorso di Marco Antonio ne “Giulio Cesare” di Shakespeare.........



    Ascoltatemi amici, romani, concittadini…
    Io vengo a seppellire Cesare non a lodarlo. Il male che l’uomo fa vive oltre di lui.
    Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa… e sia così di Cesare.
    Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Grave colpa se ciò fosse vero e Cesare con grave pena l’avrebbe scontata.
    Ora io con il consenso di Bruto e degli altri poichè Bruto è uomo d’onore e anche gli altri. Tutti, tutti uomini d’onore…
    Io vengo a parlarvi di Cesare morto.
    Era mio amico. Fedele giusto con me… anche se Bruto afferma che era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
    Si è’ vero. Sul pianto dei miseri Cesare lacrimava.
    Un ambizioso dovrebbe avere scorza piu’ dura di questa.
    E tuttavia sostiene Bruto che egli era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
    Si è anche vero che tutti voi mi avete visto alle feste dei Lupercali tre volte offrire a Cesare la corona di Re e Cesare tre volte rifiutarla. Era ambizione la sua?
    E tuttavia è Bruto ad affarmare che egli era ambizioso e Bruto, voi lo sapete, è uomo d’onore.
    Io non vengo qui a smentire Bruto ma soltanto a rifervi quello che io so.
    Tutti voi amaste Cesare un tempo, non senza causa. Quale causa vi vieta oggi di piangelo. Perché o Senna fuggi dagli uomini per rifugiarti tra le belve brute.
    Perdonatemi amici il mio cuore giace con Cesare in questa bara. Devo aspettare che esso torni a me.
    Soltanto fino a ieri la parola di Cesare scuoteva il mondo e ora giace qui in questa bara e non c’è un solo uomo che sia così miserabile da dovergli il rispetto signori.
    Signori se io venissi qui per scuotere il vostro cuore, la vostra mente, per muovervi all’ira alla sedizione farei torto a Bruto, torto a Cassio, uomini d’onore, come sapete.
    No, no. Non farò loro un tal torto. Ohh… preferi farlo a me stesso, a questo morto, a voi, piuttosto che a uomini d’onore quali essi sono.
    E tuttavia io ho con me trovata nei suoi scaffali una pergamena con il sigillo di Cesare, il suo testamento.
    E bene se il popolo conoscesse questo testamento che io non posso farvi leggere perdonatemi, il popolo si getterebbe sulle ferite di Cesare per baciarle, per intingere i drappi nel suo sacro sangue, no…
    No amici no, voi non siete pietra nè legno ma uomini.
    Meglio per voi ignorare, ignorare… che Cesare vi aveva fatto suoi eredi.
    Perché che cosa accadrebbe se voi lo sapeste. Dovrei… dovrei dunque tradire gli uomini d’onore che hanno pugnalato Cesare?
    E allora qui tutti intorno a questo morto e se avete lacrime preparatevi a versarle.
    Tutti voi conoscete questo mantello. Io ricordo la prima sera che Cesare lo indosso’. Era una sera d’estate, nella sua tenda, dopo la vittoria sui Nervii.
    Ebbene qui, ecco..Qui si è aperta la strada il pugnale di Cassio.
    Qui la rabbia di Casca. Qui pugnalo’ Bruto, il beneamato.
    E quando Bruto estrasse il suo coltello maledetto il sangue di Cesare lo inseguì vedete, si affacciò fin sull’uscio come per sincerarsi che proprio lui, Bruto avesse così brutalmente bussato alla sua porta.
    Bruto, l’angelo di Cesare. Fu allora che il potente cuore si spezzò e con il volto coperto dal mantello, il grande Cesare cadde. Quale caduta concittadini, tutti… io, voi, tutti cademmo in quel momento mentre sangue e tradimento fiorivano su di noi.
    Che …ah… Adesso piangete? Senza aver visto le ferite del suo mantello?
    Guardate qui, Cesare stesso lacerato dai traditori…
    No… no, amici no, dolci amici… Buoni amici… Nooo… non fate che sia io a sollevarvi in questa tempesta di ribellione.
    Uomini d’onore sono coloro che hanno lacerato Cesare e io non sono l’oratore che è Bruto ma un uomo che amava il suo amico, e che vi parla semplice e schietto di ciò che voi stessi vedete e che di per sè stesso parla.
    Le ferite, le ferite… Del dolce Cesare… Povere bocche mute…
    Perché se io fossi Bruto e Bruto Antonio, qui ora ci sarebbe un Antonio che squasserebbe i vostri spiriti e che ad ognuna delle ferita di Cesare donerebbe una lingua così eloquente da spingere fin le pietre di Roma a sollevarsi, a rivoltarsi.





    .........le sue frasi...........



    Veni, vidi, vici
    Venni, vidi, vinsi.
    (Dopo la battaglia di Zela, 48 a.C.)

    Alea iacta est
    Il dado è tratto.
    (10 gennaio del 49 a.C., sul Rubicone)

    Ἀνερρίφθω κύβος. (nella versione originale plutarchea)
    Stando qui inizia la mia rovina. Venendo là inizia quella degli altri.
    (sul Rubicone)

    Non occorre che un uomo sappia cosa avverrà alla fine del giorno dopo, è sufficiente che il giorno finisca e la conclusione sarà nota; se ci rincontreremo allora sorrideremo, sennò, sarà stato lo stesso un bell'addio.

    Fere libenter homines id quod volunt credunt.
    Gli uomini credono volentieri ciò che desiderano sia vero.





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    Edited by gheagabry1 - 17/1/2022, 14:29
     
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  4. gheagabry
     
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    La storia è scritta dai vincitori.
    Chi perde è destinato a essere oltraggiato.



    NERONE





    Nerone (37-68 d.C.), imperatore romano (54-68), ultimo della gente Giulio-Claudia. Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, cambiò il suo nome (Lucio Domizio Enobarbo) in Nerone Claudio Cesare dopo essere stato adottato dall'imperatore Claudio, che sua madre aveva sposato in seconde nozze. Nel 53 sposò la figlia di Claudio, Ottavia. Alla morte di Claudio, nel 54, i pretoriani, guidati dal prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro (fedele ad Agrippina) lo proclamarono imperatore.
    Sotto la guida di Burro e del filosofo Seneca, suo tutore, Nerone si mostrò inizialmente deferente nei confronti del senato, la cui autorità era notevolmente diminuita durante i regni degli ultimi imperatori.
    Entrato in contrasto con la madre, che si opponeva alla sua relazione con Poppea Sabina e intendeva esercitare sempre maggiore influenza, Nerone fece uccidere Britannico, figlio di Claudio e di Messalina, considerato un possibile pretendente al trono e allontanò la madre da Roma, facendola uccidere nel 59.
    Con la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla vita pubblica, Nerone modificò radicalmente la propria politica: divenuto ostile al senato, iniziò a favorire i ceti popolari e militari e a esercitare un potere sempre più dispotico. Quando, nel luglio del 64, Roma fu distrutta da un incendio, l'imperatore ne fu ritenuto responsabile e cercò invano di incolpare dell'incendio i cristiani. In seguito, fece costruire per sé la nuova residenza imperiale (la domus aurea).
    Il contrasto con il senato si acuì in seguito alla riforma monetaria introdotta da Nerone (59-60), secondo cui veniva privilegiato il denarius (la moneta d'argento di cui si serviva soprattutto la plebe urbana) all'aureus (moneta dei ceti più agiati). Nel 65 Caio Calpurnio Pisone ordì una congiura ai danni di Nerone, che tuttavia la represse e fece uccidere tra gli altri Seneca e il poeta Lucano, accusati di aver preso parte alla cospirazione. Nel 66-67 Nerone si recò in Grecia, alla quale rese la libertà, rendendo più difficili i rapporti con le altre province dell'impero. Nel 68 le legioni stanziate in Gallia e in Spagna, guidate rispettivamente da Vindice e da Galba, si ribellarono all'imperatore, costringendolo a fuggire da Roma. Dichiarato nemico pubblico dal senato, Nerone si suicidò.





    « Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli »
    (Napoleone Bonaparte)



    ...chi era Nerone?...



    Uno dei più amati e allo stesso tempo odiati imperatori dell'antica Roma. I suoi avversari dicevano che fosse un matto, ma la gente del popolo lo amava molto. Di azioni terribili ne ha fatte molte, ma anche di buone per il suo impero. Un personaggio pieno di contraddizioni: un pazzo che leggenda vuole abbia incendiato la città, ma anche un ragazzo amante dell'arte e della bellezza; un despota megalomane e crudele, ma amato dal popolo per la riforma tributaria e monetaria, entrambe di sostegno ai poveri. Nerone è il massimo rappresentante della fine della dinastia Claudia, sprofondata nella paranoia assassina in un crescendo di omicidi cinici e autodistruttivi.
    La vera passione di Nerone, fin da ragazzino, fu l’arte, soprattutto quella greca, non la politica; amava la musica, la poesia,il teatro e lui stesso si cimentava nelle diverse discipline senza ottenere, con suo grande rammarico, molto successo.
    Nerone amava moltissimo anche la cetra, uno strumento musicale tra i più gettonati nella Roma dell’epoca, e pare che ne fosse un discreto suonatore.
    I primi cinque anni del principato di Nerone furono considerati uno dei periodi più felici dell'Impero. Su indicazioni di Seneca fece molte riforme che aiutarono il popolo.
    Nel tempo la paranoia e la magalomania di Nerone si scatenano. Convinto di essere un grande poeta, ossessionò il popolo con le sue esibizioni.
    Nel marzo del 59 Agrippina venne uccisa su ordine di Nerone, probabilmente per consiglio del suo maestro Seneca. Nerone si giustificò dinanzi al senato affermando che Agrippina aveva congiurato contro di lui e contro lo stato. In effetti pare che Agrippina avesse intenzione di detronizzare Nerone, che l'aveva allontanata dal potere, e di mettere sul trono un altro uomo con cui intendeva risposarsi. Nerone portò per il resto della vita il peso dell'orrendo delitto. Tremendi incubi notturni lo tormentarono.
    L'uccisione della madre segnò l'inizio di un governo dispotico, passato nella tradizione come uno dei più vergognosi che Roma abbia avuto. Liberatosi dal peso del controllo della madre, Nerone pensò di soddisfare ogni suo capriccio.
    A giugno Nerone ripudiò Ottavia per sposare Poppea Sabina, moglie di Otone. Ottavia fu esiliata. Il popolo scese in piazza per manifestare a favore di Ottavia. Allora Nerone la fece uccidere e si disse che si fu suicidata.Nel 65 venne scoperta una congiura per uccidere Nerone ed eleggere imperatore il senatore Gaio Calpurnio Pisone. I congiurati erano senatori e cavalieri, appoggiati da ufficiali della guardia pretoriana....Dei 41 partecipanti alla congiura solo diciotto morirono. Gli altri vennero esiliati o perdonati. Fra i congiurati pare ci fosse anche Seneca, il suo maestro. Gli venne dato i l'ordine di togliersi la vita e si suicidò bevendo della cicuta.
    Nel 65 Poppea Sabina, la moglie di Nerone, morì probabilmente per una malattia durante la gravidanza. Nerone si sposò con Statilia Messalina.
    I nemici di Nerone a Roma non desistettero e fecero in modo che Nerone non avesse più sostenitori in città. L'8 giugno il senato dichiarò Nerone nemico pubblico: chiunque lo avrebbe potuto uccidere.
    La mattina del 9 giugno Nerone scoprì che le guardie non presidiavano il palazzo e sua moglie Statilia Messalina era scomparsa. Abbandonato da tutti, lasciò la città con pochi fedeli e si rifugiò in campagna...Il 9 giugno del 68, prima di essere catturato dai pretoriani, si suicidò.
    Aveva 30 anni. Aveva regnato 13 anni. Con la sua morte si apriva la prima grave crisi della successione all'Impero. (Focus)



    Gli ultimi istanti di vita di Nerone raccontati dalla penna di Svetonio presentano aspetti grotteschi in piena sintonia con il personaggio, ma anche punte di dignità, culminate in un suicidio, che però, secondo il pensiero dello storico, fu dovuto più a paura che a coraggio.
    Questa è la parte finale del racconto dello scrittore-biografo:
    “Dato che ciascuno dei suoi compagni lo invitava a sottrarsi senza ritardo agli oltraggi che lo attendevano, ordinò di scavare dinanzi a lui una fossa lunga quanto il suo corpo, di disporre intorno a essa alcuni pezzi di marmo se si riusciva a trovarli e di portare acqua e legna per rendere fra breve gli ultimi onori al suo cadavere. A ognuno di questi preparativi piangeva e ripeteva continuamente: <quale artista perirà con me!>”
    “Domandò allora quale fosse questo genere di supplizio e gli riferirono che il condannato veniva spogliato, gli si passava la testa in una forca e lo si batteva con le verghe fino alla morte. Allora, spaventato, prese due pugnali che aveva portato con sé, ne provò successivamente le punte e poi li rimise nel loro fodero protestando che l’ora segnata dal destino non era ancora arrivata”.
    Quando udì lo scalpitìo dei cavalli degli uomini che si avvicinavano per catturarlo, pronunciò in greco un celebre verso dell’Iliade: “<il galoppo dei cavalli dai rapidi piedi colpisce le mie orecchie>. Poi si piantò una lama nella gola con l’aiuto di Epafrodito, l’uomo addetto alle suppliche.
    E infine:
    “Respirava ancora quando irruppe un centurione e, come per soccorrerlo, gli applicò il suo mantello sulla ferita. Nerone gli disse semplicemente: <e’ troppo tardi>, e ancora: <questa fedeltà>. Pronunciando queste parole spirò e i suoi occhi, prominenti e fissi, presero una tale espressione che ispiravano orrore e spavento a chi li guardava”.
    Fu questa la fine, a tratti persino amaramente comica, dell’Imperatore che aveva terrorizzato Roma con le proprie manie.





    .....il grande incendio di Roma.....



    Quello che nel 64 d.C. distrusse gran parte della città di Roma fu un incendio di proporzioni gigantesche e dalle conseguenze catastrofiche: interi quartieri finirono letteralmente in cenere e le vittime furono numerose.
    All’epoca era imperatore Nerone, che dopo un iniziale periodo di buon governo, aveva cominciato da tempo a manifestare quelle strane e ambigue abitudini che l’avevano reso inviso a gran parte dei contemporanei e che ne hanno fatto, a lungo, uno dei peggiori imperatori romani nella considerazione storica e popolare (in realtà, esiste un intero filone della moderna storiografia teso a rivalutarne la figura).
    All’indomani del disastro, i nemici del giovane imperatore sparsero la voce che fosse stato lui stesso a ordinare l’incendio, con la motivazione che intendesse ricostruire la città secondo i propri gusti (le manie di grandezza di Nerone erano note anche tra la plebe) o solo per il gusto di volersi godere il tragico spettacolo, fomentando l’idea che egli possedesse una mente disturbata che lo portava a gioire di fronte a immagini cruente e a scene di violenza; sentendosi ingiustamente calunniato, Nerone ne approfittò politicamente per incolpare la comunità cristiana, che operava ancora in condizioni di semi-clandestinità e i cui riti, non pienamente compresi, sembravano fatti apposta per destare sospetti.
    Ne nacque una dura quanto ingiusta persecuzione nei confronti dei Cristiani; la crudeltà e la sete di vendetta dell’Imperatore lo portarono ad usarne alcuni come torce umane per illuminare i sontuosi banchetti che era solito presenziare.
    Invece i Cristiani erano assolutamente innocenti, esattamente come lo era Nerone, poiché sembra certo che si sia trattato di un incendio del tutto accidentale, originatosi probabilmente dal cattivo funzionamento di una cucina di un quartiere povero di Roma e allargatosi rapidamente per via dei materiali da costruzione estremamente infiammabili con cui erano costruite le case cittadine, soprattutto quelle degli abitanti meno abbienti.
    Incredibilmente, un evento drammatico ma completamente casuale, finì per trasformarsi in un pretesto comodo e meschino per giustificare l’uccisione di migliaia di persone.





    ....una delle tante leggende....



    Tra le innumerevoli stravaganze che accompagnarono la sua vita e i suoi desideri, c’era anche la voglia di diventare…mamma!
    Esatto, proprio così: l’esperienza del parto e di mettere al mondo un figlio era qualcosa alla quale Nerone non voleva proprio rinunciare.
    Allo scopo, minacciò di morte alcuni medici affinché lo aiutassero a realizzare il suo sogno, finché non ne trovò due che, per evitare ritorsioni, promisero di aiutarlo promettendogli una gravidanza.
    In realtà, gli somministrarono una pozione soporifera con all’interno una piccolissima rana che, ingoiata viva, muovendosi nella pancia, avrebbe dato a Nerone la sensazione di aspettare un figlio.
    I medici, ovviamente, fuggirono prima che il trucco potesse essere scoperto e infatti, la rana ricomparve viva e vegeta nelle feci dell’Imperatore che, per zittire tutti coloro che lo deridevano, fece sfilare l’animaletto su un cocchio per un trionfale giro attraverso le vie di Roma, scortata da ben 15 uomini di alta estrazione sociale.
    Non appena il corteo giunse sul Tevere però, la rana si gettò nelle sue acque; si dice che il nome “Laterano” derivi proprio da questo bizzarro episodio, e sta per “latitans rana” ovvero “rana fuggitiva”.



    « Essendo incline alla poesia, compose versi volentieri e senza fatica e non pubblicò mai, come insinuano alcuni, quelli degli altri spacciandoli per suoi. Mi sono capitati tra mano taccuini e libretti che contengono alcuni suoi versi assai noti, scritti di sua mano ed è facile vedere che non sono stati né copiati né scritti sotto dettatura, ma sicuramente composti da un uomo che medita e crea, perché vi sono molte cancellature, annotazioni e inserimenti. »
    (Svetonio, Vita dei Cesari, Nero LII)

    « Morì nel suo trentaduesimo anno d'età, nel giorno anniversario dell'uccisione di Ottavia e fu tale la gioia di tutti che il popolo corse per le strade col pileo. Tuttavia non mancarono quelli che, per lungo tempo, ornarono di fiori la sua tomba, in primavera e in estate, e che esposero sui rostri ora le immagini di lui vestito di pretesta, ora gli editti con i quali annunciava, come se fosse ancora vivo, il suo prossimo ritorno per la rovina dei suoi nemici. Per di più, Vologeso, re dei Parti, quando mandò ambasciatori al Senato per riconfermare l'alleanza, fece chiedere anche, insistentemente, che si onorasse la memoria di Nerone. Infine, vent'anni dopo la sua morte, durante la mia adolescenza, venne fuori un tale, di ignota estrazione, che pretendeva di essere Nerone e questo nome gli valse tanto favore presso i Parti che essi lo sostennero energicamente e solo a malincuore lo riconsegnarono. »
    (Svetonio, Vita dei Cesari, Nero LVII)





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    “In politica un'assurdità non è uno svantaggio."
    Napoleone



    CALIGOLA




    L’imperatore Gaio, meglio conosciuto come Caligola, da caliga, la calzatura militare che indossava da bambino nell’accampamento militare di suo padre Germanico, dove aveva trascorso i suoi primi anni di vita, nacque il 31 agosto del 12 d.C. ad Antium da Germanico e Agrippina Maior. La mamma era la figlia di Giulia, l’unica figlia di Augusto, e del fedele e leale amico di Augusto M. Vipsanio Agrippa. Il padre era figlio di Nerone Claudio Druso Germanico, fratello del futuro imperatore Tiberio. Quando dopo la prematura morte dei suoi giovani nipoti Lucio (2 d.C.) e Gaio (4 d.C.) Cesare, Augusto designò come successore il figliastro Tiberio, Gaio non era ancora nato. Quando nacque, Tiberio si era intanto sbarazzato dei suoi rivali, cioè degli zii di Caligola, Agrippa Postumo e Giulia Minor, rispettivamente fratello e sorella di Agrippina, madre di Caligola e nipote di Augusto, facendo uccidere uno (Agrippa Postumo) e mandando in esilio l’altra (Giulia Minor). Ma Tiberio non si era potuto sbarazzare dell’avversario più pericoloso, cioè del nipote Germanico, erede designato. Quando Augusto aveva scelto Tiberio lo aveva infatti vincolato a designare a sua volta come successore Germanico, a danno del figlio stesso di Tiberio, Druso Giulio Cesare. Gaio nasce perciò figlio dell’erede al trono, terzo figlio maschio dell’imperatore in pectore Germanico, dopo i due fratelli Nerone Giulio Cesare e Druso Giulio Cesare.

    Svetonio lo descrive di statura alta, di corpo enorme, di colorito livido, con collo e gambe gracilissime, occhi incavati, tempie strette, fronte larga e torva, capelli radi, completamente calva la sommità del capo, irsuto il resto del corpo.....Statura fuit eminenti, colore expallido, corpore enormi, gracilitate maxima cervicis et crurum, oculis et temporibus concavis, fronte alta et torva, capillo raro at circa verticem nullo, hirsutus cetera..... Per questo motivo, quando passava, era un delitto capitale guardarlo dall’alto o per qualsiasi motivo pronunciare la parola capra....Figlio del grande generale Germanico, nipote di Augusto, quando Tiberio morì era quasi l’unico superstite della gens.



    Caligola amava moltissimo le corse del circo...All’inizio del primo secolo esistevano quattro scuderie ufficiali denominate dai colori delle livree indossate dai loro fantini dei Rossi, dei Bianchi, degli Azzurri e dei Verdi. A quest’ultima andava il favore di Caligola, tanto che spesso cenava nella scuderia della squadra preferita e ricopriva di doni gli aurighi. Uno di essi, un certo Eutico, fu gratificato con due milioni di sesterzi e il permesso di farsi aiutare dai pretoriani nella costruzione di nuove stalle. Ancora più profondo l’affetto che Caligola mostrava verso il più importante cavallo dei Verdi, chiamato Incitatus. Spesso si sente raccontare che Caligola avesse nominato console Incitatus, ma è venuto il momento di fare chiarezza, partendo dall’interpretazione delle fonti al riguardo. Svetonio (Caligulae vita,LV) dice:" …perché Incitatus non fosse disturbato il giorno prima della corsa, soleva obbligare i vicini al silenzio per mezzo dei soldati, oltre ad avergli fatto costruire una scuderia d’avorio e una mangiatoia d’avorio, gli regalò gualdrappe di porpora e finimenti con gemme, una casa e un gruppo di servi; si dice che lo avesse voluto designarlo console." Ma Svetonio è molto vago. Dice testualmente: consulatum quoque traditur destinasse. Cassio Dione (LIX, 14,7) dice quanto segue: “…invitava Incitatus a pranzo, gli offriva chicchi di orzo dorato e brindava alla sua salute in coppe d’oro; giurava inoltre in nome della salvezza e della sorte di quello ed aveva anche promesso che lo avrebbe designato (apodeixein) console (upaton), cosa che avrebbe sicuramente fatto, se fosse vissuto più a lungo..." Dione dice che aveva anche promesso che lo avrebbe designato console. Tuttavia non lo fece e Caligola non era uomo da fermarsi davanti a nulla. Cassio Dione scrive sotto l’imperatore Severo Alessandro a due secoli di distanza dagli eventi e non fornisce un profilo positivo del giovane figlio di Germanico. Data la somiglianza dei due passi è verosimile che la notizia derivi sia per Cassio Dione sia per Svetonio da una stessa fonte ostile a Caligola.




    Molti personaggi furono condannati a morte sotto di lui. Svetonio ricorda che teneva due taccuini con i nomi di coloro che erano destinati a morire; su uno era scritto “spada”, sull’altro “pugnale”, a seconda di come pensava di farli uccidere. Accumulò molti veleni che quando furono versati in mare per ordine del suo successore Claudio fecero una strage di pesci, che vennero rigettati morti sulla spiaggia. .. (Caligulae vita,XXXII)
    Anche Seneca ricorda la crudeltà dell’imperatore citando alcuni episodi. Una volta fece imprigionare il figlio di Pastore, un illustre cavaliere romano, invitando il padre ad un ricco banchetto, durante il quale Pastore gozzovigliò come se nulla fosse. Motivo? Pastore aveva un altro figlio e, qualora l’imperatore avesse visto Pastore afflitto e non facente onore alla sua mensa, avrebbe potuto fare uccidere l’altro figlio di Pastore! (Seneca, De ira,II,XXXIV)
    In una notte, senza motivo avrebbe fatto uccidere al chiaror di una lucerna taluni fra i senatori e matrone che stavano passeggiando con lui nei giardini materni. Poi avrebbe fatto uccidere anche i loro padri con l’intenzione di liberarli pietosamente dal dolore. Seneca, De ira,III,IXX. Il condizionale è qui d’obbligo, in quanto Seneca sembra esacerbare il proprio passo per sostenere la tesi che l’ira non dominò solo le azioni di monarchi stranieri, ma anche di personaggi romani. Non bisogna dimenticare che nel periodo in cui il De ira fu scritto Seneca era profondamente ostile alla famiglia di Germanico e di Caligola stesso, il quale, se non fosse intervenuta una sorella, si dice avesse già deciso di condannare a morte il filosofo.





    Poiché l’astrologo Trasillo aveva predetto che Gaio aveva tante probabilità di diventare imperatore quante di attraversare il golfo di Baia a cavallo, requisì tutte le navi onerarie che portavano il grano a Roma dall’Egitto, le fece disporre una vicina all’altra in doppia fila tra Baia e il molo di Pozzuoli per una lunghezza di quattro chilometri, facendole ricoprire di terra perché sembrassero una strada, poi per due giorni e due notti percorse avanti e indietro a cavallo questo ponte di barche, una prima volta su un cavallo riccamente bardato, con in capo una corona di quercia, con un piccolo scudo, spada e clamide dorata; la seconda volta, invece, in abito da quadrigario su di un carro, preceduto da un giovinetto ostaggio dei Parti, dal non casuale nome di Dario e seguito dai pretoriani ed un gruppo di amici su carri. Sembra altresì che tale stravaganza avesse uno scopo propagandistico per terrorizzare i Germani e i Britanni contro cui stava per muovere guerra o per emulare e anzi superare Serse, che all’inizio della seconda guerra persiana aveva fatto costruire un ponte di barche per far passare all’esercito l’Ellesponto. Svetonio (Caligulae vita, XIX); C.Dione (LIX, 17).
    Prescindendo dall’anedottica, Caligola progettò veramente di invadere la Britannia, ma accantonò il progetto dopo i suoi insuccessi in Germania, per l’ostilità senatoria e per una congiura ordita ai suoi danni proprio in quel periodo.



    Ma queste stravaganze sono veramente tali o sono da considerarsi le azioni di un pazzo? Ebbene di una sua malattia le fonti parlano chiaramente tanto da dividere il suo regno in due parti, anche se i primi sintomi di essa si sarebbero manifestati già prima dell’elevazione al trono. L’ipotesi più stravagante appartiene a Svetonio che attribuisce lo sconvolgimento di Gaio come conseguenza di un filtro d’amore propinatogli dalla quarta moglie Cesonia. Gli studiosi che propendono per la malattia parlano di ipertiroidismo o a una grave forma di epilessia, interpretando le parole di Svetonio. (…a volte si sentiva mancare improvvisamente, non riusciva a camminare e nemmeno a stare in piedi e a stento poteva ritornare in sé e reggersi.) Tuttavia l’epilessia dovrebbe essersi manifestata solo in tenera età (puer), in quanto, né Svetonio ne parla più altrove, né le altre fonti la menzionano. Ma la cosa non deve stupire. Altri membri della dinastia giulio-claudia ne soffrirono, come suo cugino, il figlio di Claudio Britannico, solo in giovane età. Nel caso di Caligola si tratterrebbe di cataplessia, forma minore della epilessia, che non comporta perdita di coscienza, ma attacchi di breve durata con perdita del tono muscolare, o meglio ancora di picnolepsia, che compare tra i quattro e i dodici anni, con amnesie, lievi spasmi e fissità dello sguardo, come del resto anche Svetonio ricorda poco prima nello stesso passo (vultum natura horridum ac taetrum). Le frequenti crisi che la picnolepsia porta spiegherebbe anche il participio vexatus usato da Svetonio. Ma sia perché si tratta di una forma minore di epilessia, sia perché l’imperatore ne avrebbe sofferto solo da bambino, le cause della sua follia non sarebbero da ricercare in patologie fisiche, bensì, più verosimilmente, in patologie psichiche. Avere vissuto tutta l’infanzia e l’adolescenza, tra gli intrighi e i sospetti, assistendo alla fine di tutti i suoi fratelli, con la costante paura di venire ucciso a sua volta, avrebbe leso irrimediabilmente la sua giovane psiche.
    Soffrì di insonnia. Non dormiva mai più di tre ore per notte e, anche queste con molti incubi. Di solito rimaneva seduto sul letto gran parte della notte, oppure passeggiava lungo il porticato, aspettando che facesse giorno.


    Riguardo l’accusa di incesto con le sorelle, apertamente dichiarata da Svetonio (Caligulae vita, XXIV) (cum omnibus sororibus suis consuetudinem stupri fecit) non si può dimenticare che anche nell’abbigliamento Caligola seguisse mode orientali. Nell’Egitto faraonico e successivamente tolemaico era normale che i sovrani apparissero in pubblico con le sorelle-consorti e ciò era normalmente raffigurato e accettato, in quanto non era nient’altro che una rappresentazione terrena della coppia divina Osiride-Iside, ma a Roma suscitava certamente scandalo e riprovazione. Così come il suo indossare mantelli ricamati e coperti di gemme sopra tuniche a lunghe maniche, coperti di braccialetti, con la barba dorata, tenendo in mano l’attributo di qualche dio, o un fulmine o un tridente o un caduceo.


    Il breve ed intenso regno di Caligola finì come quello di altri suoi successori con una congiura e l’assassinio del principe dopo appena tre anni e dieci mesi di regno il 24 gennaio 41 d.C...Tra i congiurati si annoverano i due prefetti del pretorio, Callisto un importante liberto che divenne poi ministro sotto Claudio, il tribuno della guardia Cassio Cherea, esecutore materiale del delitto...Le fonti riportano una serie di funesti presagi che annunziarono la sua fine...A Olimpia la statua di Giove che Caligola voleva trasferire a Roma, si mise a ridere, mettendo in fuga gli operai addetti per la rimozione. Poi era venuto un certo Cassio che giurava di avere ricevuto in sogno l’ordine di immolare un toro a Giove. Il giorno delle Idi di Marzo a Capua il Campidoglio fu colpito da un fulmine e a Roma la cappella di Apollo Palatino. (Svetonio,Caligulae vita, LVII)........Il nono giorno prima delle calende di febbraio, verso l’ora settima, Caligola si stava recando a pranzo, passando, come di consueto, da una galleria. Proprio quel giorno alcuni giovani nobili che erano stati chiamati dall’Asia per esibirsi sulla scena stavano facendo le prove per lo spettacolo e Caligola si fermò per incoraggiarli e parlare con loro. Allora Cassio Cherea colpì l’imperatore alla nuca col taglio della spada al grido di “Hoc age!”; colpisci. Subito dopo un altro tribuno Cornelio Sabino lo trafisse al petto. Svetonio (Caligulae vita, LVIII).


    - Prof. Lorenzo Tomassini -






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    SCIPIONE: E come dev’essere immonda la tua solitudine!
    CALIGOLA: (esplodendo di rabbia, si getta su di lui, l’afferra per il collo e lo scuote) La solitudine, sì, la solitudine! La conosci tu la solitudine? Sì, quella dei poeti e degli impotenti. La solitudine? Quale solitudine? Ma non lo sai che non si è mai soli? E che dovunque ci portiamo addosso tutto il peso del nostro passato e anche quello del nostro futuro? Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi. E fossero solo loro, poco male. Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato, quelli che non abbiamo amato e ci hanno amato, il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, le puttane e la banda degli dei! (lo lascia e torna al proprio posto) Solo! Ah, se soltanto potessi godere la vera solitudine, non questa mia solitudine infestata di fantasmi, ma quella vera, fatta di silenzio e tremore d’alberi — sentire tutta l’ebbrezza del flusso del mio cuore. (Seduto, colto da una stanchezza improvvisa) La solitudine! Ma no, Scipione. La solitudine risuona di denti che stridono, chiasso, lamenti perduti.

    Caligola, Albert Camus
     
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    "All'età di diciannove anni, con mia personale decisione e a mie spese personali costituii un esercito con il quale restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione".... iniziano così le "Res Gestae divi Augusti", le memorie e il manifesto politico-propagandistico del fondatore dell'Impero romano, incise per disposizione testamentaria su due pilastri di bronzo davanti al suo mausoleo a Roma e lette, per espressa volontà del Senato, in tutte le Province.



    OTTAVIANO AUGUSTO



    È il giugno del 44 a.C., a poco meno di due mesi dall'uccisione del dittatore a vita Cesare per mano dei congiurati capitanati da Bruto e Cassio, quando il giovane Ottavio, il futuro Augusto, si presenta a Roma in veste di figlio adottivo per vendicarlo, raccoglierne l'eredità e realizzare ciò che al padre era costato la morte e che i suoi concittadini consideravano da secoli indigeribile: la monarchia. Quella forma di governo dalla quale i romani si erano liberati alla fine del VI sec. a.C. con l'uccisione del re Tarquinio il Superbo per mano, ironia della sorte, di un Bruto. Un risultato che Ottavio costruisce sul sangue di cinque guerre civili, di tribunali speciali e liste di proscrizione, pazientemente tessuto ("festina lente", affrettati con calma, è il suo motto) attraverso compromessi e repentini cambiamenti di fronte e mascherato da restaurazione della repubblica. Sulle basi della sua indiscussa "auctoritas" (misto di carisma e accentramento del potere nel rispetto formale delle regole repubblicane) nasce e si sviluppa il Principato. Per quarantaquattro anni, dal 30 a.C. al 14 d.C., Roma vive nel suo nome, tributandogli gloria e onori mai visti (basti ricordare i 13 consolati, le 21 acclamazioni imperatorie e i titoli di Augusto e di Padre della patria), e si espande, anche se a prezzo di enormi perdite, sia in Europa che in Asia come mai nello stesso lasso di tempo. Al contempo un "baro", come lo definisce Spinosa, e un uomo di stato al cui bilancio i successori non potevano che impallidire, come sottolinea lo storico tedesco Werner Eck, alla sua morte soppravviveranno il principato, la fama e i titoli. I suoi successori saranno tutti Augusti: a lui si richiamerà esplicitamente nel 535 l'imperatore bizantino Giustiniano quando tenterà di riconquistare all'Impero un'Europa in preda ai barbari, e "Augusto" sarà anche Carlo Magno, il rifondatore dell'impero in Occidente, incoronato nel Natale dell'800 da Papa Leone III.
    Origini da nascondere e segni premonitori. Gaio Ottavio nasce all'alba del 23 settembre del 63 a.C. in una casa sul colle Palatino. È l'anno 691 dalla fondazione di Roma, l'anno del consolato di Cicerone e del fallito assalto al potere di Catilina. Il padre C. Ottavio, il primo della famiglia degli Ottavi ad essere entrato in Senato, vanta origini "equestri", proviene cioè da quella "borghesia" cittadina dedita a svariate attività produttive e capace di raccogliere ingenti patrimoni. È il serbatoio di quegli "novi homines" che Augusto assocerà alla gestione del potere con l'affidamento di compiti delicati e posizioni di indubbio prestigio. Il nonno paterno aveva esercitato il mestiere di banchiere a Velletri, una cittadina a una trentina di chilometri dalla capitale, ed è probabile che le ricchezze da lui accumulate e poi lasciate al figlio, derivassero da prestiti concessi ad alti interessi. Nobile è invece la madre Azia. In quanto figlia di Marco Azio Balbo, senatore legato a Pompeo Magno e di sangue africano, e di Giulia sorella di C. Giulio Cesare, aveva portato in dono al marito una parentela tale da facilitargli la scalata politica: alla carica di pretore nel 60, sarebbe seguita due anni dopo quella di governatore della Macedonia con tanto di un trionfo per la vittoria sui Bessi e sui Traci. Sarà solo la morte, avvenuta nel viaggio di ritorno verso Roma, ad impedirgli l'ascesa al consolato.
    Nel pieno delle guerre civili le origini del futuro imperatore saranno un argomento della propaganda degli avversari che lo accuseranno di aver avuto come bisavolo un liberto cordaiolo, per nonno paterno un incettatore di voti elettorali a pagamento e usuraio e per nonno materno un umile mugnaio africano. Di tutt'altro segno saranno invece, a quanto riporta il biografo Svetonio, le voci circolanti in pieno principato: la famiglia degli Ottavi sarebbe stata ammessa al Senato dal re Tarquinio Prisco e poi elevata al patriziato, la nobiltà per definizione, dal successore Servio Tullio; la madre Azia, addormentatasi al termine di una cerimonia nel tempio di Apollo, sarebbe stata raggiunta e violata da Apollo trasformato in serpente e dopo nove mesi avrebbe partorito Ottavio, il figlio del dio.
    Alla morte del padre, Ottavio ha quattro anni e lascia la madre, sposatasi con il futuro console Lucio Marcio Filippo, per entrare in casa della nonna Giulia dove rimane fino alla morte di quest'ultima nel 51 a.C. Un tragico avvenimento che coincide con la prima uscita pubblica del giovane che pronuncia nel Foro l'orazione funebre, mettendo in risalto le proprie capacità oratorie. Ritorna quindi dalla madre che, insieme al patrigno, ne cura l'educazione improntandola allo studio delle lettere latine e greche. Come tutti i giovani rampolli della nobiltà affronta la retorica, materia indispensabile per la carriera politica, e si diletta nella lettura di poesie, tragedie, opere storiche e geografiche. Nasce una passione che non lo abbandonerà neppure nelle situazioni più critiche. Si racconta infatti che anche in piena battaglia il principe non mancasse di scrivere, leggere e declamare ogni giorno.
    Numerosi avvenimenti, apparsi in forma di "prodigia", avrebbero rivelato fin dall'inizio la sua futura grandezza: nel giorno della sua nascita il padre sarebbe arrivato in ritardo in Senato e un suo collega, il matematico e filosofo Nigidio, saputo il motivo del ritardo avrebbe esclamato che era nato il padrone dell'universo; il piccolo Ottavio, sparito dalla culla, sarebbe riapparso il giorno successivo sulla torre più alta di Velletri con la faccia rivolta al sole sorgente; da poco in grado di parlare e infastidito dal gracidare delle rane, avrebbe ordinato loro con successo di zittirsi; nell'indossare nel Foro la toga virile, nel corso di una cerimonia che a 14 anni segnava simbolicamente l'ingresso in età adulta, la sua toga praetexta, simile a quella dei senatori, sarebbe caduta a suoi piedi, facendo capire che un giorno il senato avrebbe seguito ugual sorte.
    Sulle orme di Cesare. Quando il 10 gennaio del 49 a.C. Cesare, il conquistatore della Gallia, attraversa il Rubicone alla testa della sua legione per affrontare Pompeo e per imporre a Roma la propria volontà, Ottavio ha 13 anni. La madre Azia, su consiglio del padre, lo spedisce prudentemente in una tenuta familiare nei pressi di Velletri. Il giovane ritorna a Roma soltanto all'indomani dell'ingresso vittorioso di Cesare e comincia la sua scalata al potere. Nel 47 viene nominato "praefectus urbi" (una carica straordinaria con il compito di garantire l'ordinaria amministrazione in assenza dei magistrati) e per la prima volta svolge nel Foro funzioni giudiziarie. Entra nel collegio dei pontefici, carica religiosa di forte prestigio, mettendo così piede nella prestigiosa cerchia del patriziato, la nobiltà romana. A sostenerlo è il dittatore Cesare, privo di figli legittimi - Cesarione è il frutto impresentabile della relazione adultera con Cleopatra - e in cerca di una propria legittima discendenza. Nel 46, dopo la vittoria sui pompeiani in Africa, lo vuole con sé per celebrare il trionfo e gli concede gli onori militari. Successivamente Ottavio raggiunge in Spagna il prozio che ha appena liquidato le ultime resistenze pompeiane e, pur non partecipando ad azioni belliche, mette in mostra le proprie capacità politiche partecipando all'amministrazione della giustizia e alla riorganizzazione della provincia. Negli ultimi mesi del 45 ottiene la prestigiosa nomina di "magister equitum" (capo della cavalleria) in vista della campagna militare che Cesare vuole intraprendere in Oriente contro i Parti. Ottavio parte quindi per Apollonia in Macedonia, luogo prescelto per il concentramento della 6 legioni, in compagnia di Vispanio Agrippa, un coetaneo di origine etrusca, che si rivelerà un compagno fedele e valoroso. Il suo apprendistato militare e la prevista spedizione sono, però, bruscamente interrotte il 15 marzo del 44 dall'assassinio di Cesare per mano di Bruto e Cassio con lo scopo di ripristinare la libertas repubblicana e le prerogative senatorie cancellate dal "tiranno". Ma il prozio aveva già regolato la propria successione: nel testamento compilato nel settembre del 45 adottava il nipote e lo designava erede per i tre quarti del proprio patrimonio.
    La notizia dell'assassinio arriva ad Ottavio cinque giorni dopo per mano di un liberto inviatogli dalla madre che, consapevole dei possibili rischi per i parenti del dittatore, gli consiglia di ritornare immediatamente in Italia. Sbarcato nei pressi di Lecce dopo aver attraversato lo Ionio su una piccola imbarcazione, si ferma nel sud della penisola dove ha la possibilità di informarsi sugli sviluppi della situazione politica e di raccogliere intorno a se un esercito utilizzando parte del denaro preparato per la spedizione partica e il tributo annuale della provincia d'Asia, incassato senza alcun diritto. È in questo periodo che consulta a Pozzuoli l'anziano Cicerone, idealmente vicino ai congiurati, ma sempre più deluso dalla piega presa dagli avvenimenti. Infatti a Roma la situazione politica si era tutt'altro che chiarificata.

    Mentre i Bruto e Cassio si erano riparati nel tempio di Giove in Campidoglio, nella seduta del 17 marzo il Senato aveva ratificato un compromesso, proposto dal repubblicano Cicerone e dal console Antonio, già braccio destro di Cesare, in base al quale veniva concessa l'amnistia ai cesaricidi e si riconosceva validità a tutti gli atti del defunto, testamento compreso. Ma ad agitare la scena e a rendere instabile il fragile equilibrio istituzionale c'era la persistente agitazione dei veterani e della plebe romana che chiedono a gran voce la vendetta contro i congiurati. Richieste che non venivano accolte da Antonio che, dopo aver fatto cacciare dalla città Bruto e Cassio all'indomani dei funerali di Cesare, era impegnato a riportare l'ordine e a consolidare la propria posizione di potere.
    Il figlio di Cesare e le guerre civili Quando il 6 maggio entra a Roma per accettare e raccogliere l'eredità di Cesare, Ottavio ha diciotto anni ed è già un politico accorto, capace di valutare con lucidità e freddezza la magmatica situazione politica. Come sottolinea lo storico Augusto Fraschetti si sente ormai "investito come di una missione" per la quale si prepara ad agire con assoluta spregiudicatezza. Come da testamento del padre, distribuisce 300 sesterzi a ciascuno dei membri della plebe cittadina e organizza personalmente i giochi in onore delle vittorie di Cesare, durante i quali la comparsa di una cometa testimonia l'ascensione del padre tra gli dei. Ottavio, divenuto il figlio di un dio, si dimostra capace di costruire il consenso. Fallita una marcia su Roma alla testa dei veterani raccolti in Campania, capisce che per rafforzare la propria posizione è necessaria l'intesa con il senato dominato da una maggioranza repubblicana e, soprattutto, con l'autorevole Cicerone, preoccupato per l'aumento di potere di Antonio che si è fatto assegnare le province della Gallia Cisalpina (Italia settentrionale) e Comata. Per l'anziano senatore la lotta contro una nuova possibile tirannia giustificava un accordo con il figlio del tiranno defunto e con le sue legioni. Viene quindi conclusa nel gennaio del 43, un'alleanza innaturale che permette ad Ottavio di fare il suo ingresso nell'antica assemblea col rango di pretore e di ottenere un "imperium" (comando militare) con l'incarico di muovere guerra insieme ai consoli Irzio e Pansa contro Antonio che assedia a Modena il governatore repubblicano Decimo Bruto. L'operazione si conclude il 21 aprile con la fuga di Antonio verso la Gallia e con la morte sul campo di entrambi i consoli le cui legioni passano ad Ottavio. Quest'ultimo, ora in posizione di forza, decide di marciare nuovamente su Roma e, questa volta, ottiene dal Senato, a soli vent'anni e senza ricoprire alcuna magistratura, la nomina a console. È il 19 agosto e il progetto ciceroniano di salvare la repubblica rivolgendosi al figlio di Cesare si rivela un clamoroso autogol.
    Il nuovo console non perde tempo e distribuisce soldi ai veterani, onorando il testamento del padre, e imprime una sterzata alla propria politica: istituisce un Tribunale straordinario contro i cesaricidi e toglie la delibera senatoria che dichiarava Antonio "nemico dello stato". Sono mosse che facilitano la conciliazione all'interno del "partito" cesariano. Così, mentre Bruto e Cassio si rafforzano in Oriente con il beneplacito di Cicerone, nell'ottobre del 43 Ottavio, Marco Antonio e Emilio Lepido (governatore della Gallia Narbonense e della Spagna Citeriore) si incontrano a Bologna e stringono un'alleanza con lo scopo di vendicare Cesare e di riorganizzare la Repubblica (tresviri rei publicae constituendae). Un patto quinquennale, legittimato da una delibera popolare, che riconosce ai triumviri il potere legislativo e che spartisce tra loro l'occidente romano: ad Antonio vanno le Gallie Cisalpina e Comata, ad Ottavio la Sicilia, la Sardegna e l'Africa, mentre Lepido si vede confermate le sue. La messa fuori legge dei cesaricidi e dei loro fiancheggiatori è la premessa di una spietata azione repressiva: come già fece Silla nella sua restaurazione conservatrice, vengono compilate liste di proscrizione segrete (300 i senatori e 2000 i cavalieri inseriti) e per i proscritti sono previste la privazione di ogni diritto, la confisca dei patrimoni, mentre i sicari che consegnano le loro teste ricevono ricompense in denaro. L'élite senatoria di ispirazione repubblicana è duramente colpita e viene sostituita dai fedeli dei triumviri, mentre uomini delle legioni cesariane entrano nelle classi dirigenti locali. Ma la vittima più illustre del terrore è Cicerone, l'indefesso difensore della repubblica, ucciso sotto i colpi dei sicari di Antonio.
    La morte del vecchio senatore e la successiva sconfitta a Filippi nell'ottobre del 42 delle legioni di Bruto e Cassio, ultime speranze armate dei repubblicani, segnano definitivamente il tramonto della Roma repubblicana. Il merito della vittoria cesariana è di Antonio, mentre Ottavio, inizialmente sconfitto e assente nella battaglia finale, si limita ad inviare a Roma la testa di Bruto per farla rotolare ai piedi della statua del padre.

    La vendetta è finalmente consumata e ai vincitori non resta che dividersi l'intera posta: Antonio, il vero trionfatore, si prende l'Oriente, Ottavio le province spagnole, mentre Lepido viene messo in disparte.
    Ad Ottavio spetta però il delicato compito della assegnazione delle terre ai veterani e ai legionari ai quali, prima di Filippi, era stato assicurato il congedo. Si tratta di una operazione necessaria per conservare la loro fedeltà e, al contempo, esplosiva perché prevede il ricorso ad espropri (tra i colpiti ci sarà il poeta Virgilio). Le città interessate all'operazione sono diciotto; in alcune si assiste alla espulsione dell'intera popolazione mentre altre devono cedere una parte del proprio territorio. Per tutta la penisola sale il risentimento degli espropriati che trovano nel console Lucio Antonio, fratello del triumviro, il proprio difensore ed ottengono l'appoggio della maggioranza del senato. La risposta di Ottavio è decisa e tremenda. All'inizio del 40, dopo sei mesi di assedio, sconfigge a Perugia i rivoltosi e, lasciato libero Lucio Antonio, procede alla vendetta: saccheggia la città, massacra numerosi cittadini e il 15 marzo, anniversario della morte di Cesare, giustizia ai piedi di una statua del padre ben 300 senatori. L'Italia, presidiata da legionari e veterani gratificati ("il presidio italiano della rivoluzione" come li definisce Santo Mazzarino), è nelle sue mani e per gli oppositori non c'è altra via che la fuga. Alcuni si dirigono verso il repubblicano Sesto Pompeo padrone con la sua flotta del mediterraneo occidentale e quindi in grado di impedire i rifornimenti granari a Roma. Ottavio deve ora ostacolare un possibile accordo tra questi e un Antonio sempre più preoccupato per la situazione in Italia. Agisce con la solita lucidità lungo due direzioni: rinnova nel 40 a Brindisi l'alleanza con Antonio, provvedendo ad una nuova spartizione territoriale (l'occidente ad Ottavio, l'oriente ad Antonio e l'Africa a Lepido) e affidandogli in moglie la sorella Ottavia; sposa Scribonia, figlia del suocero di Sesto Pompeo, e conclude con quest'ultimo nel 39 a Miseno un trattato, accordandogli il controllo di Sardegna, Corsica, Sicilia e Peloponneso, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti all'Urbe.
    La lotta finale. Nella quarta egloga delle Georgiche, Virgilio canta l'inizio di una nuova epoca di pace in cui spariranno i delitti, ma la realtà corrisponde solo per breve tempo a questa visione. Se Antonio, sempre più legato alla regina egiziana Cleopatra, è lontano in Oriente e medita la spedizione contro il regno dei Parti, Sesto Pompeo è, invece, un alleato scomodo, potente e troppo vicino. Ottavio, conscio della precarietà dell'accomodamento, prepara il terreno per l'ennesima resa dei conti. Nel 38 ripudia Scribonia per unirsi in matrimonio con Livia che divorzia consensualmente dal marito Tiberio Claudio Nerone, già vicino ai cesaricidi e membro della gens Claudia, una delle più nobili famiglie di Roma. Con questa mossa rafforza la sua posizione nell'alto patriziato e tra i conservatori. Affida ad Agrippa la preparazione della propria flotta e nel settembre del 37 a Taranto rinnova per altri 5 anni il triumvirato. Nell'occasione conclude un accordo militare con Antonio, dal quale ottiene 120 navi in cambio dell'invio di venti legioni per la spedizione contro i Parti. Così rafforzato si lancia contro Sesto Pompeo e, grazie alla capacità dell'ammiraglio Agrippa, lo sconfigge nelle battaglie navali di Milazzo (agosto 36) e Nauloco (settembre 36) nel nord della Sicilia. Ottavio, invece, all'inizio della battaglia riesce persino a cedere ad un colpo di sonno. La vittoria nella "guerra piratica" - così la presenta nelle "Res gestae" per togliere ogni legittimazione all'avversario - gli consente di tornare in trionfo a Roma e di ottenere la "sacrosanctitas", ovvero l'inviolabilità della persona riconosciuto ai Tribuni della plebe. Da questo momento senato e popolo gli garantiscono particolare protezione. Lepido, ormai messo da parte, conserverà fino alla sua morte la carica di Pontefice massimo.
    Mentre Ottavio si rafforza a Roma e consente agli "homines novi" al lui vicini l'accesso alle magistrature e al senato, Marco Antonio viene sconfitto dai Parti in una guerra che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto dargli immensa fama (Cesare aveva nutrito lo stesso progetto). E , per di più, delle truppe promesse da Ottavio non era arrivata che una minima parte. Tra i due si respira ormai una atmosfera da "guerra fredda" che Ottavio, maestro nella propaganda, riesce a capitalizzare con successo. Accusa il collega di essersi gettato tra le braccia di una barbara, Cleopatra, preferendola alla moglie romana e di voler svendere grandezza e gloria di Roma. E la prova del tradimento è il testamento di Antonio, sottratto da Ottavio alle Vestali che lo custodivano, nel quale dichiara di voler essere sepolto ad Alessandria d'Egitto e di lasciare i regni vassalli a Cleopatra e ai suoi figli (tra questi c'è Cesarione figlio della regina e di Cesare). Ottavio astutamente, quasi a sottolineare il suo indissolubile legame con Roma, inizia la costruzione del proprio mausoleo in Campo Marzio.

    Il senato, abbandonato da 300 componenti accorsi in Oriente e, quindi, nelle mani di Ottavio, priva Antonio di tutti i suoi poteri, lo retrocede a nemico pubblico e dichiara guerra a Cleopatra. È lo scontro decisivo e Ottavio lo conduce sulla base del giuramento di tutti i cittadini romani ("consensus universorum" nelle Res gestae) che gli affidano il ruolo di "dux", comandante in capo dell'esercito. Il 2 settembre del 31 ad Azio la sua flotta mette in fuga Antonio e Cleopatra. La battaglia decisiva si svolge il 1 agosto del 30 ad Alessandria d'Egitto e si conclude con la vittoria di Ottavio e con il suicidio dei suoi nemici. Antonio si trafigge con la propria spada, mentre Cleopatra, per sfuggire all'ingrato ruolo di trofeo personale del vincitore, preferisce abbandonarsi al morso velenoso di un serpente. Invano Ottavio fa arrivare degli psilli (tribù africana che si pensava capace di incantare i serpenti o di guarire i loro morsi) per succhiarle il veleno dalle ferite.
    Dopo quattordici anni di guerre, Ottavio non ha più avversari e Roma, cui porta in dote il ricco Egitto, è ai suoi piedi. Per l'Urbe è l'inizio di una nuova era che viene accolta da tre giorni di festa e trionfo, dalla distribuzione del bottino egiziano e dalla chiusura del tempio di Giano Quirino, simbolica testimonianza della fine delle guerre. Il figlio di Cesare è ormai l'uomo della pace e con la dolcezza di questa, per usare un'espressione di Tacito, conquista il consenso di nuovi e vecchi proprietari desiderosi di tranquillità dopo una interminabile serie di sconvolgimenti.
    La monarchia mascherata da repubblica. Per il vincitore è giunto il momento di consolidare dal punto di vista istituzionale il proprio potere. È una operazione delicata, potenzialmente fatale e oggetto di incessanti discussioni nella cerchia dei fedelissimi. Lo storico greco Cassio Dione (III sec. d.C.) ce ne riporta una (si tratta con ogni probabilità di una invenzione) in cui Agrippa consiglia caldamente il ritorno alla tradizionale repubblica, mentre il ricco e colto Mecenate spinge per una aperta costituzione monarchica. Ottavio, che ha ben presente quanto è successo al padre accusato di instaurare un regno, è consapevole che un regime formalmente monarchico è incompatibile con la mentalità romana, e con l'ethos della classe dirigente abituata da cinquecento anni alla repubblica e sospettosa di chi, in quel quadro, concentrava troppo potere. Ancora una volta l'ex triumviro mostra le sue raffinate capacità politiche decidendo di fondare il proprio dominio nella restaurazione "formale" della repubblica, non concentrando su di se più cariche magistratuali, ma limitandosi ad ottenerne solo la sostanza. È una mossa meditata, dietro la quale c'è la consapevolezza di un potere personale ormai vasto: carica di console, potere di creare nuovi patrizi, vaste clientele e seguaci all'interno delle istituzioni, legionari e veterani fedeli ed enormi ricchezze, cui si sono aggiunti onori come l'inclusione del nome in tutte le preghiere dei sacerdoti dello stato.
    Il giorno scelto per la "messa in scena" è il 13 gennaio del 27 a.C.; dopo aver già abrogato tutte le misure adottate nel periodo triumvirale, si presenta di fronte ai senatori e dichiara di restituire al senato e al popolo romano tutte le loro prerogative: "Rifiuto integralmente il potere - questa la ricostruzione di Cassio Dione - e vi restituisco letteralmente tutto, gli eserciti, le leggi e le province, non solo ciò che mi avete affidato voi, ma anche quello che in seguito vi ho fatto guadagnare, affinché siano i fatti stessi a provarvi che non ho mai ambito alla signoria, ma che ho voluto realmente vendicare il sanguinoso assassinio di mio padre e liberare la città da grandi e ripetuti soprusi". E il senato risponde decretandogli altri onori e conferendogli nuove prerogative. Nella sede dell'antica istituzione viene posto uno scudo sul quale sono riportate le virtù - coraggio, clemenza, giustizia e pietà - che vengono riconosciute ad Ottavio e la porta di casa sua viene ornata con una "corona civica", concessa per aver salvato la vita dei cittadini romani. Ma sono altre due le decisioni senatorie di maggior peso: attribuzione di un mandato decennale sulle province di Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto con il compito di riportarvi ordine e, infine, conferimento del titolo e nome di "Augusto". Nel primo caso ottiene il controllo di ricchi e prestigiosi territori e, quindi, delle molte legioni ivi stanziate, mentre nel secondo un riconoscimento di superiorità e uno status di natura quasi religiosa. In verità l'attribuzione del nuovo nome - d'ora in poi sarà Imperator Caesar Augustus Divi filius - non era una iniziativa spontanea, ma studiata a tavolino e presentata poi all'assemblea dal senatore compiacente Munazio Planco. In precedenza era stato scartato per opportunità il nome "Romolo" perché avrebbe ricordato l'odiata monarchia. Per la stessa ragione, con un gesto plateale, rifiuterà la dittatura quando ad offrirgliela saranno i cittadini colpiti dalla carestia. In quell'occasione, con un gesto plateale, arriverà a strappare pubblicamente la veste del dittatore.

    La rivoluzione augustea partorisce un regime ambiguo dalla connotazione autocratica ma mai dichiaratamente monarchico. A chiarire ogni dubbio è Augusto in persona: "da allora in poi fui superiore a tutti in autorità, sebbene non avessi maggior potere di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna magistratura". Nel rispetto formale della tradizione si è assicurato il primato, è ormai il "princeps". Nelle sue memorie tace però su altri fondamentali poteri, non legati a cariche ufficiali, che gli vengono riconosciuti. Nel 23 a.C. si dimette dal consolato, ricoperto senza interruzioni dal 31, e riceve un "imperium proconsolare maius et infinitum", vale a dire il potere di intervento sulla gestione di tutte le province dell'Impero, e la "tribunicia potestas", cioè i diritti di un tribuno della plebe: convocare il senato, far votare plebisciti con valore di legge e usare il diritto di veto. Ed è sull'ultima, sulla sua capacità di incidenza politica, che fonda maggiormente il suo dominio. Santo Mazzarino parla, a questo proposito, di principato come "epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico", tanto che i principi successivi dateranno il loro regno proprio a partire dall'assunzione di questa.
    Il processo di accentramento del potere riceve negli anni successivi la sanzione finale. Nel 12 a.C., alla morte dell'ex triumviro Lepido, viene eletto dai comizi popolari, affollati come non mai, Pontefice massimo, aggiungendo così un carattere sacrale al proprio dominio; è lui l'intermediario fra gli dei e Roma. Trascorrono dieci anni e gli viene attribuito il titolo di "Padre della Patria"; titolo che Augusto rifiuta una prima volta quando gli viene tributato ad Azio da una delegazione della plebe, ma che accetta, con forte commozione, dopo che in senato Valerio Messala - già alleato di Crasso - lo invoca per bocca di tutti: "Le mie parole siano un presagio di bene e di felicità per te e per la tua famiglia, Cesare Augusto! Così noi crediamo di invocare eterna prosperità e gioia perenne per lo Stato: il Senato con il consenso del popolo romano, ti saluta padre della patria". Nessuno può ormai oscurarne la fama; i successi di Roma sono successi di Augusto. Dal 19 a.C. infatti nessun generale vittorioso, se non i figli del principe, poteva più celebrare in città il proprio trionfo, ma doveva accontentarsi di una cerimonia più discreta - gli "ornamenta triumphalia" - e di una statua di bronzo che andava ad arricchire il Foro di Augusto.
    Con la decisione del 27 a.C. Ottavio aveva restituito al senato prerogative e poteri, ripristinando il normale funzionamento dell'agone politico romano e la rincorsa elettorale alle magistrature. Ma l'assemblea aveva subito profondi cambiamenti quali la scomparsa nelle guerre civili di molte delle antiche famiglie e l'immissione di molti seguaci dei triumviri prima e di Augusto poi, espressione di popolazioni italiche ancora lontane dal potere e di province come la Gallia e la Spagna. Ingrossatosi fino a 1000 componenti - "folla indecorosa e senza prestigio" sottolinea Svetonio -, il senato subisce nel 18 a.C. un drastico processo di selezione che lo riporta a quota 600. Falliti i meccanismi di autoselezione affidati ai senatori stessi, l'operazione viene condotta personalmente da Augusto e Agrippa che possono inoltre sbarazzarsi degli ultimi oppositori. Svetonio racconta come il principe si presentasse in quei giorni alle sedute protetto da una corazza, con un pugnale alla cintura e circondato da una guardia del corpo composta da dieci dei senatori più robusti. D'ora in poi chi vuole intraprendere la carriera senatoria deve averne la dignità e, parte di questa, è misurata in sesterzi, esattamente nel requisito minimo di un milione. La distinzione con la classe dei cavalieri è netta (questi devono avere almeno un patrimonio di 400.000 sesterzi) e l'appartenenza all'ordine senatorio diventa una questione ereditaria: ai senatori e ai discendenti viene proibito di sposarsi con liberti o con persone dalle professioni "indegne"e la striscia di porpora - il latis clavus - ne diventa il simbolo esteriore. Contemporaneamente alla revisione Augusto si preoccupa di garantire la persistenza nel tempo dei ceti dirigenti. Con la "lex Iulia de maritandis ordinibus" cerca di indurre i cittadini più facoltosi, senatori e cavalieri, ad unirsi in matrimonio e di procreare più figli ponendo, in caso contrario, restrizioni in materia di eredità. Ad essere premiate sono le famiglie numerose cui sono assicurati percorsi privilegiati nella carriera militare e in quella politica.
    Il senato cessa di essere un organo di indipendente iniziativa politica. Augusto può controllare il processo elettorale imponendo alcuni candidati come propri e nel 2 d.C. istituisce due commissioni, composte da senatori e cavalieri, con il compito di operare una scelta preventiva tra i candidati alle magistrature. La possibilità di discussione è limitata dalla presenza di una commissione in parte rinnovabile - formata da Augusto, Agrippa, 1 console, 1 pretore, 1 tribuno, 1 edile, 1 questore e 15 senatori - nella quale vengono preliminarmente discusse le più importanti questioni politiche.
    L'Egitto, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea
    Tutto questo non preclude una forte partecipazione del senato alla gestione dell'impero. Da questo, oltre che dai cavalieri, sono tratte infatti le risorse per i più importanti settori amministrativi, sia per quelli tradizionali che per quelli introdotti dall'opera razionalizzatrice di Augusto.
    Il governo di Roma e dell'impero. Con l'attribuzione ad Augusto nel 27 a.C. della responsabilità diretta su alcune importanti province, viene stabilita la modalità di gestione dell'impero e delle sue articolazioni periferiche. Da quel momento si delinea la distinzione tra "province del popolo" e "province del Principe". Mentre le prime sono amministrate da senatori con rango proconsolare estratti a sorte dal senato e con mandato annuale, le seconde, quelle in cui staziona la gran parte delle legioni, sono amministrate da senatori personalmente nominati dal Principe, detti "Legati Augusti propraetore", con un mandato generalmente triennale. Un'unica e importante eccezione è costituita dell'Egitto, la conquista personale di Augusto. Questa, la provincia forse più ricca e popolosa dell'impero, è governata da un prefetto di rango equestre di nomina augustea e i senatori non possono neppure accedervi senza l'assenso del principe. Le legioni ivi stanziate sono anch'esse comandate da legati di rango equestre nominati dal principe. Si tratta di una soluzione legata alla "eccezionalità strategica, economica e politica di un paese difficile da conquistare e facile da difendere, che era contemporaneamente il granaio di Roma" (Adam Ziolkowski). Nelle proprie province Augusto inviava dei "procuratori" di rango equestre con compiti legati al controllo della riscossione dei tributi e responsabili esclusivamente verso di lui. Ma l'influenza di Augusto si fa sentire anche sulle province del popolo: secondo la ricostruzione di Cassio Dione, al momento dell'insediamento di tutti i governatori, l'imperatore invia delle direttive, dette "mandata", nelle quali sono elencate precise istruzioni da seguire.
    Per quanto riguarda l'amministrazione di Roma, Augusto non apporta alcuno stravolgimento di competenze, ma avvia una riorganizzazione, che si prolunga per tutta la durata del suo dominio, basata su criteri di razionalizzazione che rispondono ai problemi di una città con più di mezzo milione di abitanti ai quali occorre garantire approvvigionamenti e sicurezza. E anche in questo caso suddivide le responsabilità tra senatori e cavalieri, provvedendo direttamente alla nomina degli incaricati. Nell'8 d.C., in periodo di carestia e dopo soluzioni solamente contingenti e che avevano visto il principe impegnato in prima persona, viene nominato un "praefectus annonae" di rango equestre stabilmente responsabile dell'approvvigionamento alimentare. Sempre di rango equestre è il comandante dei vigili del fuoco, organizzati in sette reparti da 500-1000 componenti ognuno, con il compito, a partire dal 6 d.C., di tenere sotto controllo gli incendi facili a divampare nei vicoli romani. Ai senatori sono invece affidati l'approvvigionamento idrico della città, la manutenzione degli edifici pubblici e, soprattutto, il ruolo di "praefectus urbi". Quest'ultimo, che in precedenza sostituiva i magistrati assenti dalla città, si occupa stabilmente della sicurezza pubblica e della repressione della criminalità, avendo a disposizioni tre coorti di 500 uomini ciascuna. A due cavalieri è affidato il delicato e importante ruolo, soprattutto per le vicende politiche successive, di "Prefetto del pretorio", una guardia personale del principe formata da nove coorti con uno stipendio che Augusto aveva subito raddoppiato rispetto a quello dei semplici legionari. All'esercito, alle legioni romane, il puntello armato del proprio potere, il principe rivolge una attenzione particolare e non si ritrae dal sottolinearlo: "Stanziai colonie di soldati in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due province di Spagna, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. L'Italia ha poi vent'otto colonie stanziate per mia decisione, le quali durante la mia vita furono intensamente popolate e prospere". Le guerre civili avevano dimostrato come il controllo e la fedeltà delle truppe fossero indispensabili per l'ascesa al potere e Ottavio, fin dalla sua comparsa sul palcoscenico della politica romana, l'aveva ben compreso, non esitando a mettere mano al proprio patrimonio per elargire premi e acquistare terreni per la colonizzazione. Dopo Azio, erano state sciolte molte delle 60 unità impegnate su entrambi i fronti, riducendole a 26-28 per un numero di circa 170.000 effettivi, cui si dovevano, però, aggiungere le unità degli "auxilia", reclutate tra i popoli sottomessi, e quelle messe a disposizione dagli alleati. Si trattava di un organismo che succhiava molte delle risorse finanziare romane e che pesava dal punto di vista fiscale, soprattutto, sulle province. La situazione si complica nel momento in cui Augusto decide di pagare la pensione ai veterani non più con l'assegnazione di terreni ma con pagamenti in denaro. Non potendo aggravare il peso sostenuto dalle province, chiede un sacrificio ai romani: nel 6 d.C introduce la "vicesima hereditatum", una tassa del cinque per cento che colpisce le eredità e i lasciti dei cittadini romani. Le risorse ottenute, a cui si aggiungono i versamenti personali del principe, vanno ad alimentare l"aerarium militare", una cassa per l'esercito amministrata da tre prefetti di rango senatorio nominati da Augusto.
    La pace di Augusto. La fama di Augusto non è certamente legata a spiccate doti militari. Augusto non aveva certamente spiccate doti militari. Il generale doveva i suoi successi ad Antonio e, soprattutto, al fedele Agrippa
    Lui, il generale acclamato vittorioso per ben ventuno volte, nelle guerre civili doveva i suoi successi ad Antonio e, soprattutto, al fedele Agrippa. Ma è nel suo nome che Roma, come ricorda Eck, acquisisce "un territorio maggiore di quanto non avesse guadagnato in passato in un lasso di tempo paragonabile": il nord della Spagna, l'arco alpino con la Rezia e il Norico, l'Illirico e la Pannonia e anche l'intera regione a nord dell'Acaia e della Macedonia, fino al Danubio; in oriente divengono province una parte del Ponto, la Paflagonia, la Galizia, la Cilicia e la Giudea. Alle conquiste si aggiungono, come tiene a ricordare Augusto, una serie di "prime volte" come le visite da lui ricevute di ambasciatori indiani, e le spedizioni in terre lontane come il regno etiopico e quello dei Sabei nella penisola arabica sud-orientale.
    Sono questi i risultati della "Pax Augustea", di un'epoca di pace da interpretare in una prospettiva esclusivamente interna all'impero e che viene simbolicamente rappresentata, oltre che con al chiusura del Tempio di Giano Quirino, con l'erezione nel 13 d.C. dell'ara Pacis Augustae (altare della pace augustea): le uniche guerre finite sono quelle civili. Non tutto è il risultato di campagne militari, ma anche dell'uso sapiente dell'influenza e del potere romano, capace di sfruttare discordie e divisioni, e di ponderate azioni diplomatiche. E, fatta eccezione per la Spagna dal 26 a.C., a condurre le spedizioni non è Augusto, ma Agrippa ed i figliastri Tiberio e Druso (figli di primo letto della moglie Livia).
    In oriente c'era da rimarginare una ferita che da troppo indispettiva l'orgoglio romano: le sconfitte inferte a Crasso nel 53 a.C. e ad Antonio nel 36 a.C. dai Parti che tenevano nelle loro mani le insegne delle legioni sconfitte. Augusto, per riparare l'onta, preferisce all'azione armata in un territorio lontano e contro un nemico potente la trattativa diplomatica, tenendo comunque all'erta l'esercito stanziato in Siria. A condurre in porto la trattativa è Druso che, nel 20 a.C., riesce ad ottenere la restituzione delle insegne. Per il principe è un'ulteriore occasione di propaganda: il senato e il popolo fanno erigere a Roma un arco sul quale, oltre ad Augusto sul carro trionfale, sono rappresentate le insegne. Le operazioni militari vere e proprie si svolgono in Europa, sui fronti renano e danubiano. Dopo la conquista di Rezia e Norico, che hanno creato un cordone protettivo intorno all'arco alpino, partono nel 18 a.C. le offensive di Druso contro i germani a destra del Reno e di Tiberio contro le popolazioni pannoniche. Quest'ultima campagna viene portata a termine quattro anni dopo, mentre nell'anno precedente le legioni romane sono giunte all'Elba. L'anno seguente Druso muore a seguito di un incidente a cavallo e al comando gli succede il fratello. Ma il dominio romano è messo a dura prova dalle ribellioni delle popolazioni sottomesse. Nel 5 d.C., mentre si prepara la spedizione contro il regno boemo di Maroboduo, scoppia la rivolta in Pannonia. Il pericolo è grande, Augusto fa sorvegliare la capitale, recluta schiavi frettolosamente liberati e procede a leve forzose. La situazione viene portata a normalità nel 9 d.C. da Tiberio che, a prezzo di enormi perdite, soffoca la rivolta. Passa poco e a ribellarsi sono i germani ad est del Reno agli ordini di Arminio, un cherusco che aveva servito nell'esercito romano come prefetto degli auxilia. I germani riescono ad annientare nella selva di Teotoburgo le tre legioni comandate da Quintilio Varo. Per Roma, per le sue stremate risorse finanziarie ed umane, è un duro colpo e Augusto stesso è tramortito. Racconta Svetonio come si mostrasse costernato, con barba e capelli lunghi, e sbattesse la testa contro le porte esclamando "Quintilio Varo, restituiscimi le mie legioni". Nonostante le successive operazioni di Tiberio e Germanico, figlio di Druso, il dominio romano al di là del Reno resta un progetto incompiuto. E le sue acque segneranno, in definitiva, la frontiera di Roma sul "barbaricum".
    Il funerale e l'ingresso tra gli dei. Augusto muore a Nola, nella stessa casa in cui era spirato il padre, il 21 agosto del 14 d.C., lo stesso giorno del suo primo consolato, all'età di quasi 76 anni e dopo aver governato per 44 anni. A vegliare su di lui ci sono la moglie Livia, che ha fatto isolare e circondare la casa, e il figlio Tiberio. Prima di morire si limita a chiedere se "avesse ben recitato fino in fondo la farsa della vita". Il suo corpo viene portato via da Nola dai notabili di ogni città attraversata fino nei pressi di Roma dove viene preso dai cavalieri che lo portano in città col favore della notte. Il giorno successivo si riunisce il senato: vengono letti il testamento, nel quale designa suoi eredi la moglie e il figlio, le indicazioni lasciate per il funerale, il resoconto di tutte le sue imprese, le relazioni sull'esercito e sulla situazione finanziaria e alcune raccomandazioni rivolte a Tiberio. Tra queste c'è quella di non proseguire nelle conquiste perché l'impero, già ampio, sarebbe stato difficilmente controllabile.
    Il giorno del funerale i soldati vengono spiegati in servizio d'ordine e il feretro, fatto d'avorio e d'oro, viene trasportato dal Palatino al Campo Marzo dai magistrati designati per l'anno successivo. Con le immagini del defunto sfilano anche quelle dei suoi avi e dei grandi della storia di Roma, che in questo modo, sembrava congiungersi nella persona del principe. Dopo il discorso rievocativo di Tiberio, che ricorda come Augusto avesse come un buon medico restituito guarito il corpo ferito dello stato, i magistrati sollevano il feretro e lo conducono attraverso la porta trionfale e la salma viene deposta sulla pira dove accorrono i sacerdoti, i cavalieri e la fanteria di guarnigione. Tutta Roma è presente. I centurioni, come da decisione del senato, prendono le fiaccole e accendono la pira. In quel momento un'aquila si stacca dalla pira e si alza in volo: è il segno che l'anima di Augusto è stata accolta in cielo. Come Cesare, anche lui è entrato nel consesso degli dei e a testimoniarlo c'è l'ex pretore Numerio Attico che giura di averlo visto salire in cielo e, per questo, riceve un premio in denaro da Livia. Al suo culto vengono dedicati dei riti sacri e dei sacerdoti, tra i quali c'è la stessa moglie.
    Ma durante il funerale, come tiene a sottolineare un critico Tacito, non tutti si mostrano concordi sull'operato del primo imperatore. Accanto ai tanti, sinceri od opportunisti, incensatori, c'è chi si meraviglia di come "un vecchio principe, con alle spalle un lungo potere, dopo aver lasciato i mezzi di dominio sullo stato già collaudati anche per gli eredi, si trovava nella condizione di essere protetto dall'aiuto dei soldati, perché la sua sepoltura avvenisse senza incidenti", e chi sostiene che, non l'amore per il padre e la cura per lo stato lo avevano spinto all'azione, ma la sete di dominio e di denaro. Ma, ormai, il principato è diventato normalità, in questo quadro è nata e vissuta una intera generazione, e quasi nessuno di quelli che avevano visto l'antica repubblica era ancora in vita. Il potere passa, senza scosse e nel segno di una monarchia ereditaria, a Tiberio, il figlio adottato nel 4 d.C., e che nel 13 d.C aveva ottenuto, grazie ad una legge popolare, un "imperium" parificato a quello di Augusto.
    (storiain)




    La figura di Augusto, passaggio dalla repubblica al principato

    di Alissa Peron



    Il periodo tra la fine dell’epoca repubblicana e l’inizio di quella imperiale è uno dei meglio documentati e su cui abbiamo più informazioni: le nostre fonti su Cesare sono due storici greci di rilievo, Appiano e Cassio Dione, e sulla crisi della repubblica abbiamo fino all’anno 43 l’epistolario di Cicerone; su Augusto abbiamo i frammenti della prima autobiografia e le res gestae, una delle più famose iscrizioni del mondo antico. Dunque abbonda il materiale su questo periodo della storia antica, e non mancano biografie anche più tarde, per Cesare di Plutarco e Svetonio, di Augusto solo di Svetonio. La storia romana tra il 90 e il 30 fu sconvolta da cinque guerre civili: guerra sociale, Mario e Silla, Pompeo e Cesare, cesariani e cesaricidi, Antonio e Ottaviano. Per i 44 anni successivi, pur essendoci ancora guerre di conquista, nell’impero regnò la pace sotto il governo di un princeps, Augusto. Il regno di Augusto fu dunque tanto lungo che al suo finire pochi nell’impero avevano sperimentato la repubblica, ciò che era venuto prima. L’ascesa di Augusto fu dunque precoce, a differenza di quella di Cesare, che si presenta sulla scena politica nel 63 a 37 anni come pontefice massimo, già maturo per i parametri della nobilitas romana. Gaio Ottavio nasce nel 63 figlio di un cavaliere di Velletri, dunque di estrazione sociale inferiore rispetto a Cesare, che era un patrizio romano; la madre Azia era imparentata con Cesare, il quale non aveva eredi legittimi, aveva il figlio di Cleopatra che riconobbe nonostante il parere contrario degli amici e gli fece portare il nome di Cesare; fu proprio questo nome a condannarlo a morte, poiché Gaio Ottavio sosteneva che solo a lui dovesse essere concesso di portare quel nome. Dunque Cesare adottò Gaio Ottavio e gli trasmise il suo potere, essendo egli il parente maschio giovane a lui più vicino; a differenza di Cesare egli non era un talento militare. Nell’anno in cui fu ucciso, Cesare avrebbe dovuto regolare i conti con i Parti, i cui rapporti con Roma erano tesi dopo l’iniziativa di Crasso a Carre nel 53 a. C. Gaio Ottavio che si trovava ad Apollonia decise di tornare in Italia e raccogliere la sfida, e prima di trasferirsi a Carre omaggiò Cicerone a Roma e giurò fedeltà al Senato e alle istituzioni repubblicane. A Roma chiese al pretore che venisse convalidato il testamento di Cesare che lo adottava, e da ciò egli si chiamò Gaio Giulio Cesare Ottaviano, diventando l’’erede riconosciuto e unico, operazione possibile grazie al diritto romano privato. Egli si presenta così come il nuovo Cesare agli amici Caesaris, tra i quali vi era Gaio Mazio, uno dei maggiori banchieri di Roma che gli offrì così finanziamenti illimitati; si presentò ai soldati delle legioni come nuovo Cesare e concesse loro donativi in denaro. Ottaviano aveva dalla sua parte Agrippa, uno dei maggiori talenti militari di Roma, che contribuiva a guidare il suo esercito. La guerra di Modena del 43 fu tra eserciti della Repubblica tra cui quello di Ottaviano e l’esercito di Antonio; quest’ultimo fu respinto da Modena, e Antonio e Ottaviano si accordarono indotti dalle proprie truppe, poiché soldati di Cesare si rifiutavano di combattere contro altri soldati di Cesare, e cercavano di evitare dissidi nella fazione cesariana. Si ebbe così il II triunvirato, formato da Ottaviano Antonio e Lepido, che era ratificato come magistratura a differenza del primo, puro accordo privato; fu scelto Lepido perché sincero collaboratore di Cesare e nuovo pontefice massimo dopo la sua morte. Nello stesso 43 i cesariani marciarono su Roma e se ne impadronirono, eliminando a forza gli avversari politici di ogni estrazione sociale compreso Cicerone; scomparvero intere famiglie della nobilitas, e Ottaviano non fu mosso da odio ma da motivazioni personali di pietas, egli vendicava la morte del padre adottivo eliminando i responsabili, atto non consentito ma obbligato per la mentalità romana. Si formò un’opposizione in Oriente intorno a Bruto e Cassio, e l’atto finale della quarta guerra civile fu la battaglia di Filippi del 42 a. C., in cui dopo una vittoria soprattutto di Antonio Bruto e Cassio si tolsero la vita. Ma da Filippi anche il governo repubblicano cessò di esistere; emerse la capacità militare e la tenacia di Antonio, che sottovalutò Ottaviano e pensò di potersi impadronire del potere; inviò dunque Ottaviano in Italia con il compito di confiscare terre da donare ai veterani, operazione socialmente brutale, mentre lui restava in Oriente per condurre la politica imperiale. La confisca delle terre provocò la grande rivolta di Perugia del 41, che Ottaviano represse nel sangue con fermezza; con la pace di Taranto fu nuovamente stabilito l’accordo tra Antonio e Ottaviano, sancito dal matrimonio di Antonio con la sorella di Ottaviano, e i patti erano che Antonio si occupasse dell’Oriente, più ricco e che secondo lui gli avrebbe fruttato gloria contro i Parti, e Ottaviano dell’Occidente, costituito da province barbariche. Ottaviano dimostrò intelligenza politica poiché teneva conto dell’opinione pubblica non romana ma italica, e mirava a quella che Cesare chiamava auctoritas Italiae e lui chiamò consensus totius Italiae. Gli rimaneva da affrontare Sesto Pompeo figlio di Pompeo che era diventato padrone della Sicilia, contro cui fece una spedizione navale e fu sconfitto; riarmò la flotta e ne affidò il comando ad Agrippa, e nel 36 egli sconfisse Sesto e consegnò la Sicilia ad Ottaviano. Per guadagnare gloria anch’egli contro i barbari combattè tra 34 e 33 nell’Illirico, e anche in questo caso grazie ad Agrippa i barbari furono sconfitti. Intanto Antonio nella durissima campagna militare contro i parti nel 35 arrivò al mar Caspio e fece entrare l’Armenia nella sfera di influenza romana, pur senza renderla provincia. Ottaviano si inserì nella nobilitas romana con fatica per la sua origine non patrizia, ed ancora nella battaglia di Azio alcuni nobili romani si schierarono con Antonio poiché era della loro stessa estrazione sociale. Nel 38 sposò Livia, imparentata con la famiglia dei Claudi, ed in questo modo egli si avvicinò parzialmente alla nobiltà. Col ritorno di Antonio dall’Oriente iniziò la quinta guerra civile, che Ottaviano presentò come un bellum externum, contro l’egitto di Cleopatra presso cui vi erano traditori romani come Antonio. Ad Azio nel 31 la flotta di Antonio e Cleopatra fu sbaragliata da Agrippa, che sconfisse Antonio stesso nell’ultima battaglia di cavalleria. In seguito Ottaviano procedette alla fondazione del principato, che chiamò rem publicam restituere; il Tedesco Momsen insistette sul carattere diarchico tra Ottaviano e il Senato, sottolineando la differenza tra lui e Cesare, che durante la dittatura non riconosceva al Senato alcun ruolo. Da un lato Ottaviano essendo cavaliere esitava a togliere autorità ad un Senato di cui la sua famiglia non faceva parte, dall’altro riteneva che una conciliazione con il Senato fosse un provvedimento politico più saggio e che non metteva in pericolo la sua vita come era avvenuto per quella di Cesare. Gli storiografi del Novecento, tra cui Syme e Gabba, hanno invece insistito sul carattere monarchico del principato augusteo; l’accordo con il Senato era solo formale, ad esempio Senato e princeps si erano divisi i candidati a governatori delle province, ma il senato eleggeva solo persone gradite ad Ottaviano. Anche i comizi,che ancora votavano, apparivano svuotati dei loro contenuti. Il princeps organizzò il potere tra 27 e 23 e fece in modo di controllare la politica interna grazie alla tribunicia potestas: poteva presentare leggi, aveva diritto di veto, poteva convocare senato e comizi. Ottenne poi l’imperium proconsulare che gli consentiva di controllare esercito e politica estera. Gli mancava l’autorità sacrale importante per l’opinione pubblica romana e italica; pontefice massimo era Lepido, dunque non poteva aspirare a quella carica prima della sua morte poichè era vitalizia.
    Nel 27 su proposta di Lucio Munazio Planco, un amico di Cesare, il Senato conferì ad Ottaviano il nome di Augusto, ed egli diventò imperator Caesar Divi filius Augustus, Cesare era stato divinizzato nel 42. Augustus, da augeo accrescere, è un participio dalla doppia diatesi passiva ed attiva, dunque è stato aumentato nelle sue virtù dagli dei, e perciò è in grado di accrescere la repubblica romana. Augusto divenne pontefice massimo alla morte di Lepido nel 12 a. C., e da allora gli imperatori divennero anche capi supremi della religione capitolina. La ristrutturazione di Augusto dell’impero si basava sulla centralità dell’Italia divisa in 14 regioni che arriva fino alle Alpi con l’abolizione della Gallia Cisalpina come provincia, poiché Cesare nel 49 a. C. aveva concesso a tutti gli abitanti la cittadinanza romana, e per questa contraddizione giuridica la provincia fu abolita e furono estesi i confini dell’Italia. Augusto mantenne lo status quo in Oriente, non vi costituì province tranne l’Egitto, e si espanse invece nel Barbaricum Europaeum,continuando l’opera di Cesare che aveva spostato ad Occidente il baricentro dell’Impero; conquistò territori alpini, si spinse fino al Danubio e all’Elba, fu istituita la provincia del Norico, furono conquistate la Baviera e la Pannonia, la Germania fu resa provincia dal Reno all’Elba nell’8 a. C. circa. Augusto afferma nelle res gestae scritte nel 2 a. C. di aver pacificato la Germania, che però fu persa con la sconfitta di Varo a Teutoburgo. Augusto rinunciò invece alla conquista della Britannia, territorio già toccato da Cesare, poiché lo sforzo militare ingente necessario non sarebbe stato compensato da un ritorno economico.
     
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    Ottaviano Augusto sulla stele di Philae





    Una nuova traduzione della stele di Philae, eretta nell’aprile del 29 a.C., mostra il nome di Ottaviano Augusto inciso in un cartiglio – un onore normalmente riservato ai faraoni egizi.
    Due anni prima Ottaviano aveva sconfitto le forze di Cleopatra e Marco Antonio nella battaglia di Azio; nel 30 Cleopatra si era suicidata, segnando la fine della dinastia tolemaica.

    Gli storici credono che Ottaviano, sebbene abbia governato l’Egitto dopo la morte della regina egizia, non venne mai incoronato come faraone egizio. Nel 30, peraltro, stava ancora appoggiando (solo a parole) la Repubblica Romana, mentre ricevette il titolo di “Augusto” solo nel 27.

    La stele è scritta in tre lingue: geroglifici egizi, latino e greco. Venne eretta vicino alla prima cateratta del Nilo (i tratti poco profondi del fiume da Assuan a Khartum), il tradizionale confine tra Egitto e Nubia: a Philae, nel Tempio di Iside.
    La stele venne commissionata da Gaio Cornelio Gallo, un Romano incaricato da Ottaviano di governare l’Egitto come una provincia. Celebra la fine dei re tolemaici e la sconfitta del “re degli Etiopi”.

    I lavori precedenti avevano suggerito che in un cartiglio ci fosse inciso il nome di Gallo, ma la scrittura geroglifica è difficile da tradurre poiché i simboli scritti nella pietra non sono chiari.

    Una nuova traduzione è stata effettuata, tra gli altri, dalla prof.ssa Martina Minas-Nerpel della Swansea University in Wales, ed è stata pubblicata nel libro The Trilingual Stela of C. Cornelius Gallus from Philae.




    Minas-Nerpel ne è certa: “Il nome di Ottaviano è scritto in un cartiglio [ed] è trattato come qualunque altro re egizio”. Ma se gli storici non credono che venne mai incoronato faraone d’Egitto, come ci è finito il suo nome in quella iscrizione?

    Minas-Nerpel crede che non fu Ottaviano a insistere per ricevere quel titolo, bensì i sacerdoti egizi. C’era sempre stato un faraone negli ultimi 3000 anni, non lo si poteva abolire facilmente.

    “Dovevano avere un faraone [e] l’unico faraone (possibile) sotto Ottaviano era Ottaviano”, dice lei. “I sacerdoti necessitavano di vederlo come un faraone, altrimenti la loro comprensione del mondo sarebbe crollata”.

    Ovviamente non è detto che Ottaviano non ci abbia pensato su. Aveva bisogno del grano dell’Egitto e per ottenerlo “necessitava di una provincia tranquilla, e l’elemento chiave [per farlo] erano i sacerdoti: essi erano la chiave per [non far ribellare] la popolazione”.

    C’è poi un altro cartiglio in cui è inciso il nome di Ottaviano, si trova sull’isola di Kalabsha (Egitto meridionale) ed è datato al 30 a.C. o poco dopo. Cartigli con incisi nomi di imperatori Romani verranno prodotti fino alla fine del III secolo d.C. Gaio Cornelio Gallo era un soldato, un amministratore, un poeta, ma soprattutto fu il primo governatore di rango equestre alla guida di una provincia. Amministrò l’Egitto fino al suo richiamo a Roma nel 27 a.C.

    Secondo la storiografia ufficiale, di stampo senatorio, ricoprì questa carica con eccessiva indipendenza, spingendosi a parlare con scarso riguardo dello stesso Augusto, perciò venne processato.



    La nuova traduzione della stele mostra però che Gallo trattò Ottaviano con rispetto e non aveva paura di vantarsi dei suoi risultati. Una parte della stele recita:

    Primo prefetto di Alessandria d’Egitto, vincitore dell’insurrezione tebana in quindici giorni.

    Dice anche che sconfisse un esercito in Nubia:

    Dopo aver condotto l’esercito oltre la cateratta del Nilo, dopo aver ascoltato i messi (“envoys”) del re degli Etiopi vicino a Philae e dopo aver ricevuto in custodia questo re… (Gallo) fece una donazione agli dèi ereditari e al Nilo aiutante (“hereditary gods and Nile helper”).

    Questo modo di vantarsi potrebbe essere stata la sua rovina nel lungo termine. Minas-Nerpel sostiene che Ottaviano non avrebbe volute “pubblicizzate” le ribellioni in Egitto che necessitarono l’intervento di Gallo: “Presumibilmente [Gallo] era troppo potente e non diede abbastanza rispetto a Ottaviano – quella potrebbe essere stata la causa”.

    Gallo cadde in disgrazia fino ad essere accusato di una vera e propria congiura contro il principe, e fu condannato all’esilio e alla confisca dei beni. Si suicidò nel 26 a.C.

    (Heritage-Key)

     
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    TIBERIO



    Tiberius Iulius Caesar Augustus
    Roma 16 novembre 42 a.c. - Miseno 16 marzo 37




    Tiberio nacque nel 42 a.c. a Roma, da Tiberio Claudio Nerone, cesariano, e Livia Drusilla, di trent'anni più giovane del marito. Ambedue i genitori erano della gens Claudia. Il padre aveva sempre sostenuto Cesare e, alla sua morte, si era schierato con Antonio, in contrasto con Ottaviano, erede designato di Cesare.
    Dopo la vittoria di Ottaviano fu costretto a fuggire, portando assieme a sé la moglie e il figlio. Rientrarono però agli Accordi di Brindisi, che concedevano clemenza ai nemici di Ottaviano, finchè il futuro Augusto non sposò la madre del piccolo Tiberio, Livia Drusilla, amata teneramente, che tre mesi dopo partorì Druso, figlio di Tiberio senior.
    Tiberio non aveva, quindi, ancora quattro anni quando dovette abbandonare il padre e trasferirsi con la madre nella casa di Ottaviano. Il padre morì quando lui aveva nove anni.
    Insieme con Druso fu adottato da Ottaviano diventandone il figliastro. I meriti militari ne fecero, per sua esclusiva virtù, il miglior Generale del tempo. Cominciò le campagne militari quando aveva solo sedici anni. A 22 anni andò presso il Re dei Parti per ritirare le insegne delle Legioni di Crasso.

    Non sembra ci fosse buon sangue tra madre e figlio. Mentre Druso fu allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio rimase presso l'anziano padre fino alla sua morte. A nove anni, Tiberio si trasferì nella casa di Ottaviano assieme alla madre e al fratello. Durante il trionfo di Ottaviano per la vittoria di Azio, il posto d'onore accanto al carro spettò a Marcello, nipote di Ottaviano. Divenne comunque un buon avvocato in numerosi processi giudiziari. Fu uomo colto e fece parte del circolo di Mecenate, ma soprattutto fu ottimo comandante e stratega, diventando uno dei migliori luogotenenti di Ottaviano.
    Insieme al fratello Druso, sviluppò l'attività militare più intensa che doveva portare la frontiera romana fino al Danubio. Operò Macedonia, in Mesia, in l'Illiria. A lui si deve la conquista della Pannonia (odierna Ungheria). Nel 9 mentre era ancora in Pannonia, seppe della morte del caro fratello. A lui spettava ora proseguire la guerra in Germania e vi ottenne nuove vittorie.

    Augusto gli combinò il matrimonio con Vipsania, la figlia di Agrippa e fu un grande amore. Ma nell'11 a.c., per interessi politici, lo costrinse a divorziare da Vipsania, da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. Tiberio amava molto la moglie e obbedì con gran dolore. L'anno successivo sposò Giulia Maggiore, figlia di Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Ma il matrimonio con Giulia si guastò ben presto, e Giulia si circondò di amanti. Era il terzo uomo cui Augusto dava in sposa la figlia. I primi due, Marcello ed Agrippa, entrambi deceduti, erano stati indicati come successori di Augusto.
    Nel 14 Tiberio, appena nominato Pretore, accompagnò Augusto in Gallia e in una campagna oltre il Reno. Data la mancanza di scuole militari, nel 25 Augusto inviò in Iberia i sedicenni Tiberio e Marcello come tribuni militari. Due anni più tardi, Tiberio fu nominato Questore dell'Annona. Tiberio acquistò a sue spese il grano che gli speculatori ammassavano nei loro depositi e lo distribuì gratuitamente, tanto da essere salutato come benefattore di Roma.



    Germanico era nipote di Tiberio in quanto figlio del fratello Druso. Per volere di Augusto fu adottato da Tiberio, infastidito però dalla popolarità sua e di sua moglie Agrippina. Tiberio, non raccogliendo la stima e l'affetto di Cesare, temeva di essere soppiantato nell'eredità dell'impero.
    Pertanto quando Germanico fu inviato a combattere sulla frontiera orientale, Tiberio gli affiancò Pisone per sorvegliarlo. Il conflitto fra i due fu inevitabile e quando Pisone partì Germanico cadde malato e morì dopo lunghe sofferenze, riferendo alla moglie il sospetto di essere stato avvelenato da Pisone. Agrippina tornò con le ceneri del marito a Roma, ma Tiberio non partecipò neppure alla cerimonia funebre nel Mausoleo di Augusto. Questo rafforzò il sospetto del popolo su Tiberio come il mandante del delitto, il che non è da escludere, anche perchè nel processo che ne seguì a Pisone non si schierò nè con lui nè contro. Pisone si suicidò ma la popolarità di Tiberio ne soffrì. Tacito scrisse che Tiberio si distingueva per freddezza, riservatezza e pragmatismo, Germanico per popolarità, semplicità e fascino. Tutta la vita Tiberio ebbe a temere che sia Augusto, sia il senato, sia il popolo gli preferissero persone più aperte e meno cupe di lui.

    LA PRIMA FUGA DA ROMA

    Il matrimonio con Giulia non gli procurò però il titolo di erede. Anzi l'interesse dell'Imperatore si orientò verso i due nipoti Caio e Lucio Cesari, figli di Giulia ed Agrippa. Aveva dovuto rinunziare a sua moglie, aveva perso il fratello, aveva adempiuto a qualunque missione affidata, dimostrandosi valoroso e capace Comandante, ed ora si vedeva messo da parte per uomini più giovani. La condotta immorale della moglie avrebbe meritato il ripudio. Ma Giulia era la figlia di Augusto e Tiberio non poteva farlo. Come la moglie di Cesare, anche la figlia era aldisopra di ogni sospetto.
    Nel 6 a.c. Augusto decise di conferire a Tiberio la potestà tribunizia per 5 anni, rendeva sacra e inviolabile la persona e conferiva il diritto di veto. In questo modo Augusto avvicinava a sé il figliastro e poteva frenare i giovani nipoti, Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e Giulia, che aveva adottato e che apparivano favoriti nella successione.
    Malgrado ciò, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e abbandonare la città di Roma a 36 anni, per andarsene sull'isola di Rodi. Augusto e Livia tentarono inutilmente di trattenerlo: Tiberio digiunò per quattro giorni, fino a che non gli fu concesso di partire. Durante i sette anni di Rodi mantenne un atteggiamento riservato, ma quando chiese il permesso di rivedere i parenti ricevette un rifiuto. Si rivolse alla madre, che tuttavia gli ottenne solo il legato di Augusto a Rodi. Si rassegnò così a vivere come un comune cittadino, misantropo e scontroso, evitando ogni visita altrui. Intanto la moglie Giulia fu esiliata sull'isola di Ventotene e il suo matrimonio fu annullato.
    Finalmente gli fu concesso di tornare a Roma, grazie anche all'intercessione della madre, ma i nobili romani lo odiavano in quanto concorrente di Gaio Cesare, e di Lucio Cesare, peraltro molto amati. Proprio quando la loro popolarità aveva raggiunto i massimi livelli, Lucio e Gaio Cesare morirono, non senza che si sospettasse che Livia Drusilla c'entrasse in qualcosa. Tiberio, che al suo ritorno aveva lasciato la casa per trasferirsi nei giardini di Mecenate, fu a questo punto adottato da Augusto, che non aveva più eredi, ma lo costrinse a sua volta ad adottare il nipote Germanico, figlio del fratello Druso Maggiore. Nell'anno 4 fu inviato in Illirico e in Germania dove, fedele alla linea di Augusto di non espansione, non riprese la guerra con i Germani per vendicare le Legioni di Taro e riportare il confine all'Elba. I Romani assistettero alle lotte fra i Germani che si conclusero fra il 7 ed il 19 con i primi regni clienti alla frontiera settentrionale. La stessa strategia fu adottata alla frontiera orientale. Di fronte all’Impero romano il Regno dei Parti era concorrente di Roma per l’influenza sull’Armenia, ma Tiberio si limitò ad alimentare le discordie nel campo avversario.



    IMPERATORE

    Aveva 56 anni quando fu chiamato al potere alla morte di Augusto. Era un Generale cauto ed abile, ma nella vita civile e nei rapporti con il Senato non aveva la simpatia e l'acutezza di Ottaviano.
    Inoltre faceva fatica a prendersi responsabilità, così quando il Senato gli offrì l'impero si sottrasse più volte finchè si accorse che rifiutare tanta insistenza sarebbe stato compromettente, e accettò. Gli furono concessi l'imperium proconsolare e la tribunicia potestas a vita. Era il nuovo Cesare, dichiarato esplicitamente primo Imperatore di Roma. Augusto lo fu di fatto, Tiberio di diritto nel 14 d.c. Durante tutto il suo regno dimostrò un rigido rispetto per la tradizione augustea e osservò con cura tutte le istruzioni di Augusto, evitando le innovazioni. Le uniche modifiche territoriali avvennero in Oriente, quando alla morte dei re fedeli a Roma, Cappadocia, Cilicia e Commagene furono assorbite dall'impero. Tutte le rivolte che si susseguirono nelle province, furono soffocate nel sangue dai suoi generali, che, come Tiberio, non erano teneri. Per contro fece costrurire strade in Africa, in Spagna, in Dalmazia e Mesia fino alle Porte di ferro.
    Rifiutò gli onori alla madre Livia offerte dal Senato, insieme alla concessione di un littore e l'erezione di un altare. Non si sa se per onestà o rancore verso di lei. Più probabile la seconda visto che alla sua morte non andò nemmeno ai funerali.

    Fu esageratamente rispettoso del Senato, tanto che trasferì il potere elettivo dal popolo al senato, nonchè alla Corte di giustizia, sotto la presidenza dei Consoli, per giudicare i reati dei Senatori o degli Equites o quale sede d’appello. L'appello supremo era riservato al Principe. Stabilì dunque tre sedi d'appello, ancor oggi vigenti in molti paesi moderni.
    Naturalmente il popolo non apprezzò di essere stato esautorato. Viene da pensare che forse Tiberio si tenesse buono il Senato perchè lo temeva, o per timore di essere tacciato di sete di potere. Ma tanta deferenza verso il senato non gli portò gran simpatia, perchè a sua volta questo non era nè competente nè capace di assumere decisioni e responsabilità. Si aspettavano da Tiberio un nuovo Augusto, accentratore e responsabile, Tiberio in questo li deluse. L'imperatore non amava la vita pubblica, odiava la corte, le adulazioni, i sotterfugi, i giochi e la lotta dei gladiatori tanto cari al popolo. Non amava neppure i circoli di letteratura e poesia.

    Nel 23 d.c., dovette sopportare un grande dolore. Morì in circostanze misteriose il figlio Druso, l'unico avuto da Vipsania e perciò doppiamente caro, restando, a sessantaquattro anni, senza figli e senza erede. Per giunta il popolo mormorava che fosse stato lo stesso imperatore a ordinare l'assassinio del figlio.
    Non avendo, al contrario di Augusto, buon occhio per valutare le persone, Tiberio lasciò mano libera a un ambizioso di pochi scrupoli: Seiano, Prefetto del Pretorio. Tiberio si fidava di lui anche perché gli aveva salvato la vita coprendolo col suo corpo nel crollo di una grotta. Tiberio ormai sospettoso di tutti, si fidò ciecamente del prefetto che brigò per farsi nominare successore di Cesare. Venendo meno l'impegno di Tiberio che si isolava sempre più, Seiano accentrò il potere su di sè. Tiberio sospettava che Druso fosse stato eliminato da intrighi di reggia, in realtà il delitto partì da Seiano che, circuita Livilla, moglie di Druso, la convinse ad avvelenare il marito. Anche Vispania morì e Tiberio, caduto in depressione, sviluppò un eritema che gli sfigurava il volto, rifuggendo gli altri più di prima. Per cui lasciò la reggia e si ritirò nell'isola di Capri nel 27 d.c.

    Governò con saggezza, rifiutando i fasti e le falsità dei salotti dell'Urbe; ragione che lo spinse, nel 16 d.C., a lasciare la capitale per trasferirsi a Capri, suo possedimento privato. Tiberio fece dell'Isola azzurra una degna residenza imperiale , costruendovi ben dodici ville, ognuna intitolata ad una divinità. Alla più sontuosa diede il nome di Villa Jovis. Quest'ultima era situata in uno dei luoghi più inaccessibili dell'Isola, in cima al Monte Tiberio, sulla sommità della parte orientale dell'isola, e circondata da una folta vegetazione. I numerosi livelli in cui era divisa erano collegati tra loro da grandi scale di marmo. Nella parte più alta sorgeva l'Ambulatio, la loggia dalla quale Tiberio aveva sotto controllo l'intero golfo di Napoli. Pur avendo li la sua dimora,continuò ad occuparsi dell'impero mantenendo, grazie ad un sistema di fari e di messaggeri, i contatti con Roma. Durante il suo soggiorno caprese Tiberio infatti attenuò una grave crisi finanziaria istituendo un Fondo di Prestito, ridusse la spesa pubblica per le opere edilizie e per il mantenimento della corte riuscendo anche ad eliminare l'impopolare tassa sulle vendite.
    Altrettanto vasta è la letteratura sul comportamento sessuale e vizioso a cui, dopo una lunga esistenza controllata, si abbandonò Tiberio nel piacevole ambiente offertogli dalla sua isola privata. La maggior parte di queste dissolutezze vengono raccontate da Svetonio nel paragrafo dedicato a Tiberio de "Vite dei dodici Cesari". In questo capitolo lo storico afferma che le turpitudini dell'Imperatore "si osa a malapena descriverle o sentirle esporre". A difesa di Tiberio dobbiamo però dire che nessuno di questi particolari scandalistici è stato confermato dagli storici del primo secolo, segno che, forse, Tacito e Svetonio ne fecero un ritratto così crudele perché, per inclinazione politica, erano più vicini al partito senatoriale e quindi ostili verso la sua figura.
    Sappiamo invece per certo che a Capri Tiberio si circondò di uomini di studio, di letterati, di artisti e di astrologi. Lo stesso Svetonio ammette che l'Imperatore era appassionato cultore di letteratura e di filosofia, che scriveva versi in greco e che possedeva una ricca biblioteca. Alla sua morte, avvenuta nel marzo del 37, Tiberio lasciò un paese in pace e un impero ancor più forte ed intatto.

    Da Capri governò Roma attraverso Seiano, togliendo poetere e autorità al Senato. Il suo comportamento non piacque ai Romani che lo consideravano alla stregua di un disertore, e pure il Senato si sentì abbandonato. Inoltre Seiano dette il via a molti processi per "lesa maiestatis", un vero governo del terrore che sterminò tutti gli oppositori politici, col beneplacido dell'imperatore.




    Tiberio dunque, privo di erede, perché i gemelli di Druso, erano troppo giovani, ed uno di loro era morto poco dopo il padre, propose come suoi successori i giovani figli di Germanico, adottati da Druso. Ma Seiano che sperava di diventare lui l'erede, perseguitò non solo i figli e la moglie di Germanico, ma anche gli amici dello stesso Germanico; molti di loro furono infatti costretti all'esilio, o scelsero di darsi la morte per evitare una condanna.

    Seiano ormai potentissimo aveva riunito nell'Urbe tutte le nove Coorti Pretorie, mentre Agrippina manovrava contro di lui per imporre un figlio nella linea di successione. Vinse Seiano e fece relegare lei sull'isola di Ventotene fino alla morte, e suo figlio Nerone a Ponza dove si suicidò. L’altro figlio di Agrippina, Druso, fu carcerato e vi restò fino alla morte.
    Seiano e Tiberio adoperarono largamente la lex de maiestate, che consentiva di condannare a morte chiunque recato offesa al popolo romano, una legge tanto vaga quanto iniqua che consentiva di sbarazzarsi di chiunque si opponesse. Ci volle molto perchè Tiberio, nonostante le mille delazioni, prendesse coscienza del comportamento di Seiano, quando se ne convinse ordì la sua vendetta, ma senza tornare a Roma. Nel 31, Seiano fu convocato in Senato per la designazione quale erede, invece gli fu letta una lettera con cui l'Imperatore lo incolpava di tradimento e ne ordinava l'arresto. Il Senato lo condannò a morte per strangolamento e alla damnatio memoria. (la denigrazione perpetua negli annali). La sentenza fu eseguita nella stessa serata, poi il corpo senza vita venne consegnato al popolo perchè ne facesse scempio.
    Qui si rivede tutta la rabbia di Tiberio per il tradimento di Seiano e per la sua stessa cecità. Una condotta così barbara non sarebbe mai stata consentita durante l'epoca dei due precedenti Ceasari. Si scatenò poi la caccia ai familiari ed ai seguaci di Seiano, la cui moglie l'informò che il figlio di Tiberio non era morto di morte naturale; Livilla, la sua consorte, diventata amante di Seiano, fu complice del suo avvelenamento. Tiberio perse la testa e fu preso dalle manie di persecuzione. Furono strangolati sempre nel carcere mamertino i tre giovani figli di Seiano mentre la madre Livilla fu costretta a suicidarsi.

    Nel 35 fece testamento nominando due possibili eredi: il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote Gaio Caligola, figlio di Germanico. Restò escluso il fratello di Germanico, Claudio, di salute fisica e mentale malferme. Il favorito nella successione fu subito Caligola, poiché su Tiberio si sospettava essere figlio di Seiano, e perchè aveva dieci anni di meno. Tutti riponevano grandi speranze in Caligola, che però non era mai stato coinvolto da Tiberio in incarichi di responsabilità in campo militare o di governo, come faceva Augusto per ogni eventuale successore, forse per paura che diventasse troppo famoso e gli fosse preferito.
    Tiberio ebbe un carattere così ossessivo e misantropo che fece dimenticare le sue buone qualità di governatore, che aveva lottato contro l'usura offrendo anche capitali a sue spese, e che aveva sempère limitato le tasse perchè: - Un buon pastore tosa le pecore ma non le uccide. -
    Peraltro aveva reso più miti le leggi augustane contro il celibato e limitato la spesa pubblica soprattutto nei circhi e nelle manifestazioni. Lasciò libertà di culto ma proibì i culti giudei e caldei.
    Nel 37 abbandonò l'isola per il Circeo, si dice per una partita di caccia. Ma lo colse un malore, fu creduto morto e si avviarono i festeggiamenti per il nuovo Imperatore Caligola. Quando però Tiberio si riprese il Prefetto del Pretorio ordinò di soffocarlo con le coperte. Per quanto inviso al popolo e la Senato, Tiberio aveva tenuto una buona amministrazione, tanto da lasciare alla sua morte un forte avanzo nelle casse dello stato. Aveva saputo scegliere gli amministratori premiandoli se efficaci e colpendoli duramente se disonesti o inetti, ma non nel caso di Seiano.

    I Romani festeggiarono la notizia, distruggendo molti monumenti e statue dell'imperatore. Fu cremato a Campo Marzio e sepolto, tra le ingiurie del popolo, nel Mausoleo di Augusto. Contemporaneamente Caligola fu acclamato princeps dal senato.
    Morì nel 37 d.c., a 78 anni, avendo regnato per 23 anni. La guida dell’Impero passò dalla famiglia Giulia a quella Claudia.




    « C'era anche chi credeva che nella vecchiezza del corpo [Tiberio] si vergognasse del suo aspetto: era infatti di alta statura, curvo ed esilissimo, calvo; il suo volto, ricoperto di pustole, era il più delle volte cosparso di medicamenti. »
    (Tacito, Annales, IV, 57.)

    « Fu a tal punto avverso alle adulazioni da non permettere mai a nessun senatore di avvicinarsi alla sua lettiga né perché gli rendesse omaggio, né perché trattasse di qualche affare; e se in un discorso o in un'orazione ufficiale si diceva qualcosa su di lui in modo troppo lusinghiero, non esitava ad interromperlo e rimproverarlo, facendogli cambiare immediatamente discorso. [...] Si dimostrò particolarmente paziente nella sopportazione di voci, testi satirici e infamanti accuse che venivano rivolte a lui e ai suoi, ripetendo più volte che in una città libera dovevano essere parimenti libere la lingua e l'intelletto. [...] »
    « Nel segreto dell'isolamento, lontano dagli sguardi del popolo, [Tiberio] si abbandonò contemporaneamente a tutti quei vizi che fino a quel momento aveva tentato di dissimulare: parlerò di ognuno di essi nella sua interezza. Da giovane, durante il servizio militare, era chiamato Biberio invece che Tiberio, Caldio piuttosto che Claudio e Merone al posto di Nerone a causa del suo smodato amore per il vino. [...] Durante il periodo del suo ritiro a Capri fece arredare con divani una stanza apposita, che divenne il luogo dove dava sfogo alla sua segreta libidine. Lì, infatti, requisiti da ogni dove gruppi di ragazze e invertiti, assieme a quelli che lui chiamava "spintrie", che inventavano mostruose forme di accoppiamento, li costringeva ad unirsi a tre a tre e a prostituirsi tra loro in ogni modo, per eccitare la sua virilità di uomo ormai in declino. [...] Si rese colpevole anche di azioni ancora più turpi e infamanti, che a mala pena si possono riferire e ascoltare, o addirittura credere. [...] Fu parco e avaro nell'elargire denaro, e non assegnò mai un salario a coloro che lo accompagnavano in viaggi e spedizioni, ma soltanto il cibo necessario al loro sostentamento. [...] Non nascose la sua natura tenace e crudele neppure nell'infanzia; [...] In seguito, però, si lasciò andare a qualsiasi genere di crudeltà, e non gli mancarono le persone da colpire: perseguitò dapprima i familiari e gli amici di sua madre, poi quelli dei nipoti e della nuora, infine quelli di Seiano. Dopo la morte di quest'ultimo divenne ancora più crudele; in questo modo, dunque, apparve chiaro che non era stato spinto verso la crudeltà da Seiano, ma che il prefetto gli aveva soltanto fornito le occasioni che Tiberio cercava. [...] »
    « Era di corporatura grande e robusta, e la sua statura superava quella normale; le spalle ed il torace erano larghi, e tutte le altre membra erano ben proporzionate tra loro, fino ai piedi; la sua mano sinistra era particolarmente agile e forte, e il dito così robusto che poteva con esso tagliare una mela intera appena colta o ferire alla testa un bambino o un giovane solo toccandolo. Era di carnagione candida, e i capelli, come succedeva anche nei suoi antenati, gli scendevano dalla testa fino a coprirgli il collo; il suo volto era di nobile aspetto, ma tuttavia vi comparivano improvvisamente foruncoli e pustole; i suoi occhi erano molto grandi, e, cosa da notare, capaci di vedere anche di notte e al buio, ma per breve tempo e solo nel momento in cui lui si destava dal sonno; poi tutto tornava normale. Camminava con il collo rigido e dritto, e con il volto teso; il più delle volte taceva o parlava pochissimo con chi gli stava vicino, con estrema lentezza e gesticolando mollemente con le dita. [...] »
    « Riguardo agli dei e alla religione si comportò in modo indifferente, poiché, dedito agli studi di astrologia, riteneva che tutto dipendesse dal destino. [...] »
    (Sventonio)


    imperatore_augusto

    La storiografia moderna ha riabilitato la figura di Tiberio, denigrata dai principali storici a lui contemporanei, mancando di quella comunicativa propria del suo predecessore Augusto, e pur essendo di indole torva, tenebrosa e sospettosa. Questo suo riserbo, unitamente all'innata timidezza, certamente non gli giovarono. E così pure il costante disagio provato dal disinteresse dimostrato da Augusto nei suoi confronti fino agli ultimi anni della sua vita, gli diedero l'impressione di essere stato adottato solo quale ripiego. E così quando divenne Princeps, era ormai disincantato, inasprito e deluso.
    All'imperatore si riconosce la grande abilità dimostrata in gioventù al servizio di Augusto: Tiberio mostrò di possedere una grande intelligenza politica nella risoluzione di molti conflitti, e riuscì ad ottenere numerosi successi in campo militare, dimostrando parimenti una notevole abilità strategica. Allo stesso modo, si riconosce la validità delle scelte che prese nei primi anni del suo impero, fino al momento del ritiro a Capri e della successiva morte di Seiano. Tiberio seppe evitare di impegnare le forze romane in guerre dall'esito incerto oltre i confini, ma riuscì ugualmente a creare un sistema di stati vassalli che garantissero la sicurezza del limes da pressioni esterne. In politica economica, seppe attuare una saggia politica di contenimento delle spese che portò al risanamento del deficit dello stato senza che si rendesse necessaria l'imposizione di nuove tasse ai provinciali. Egli diede, pertanto, prova di essere anche un abile amministratore con indubbie capacità organizzative, aderendo perfettamente ed in modo quasi maniacale alla politica del suo predecessore. Il suo dramma fu quello di essere stato trascinato a ricoprire un ruolo a lui inadatto, per quel suo innato senso del dovere, in una situazione che probabilmente non aveva cercato e che, al contrario, esigeva doti differenti dalle sue. La sua tragedia fu quella di essersene reso conto ormai troppo tardi.
    Più controversa resta l'analisi del comportamento di Tiberio durante il lungo ritiro a Capri, e non esiste ancora al riguardo una linea universalmente condivisa: le notizie riportate da Tacito e Svetonio appaiono generalmente come distorte, o comunque non corrispondenti alla realtà. Resta possibile che l'imperatore abbia dato sfogo ai suoi vizi durante la permanenza sull'isola, ma è tuttavia improbabile che, dopo essersi a lungo distinto per il comportamento morigerato, si sia poi abbandonato agli eccessi descritti dagli storici.Vi è accordo nel ritenere che la demonizzazione di Tiberio, la cui figura acquisisce in Svetonio e Tacito una connotazione mostruosa tanto a livello comportamentale quanto puramente fisico, sia determinata in primo luogo dalla scarsa adesione alla realtà da parte dei due storici: l'uno, Svetonio, mosso dalla volontà di raccontare ogni dettaglio scabroso, l'altro, Tacito, dal rimpianto del sistema repubblicano. È anche possibile che Tiberio, nei suoi ultimi anni, fosse malato di saturnismo, intossicazione da piombo, dovuta al fatto di bere vino addolcito in otri di piombo, consuetudine dei ricchi romani. Tra gli studiosi che nelle loro opere hanno riabilitato la figura di Tiberio si segnalano Amedeo Maiuri, Santo Mazzarino, Antonio Spinosa, Lidia Storoni Mazzolani, Axel Munthe, Paolo Monelli, Giovanni Papini e Maxime Du Camp. Anche il filosofo Voltaire commentò in modo positivo l'opera dell'imperatore.



    Edited by gheagabry - 23/4/2012, 00:49
     
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    CLAUDIO



    Imperatore romano, figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore, nipote di Augusto (Lione 10 aC - Roma 54 dC). Dopo l'uccisione di Caligola, furono i pretoriani a proclamarlo imperatore (41 dC), dietro promessa d'un generoso donativo, imponendolo al Senato incline a una restaurazione repubblicana.

    Claudio era un giovane membro della più importante famiglia di Roma e, in quanto tale, ci si aspetterebbe che avesse partecipato alla vita pubblica secondo le modalità tipiche del suo rango, ma così non fu: per tutta l'infanzia e la giovinezza venne tenuto lontano dalla vista del popolo. La ragione di ciò risiede nel fatto che Claudio era nato con dei difetti fisici in una società come quella romana che disprezzava la debolezza: i membri della sua famiglia ritenevano che il suo essere costantemente ammalato, il suo sbavare e la sua balbuzie fossero un sintomo di debolezza mentale. Persino l'assunzione della toga virilis, il segno del passaggio all'età adulta, avvenne in tono dimesso: mentre era consuetudine che, giunta l'età, ciascun ragazzo romano venisse pubblicamente accompagnato al Campidoglio dal padre o dal tutore, Claudio vi venne portato di nascosto, in lettiga, a mezzanotte e senza accompagnamento solenne.Inoltre, poiché la famiglia riteneva che la sua condizione dipendesse da una mancanza di volontà, venne tenuto sotto la tutela di un precettore ben oltre la maggiore età, come avveniva per le donne; Claudio stesso si lamentò del fatto che gli fosse stato assegnato come precettore «un barbaro, un ex-ispettore delle stalle», il cui compito era di impartirgli una dura disciplina.
    Il giudizio dei suoi parenti non era certo lusinghiero: la madre Antonia minore, che curò l'educazione di Claudio dopo la morte di Druso nel 9 a.C., lo definiva un «mostro d'uomo, non compiuto, ma solo abbozzato dalla natura», e quando voleva accusare qualcuno di stupidità diceva che era «più scemo di suo figlio Claudio»; la nonna Livia Drusilla, cui venne affidato in seguito per diversi anni, gli inviava frequentemente delle lettere in cui lo rimproverava aspramente; la sorella Claudia Livilla deplorava pubblicamente la possibilità che divenisse imperatore come indegna e ingiusta per il popolo romano.
    Augusto, al contrario, si disse sorpreso dalle capacità oratorie del nipote, ma comunque non gli diede nessun incarico pubblico, né lo inserì tra gli eredi principali nel proprio testamento, lasciandogli appena 800.000 sesterzi alla propria morte.
    Il nuovo imperatore, suo zio Tiberio, non si dimostrò più disponibile nei confronti del nipote di quanto in passato lo fosse stato Augusto: quando chiese il permesso di iniziare il cursus honorum, Tiberio gli conferì gli ornamenta consularia, i simboli del rango consolare, ma quando Claudio chiese un ruolo più attivo gli venne rifiutato. Se la sua famiglia non perdeva occasione per dimostrare di non averne grande stima, il popolo romano, al contrario, pare lo tenesse in una qualche considerazione: alla morte di Augusto, infatti, l'ordine equestre lo scelse come proprio patrono, mentre il Senato romano, propose di ricostruire a spese pubbliche la sua casa distrutta da un incendio e di permettergli di partecipare alle sedute del Senato, proposte, peraltro, che Tiberio respinse.
    Di fronte a questo ostracismo, Claudio abdicò a qualunque aspirazione di carriera politica e si ritirò a vita privata, dedicandosi ai suoi studi di storia. Scrisse, infatti, un trattato sugli Etruschi, di cui studiò anche la lingua, una storia su Cartagine, una difesa di Cicerone, alcuni trattati sul gioco dei dadi e sull'alfabeto, tutti andati perduti. Sempre in questo periodo sposò Plauzia Urgulanilla, da cui ebbe due figli, Druso Claudio, morto in giovane età, e Claudia, che però Claudio non riconobbe, accusando Plauzia di adulterio e divorziando da lei nel 28.
    Due decessi sembrarono riaprire le porte della successione al trono a Claudio: nel 19 scomparve in circostanze misteriose suo fratello Germanico, mentre nel 23 morì Druso minore, figlio di Tiberio; Claudio divenne così un possibile erede dell'imperatore. Era però il periodo dell'apice del potere di Seiano, e Claudio scelse di sminuire le proprie pretese al soglio imperiale: la sorella Claudia Livilla, invece, si alleò con Seiano e cadde insieme a lui, morendo nel 31.


    "Cara Livia, come mi hai chiesto, ho discusso con Tiberio se dare un qualche incarico a tuo nipote Claudio in occasione dei giochi di Marte, e siamo giunti ad una comune decisione: se è normale - ma ne dubito - è necessario trattarlo come suo fratello e concedergli incarichi e responsabilità secondo il suo rango; se invece non lo riteniamo in possesso di tutte le facoltà fisiche e mentali, sarà bene non esporre al ridicolo né lui né la nostra famiglia.."

    Così si esprimeva Augusto in una lettera a sua moglie Livia riferendosi a Claudio, figlio di Druso e quindi nipote della stessa Livia che, al momento del suo matrimonio con Augusto, era di Druso già incinta. Descritto come malaticcio e incerto sulle gambe, balbuziente, per tutta la vita torturato da dolori allo stomaco così forti da farlo più volte pensare al suicidio, con uno sgradevole sorriso e la bocca che schiuma bava quando è preso da un eccesso d'ira, Claudio è una figura singolare e probabilmente a torto ricordato dalla maggior parte delle fonti come assolutamente inetto e stolto.


    .....nonostante tutto....divenne IMPERATORE.......



    Nasce a Lugdunum (Lione) il primo di agosto del 10 a.C., terzo figlio di Nerone Druso, il fratello di Tiberio, e Antonia Minore, sorella di Augusto. Ritenuto mentalmente ritardato fin da piccolo, non gode nemmeno della considerazione dei suoi più stretti familiari, tanto che la madre si riferisce spesso a lui come a "una caricatura d'uomo che la natura ha dimenticato di portare a termine" e ne fa la pietra di paragone della stupidità, mentre Augusto si limita a definirlo misellus (poverino). Costantemente escluso dalla vita politica - Augusto gli concede solamente una simbolica carica sacerdotale e quasi lo dimentica anche nel suo testamento relegandolo fra gli eredi di terzo grado - ottiene solo nel 37 d.C. dall'imperatore Gaio (detto Caligola e figlio di Germanico, fratello di Claudio) di essere suo collega di consolato per soli due mesi. Ma anche questa carica gli è conferita giusto per salvare le apparenze. Nonostante trascorra buona parte della sua vita all'ombra dei suoi altolocati parenti, Claudio divenne fortunosamente imperatore all'età di cinquant'anni suonati, immediatamente dopo la congiura nella quale Caligola venne ucciso. Volendo leggere in questo un segno benevolo della fortuna, le fonti ricordano che già egli aveva avuto segnali di predestinazione durante il suo primo ingresso al Foro avvenuto parecchi anni prima. Si narra infatti che in quell'occasione un'aquila fosse volata proprio sopra Claudio, finendo poi per posarsi sulla sua spalla destra.
    La vicenda che vede Claudio divenire imperatore assume quasi i toni del ridicolo. Si racconta che, con il cadavere di Caligola ancora caldo e il palazzo imperiale invaso dai pretoriani in armi, Claudio, terrorizzato, si sia nascosto dietro una pesante tenda sperando di passare inosservato. Un soldato, attraversando la stanza, vede però i piedi del futuro imperatore spuntare dal drappo. Riconosciutolo, insieme agli altri commilitoni accorsi, lo solleva di peso portandolo all'accampamento militare. Qui Claudio trascorre l'intera notte in preda al panico, certo che gli verrà riservata la stessa fine del nipote appena assassinato. Invece, mentre il Senato si interroga sulla opportunità di restaurare la repubblica e il popolo, che guarda a Claudio con simpatia, minaccia tumulti invocandolo come unico possibile imperatore, i pretoriani gli giurano fedeltà decretando definitivamente la sua nomina nonostante egli non possa certo vantare lo stesso glorioso passato militare del fratello Germanico, morto nel 19 d.C. e idolatrato dalle truppe.
    Claudio, ancora incredulo per lo scampato pericolo e felice per l'insperata considerazione, dispone immediatamente una donazione di quindicimila sesterzi a ciascun soldato, risultando così il primo imperatore disposto a pagare la fedeltà dei pretoriani.


    Esagerato e morigerato al tempo stesso, modesto e iracondo, imprevedibile e ovvio ai limiti della stupidità, Claudio è forse la personificazione della contraddizione. Rifiuta di essere chiamato imperatore e rifugge da qualsiasi ostentazione di potere. Onora i famigliari morti come primo atto del suo imperio, conferisce onori divini alla nonna Livia, proibisce qualsiasi festeggiamento nel giorno della sua elezione in quanto anche giorno della morte del nipote Caligola, proclama un atto di amnistia per tutti quelli che, prima del suo avvento al potere, hanno invocato la restaurazione della repubblica. Contemporaneamente, però, fa giustiziare alcuni di coloro che hanno congiurato contro Caligola, pur facendo annullare di tutti gli atti del suo predecessore.
    Di solito mite, si lascia trascinare da eccessi d'ira e da palesi crudeltà e prova un perverso piacere di fronte ai patimenti di coloro che vengono sottoposti a tortura, attardandosi ad osservare le smorfie di dolore sul volto dei condannati. Ama visceralmente i combattimenti al circo e spesso costringe anche gente comune a combattere nell'arena. Si pone però con modestia nei confronti del senato e dei magistrati e assiste come un normale spettatore ai giochi che questi ultimi offrono al popolo, tributando loro un rispettoso saluto come un cittadino qualsiasi.
    Si occupa dell'amministrazione della giustizia con estremo impegno, non diserta i suoi doveri nemmeno durante le feste comandate, revisiona varie disposizioni di legge che ritiene inique, cercando di inasprirle o di renderle maggiormente tolleranti a seconda dei casi. Tuttavia, nonostante il suo fervente impegno teso ad una migliore amministrazione della giustizia, le fonti riportano velenosi aneddoti su sentenze quanto mai bizzarre e dettate dall'umore del momento.
    "Sono d'accordo con chi ha ragione" lo si sente decretare durante un processo, sotto lo sguardo allibito di giudici e magistrati che ben presto non lo tengono in nessuna considerazione.

    E ancora, arriva a promulgare sentenze a favore di una delle parti contendenti semplicemente perché quella avversa non si è presentata al processo; abbandona precipitosamente un'udienza nel Foro di Augusto per correre a sedersi a tavola quando improvvisamente giungono alle sue narici i profumi invitanti di un banchetto nel tempio di Marte; si addormenta durante i processi russando rumorosamente a causa dell'insonnia che tormenta le sue notti.
    Non è da escludersi però che tanti e tali eccessi riportati dalle fonti siano stati ad arte ingigantiti da un senato in parte spodestato dall'imperatore nella competenza sui casi di tradimento e quindi fortemente irritato nei confronti di Claudio. La perseveranza dell'imperatore nell'adempimento dei propri doveri diviene proverbiale tanto che le monete coniate sotto il suo impero ricordano la "constantia augusti".
    Evidentemente consapevole dei suoi limiti, Claudio arriva addirittura a tentare di giustificare le sue stranezze dicendo di aver sempre simulato un comportamento ai confini dell'idiozia per scampare alla congiura contro Caligola. Nessuno, ovviamente, gli crede e comincia a circolare un irriverente libello dal titolo "La congiura degli stolti". Nel 42 d.C. il governatore dell'alta Illiria, Marco Furio Camillo Scriboniano, sobilla un tentativo di ribellione, soffocato però sul nascere. La cosa spaventa tanto Claudio da portarlo a vivere in continua apprensione e lo induce a inasprire le misure di sicurezza nei confronti della sua persona con tale rigore da farlo uscire indenne da almeno sei complotti orditi contro di lui.

    Quanto alle azioni militari, che pure non mancano, Claudio non vi partecipa mai direttamente. E' presente solo durante la conquista di Camolodunum, l'odierna Colchester, allora capitale del territorio dei Belgi nella bassa Inghilterra. La campagna di Britannia è infatti vittoriosamente condotta da Aulo Plauzio che annette definitivamente l'Inghilterra meridionale e centrale all'Impero, impresa fallita sotto Caligola. Nello stesso periodo, Claudio annette all'impero anche due provincie della Tracia, che diventano così provincia romana a tutti gli effetti e preziosa fonte di reclutamento di truppe.

    Relativamente alle truppe ausiliarie, Claudio dà particolare enfasi alla concessione della cittadinanza a coloro che hanno prestato servizio nell'esercito per almeno venticinque anni, allargando tale diritto anche ai loro figli e alle mogli, e continuando nella elargizione dei cosiddetti "diplomi" di bronzo già introdotti dai suoi predecessori.
    Questo non è certo in contrasto con la visione che Claudio ha dell'Impero. Dimostrando una visione politica straordinariamente moderna, egli infatti tende a ritenere la composizione multietnica dei territori annessi una possibilità di progresso piuttosto che un elemento disgregante. Pur rimanendo convinto della superiorità dei cittadini romani nei confronti dei provinciali, Claudio caldeggia la presenza in senato anche di membri provenienti dalle provincie non ancora "romanizzate".

    Come già ricordato, l'impegno con il quale Claudio si adopera durante tutto il suo "mandato" è indubbio. Non potendo fare tutto da solo, cerca la collaborazione di personaggi, soprattutto liberti, come Polibio (ministro a studiis, che conferisce le cariche in nome dell'imperatore), Callisto (ministro a libellis, che vaglia le petizioni provenienti da tutto l'impero) e, soprattutto, Narciso (ministro ab epistulis, che sbriga tutta la corrispondenza di Claudio, conoscendone perciò ogni segreto), tutti potentissimi e ricchi oltre misura, anche più dello stesso imperatore che non brilla certo per una oculata amministrazione dei suoi beni personali. Affilate lingue di corte infatti, affermano che se "si fosse preso come soci i suoi liberti le sue casse avrebbero rigurgitato denaro". Claudio si occupa anche con particolare interesse del miglioramento delle opere pubbliche, in particolare degli acquedotti, terminando le grandiose costruzioni del- l'Aqua Claudia e dell'Anio Novus.

    Nella vita coniugale, Claudio non è certo assistito dalla fortuna. Sposa in prime nozze Plauzia Urgulanilla dopo due fidanzamenti finiti malamente, il primo perché la famiglia della sua promessa sposa offende pubblicamente Augusto, il secondo perché la sua fidanzata, Livia Medullina, muore proprio il giorno delle nozze. Dopo il divorzio da Plauzia, Claudio sposa Elia Petina dalla quale ben presto si separa per la condotta indegna e scandalosa della donna, finendo per impalmare nel 39 d.C. ( al peggio non c'è mai fine) la quattordicenne e bellissima Messalina, rimasta famosa nei secoli come "meretrix augusta".
    Svetonio, Tacito e Dione Cassio descrivono Messalina come afflitta da tre vizi capitali, libido, saevitia, avaritia (lussuria, crudeltà e avidità) e di lei Giovenale racconta con satira feroce che, non appena Claudio si addormentava, travestita da donna comune e con una parrucca bionda in testa per nascondere i lunghi capelli corvini, si recava accompagnata solo da una ancella in uno dei più malfamati postriboli della città per trascorrervi l'intera notte offrendosi a chiunque, dietro pagamento di una manciata di monete, pur di appagare l'insaziabile lussuria.
    Claudio manderà a morte Messalina dopo un tentativo di colpo di stato ordito dalla donna e da Gaio Silio, uno dei suoi amanti, con l'intenzione di porre sul trono Britannico, il figlio di appena sette anni dell'imperatore e della stessa Messalina. La congiura, perpetrata durante un viaggio di Claudio a Ostia, viene sventata dal liberto Narciso. Raccontano le fonti che Claudio, disgustato dalle sue esperienze matrimoniali, avrebbe poi dichiarato di fronte ai suoi pretoriani: "Rimarrò celibe per sempre. Vi autorizzo a mandarmi a morte nel caso cambiassi idea."

    L'imperatore, comunque, non rimane fedele ai suoi propositi e nel 49 d.C. convola a giuste nozze con Agrippina Minore, alla quale è legato da un profondo affetto. Agrippina è figlia di suo fratello Germanico e, pur di sposarla, Claudio ottiene persino dal senato la modifica della legge che impediva matrimoni tra consanguinei.

    Sarebbe stato sicuramente meglio che Claudio avesse evitato il suo quarto matrimonio perché, se anche i pretoriani non lo punirono come da lui invocato, è la stessa Agrippina a provvedere. L'imperatore muore infatti nell'ottobre del 54 d.C., all'età di sessantaquattro anni, dopo aver mangiato dei funghi avvelenati. La prima indiziata della sua fine è sicuramente Agrippina, preoccupata, che la freddezza mostrata negli ultimi tempi dall'imperatore nei suoi riguardi, potesse compromettere l'eredità al trono di Nerone, suo figlio di primo letto. Agrippina, infatti, tramò da sempre nell'intento di scalzare il figlio di Claudio, Britannico, dalla possibilità di successione e già indusse l'imperatore ad adottare Nerone dopo il matrimonio di quest'ultimo con Ottavia, la sorella di Britannico.

    I funerali di Claudio vengono celebrati in modo solenne e viene decretata la sua "apoteosi", cerimonia nella quale il corpo dell'imperatore viene bruciato su una pira dalla quale, al momento dell'accensione, viene fatta volare via un'aquila a simboleggiare l'ascesa dell'anima al cielo. Dopo pochi anni, però, con Nerone imperatore, cominciano a diffondersi su Claudio impietose dicerie e della sua figura si fa una penosa parodia. Lucio Amneo Seneca - che Claudio ha mandato in esilio per "intercessione" di Messalina durante lo scandalo che vede coinvolto il filosofo e Giulia Livilla, la figlia minore di Germanico - scrive contro il defunto imperatore la dissacrante opera "'Apococyntosis Divi Claudii" (la trasformazione in zucca del Divo Claudio!).
    Nonostante le stravaganze e i comportamenti palesemente ottusi raccontati dai suoi contemporanei, Claudio è comunque un uomo di profonda cultura grazie alla quale sa mostrare momenti di straordinaria apertura mentale Plinio il Vecchio lo annovera tra i cento scrittori più colti del suo tempo e Livio, durante la gioventù di Claudio, si dichiara sicuro che egli avrà un luminoso futuro come storico.
    Claudio compone numerose opere letterarie tra le quali una storia etrusca in venti libri, una storia di Cartagine in otto libri e altrettanti libri autobiografici, andati purtroppo tutti perduti. Scrive anche un saggio sull'alfabeto romano, al quale aggiunge tre nuove lettere che vengono però eliminate subito dopo.



    Claudio divenne imperatore proprio in quanto unico maschio adulto della dinastia giulio-claudia.
    Malgrado la mancanza di esperienza politica, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (questo il nome adottato dopo l'acclamazione ad imperatore) dimostrò notevoli qualità.
    La fama di Claudio presso gli storici antichi non fu certo positiva; al contrario, tra i moderni molte delle sue opere furono rivalutate.

    Dopo l'assassinio di Caligola del 41, infatti, i pretoriani si trovarono di fronte al problema di trovare un membro superstite della famiglia Giulio-Claudia da mettere sul trono. Molti di loro erano stati assassinati da tempo, mentre Claudio era riuscito a scampare ad ogni congiura, perché nessuno lo aveva considerato un avversario pericoloso. Claudio, invocato dal popolo fuori dalla Curia, una volta promesso un donativo di 15.000 sesterzi per ogni pretoriano che gli prestasse giuramento, ottenne il Principato con la forza delle armi, dopo averne comprato la loro fedeltà. Primo fra i Cesari. Questo è quanto racconta Svetonio, al momento dell'assunzione del trono da parte di Claudio, quasi per caso, mirabili casu. Lo scrittore narra...

    « Dopo l'uccisione di Caligola... Claudio suo zio... cinquantenne... divenne imperatore per uno strano caso. Infatti, trascurato dagli uccisori di Caligola, avendo quelli portato via il numero dei congiunti e dei servi di questo, egli s'era nascosto in una sala di nome Ermeo. Non molto dopo, spaventato dal rumore della porta, proseguì verso il vicino solarium e si nascose dietro alle tende davanti all'ingresso. Qui, essendosi tenuto nascosto ancora, un soldato semplice, visti i piedi lo tirò fuori mentre Claudio si inginocchiava per il timore, ma riconosciutolo, lo salutò imperatore. Poi lo condusse dagli altri soldati, esitanti e frementi. Posto dai suoi sulla lettiga, fu portato nell'accampamento, triste e trepidante, mentre la folla che incontravano lo commiserava, quasi stesse per essere giustiziato pur essendo innocente. Ricevuto entro il vallo, pernottò tra le tende dei soldati, temendo più che sperando. Invero all'indomani, reclamando il popolo una guida per lo Stato, fu salutato da tutti imperatore. »
    (Svetonio, Vite dei Cesari, V, 10.)

    Da allora in poi, con il nome di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, governò l'impero per circa quattordici anni. Il nuovo Princeps era considerato uno degli uomini più eruditi del suo tempo: Plinio il Vecchio lo cita quattro volte come un'autorità; a lui scienziati ed uomini dotti scrivevano o dedicavano trattati.
    Soppresse i processi per tradimento in senato e si guadagnò popolarità con la concessione di spettacoli gladiatori, gare e spettacoli imponenti (come il suo trionfo per la conquista della Britannia ed i giochi secolari Ab Urbe condita del 47) e con l'abolizione delle nuove tasse imposte da Caligola.
    Claudio voleva accattivarsi le simpatie del Senato. Egli, infatti, tentò di stabilire una sincera collaborazione con quest'organo istituzionale, secondo le linee della politica di Augusto, facendo un uso frequente di Senatus consulta e difendendo la posizione sociale dei senatori, riservando loro i posti migliori. Restituì, pertanto, al senato l'Acaia e la Macedonia, nel 44. Spartì le province acquisite durante il suo principato fra gli ordini equestre e senatorio: ed a quest'ultimo vennero assegnate la Britannia e la Licia.
    Claudio si mostrò rispettoso del Senato anche partecipando attivamente alle sue sedute. La presenza alle riunioni era rigorosamente obbligatoria per i suoi membri e l'assenteismo punito. I dibattiti dovevano essere reali, non dovevano, al contrario, costituire una semplice questione di assenso formale.
    Claudio nel 47-48 rivide l'intera lista senatoria, eliminando quei membri inadatti ed introducendo solo uomini che avessero maturato meriti anche in provincia, poiché voleva che il senato fosse formato dalle migliori menti dell'impero. È vero anche che la maggiore interferenza con il Senato fu la creazione di un sistema amministrativo centralizzato. Claudio fu dunque il primo imperatore ad ammettere in senato uomini provenienti da una provincia, la Gallia Comata; fornendo così agli imperatori successivi una via per completare l'integrazione dei popoli che facevano parte dell'impero di Roma.
    E se Tiberio aveva seguito pedissequamente le istruzioni di Augusto, Claudio non temette le innovazioni. Egli fu, infatti, il primo a creare una burocrazia centralizzata, suddivisa in sezioni, materie speciali, ognuna delle quali fu posta sotto il controllo di un liberto, una specie di moderno ministro in scala ridotta. Egli avviò una forma di amministrazione pubblica imperiale, indipendente dalle tradizionali classi dei senatori e cavalieri.
    Il personale della nuova amministrazione centralizzata era costituito da uomini per la maggior parte di origine italica, estranei alla tradizione romana, e che dovevano fedeltà soltanto al Princeps. La più importante tra queste cariche appena istituite era quella di Segretario generale Ab epistulis, ricoperta in quegli anni da un certo Narciso: l'intera corrispondenza greca e latina (relazioni con i governatori, lettere e messaggi di vari funzionari, relazioni con città o comunità provinciali), doveva essere gestita, analizzata da questo funzionario, prima di renderne partecipe il Princeps. Secondo a Narciso era il segretario delle finanze, A rationibus, un certo Pallante, con l'accentramento e centralizzazione del potere finanziario nelle mani dell'imperatore a partire dall'Aerarium.
    Vi erano poi altre cariche di prestigio: Callisto era il segretario che si interessava delle richieste rivolte all'imperatore, A libellis e delle inchieste giuridiche portate davanti al princeps, le cosiddette cognitiones; Polibio quello che svolgeva la mansione di bibliotecario e consigliere culturale, aiutando l'imperatore con materiale per discorsi ed editti A studiis. Ma la presenza dei nuovi liberti provocò il continuo malcontento dell'antica aristocrazia senatoria, ed accrebbe notevolmente il potere personale del principe.
    Anche nel campo dell'amministrazione giudiziaria Claudio portò nuove innovazioni come quando nel 53, persuase il Senato a concedere ai procuratori imperiali delle province il diritto di giurisdizione. Fino a quel momento qualsiasi contestazione di diritto fiscale, doveva essere portata davanti al senato o all'imperatore per ottenere una sua decisione. Il provvedimento venne adottato per migliorare l'efficienza e la rapidità nel raccogliere il denaro dovuto all'erario, eliminando alcune procedure burocratiche.
    Favorì, infine, l'approvvigionamento di grano assicurando navi e merci contro eventuali danni provocati da tempeste, concedendo privilegi a stranieri costruttori di navi.
    Ultimò la costruzione di due acquedotti, iniziata da Caligola: l'acquedotto Claudio (Aqua Claudia), iniziato da Caligola, e l'Anio Novus che si incontrano entro Roma nella famosa Porta Maggiore. Ne restaurò anche un terzo chiamato Aqua Virgo.
    Diede un grande impulso alla costruzione di strade e canali in Italia e nelle province. Tra i tanti progetti meritano una segnalazione un largo canale che univa il Reno al mare ed una strada che collegava l'Italia alla Germania (entrambe opere iniziate da suo padre).

    Vicino Roma costruì un canale navigabile sul Tevere che terminava a Portus, il nuovo porto a Nord di Ostia, a circa tre km a nord. Il porto era costituito da due moli a forma di semicerchio, numerosi granai per l'approvvigionamento di merci provenienti da tutte le province romane ed all'imboccatura era posto un faro che divenne il simbolo della città stessa. Per ospitare le navi fu scavato un gigantesco bacino rettangolare di circa 1000 per 700 metri, collegato al Tevere da due canali. Gli ingegneri di Claudio non considerarono con la dovuta attenzione il problema rappresentato dal deposito delle sabbie fluviali, e in breve il nuovo porto fu inagibile. Di questo fallimento fece tesoro Traiano che costruì nello stesso luogo un porto più efficiente che rimase in funzione per secoli.

    Bonificò la piana del Fucino nell'Italia centrale attraverso lo scavo di un emissario che faceva defluire le acque del lago nel fiume Liri, a vantaggio di un migliore sfruttamento agricolo. La prima inaugurazione, con tanto di battaglia navale sul lago che stava per essere prosciugato, finì nel ridicolo. Il canale, scavato troppo in alto non consentì alle acque di defluire. Il tempo di provvedere a sistemare il canale e nuova inaugurazione. Questa volta gli ingegneri di Claudio fecero un errore opposto e ben più grave del precedente; il canale posto troppo in basso fece defluire l'acqua in modo troppo violento procurando vittime tra gli spettatori. L'episodio culminò con una lite tra Agrippina e il liberto Narcisso, appaltatore dell'opera: la donna disse che lui era un ladro mentre il liberto le dava dell'isterica.
    Altri imperatori si cimentarono con questa impresa che ebbe però termine solo nel XIX secolo grazie ai Torlonia che ingrandirono il tunnel scavato da Claudio tre volte la sua dimensione originale.
    Fece costruire nuove strade: la via Valeria Claudia fino all'Adriatico, o la via Claudia Augusta da Altinum fino al Danubio. Poche province non portano tracce delle strade costruite sotto il suo principato.


    Per quanto riguarda la politica religiosa, Claudio sebbene conservatore per natura e di interessi repubblicani, anche qui non si mostrò ostile alle innovazioni. Si adoperò per restaurare il collegio degli haruspices. Nel 47 celebrò i Ludi Saeculares dell'ottavo centenario dalla fondazione di Roma. Nel 49 ampliò, sempre nel corso di un'altra cerimonia, l'antico recinto sacro di Roma (pomerium), includendovi ora l'Aventino e parte del Campo Marzio.
    Si mostrò tollerante nei confronti dei culti provinciali, solo quelli che non considerava pericolosi per l'ordine pubblico interno. Se, infatti, verso il druidismo la sua azione fu più energica di quella dei suoi predecessori, con la completa soppressione, con gli Ebrei assunse un atteggiamento più liberale, e ristabilì per loro la libertà di culto e l'esonero del culto imperiale, anche se a Roma agì con severità, espellendone l'intera comunità ebraica a seguito di contrasti.
    Anche verso i Cristiani la politica religiosa di Claudio si mostrò aperta. La Lettera ai Romani 16,11 attesta la diffusione della nuova religione all'interno della casa di Narciso, uno fra i più noti liberti imperiali. Tacito colloca al 42 o 43 la conversione a una superstitio externa, identificabile quasi certamente col Cristianesimo, di Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plauzio, che conduceva in quegli anni la spedizione britannica. Sono gli stessi anni in cui la tradizione della Chiesa colloca l'arrivo a Roma di Pietro e la prima stesura del Vangelo di Marco. L'unico atto in apparente contraddizione con tale atteggiamento è l'espulsione da Roma dei Giudei impulsore Chresto assidue tumultuantes ossia "in continuo subbuglio a causa di Cresto (da identificarsi forse con Cristo)": controverso passo di Svetonio riguardo al quale vi sono discordanti interpretazioni storiografiche.

    Nel 43 iniziò la conquista della Britannia, quasi un secolo dopo Gaio Giulio Cesare. Al di là della ragioni politiche, economiche e militari della spedizione, non va dimenticata una considerazione forse più importante, di natura psicologica, e cioè di provare a tutti di essere il degno figlio del conquistatore della Germania, Druso. Egli si recò in Britannia nell'autunno del primo anno di guerra per essere presente alla vittoria finale. Questa fu la conquista della quale Claudio andò più orgoglioso.

    In Gallia alcune tribù ottennero i diritti latini e molti la cittadinanza romana, ma cosa più importante, Claudio riuscì a convincere un Senato riluttante a far ammettere alcuni cittadini Galli all'interno delle istituzioni e magistrature romane. Egli, basandosi sui suoi studi della storia di Roma, dimostrò che la Repubblica romana si era rafforzata e ingrandita grazie al fatto di aver incorporato elementi considerati fino a poco prima degli "stranieri", come lo erano stati gli Etruschi, i Sanniti, i Greci, ecc. Claudio apriva così le porte del Senato anche ai provinciali Galli.
    In Germania, il legato della Germania Inferiore, Gneo Domizio Corbulone, diede prova delle sue grandi capacità militari con una campagna nelle terre dei Frisoni e contro i pirati Cauci lungo le coste del Mare del Nord (47-48). Claudio però gli ordinò di ritirarsi al di qua del Reno. Non voleva ripetere le imprese del padre Druso.
    In Tracia, da lungo tempo inquieta, il sovrano regnante era stato assassinato e Claudio decise che era ormai giunto il momento di annettere la regione (46).
    Completò, infine, le conquiste dei territori rimasti liberi fino al Danubio, annettendo le parti rimaste libere fino a quale momento della Rezia e del Norico (da Castra Regina a Carnuntum) nel 50 circa.

    In Oriente, Claudio ricompensò l'amico Erode Agrippa I per l'aiuto prestatogli in passato, insediandolo sul trono di Giudea, che dal 6 era una provincia romana. Alla morte di Agrippa, nel 44, la Giudea ritornò ad essere una provincia romana, amministrata da procuratori.
    Nei confronti della Partia, Claudio riuscì ad ottenere il controllo dell'Armenia, fino a quando il nuovo re Vologese I, riuscì ad insediare suo fratello Tiridate sul trono armeno verso la fine del regno di Claudio.


    Claudio, grazie ai suoi studi storici, si era convinto che Roma doveva molto alla sua propensione in tempi passati ad inserire tra i propri cittadini gli uomini più meritevoli. Per questi motivi gli uomini più importanti di Gallia, Spagna ed Africa, i dottori greci o asiatici, gli scienziati ed i letterati, potevano contribuire notevolmente alla crescita dello Stato romano. E se la cittadinanza era una cosa preziosa da "regalare" ai provinciali, un cittadino romano, per meritarsela, doveva saper parlare e scrivere in latino: questa era una condizione insindacabile per Claudio. In caso contrario la cittadinanza romana sarebbe stata revocata.


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    Edited by gheagabry - 29/5/2012, 00:20
     
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    I GIOCHI



    Claudio acquistò la benevolenza del popolo con i giuochi e le pubbliche feste. Diede numerosi e splendidi spettacoli, ripristinando quelli in disuso e inventandone nuovi. Agli spettacoli era assiduo e gioviale, non si mostrava superbo, ma affabile e popolare, rivolgeva motti agli spettatori e distribuiva premi in denaro. Fece ricostruire il teatro di Pompeo distrutto in un incendio.
    Narra Svetonio: "Spesso fece fare le corse del Circo sul Monte Vaticano e come intermezzi tra una corsa e l'altra fece eseguire combattimenti di belve. Adornò il Circo Massimo di balaustre marmoree e di mète dorate sostituendole a quelle di legno; assegnò posti ai senatori che prima non avevano seggi speciali. Ai combattimenti dei carri aggiunse giuochi troiani, e la cavalleria pretoriana, comandata dai suoi Tribuni e dallo stesso Prefetto, che combatterono contro le belve africane. Si videro anche cavalieri tessali inseguire nel Circo tori infuriati, stancarli, saltare lor addosso, afferrarli per le corna ed abbatterli."

    Curò molto gli spettacoli dei gladiatori dati da Claudio. Uno annuo nel campo dei pretoriani alla porta Nomentana, un altro nel campo Marzio. Nel Campo Marzio fece rappresentare la vittoria sul re di Britannia, a cui egli assistette in abito di guerriero.
    Nel 47 festeggiò l'ottavo centenario della fondazione di Roma con una sfarzosa celebrazione.
    Dette due grandiosi spettacoli per festeggiare il prosciugamento del lago Fucino; una naumachia e un combattimento di gladiatori.
    Prima che iniziasse la lotta le navi sfilarono davanti la tribuna di Claudio e Agrippina, salutando l'imperatore con la rituale frase : Ave Caesar, morituri te salutant. Claudio rispose: "Habetis vos" (avete voi) e i combattenti interpretando come concessione di grazia, gettarono via le armi.
    Claudio adirato minacciò d'incendiare le navi e la battaglia ebbe inizio. Le acque del Fucino si empirono di sangue e di cadaveri. I sopravvissuti vennero graziati.
    Il combattimento dei gladiatori fu dato su ponti gettati sul lago; ma lo spettacolo venne interrotto dalla furia, delle onde, le quali travolsero le dighe ed allagarono nuovamente la campagna.

    Il popolo romano non voleva che pane e spettacoli e amava chi non lesinava doni e si prodigava per le feste. Ciononostante Claudio visse fra timori e sospetti pensando a volte di abdicare. Nei primi tempi pranzava sotto la custodia dei Pretoriani e si faceva servire dai soldati.

    Sospettava soprattutto i Senatori, nella Curia entrava scortato da ufficiali delle coorti pretorie. Con tutto ciò vi furono attentati, congiure e rivolte e non solo senatori, ma plebei, cavalieri ed anche ufficiali dell'esercito.


    Le naumachie
    erano battaglie navali riprodotte in un apposito bacino che poteva essere riempito d'acqua. Gli attori erano in genere criminali condannati a morte. Questi spettacoli, che a quanto pare si tennero solo nella città di Roma, erano costosissimi, poiché le navi erano complete in tutti dettagli, e manovravano come vere navi in battaglia. I Romani chiamavano questi spettacoli navalia proelia (battaglie navali) ma essi sono conosciuti con l’equivalente termine greco naumachia, che venne ad indicare al tempo stesso lo spettacolo ed il sito costruito allo scopo.

    Le naumachie spesso intendevano riprodurre famose battaglie storiche, come quella dei Greci che batterono i persiani a Salamina, o quella degli abitanti di Corfù contro la flotta di Corinto. Gli spettacoli dovevano essere impressionanti: in una naumachia si costruì una fortezza al centro del bacino, così che gli "Ateniesi" potessero sbarcare ed impadronirsi della piazzaforte "Siracusana". Si dovevano seguire le fasi della vera battaglia, ed il pubblico si esaltava alle manovre dei soldati e alla vista delle macchine da guerra.

    In genere erano i criminali a dover combattere, ma talvolta vi erano delle troupe, come in una riproduzione storica, e altre volte veri marinai e soldati. Marziale racconta che si tennero delle naumachie al Colosseo nei primi anni dopo l'inaugurazione, ma gli archeologi moderni (Lugli) sostengono che esse furono abbandonate poiché "erano necessari molti preparativi per rendere l'arena stagna e riempirla ad una altezza sufficiente (1,5 m) per potervi far galleggiare le navi". Ci si è chiesto come si potesse riuscire ad allagare il Colosseo, e ciò ha condotto alcuni archeologi a ritenere che i sotterranei dell'arena siano stati scavati solo alcuni anni dopo l'inaugurazione, ed in effetti così è stato provato, poiché i più antichi bolli sui mattoni dei muri costruiti sotto l'arena sono dell'epoca di Domiziano (a parte i numerosi rifacimenti dei secoli successivi.

    La prima naumachia si tenne a Roma in un bacino temporaneo scavato nel Campo Marzio, e fu finanziata da Cesare nel 46 a.C. per celebrare il suo trionfo. Fu ricreata una battaglia tra Fenici ed Egiziani. Ai romani lo spettacolo piacque moltissimo, pertanto Augusto organizzò altre naumachie nei Septa, un grande complesso monumentale con uno spazio aperto di 300 x 120 metri, circondato da portici e arricchito da opere d'arte prese dai paesi conquistati. E' ovvio che Augusto intendesse celebrare la potenza della flotta romana, poiché il suo stesso potere discendeva dalla vittoria navale di Azio, ove il suo genero Agrippa, costruttore del Pantheon, era stato l'ammiraglio della flotta. Per la prima volta dai tempi di Caio Duilio, vincitore contro Cartagine, un ammiraglio era stato più celebrato di un generale delle armate di terra. L’orgoglio dei romani per la loro marina militare si rifletteva negli spettacoli delle battaglie navali, un po’ come accade a noi moderni quando andiamo agli show degli aerei da caccia o quando visitiamo le portaerei.

    A Roma, Augusto e Domiziano fecero scavare dei bacini apposta per le naumachie. Il bacino di Augusto misurava 546 metri per 359, ed un acquedotto lungo 22.000 passi fu costruito apposta per portarvi l'acqua dal lago che oggi si chiama di Martignano, presso il lago di Bracciano. Trenta navi e tremila uomini parteciparono all'inaugurazione della naumachia di Augusto, che era ancora in funzione ai tempi di Nerone e di Tito. Più tardi, anche Domiziano costruì una naumachia, ma il luogo preciso è ancora oggetto di dibattito.

    Sappiamo che l'imperatore Claudio tenne una naumachia nel lago del Fucino, nel 52 d.C., per l'inaugurazione della galleria di drenaggio delle acque del lago. La galleria, che funzionò sino al IV secolo, conduceva l'acqua nella vicina valle del Liri, attraversando un monte, e fu un capolavoro di ingegneria (il lago fu prosciugato di nuovo solo nel 19° secolo). In quella naumachia zattere ricolme di pretoriani vennero disposte tutt'intorno alla scena, per prevenire fughe da parte dei gladiatori che parteciparono allo spettacolo, ed una folla immensa di spettatori si radunò sulle montagne intorno al lago. In quell'occasione - ma non sembra essere stata la regola – ai sopravvissuti venne accordata la grazia.


    Edited by gheagabry - 30/5/2012, 10:17
     
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    Il TEMPIO



    Ciononostante Claudio fu divinizzato e gli fu dedicato il tempio del Divino Claudio, templum Divi Claudii, costruito sul Celio nella parte settentrionale, affacciato sulla valle dove poi sarebbe stato costruito il Colosseo. La costruzione del tempio fu iniziata nel 54 d.c., alla morte dell'imperatore, per volere della moglie, Agrippina minore, anche se sembra che l'avesse fatto avvelenare proprio lei.
    L'opera venne gravemente danneggiata dal grande incendio di Roma del 64, sotto Nerone, che lo riadattò a ninfeo per la propria Domus Aurea, collegandolo con l'Aqua Claudia tramite l'arcus Neroniani. Dopo la morte di Nerone il tempio fu infine ricostruito da Vespasiano.
    Su un'iscrizione romana sono specificati i sacrifici dovuti ai templi: A Giove due tori, a Gionone due vacche, a Minerva due vacche, alla Salute Pubblica due vacche, nel tempio nuovo due buoi al divo Augusto, due buoi al divo Claudio.
    Si parla ancora del tempio nel IV sec., e nel 1217 di papa Onorio III scrisse di "formae et alia aedificia positae intra clausuram Clodei".



    L'imperatore Claudio (Vite dei Cesari V)



    Divertiti e increduli: così si resta di fronte a una figura come quella dell'imperatore Claudio. Uno sciocco al potere, si potrebbe dire con una formula sintetica, pensando a quel ferocissimo pamphlet che è l'Apokolokyntosis di Seneca. Ma anche da molti brani degli Annali di Tacito l'immagine di Claudio (specialmente quella "privata") viene fuori con tratti assai poco dignitosi; e con Tacito entriamo nel territorio di una solenne storiografia drammatica. La biografia che Svetonio dedica a questo imperatore, pur conservando i tratti consueti di un resoconto scrupoloso e completo, sembra voler accentuare le caratteristiche farsesche del personaggio. Schiavo delle mogli e dei liberti, pavido e irascibile, volgare e senza dignità, il Claudio di Svetonio appare subito così carico di difetti da sembrare quasi una figura costruita ad arte per sintetizzare tutto quanto un imperatore non dovrebbe essere. Insospettisce questo modo di presentare un uomo che oggi gli storici tendono a considerare come un sovrano e un amministratore tutt'altro che sprovveduto e fallimentare. Soprattutto insospettisce l'atmosfera grottesca in cui il biografo non manca mai di fermare le pose più memorabili del suo personaggio. Ed è difficile, alla fine, valutare quanto del ridicolo di cui anche Svetonio ha circondato il suo Claudio appartiene alla vita e quanto alla malizia della letteratura.

    Gaio Svetonio Tranquillo vive a cavallo fra il i e il ii secolo d.C. Sotto Adriano (e forse già sotto Traiano) ricopre funzioni di rilievo. La sua fortuna sembra spegnersi con lo scandalo di corte del 122, che ebbe fra le sue conseguenze l'allontanamento dello scrittore e del suo protettore Setticio Claro, prefetto del pretorio. Da questa data non sappiamo più nulla di Svetonio. Erudito dai forti interessi antiquari, dedicò opere agli argomenti più svariati, ma di questa vasta produzione non ci è rimasto quasi nulla. Il suo nome resta legato più che altro alla produzione biografica: la serie incompleta delle Vite dei grammatici e dei retori e gli otto libri delle Vite dei Cesari. Insieme alle Vite di Plutarco, quest'opera rappresenta il più importante modello di scrittura biografica dell'antichità sopravvissuto nella cultura occidentale.

    Gianni Guastella






    Claudio: un imperatore rivalutato dalla storiografia moderna

    Il 24 gennaio del 41 d.C., durante le feste augustali, dopo tre anni, dieci mesi e otto giorni di governo, venne ucciso Caligola, l'imperatore forse più pazzo che la storia romana ricordi. Morì per mano del tribuno dei pretoriani Cassio Cherea, che il despota era solito umiliare ed insultare, e di Cornelio Sabino. Come in una sorta di déjà vu, che richiama alla mente l'uccisione di Cesare, i congiurati uscirono per le strade dell'Urbe gridando: "Roma libera, Roma libera".

    All'inizio il popolo romano, avvezzo alle folli stranezze di Caligola, accolse l'annuncio della morte senza alcuna reazione, credendo che non fosse veritiero e che lo stesso imperatore avesse diffuso ad arte quella notizia per poi uccidere tutti coloro che avessero esultato.

    Salì al potere Claudio (Tiberius Claudius Drusus Nero Germanicus, fratello di Germanico e, quindi, zio dell'imperatore ucciso) e governò Roma dal 41 al 54 d.C.. Come già accaduto per il suo predecessore, è molto probabile che la nomina di Claudio sia stata influenzata dal mito di Germanico, che tra il 14 ed il 15 d.C., si era brillantemente distinto in Germania.

    Il nuovo imperatore raccolse un'eredità difficile, resa ancora meno invidiabile dalla crisi economica provocata dalle folli spese di Caligola. Claudio cercò di attuare all'inizio del suo principato una politica volta a restaurare quell'equilibrio istituzionale e sociale che aveva già caratterizzato il periodo augusteo. In tale direzione andava il suo tentativo di avviare una proficua collaborazione con il Senato. Tuttavia, non riuscì nel suo intento soprattutto a causa delle sempre crescenti ostilità e diffidenze del Senato romano.
    Per questa ragione, abbandonando l'iniziale suo progetto politico, mirò a consolidare l'appoggio dell'esercito e conferì al suo governo un aspetto dispotico e tirannico. Dette vita ad un' efficiente burocrazia di corte (costituita da un ampio numero di liberti, cioé schiavi poi liberati) ed estese la cittadinanza ed il rango senatorio a molti abitanti delle province, rendendo il senato un organismo sempre più "universale" e sempre meno italico.
    Questi, in breve, furono gli aspetti salienti della sua azione politica:

    * visione dell'impero come un "unico organismo" territoriale, senza privilegi o disparità tra le popolazioni
    * volontà di rendere il Senato un organismo rappresentativo di tutto l'impero e non solo dell'aristocrazia romana ed italica
    * estensione del diritto di cittadinanza ad un numero sempre più ampio di uomini ed, in particolare, ai soldati ausiliari
    * creazione di un'efficiente burocrazia imperiale, attraverso il coinvolgimento dei liberti a lui fedeli (liberi imperiali)
    * indebolimento dell'aristocrazia romana
    * risanamento delle finanze pubbliche
    * ampliamento del porto di Ostia e realizzazione del grandioso acquedotto dell' Acqua Claudia, già avviata, però, da Caligola
    * politica estera "difensiva" o, comunque, fondata sul rafforzamento dei confini.

    * conquiste militari importanti

    - Mauretania (attuale Marocco), nel 42 d.C.
    - Britannia, ( in parte conquistata dal figlio Britannico), nel 43 d.C.
    - Giudea, nel 44 d.C. .

    Tuttavia, i buoni risultati politici vennero rapidamente offuscati dagli scandali e dalla corruzione di corte, che videro coinvolte anche personalità della famiglia imperiale. Lo stesso Claudio, su pressione dai liberti, fece giustiziare la moglie Messalina. Successivamente, sposò Agrippina, sorella del defunto Caligola, madre di Nerone. Proprio questa donna provocò la fine del suo impero e la sua morte. Infatti, ella, dopo aver messo fuori gioco l'influenza dei liberti imperiali, persuase il marito a designare come suo successore proprio Nerone e poi lo avvelenò.

    Gli antichi scrittori, quali Seneca, Svetonio, Tacito ed altri, rappresentavano questo imperatore come una persona abulica e succube sia delle donne di corte, sia dei suoi potenti liberti. Eppure, come la storiografia moderna ha giustamente evidenziato, il principato di Claudio è stato uno dei migliori quanto meno tra quelli del primo secolo d.C. e, soprattutto, uno dei più innovatori.
    Claudio, infatti, fu ispirato da una visione straordinariamente moderna dell'impero e della missione di Roma. La potremmo definire universalistica e cosmopolita, fondata sulla concezione di una società aperta e "globalizzata" che sapesse inserire ed integrare negli organismi politici e dirigenti le forze migliori, al di là della loro provenienza o della loro condizione di nascita. Solo così, dunque, possiamo spiegarci la sua decisione di estendere il rango senatorio anche agli abitanti delle province, oppure la sua volontà di conferire le più alte cariche istituzionali a persone che, anche se di origine servile, avessero mostrato una particolare attitudine per l'espletamento di quegli incarichi. Sotto questo profilo, egli fu il primo a creare, in Roma una burocrazia centralizzata e ad affidare l'amministrazione pubblica imperiale a liberti professionisti, in base a diverse sfere di influenza, conferendo a ciascun liberto una sorta di funzione ministeriale. Tra questi liberti si distinsero in particolare:

    * Narciso, capo della segreteria privata del princeps e incaricato di gestire le relazioni con i governatori, l'esame di lettere e messaggi di vari funzionari, le relazioni con città o comunità provinciali;

    * Pallante, responsabile della ragioneria, dell'erario e delle finanze dello Stato;

    * Callisto che si interessava, in particolare, delle richieste inviate al princeps;

    * Polibio che svolgeva funzioni di consigliere culturale di Claudio.

    0Essi, pur coinvolti in intrighi di corte e in giochi di potere, mostrarono in genere grandi capacità e furono le "colonne" del nuovo sistema burocratico ed amministrativo centralizzato voluto dall'imperatore.0

    Il giudizio negativo della storiografia e dell' intellighenzia del suo tempo sul suo operato scaturisce, con ogni probabilità, dal fatto che con queste riforme Claudio aveva ridimensionato drasticamente il potere ed il prestigio della classe senatoria ed aristocratica, dalle cui file tutti questi vari scrittori provenivano. A parte Tacito e Svetonio, fu soprattutto Seneca a delinearne un ritratto negativo nell'opera Apocolokyntosis, sive de morte Claudii, cioè ZUCCHIFICAZIONE, ovvero sulla morte di Claudio. Trasformazione in una zucca, era il termine impiegato dal filosofo stoico per ridicolizzare il processo di apoteosi e divinizzazione voluto per Claudio dopo la sua morte.


    Lucio Amneo Seneca, esiliato da Claudio, scrisse su di lui la dissacrante opera "'Apococyntosis Divi Claudii" , cioè "la trasformazione in zucca del Divo Claudio":

    "Claudio dispose la sua anima alla partenza, ma non trovava l'uscita. Allora Mercurio, che si era sempre compiaciuto del sottile ingegno di lui, chiama in disparte una delle Parche e le dice: "Donna spietata, perché lasci nelle pene dell'agonia quel disgraziato? Ma non avrà mai riposo da questi lunghi tormenti? Sono sessantaquattro anni che è alle prese con la sua anima: perché non vuoi far piacere a lui e al suo popolo? Lascia che abbiano ragione per una volta gli astrologi, che, da quando è diventato imperatore, non passa anno, non passa mese, che non lo spediscano all’altro mondo. Però nulla di strano se non si raccapezzano e se nessuno sa quando suona la sua ora: nessuno credeva che egli fosse mai di questo mondo. Fa’ il tuo ufficio: muoia, e tu lascia che un altro al suo posto governi più degno".


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    SERVIUS SULPICIUS GALBA



    Servius Sulpicius Galba. Imperatore romano (Terracina 5 aC - Roma 69 dC). Di famiglia nobile e ricca, rivestì il consolato nel 33, governando successivamente la Germania Superiore (41), l'Africa (45), la Spagna Tarraconense (60-68).

    Galba era nato da una nobile famiglia ed era molto ricco, ma non legato né per nascita né per adozione ai primi sei imperatori. Fin dalla fanciullezza fu visto come un giovane di notevoli doti, e si dice che sia Augusto che Tiberio profetizzassero la sua futura ascesa (Tacito, Annali). Degli antenati di Galba ci parla Svetonio nella “Vita dei Cesari”:


    “Da quest’ultimo Sulpicio discendono il nonno e il padre dell’imperatore Galba. Il nonno, segnalatosi più come studioso che per le cariche ricoperte (non andò infatti più in là della pretura), pubblicò un’opera storica ben congegnata e diligente. Il padre, dopo aver avuto il consolato, pur essendo di piccola statura, gobbo e dotato di modeste facoltà oratorie, esercitò attivamente l’avvocatura. Ebbe due mogli: prima Mummia Acaica, nipote di Catulo e pronipote di Lucio Mummio, il distruttore di Corinto; poi Livia Ocellina, bella oltre che ricchissima. Da Mummia Acaia gli erano nati due figli, Gaio e Servio. Gaio, il maggiore, lasciò Roma dopo aver sperperato i suoi averi e, poiché Tiberio gli aveva proibito di concorrere al proconsolato nell’anno in cui pure gli spettava di diritto, si suicidò”.

    L’imperatore Servio Galba nacque il 24 dicembre dell’anno 3 a.c., come racconta Svetonio “adottato dalla matrigna Livia Ocellina ne assunse il nome e il soprannome di Ocellare; cambiò pure il prenome, giacché prima di giungere al principato si faceva chiamare Lucio al posto di Servio”. Godette della protezione di Augusto, Tiberio, Livia, Gaio e Claudio.

    Pretore nel 20, e console nel 33, acquistò buona reputazione nelle province di Gallia, Africa e Spagna per le sue capacità militari. Tra i comandi delle varie province che gli vennero affidati i più importanti furono quello della Germania Superiore, dove fu inviato da Gaio per ristabilire la disciplina dopo la rivolta di Lentulo Getulico, e quello della Spagna Tarragonese nel 61, dove trascorse otto anni durante il regno di Nerone. Sembra che sia stato onesto ma severo fino alla crudeltà. Alla morte di Caligola, rifiutò l'invito dei suoi amici di farsi avanti per l'impero, e servì lealmente Claudio. Nel 68, Galba seppe dell'intenzione di Nerone di metterlo a morte, e dell'insurrezione di Giulio Vindice in Gallia. Pensò di imitare Vindice, ma la sconfitta ed il suicidio di costui lo trattennero. La notizia poi che Sabino, prefetto dei pretoriani, si era dichiarato in suo favore lo incoraggiò di nuovo. Così, anche se fino ad allora si era dichiarato emissario del Senato e del popolo romano, dopo la morte di Nerone, assunse il titolo di "Cesare" e marciò su Roma.
    Le legioni delle province lo riconobbero quasi tutte imperatore, soprattutto in Gallia, mentre le legioni sul Reno proclamarono il loro comandante Vitellio, che, forte di un esercito, marciava verso Roma. Vespasiano invece dalla Galilea inviò presso Galba il figlio Tito per ricevere istruzioni.

    Nel 68 dunque sedette del trono con l’aiuto della guardia del pretorio al comando di Ninfidio Sabino. Egli fu il primo imperatore ad essere portato al potere dai propri legionari.
    Inizialmente, fu ben accolto dal Senato e dal partito dell'ordine, ma non fu mai popolare presso l'esercito ed il popolo. La preoccupazione principale del nuovo imperatore durante il suo breve regno fu il ripristino delle finanze statali e a tal fine intraprese una serie di misure impopolari, tra cui la più pericolosa: lo sprezzante rifiuto di pagare ai pretoriani quanto era stato promesso a suo nome. Galba era famoso in tutto l'Impero per la sua crudeltà: secondo la storico Svetonio, Galba impose molte più tasse a quelle province dell'Impero che non lo avevano immediatamente accettato come successore di Nerone. Inoltre, condannò a morte molte persone senza nemmeno giudicarle con un processo; aveva duramente represso le rivolte presso le legioni armate da Nerone per combatterlo, d'altro canto però non era neppure popolare presso la plebe per via delle tasse e per il fasto con cui intratteneva i suoi ospiti.
    L'età avanzata e le frequenti malattie distrussero la vitalità dell'Imperatore (lo storico Svetonio infatti accenna ad un cancro allo stomaco): approfittando della grave situazione fisica in cui gravava, il console Tito Vinio, il comandante della Guardia Pretoriana Cornelio Lacone e il liberto Icelus Marciano comandavano l'Imperatore, guadagnandosi il soprannome di "Tre Pedagoghi".

    Però Galba mancava del tatto e la lungimiranza dei Cesari. Infatti premiò le popolazioni che avevano risposto all'appello di Vindice, alle quali condonò un quarto dei tributi e concesse la cittadinanza romana, ma punì Lugdunum e le città che non avevano preso parte alla rivolta, confiscandogli beni e provocando il malcontento delle legioni di Rufo. Si fece molti nemici, come con Sabino che l'aveva appoggiato e gli chiedeva il comando dei pretoriani, concedendolo invece ad altri. Sabino cercò di ribellare le sue ex coorti all'imperatore, ma venne ucciso. Anche due capi militari che non avevano voluto riconoscere il nuovo imperatore, Fontejo Capitone e Clodio Macro governatore d'Africa, perdettero la vita.
    Lasciò l'amministrazione della cosa pubblica a uomini avidi ed arroganti che vendettero favori, privilegi e impunità contro il desiderio del popolo che aspettava si punissero i sicarii neroniani.
    Ai pretoriani, che lo avevano appoggiato con la promessa di 30000 sesterzi, da parte di Sabino a lui favorevole, Galba, notoriamente avaro, rispose che era sua abitudine arruolare i soldati e non comprarli. A Roma si trovava una legione di marinai che Nerone aveva tolti alla flotta di Miseno: Galba ordinò che tornassero alle navi, lasciando le aquile e le insegne a Roma, e al loro rifiuto ne ordinò la strage con la cavalleria. Questo gli alienò la I Legione Adiutrix, anch'essa di marinai, che l'imperatore aveva condotto dalla Spagna.
    Così Galba licenziò senza premio la guardia germanica con la scusa che erano fedeli a Gneo Dolabella, e rimandò in Spagna proprio quei legionari che lo avevano acclamato imperatore.
    Inoltre, salito sul trono, anziché dare autorità al Senato, accentrò nelle sue mani tutti i poteri, alienandogli le simpatie dei senatori.

    Allo scopo di dare una rassicurante impressione di continuità dinastica adottò Lucio Calpurnio Pisone Liciniano, giovane di carattere e di lignaggio impeccabili (anche la Clapurnia era una famiglia originaria della Sabina).
    Galba, di nobili origini, scegliendo un uomo fuori della sua famiglia per farne l’erede designato, aveva sostenuto un principio nuovo e giusto: che il trono, cioè, dovesse andare al più meritevole, esattamente come la sua stessa elevazione per la prima volta aveva veduto il conferimento del principato ad un individuo che non apparteneva alla casa dei Giulii e dei Claudii. Ma tale decisione contrariò fortemente Otone, che in precedenza aveva sostenuto Galba e che aveva sperato nell’adozione.

    Gli fu fatale il trattamento a Virginio Rufo. Poichè lo vedeva come un rivale, lo richiamò dalla Germania superiore mandando al suo posto il vecchio Flacco. Ormai Galba, avendo perso energia a causa dell'età avanzata, rimase completamente nelle mani dei suoi favoriti. Il 1º gennaio 69, due legioni dislocate nella provincia di confine della Germania Superiore si rifiutarono di giurare fedeltà all'imperatore Galba: ruppero le statue raffiguranti Galba e chiesero al Senato di scegliere un nuovo imperatore. Le legioni di Rufo, rifiutarono pertanto di prestare giuramento a Galba e chiedendo un principe eletto dal Senato e dal Popolo. Qualche giorno dopo, le legioni delle Germania inferiore, acclamarono imperatore il loro generale Aulo Vitellio che venne riconosciuto anche dall'esercito dell'Alto Reno. Aveva dunque adottato Cajo Pisone Liciniano come successore, un giovane di trentadue anni, di severi costumi e discendente da Pompeo e da Crasso, sperando di calmare gli animi e di scoraggiare i contendenti.
    Del malcontento delle soldatesche e del popolo approfittò invece Salvio Otone, marito di Poppea, che per vendicarsi di Nerone aveva aderito al movimento di Galba e sperava di esserne il successore. Era un uomo ambizioso e carico di debiti èer cui vedendo con l'adozione di Pisone fallire le sue speranze di successione, ed essendo premuto dai debitori, organizzò una congiura, servendosi di alcuni pretoriani che comprò con forti somme.
    Il 16 gennaio del 69, mentre Galba faceva un sacrificio nel tempio di Apollo, nel Foro, presso la pietra miliare dorata, un piccolo numero di pretoriani acclamò Otone imperatore e lo portò in lettiga al campo di porta Nomentana, dove le coorti si dichiararono pronte a seguirio. Galba mandò allora alcuni tribuni militari perché riportassero all'obbedienza le coorti pretorie e diede incarico a Pisone di bloccare la rivolta che non si propagasse alla guardia del palazzo.Galba, tratto fuori a forza, ricevette un colpo di spada alla gola. E poi fecero scempio del suo corpo.


    Il popolo, inaspettatamente, fu dalla parte di Galba e volle accompagnarlo al Foro. Ai ribelli si erano intanto uniti i marinai e le legioni, e, tutti al comando di Salvio Otone, entrarono in Roma. Galba non aveva nessun corpo di soldati da poter opporre, aveva il popolo dalla sua, ma il popolo che lo accompagnava acclamante verso il Foro quando vide le soldatesche ribelli si dileguò e la lettiga imperiale venne circondata dai soldati.
    Lo storico latino Svetonio racconta che l'imperatore era talmente debole che dovettero portarlo in lettiga presso il Lacus Curtius e la sua coorte di pretoriani disertò lasciandolo solo nelle mani dei ribelli; aggiunge che abbia duramente apostrofato i ribelli a decapitarlo se pensavano fosse utile allo stato prima di essere trafitto e mutilato. Fu colpito dalla Damnatio Memoriae su ordine del suo successore Otone ma poi fu riabilitato da Vespasiano. Tacito giustamente afferma che tutti lo avrebbero ritenuto degno dell'impero se non fosse mai stato imperatore ("omnium consensu capax imperii nisi imperavisset").

    Morto Galba, sui suoi consiglieri ed amici si sfogò la furia dei rivoltosi. Tito Vinio fu trovato davanti il tempio di Cesare e, nonostante gridasse di aver preso parte alla congiura, fu trucidato. Pisone ferito, rifugiato nel tempio di Vesta con un suo fedele centurione, fu raggiunto, trascinato fuori e ucciso. Il popolo prese poi le parti del vincitore e cominciò a gridare: "Otone Cesare Augusto» e il Senato, stupito e intimorito dalla rapidità dei cambiamenti, si affrettò a radunarsi nel Campidoglio per ratificare l'elezione del nuovo imperatore.
    Le teste di Galba, Pisone e Vinio infisse su picche vennero dai soldati portate in trionfo per la città; il giorno dopo quella di Galba fu trovata presso la tomba di Patrobio, che l'imperatore aveva fatto uccidere, e fu sepolta con le ceneri del corpo. Degli altri amici di Galba, Aulo Lacone fu mandato in esilio e poi messo a morte, Icelo venne giustiziato, Marco Celso invece fu salvo e ricevette molti onori. Tigellino non ebbe scampo e si uccise.

    Otone, salito sul trono per opera dei pretoriani, lasciò ad essi la nomina dei loro comandanti e del prefetto di città.



    « Non si turbò Nerone, nell'udire
    il vaticinio delfico:
    "Dei settantatré anni abbia paura".
    Ha trent'anni. Assai lunga
    è la scadenza che concede il dio,
    per angosciarsi dei rischi futuri.
    Ora ritornerà a Roma, un poco stanco,
    divinamente stanco di quel viaggio,
    che fu tutto giornate di piacere,
    nei giardini, ai teatri, nei ginnasi...
    Sere delle città d'Acaia... Oh, gusto,
    gusto dei corpi nudi, innanzi tutto...
    Così Nerone. Nella Spagna, Galba
    segretamente aduna le sue truppe
    e le tempra, il vegliardo d'anni settantatré. »
    ( da La scadenza di Nerone di Costantino Kavafis)

     
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    Buon compleanno, Caligola

    31 agosto 12 d.C.




    L'imperatore Gaio Giulio Cesare Germanico, al mondo noto come Caligola, nacque ad Anzio il 31 Agosto del 12 d.C. e fu ucciso nel criptoportico del Palatino la sera del 24 gennaio del 41 d.C, dopo uno degli spettacoli teatrali in onore di Augusto, nel mentre s'intratteneva con degli attori asiatici e dei fanciulli. Già questa disposizione verso gli altri basterebbe a ridisegnare tutta la sua esistenza. Una scena è sufficiente per cogliere l'animo di un individuo, mica servono continue riprese dal vivo oppure vivergli accanto. Un tiranno che s'intrattiene a parlare con gli attori...! Spettacolare! L'avrebbe fatto forse un senatore? E un latifondista? No, a pensare agli affari costoro! E invece fu opera d'un imperatore, la sera del 24 gennaio del 41 d.C, poco prima di far ritorno nelle stanze imperiali. Oh, già, diranno che v'è sempre dell'istrionismo nei tiranni. Certo, come no!...Ma che li si lasci al proprio delirio questi rivoluzionari rivedibili, in vero conformisti fino al midollo. Per mio conto, posso a testa alta dire: "Buon compleanno, Caligola!".

    Altro che "damnatio memoriae"! Una simile sintesi la dovrebbero scrivere dinanzi l'entrata di molti parlamenti per chi magari ha sottratto denaro pubblico e benessere alla collettività e poi s'è pentito, ed è rimasto impunito e poi quatto quatto è scappato con vitalizi suntuosi ritirandosi in ville a picco sul mare come Tiberio a Capri. Caro Caligola, ho visitato tutti i luoghi che a Roma ti riguardarono e posso dire d'esserti più che affezionato. Pensa, Gaio Cesare, il prossimo 31 Agosto tu compirai 2000 anni e nell'Urbe puoi contare ancora su dei fedelissimi. Siamo in pochi, per la verità, ma si tratta pur sempre di una guardia scelta dell'imperatore: veri "Equites Singulares Augusti".



    Basta uno sguardo d'intesa e tutto ci è chiaro. Siamo notturni attorno al Palatino, a ricostruirci interiormente quella notte, a sentirti assieme a tua moglie Cesonia e alla figlioletta Drusilla fracassata al muro dal tribuno Lupo. Tanto vorremmo modificare quella realtà e riscriverla con te ed i tuoi cari in salvo. Spesso, a tanto ci esponiamo. Dunque fedelissimi ma non pretoriani - uno di questi fu il tuo assassino, Cassio Cherea - ma fedelissimi in senso storico, poetico, i quali non credono minimamente a tutte le menzogne riferite sul tuo conto. I tuoi primi due anni di principato furono segnati da saggezza, lungimiranza ed anche amore per il popolo e rispetto (guardingo) per il Senato. Scrive lo storico Flavio Giuseppe: "Era peraltro un valentissimo oratore, espertissimo della lingua greca e latina; sapeva come rispondere a discorsi pronunciati da altri" (...) E se nell'ultimo periodo di regno vi furono cinque mesi di dominio assoluto e la sottomissione dell'aristocrazia, questo fu dovuto anche alla terza congiura ordita da senatori e familiari contro di te. Addirittura desideravi lasciare Roma per Anzio e poi per l'amatissima Alessandria, visitata più volte anche da bambino. E allora, dopo tutto questo, per chi parlava l'illustre Svetonio che ti ha definito un mostro? Con tutti questi affreschi di congiure... Era un personaggio libero, Svetonio? Poteva forse egli definirsi "ingénuus", nel senso originario, vale a dire nativo del luogo, uomo libero, nobile? No, mio caro Caligola, anche egli era un conformista, pavido senz'altro, allineato, uno scrivano che narrava storie per qualcuno, per il "committente", per la Cupola di allora. Proprio così.

    Anche allora esisteva la Cupola: il Senato, i privilegi e tutto il resto. Come vedi, non è cambiato nulla. A nominare il tuo nome, Caligola, ecco che un'altra apoteosi si celebra, non riferibile comunque al mondo antico quanto piuttosto al "luogo comune" e provocata dalla lontananza sia dai testi che da ogni sensibilità. E così si viene ad ascoltare che, in questo mese di agosto, l'ennesima ondata di caldo, la "bolla africana" dopo le varie bolle speculative dei lazzaroni a corrente continua, ebbene, che il torrido in espansione porta il tuo nome. Evento meteorologico che, dunque, chiamato "Caligola", è qualcosa di nefasto, suona come una sciagura. Invece d'acquisire gradi di miopia leggendo, vere campagne militari con le iridi a scheggiarsi per la gran vicinanza ai grandi testi, questi funamboli del nulla, questi frombolieri del luogo comune s'adunano per imperlarsi ancora una volta di stupidità: un evento meteorologico chiamato "Caligola". Accanto a questi velleitari della parola v'è l'azione banale dei contemporanei (non tutti, per fortuna), storici e non: la spocchia di sapere tutto (che cosa?) e di ripetere quanto già declamato da altri. Oro colato dunque per costoro i resoconti su di te dei vari Tacito, Cassio Dione, Flavio Giuseppe, Filone. Mai un pensiero autonomo, delle schegge di sublime. Evidentemente i miei contemporanei dimenticano che a quei tempi la responsabilità per personaggi di primo piano era un fardello vero e se fallivano c'era di mezzo la vita: Quintilio Varo dopo il disastro di Teutoburgo si uccise e lo stesso fece Nerone dopo essere stato abbandonato anche da Tigellino. Oggi, dopo disastri nazionali, gli improfumati escono di scena ma poi li si vede passeggiare come antichi questori, abbigliati con clamide e sandali e in posa da filosofi stoici sui faraglioni. Vengono anche intervistati, s'atteggiano, "non sono stati capiti".

    Ne avrai visti pure tu, Gaio Cesare, di simili personaggi... Ma cosa accade oggi? Sulla Terra scende il Mercato, questo dio nascosto, invisibile, distrugge le nazioni eppure non succede nulla a chi, in gran silenzio e all'oscuro, maneggia tutto. Capito, Caligola? E i contemporanei s'accaniscono su di te, definendoti "mostro". Dicono che la tua "pazzia" era anche quel raccogliere conchiglie - insieme ai legionari - sulle spiagge lungo il Canale della Manica progettando la conquista della Britannia. Ma è la normalità che sta dietro ad un simile gesto a mettere paura a costoro. Che gesto era quello se non glassato di poesia? Come il ponte di barche tra Baia e Pozzuoli; e ancora: come il cavallo Incitatus da te nominato senatore. Grande provocazione, atto sublime, più che futurista e della post avanguardia. Del resto, non finì pure Ilona Staller nella Camera Bassa? E sul velinismo contemporaneo, che dire? Nella confusione tra neurini e neutrini scelgo Incitatus senatore. Certo, sposo la tua tesi, Gaio Cesare, meglio Incitatus al Senato, magari votante per primo insieme all'aristocratico Marco Giunio Silano. Qui, oggi, le cricche sono hegeliane e l'individuo non ha valore nei confronti del processo storico, dell'Idea Assoluta, ovvero del Mercato. Il Mercato conta più della persona che sta per strada, che rantola. Spettacolare, invece, il tuo Welfare! Capisci come va il mondo? Ma per uno come te che si proclama dio - imperatore come dio - il giudizio non può che essere "pollice verso". Naturalmente sarebbe da ricordare a questi entusiasti dell'Età della Tecnica che, fino all'Ancién Regime, tutti i monarchi si consideravano di origine divina. E allora, quale sarebbe la tua colpa se il tuo sentire durò fino a tutto il XVIII secolo? A proposito della tua "follia", sapeva l'illustre Svetonio che "forse" tuo padre, il valoroso Germanico, era stato avvelenato dal governatore della Siria Gneo Calpurnio Pisone su indicazione di Tiberio? Sapeva che tua madre, Agrippina Maggiore e i tuoi fratelli Nerone Cesare e Druso III erano stati condannati a morte dal Senato? E quanto poteva incidere sulla psiche d'un fanciullo tutto questo? Be' su tali faccende l'illustre storico sorvola.

    Avresti anche potuto ipotizzarla una qualche vendetta. Oggi i normalizzatori della realtà - gli anestesisti dei nostri giorni - non accettano valori di epoche remote e pretendono che i gesti sarebbero dovuti essere altri e li determinano con l'occhio e l'animo attuali. Ti potrebbero far dono d'un cellulare, Gaio Cesare!...Pensa, uno di quelli con internet incluso! Eppure, malgrado questa lucidità che, in vero, è decadenza, l'umanità continua senza soste con barbarie condominiali e mondiali, beninteso sotto il vessillo della democrazia. Eri innamorato di tua sorella Drusilla e a lei, quando morì, dedicasti ludi a scadenza precisa; v'era nel tuo cuore in tumulto un grande posto per il ricordo. Che, forse, quel tuo progetto di una spedizione in Germania con 200.000 uomini nell'autunno del 39 poteva essere considerato un momento romantico per rivederti bimbo accanto a tuo padre vittorioso? Credo lo si possa supporre ed io me lo ricamo così. In ultimo, prima di abbracciarti, augurandoti ancora una volta buon compleanno - hai 2000 anni e il mondo ancora ti pensa, ti studia e ti maltratta - ti svelo i luoghi dove ti vado a trovare: al Museo Nazionale Romano dove una tua piccola statua in marmo, rinvenuta nel Tevere verso via Giulia e custodita in un cubo di plexiglas, è posta dinanzi a quella di tuo padre, in bronzo, rinvenuta sempre nel Tevere, presso ponte Sisto.

    Quindi parlo delle Terme di Diocleziano dove mi reco per osservare l'altare funerario che il tuo liberto Caius Julius Philocalus Leonidianus si fece erigere nel I secolo d.C; ti svelo anche la provenienza del reperto: Morlupo. Ecco, accarezzando questo altare è come se, un poco, sfiorassi il tuo viso. E ancora m'inoltro verso il Museo delle Navi a Nemi, dove i frammenti della Nave Tempio e della Nave Palazzo m'assediano di gioia. Se tali imbarcazioni da parata desideravano mostrare la tua ammirazione per le lussuose residenze orientali, svelavano anche un'idea di Assoluto che pochi - non so dire se ahimé o per fortuna - di te hanno colto in questo mondo. V'è talmente silenzio sul lago di Nemi che quando lì mi reco, mi sembra veramente di ascoltare la tua voce e di vedere in sequenza, a mezz'aria, il tuo viso nel marmo e il tuo profilo sulle monete.

    (Fernando Acitelli,scrittore e poeta, autore di 'Cantos Romani)







    Ci sono due Caligola: il giovane signore che l'aneddotica più colorita ricorda adoratore del proprio cavallo, ispiratore di eccentricità crudeli, di giochi insensati; è il principe liberale, che piace alla gente, che sostituisce con la propria giovinezza il rispetto cupo (quasi terribile negli anni del tramonto) preteso da Tiberio. Caio Cesare Germanico (questo il suo vero nome) diventa imperatore a venticinque anni (non ancora compiuti).
    È alto, pallido, un po' grassoccio, quasi calvo, gli occhi infossati, talmente fiero di appartenere alla famiglia Giulio-Claudia da non voler mai che gli si ricordi il nonno Agrippa, di origini più modeste. È figlio di quel Germanico (adottato da Tiberio per ordine di Augusto) idolatrato dai militari che vegliano ai confini dell'impero. Tutti i cronisti trovano parole di lode per questo generale. È lui a domare la rivolta delle legioni nella Germania inferiore, minacciando di uccidersi quando i soldati insistono sulla pretesa di proclamarlo imperatore. Temendo disordini allontana la propria famiglia dal campo, e della famiglia (oltre alla moglie Agrippina, e, otto figli) fa parte Caio Cesare. Secondo Svetonio la presenza di Caio Cesare (nato ad Anzio nel 12) sarebbe determinante, anche se del lutto inconsapevole, nel soffocamento delle inquietudini dei soldati. Sono tutti talmente affezionati al ragazzino cresciuto in mezzo a loro, che veste i loro stessi abiti, portando minuscoli calzari militari (in latino caliga, di qui appunto il soprannome Caligola che gli rimase) da seguire con sgomento il carro che lo trascina altrove. Quando Tiberio sa dell'episodio finge commozione. Pronuncia in senato l'elogio di Germanico, ma Tacito malignamente osserva: « con parole troppo appariscenti perché egli sentisse profondamente ciò che diceva ». Germanico, in fondo, non gli piace. La sua popolarità lo irrita. Lo trova perfetto, tutti ne fanno un modello da imitare: il generale intellettuale che lascia i campi di battaglia per studiare le rovine di Alessandria d'Egitto, il generale che sa usare il pugno di ferro quando la salvezza della patria è in pericolo. Muore a 34 anni, forse avvelenato dall'ombra che Tiberio gli ha messo al fianco.

    Poi Tiberio istituisce un processo pubblico contro quest'uomo (Calpurnio Pisone, governatore di Siria). Pisone riesce a dimostrare l'innocenza, ma il processo non finisce perché, anche lui, misteriosamente, cerca la morte. Agrippina, moglie di Germanico, brucia a fuoco lento il rancore, e quando il figlio Nerone si fa adulto, comincia a tramare contro Tiberio, perduto negli ozi di Capri. Nel febbraio del 29 dopo Cristo l'imperatore (informato dal Senato) denuncia Agrippina e i suoi figli. La donna ha per amico il popolo, che ne agita i ritratti per le strade. Allora si scatena l'ira del vecchio: la vedova di Germanico diventa « nemica pubblica » e confinata a Pandataria (oggi Ventotene) sino alla morte. Nerone, finisce a Ponza e qui muore, improvvisamente, nel 31. Si salvano i due piccoli della covata: Druso e Caligola. L'imperatore li protegge. Caligola, poi, è il prediletto. A 19 anni lo chiama a Capri. Vuoi spiarne il carattere: sa che viene da un'adolescenza tumultuosa, funestata da storie atroci. Lui, Tiberio, gli ha disgregato la famiglia. Caligola lo odia? L'imperatore si diverte ad umiliarlo in pubblico, poi a farne gli elogi; lo ama e lo lascia; gli dimostra devozione e disprezzo. È uri collaudo lungo a cui partecipano, perfino, delle spie. Fanno parlare Caligola, cercano di scoprirne i sentimenti segreti: se pensa di vendicare i familiari schiacciati da Tiberio, se teme per la sua vita, se ha ambizioni di potere.Informa Svetonio: « Caligola non cade in queste trappole e mostra di dimenticare gli affronti subiti dalla madre e dai fratelli, come se non avesse mai avuto madre e fratelli, o come se a loro non fosse capitato nulla di sgradevole. Mostra, anche, una tale sottomissione a Tiberio e alla sua corte da poter dire di lui: non vi fu miglior schiavo, né più malvagio padrone ».Ma anche in questi anni volutamente oscuri, il giovane Caligola non riesce a nascondere le inclinazioni strane del carattere. Si diverte ad assistere alle esecuzioni di condannati a morte; gira di notte avvolto in un grande mantello, col capo nascosto da una parrucca; recita poesie, canta; è il dongiovanni che seduce le signore di corte. Tiberio sorride di questi peccati. Spera che servano ad ammorbidire una personalità gelida e quasi disumana. Gli da in sposa Giulia, nipote di Silano, personaggio nobile e ben voluto. Purtroppo lei muore nel dare alla luce un figlio, e da allora Caligola diventa l'amante della moglie di Macrone. L'alleanza del potente prefetto gli fa comodo. L'alleanza del prefetto, ma anche quella della nonna Antonia, che traffica in suo favore col Senato. Appena imperatore, Caligola si sente il padrone del mondo: « Che mi odìno, purché mi temano », è il motto che lascia correre fra il popolo. Ma il popolo lo ama. Rivive in lui il mito, mai dimenticato, di Germanico, e questo mito, per qualche tempo, Caligola non lo smentisce. Passano mesi sereni. La gente lo sostiene al punto che quando cade malato (racconta Svetonio) una gran folla sotto il Palatino urla gli auguri, si dice disposta a fare sacrifici agli Dei per la sua salute.Non succedeva, certo, con Tiberio. Ai confini dell'impero i sentimenti sono gli stessi. Contenti i legionari nell'avere « uno di loro » per comandante; sereni i popoli bellicosi: la nobiltà di cuore di Germanico aveva conquistato anche i nemici, perché il, figlio non dovrebbe somigliargli.




    Caligola nobilita, per la prima volta, il ricordo dei familiari va a Ventotene per rendere onori alle ceneri della madre; cambia nome al mese di settembre e lo chiama Germanico. Mai, però si lascia andare a propositi e vendetta. Quel che è stato è stato. Ordina, addirittura, al Senato, di rendere pubblici gli atti_ dei processi, e poi di bruciarli. Non è solo al potere : lo divide, per disposizione testamentaria, con il cuginetto Tiberio Gemello. Ma il ragazzino non ha l’ età per accedere alle cariche pubbliche. Resta nell 'ombra, e dall’ l'ombra sparisce. Nessuno ne sa più nulla. Chi invece acquista importanza è la vecchia Antonia. Caligola da alla nonna il titolo di Augusta, sino ad allora concesso solo a Livia, moglie di Ottaviano. E per tutti i familiari, in passato frustrati, ci sono onori. II cugino Tiberio diventa « principe della giovinezza ». I rapporti dei consoli, le preghiere dei sacerdoti devono cominciare con questi slogan: « Non sarò più devoto a me stesso e ai miei bambini, di quanto debba esserlo a Caio Cesare e alle sue sorelle» E ancora: « Per la felicità e a prosperità di Cesare e delle sue sorelle ». Le quali sorelle sono tre: con loro Caligola tiene rapporti ambigui. Di una, Drusilla. lo si dice, addirittura, innamorato. La scomparsa del cugino accresce la sua ricchezza : Tiberio aveva lasciato (ad entrambi) 175 milioni di denari, un capitale più grosso, perfino, di quello trovato nelle casse di Augusto. Ma i soldi non durano tanto gli corrono veloci fra le dita. La popolarità fra le truppe, ad esempio, .non è legata solo ai privilegi che l'imperatore concede, ma alla generosità della sua borsa . Per esempio: quando va in visita la prima volta, alle corti pretorie, trova i reparti che stanno addestrandosi. Ordina di distribuire 250 denari per ogni uomo.La somma già meraviglia, ma Caligola sbalordisce: ricordando un legato di Tiberio aggiunge subito altri 250 denari alla prima elargizione. Ogni legionario fuori d’ Italia festeggia la morte di Tiberio con 75 denari; 125 denari toccano ai militi delle corti urbane. Distribuendo gli undici milioni di eredità lasciata al popolo romano dal signore di Capri, Caio Cesare aggiunge 60 denari di tasca propria. Li giustifica dicendo: « Dovevo farlo quando ricevetti la toga virile ». Poi ripensa, manda a chiamare i contabili e ordina di calcolare gli interessi. Aggiunge quindi 15 denari per persona: non vuole rubar niente a nessuno. Sono storie che si diffondo con gioia fra la gente. E la simpatia aumenta anche perché il nuovo imperatore cancella con feste, rappresentazioni teatrali giochi di corte, gli anni austeri di Tiberio, che odiava i musici e non tollerava pubbliche frivolezze. Cambia lo stile, insomma e ai romani la « linea morbida va bene. Adesso pare che tutto si svolga all 'aria aperta. Riprende le pubblicazioni delle statistiche che imperiali, sospese dopo , scomparsa di Augusto; indennizza le persone danneggiate d incendi e da altre calamità; i giudici possono decidere le pene da soli senza dover rivolgersi all 'imperatore; restituisce i troni ai sovrani dei popoli confinanti con l 'impero, e fa loro riavere i tesori confiscati da Tiberio (re Antioco di Siria torna in possesso di cento milioni di sesterzi).




    Dopo due consolati consecutivi, inaugura il terzo, a Lione, distribuendo denaro al popolo, e organizzando una grande festa. Sempre così: feste, giochi, distribuzione di denaro, atti di magnanimità. Si interessa però alle arti, e alle necessità pubbliche. Apre una scuola di eloquenza greca e latina a Lione (con concorsi e vincitori); fa costruire un acquedotto sulla Tiburtina. Vuoi restaurare il tempio di Apollo Didimo a Milo, progetta una città fra le vallate alpine, militarmente importante; pensa di tagliare l'istmo di Corinto, e manda ingegneri a progettare l'impresa che sulla carta sbalordisce (sarà aperto nel 1893). Fin qui, per dirla con Svetonio, abbiamo tentato il ritratto di un principe; adesso vi offriamo quello del « mostro ». Il periodo dell'idillio dura pochi mesi. Il primo ottobre del 37 il giovanissimo imperatore, se si deve prestar fede a quanto tramanda Filone (filosofo e storico ebreo, contemporaneo di Caligola), cade gravemente malato, e questa malattia gli sconvolge la mente, trasformandolo in quel demone furioso che la tradizione ci ha dipinto. Sempre Svetonio (la parte degli « Annali » di Tacito che riguarda Caligola è andata quasi tutta perduta), insinua che fu un filtro magico (forse proveniente da quell'Oriente che Caio Cesare tanto amava) a sconvolgergli la mente. La verità può essere un'altra: né malattia, né filtro. Gli incubi della fanciullezza, le paure e i dolori dell'adolescenza devono avergli turbato la psiche: il pugno di ferro di Tiberio che gli era sopra la testa aumentava queste angosce segrete. Ma quando Tiberio è morto e nessuno può comandargli, il giovane principe da sfogo alle sue allucinanti fantasie. « Non contento d'aver preso infiniti soprannomi (il pietoso, il figlio dei campi, il padre delle legioni, il migliore e il più grande dei Cesari), un giorno che si trova a Roma a colloquio con dei sovrani venuti per rendergli omaggio, sentendoli discutere sulla nobiltà delle loro origini, si alza in piedi e grida la frase di Omero: "Non abbiamo che un solo capo e un solo re", e poco manca che si cinga col diadema sostituendo la realtà alla finzione.». Visto che ci tiene come annota Svetonio i cortigiani gli danno corda. Gli spiegano che lui è di gran lunga al di sopra dei re e dei principi, perché le sue origini sono divine: Subito Caligola manda a prendere in Grecia statue di Giove e degli altri Dei. Fa tagliare loro la testa per rimpiazzarla con la propria. Fa prolungare fino al Foro un’ ala del Palatino e, trasformando in vestibolo il tempio di Castore Polluce, si offre all ’ adorazione di visitatori. I più solerti lo salutano con l’ appellativo di Giove Laziale. Fa costruire un tempio dedicato alla propria persona: Nel mezzo del tempio c’ è una statua d’ oro: lo raffigura naturalmente Sacerdoti consacrati al suo culto cambiano ogni giorno d ’ abito alla statua, mentre animali esotici sono sacrificati. Un Dio non può avere che antenati illustri: Così proclama che sua madre è figlia di un incesto commesso da Augusto con la figlia Giulia. La nonna Antonia, che tanto bene aveva intr5igato per la sua elezione, non è nemmeno più ricevuta: si dice che proprio un rifiuto d 'udienza le provoca un collasso e la morte. Caligola ne viene informato mentre sta mangiando, non si scompone, Finisce sul patibolo, dopo un noioso verdetto di un tribunale militare, il cugino Tiberio.Costringe Silano (che è suo suocero a tagliarsi la gola : il povero vecchio, soffrendo il mal di mare, aveva rifiutato di accompagnarlo in un giro in barca.Il rapporto con le sorelle (Drusilla in particolare : lo abbiamo detto)continua torbidamente sotto gli occhi di tutti. Vuole Drusilla al suo fianco a tavola, tenendo lontana la moglie, fa sposare la sorella a un suo favorito, Lepido: ma è l'imperatore che convive con lei. Quando Drusilla : muore proclama il lutto nazionale. Diventa un crimine, punito duramente, ridere, trattare affari, pranzare in famiglia. C'è il solo dolore. Il dolore dell 'imperatore è grande. Fugge piangendo nella notte verso Napoli. Vuole imbarcarsi per Siracusa, poi torna, senza mai farsi la barba, cogli occhi cupi e sconvolti. Le dedica un tempio, la proclama dea. Poi la dimentica, si sposa e divorzia, in un anno, ben tre volte. Maltratta i senatori. Per parlare con lui certi vecchi notabili sono costretti a correre dietro al suo carro, o a restare in ginocchio mentre, per ore, egli mangia. Chi disobbedisce sparisce. Paga bene i sicari e ne ha tanti. In Senato Caligola rende grottesca la loro fine. Finge di non accorgersi degli scanni vuoti, e li chiama e si rivolge a loro come se fossero presenti. Dopo un po' ne annuncia il suicidio. Basta uno sguardo storto per cadere in disgrazia. Si finisce in prigione per niente, e talvolta egli ordina (stando a Svetonio) che tutti i prigionieri, qualsiasi crimine abbiano commesso, siano dati in pasto agli animali che fa arrivare per i giochi. Famiglie di generali, di senatori, di ricchi commercianti, vengono distrutte. Gli uomini, quando non finiscono nell'arena, sono marcati a fuoco come schiavi e spediti nelle miniere. Un cavaliere, gettato fra animali feroci, grida la propria innocenza. Allora Caligola si arrabbia : lo fa trarre in salvo. Gli fa tagliare la lingua, poi lo rimanda nella sabbia del circo. Alterna pranzi e feste a giochi crudeli : nel bel mezzo di un banchetto fa sgozzare tre persone a tavola. Per far cadere in ridicolo le previsioni di un astrologo che aveva annunciato a Tiberio « Caio ha tante possibilità di diventare imperatore, come ne ha di attraversare a cavallo la baia dì Pozzuoli », il principe costruisce un pontile lungo cinque chilometri. E sul pontile cavalca « come se fosse sulla via Appia ». Cavalca per tre giorni e la gente accorre a riva, e si schiera sulle barche, lungo il suo passaggio, applaudendo. Poi Caligola si stanca, fa gettare tutti in acqua e ordina di uccidere coloro che tentano di riguadagnare la terra. Dilapidate le riserve accantonate da Tiberio, si trova con le casse vuote, e subito disdegna la politica economica del predecessore che sosteneva una circolazione limitata per rendere più preziosa la moneta. Conia denari in quantità superiore di sette-otto volte alle emissioni di Tiberio che pur aveva regnato a lungo. La febbre di disporre del liquido lo spinge a inutili crudeltà : cadono in disgrazia, di solito, famiglie ricche a cui confisca tutto. Fa vendere gli oggetti all 'asta e intasca. Moltiplica le tasse : appesantisce quelle esistenti e ne inventa di nuove. Facchini e prostitute, per esempio, devono dividere con lo Stato ì loro guadagni. La sua grande forza sono i militari, e per tenere saldo in loro il simbolo della potenza, sostiene d 'essersi procurato la corazza di Alessandro Magno. La indossa in pubblico, s 'atteggia (e si fa ritrarre) con orgoglio, come il Macedone. La testa un po' inclinata, per rifarsi all'iconografia tradizionale del conquistatore. Aumenta il numero delle corti pretorie e prende provvedimenti gravi. Toglie, addirittura, al console di una provincia africana, il coniando delle truppe, per affidarlo a un legato, a lui fedele.Nel 40 scoppia un grave dissidio cogli ebrei. Ovunque sorgono statue in suo onore, statue che finiscono nei templi dove Caligola è venerato come un dio. Tutti i popoli sottomessi si piegano all 'ordine, tutti meno gli ebrei che rifiutano di adorar l 'imperatore, e di ospitare la sua immagine nelle loro chiese.

    Gli ebrei avevano rifiutato di adorare l' imperatore. «Questa gente» disse Caligola «mi pare malvagia quanto infelice e sconsiderata a non credere che io possegga natura divina.» Va sulle furie Caligola e fa erigere una statua a Gerusalemme, obbligando il legato di Siria a mobilitare due legioni per imporre in Giudea il rispetto alla sua effigie. Il popolo, che vive distante dalle sue trame, continua, in fondo, a volergli bene. Lo fa divertire, distribuisce denaro il cui valore è però crollato sotto il peso dell'inflazione. Roma diventa una città spensierata, e questo alla gente piace. Caio Cesare se la fa coi mimi, coi cantori, coi giocolieri da circo. Le persone che gli vanno a genio sono favorite in modo folle. Guai a chi le tocca. Non importa l'estrazione sociale: è geloso della propria discendenza divina, ma preferisce farsela con la plebe che coi nobili di cui non si fida. « Il mio unico grande amico », ripete, « è un cavallo. » II cavallo, probabilmente, gareggia in onori con l 'imperatore. Si chiama « Incitatus ».



    Tra le altre stranezze, l' imperatore aveva proposto di cancellare dalla storia della letteratura i nomi di Omero, Virgilio e Livio, le cui opere però, continuava a citare. Affinchè il riposo dell’ animale non venga turbato i soldati hanno l 'ordine di imporre il silenzio a tutti coloro gli stanno attorno. Oltre a una scuderia con le mangiatoie d’ avorio, gli regala un palazzo con tutti i servitori : si dice progettasse di nominarlo addirittura senatore. Il 24 gennaio del 41 è l’ ultimo giorno mo della sua breve e tumultuosa vita. L'imperatore di solito va in Senato circondato dalla guardia del corpo, e siede su una poltrona posta molto in alto, in modo da essere difficile da raggiungere. Le guardie stringono attorno a lui cortina di lance anche quanti gode gli spettacoli del circo. Ma le precauzioni non bastano. Ecco il racconto di Svetonio. « II nono giorno prima delle calende di febbraio, verso la settima ora, Caligola è invitato a lasciare il posto dal quale assiste agli spettacoli palatini, per recarsi a tavola, nonostante sia ancora appesantito dal pranzo precedente. Sono le esortazioni degli amici a farlo uscire. Lungo un corridoio che deve attraversare, si preparano in fila dei fanciulli di nobile origine, che no stati fatti venire dall 'Asia per esibirsi sulle scene. Si ferma a guardarli e a incoraggiarli. Su ciò che accade poi ci sono due versioni. Secondo alcuni mentre si intrattiene coi fanciulli, Cherea lo ferisce gravemente al collo e alle spalle con la lama del suo pugnale, pronunciando parola d 'ordine f'fate!". Al che il tribuno Cornelio Sabino, secondo congiurato, gli trapassa il petto.



    Altri raccontano che Sabino, facendo tenere lontana la folla da centurioni a conoscenza del complotto, gli domanda la parola d'ordine. "Giove", risponde Caligola, e allora Cherea grida: "Che tu sia sgozzato!” Poi, appena l 'imperatore si volge, gli fracassa il cranio. Crollato a terra, raggomitolato, Caio comincia a gridare senza interruzione d 'essere ancora vivo, ma altri congiurati gli sono addosso coi pugnali. Trenta colpi piovono su di lui. Gli uomini si danno l 'un l 'altro la cadenza gridando: "Ancora". Appena si sparge la voce dell 'attentato corrono in aiuto i portatori della lettiga imperiale, armati di bastoni, e i Germani della guardia del corpo che uccidono gli assassini e perfino certi senatori, totalmente estranei al crimine... Nessuno vuoi credere all'assassinio: si pensa che Caio faccia circolare la notizia per sondare i sentimenti del popolo. » Tutti veri i crimini, le bizzarrie, le crudeltà che gli si attribuiscono? Oggi gli storici sono portati a ridimensionare le stravaganze di Caligola. Le avrebbero esagerate, tendenziosamente, scrittori e cronisti del tempo, legati al Senato, quel Senato che l'imperatore aveva privato d'autorità, sferzato con violenza. Spietato e psichicamente debole : ma non dobbiamo credere che i provvedimenti attribuiti alla sua bizzarria nascano per caso. Egli ha preso il posto di Tiberio molto giovane, in una città che la lotta politica rende corrotta e pronta ad ogni crimine. La fragilità dei suoi nervi, il peso e la gioia del potere, possono fargli perdere la testa. Non dimentichiamo che, a parte gli intrighi (a volte orribili), si mostra un eccellente diplomatico. La restaurazione dei regni cancellati da Tiberio, il rimettere sul trono i sovrani spodestati, gli vale una cortina di popoli amici, che alleggeriscono la pressione ai confini. Vuoi trasformare la parte orientale del dominio romano in una federazione di stati indipendenti, ma protetti. È la formula scelta dagli inglesi per i loro dominions duemila anni dopo. Non a caso è stato ucciso alla vigilia di una spedizione contro i Parti. Ancora una vittoria e il suo potere, tenendo conto delle alleanze esterne, diventava indistruttibile. Poi c'è il campanilismo : Caligola aveva fatto balenare la possibilità di trasferirsi ad Alessandria d ' Egitto. La gelosia dei romani per gli orientali che egli adora (ristabilendo culti religiosi un tempo proibiti), si esaspera e affretta le decisioni. Perché, senza declassare subito la capitale, Caligola poteva dimostrare come fosse più facile controllare l 'impero stando alle foci del Nilo. Pilotare da lontano, come Tiberio. Alessandria è la sua Capri, in fondo. Una Capri mai raggiunta.
    (Tratto da Storia Illustrata anno 1970, del mese di luglio, numero 152. Maurizio Chierici)



     
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