Gli ultimi luoghi della Terra: tribù sconosciute,

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    tribù in Africa


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    La canzone della vita



    Voglio raccontarvi una storia che assomiglia ad un sogno…..
    La storia racconta di una tribù in Africa, e se è vera, è meraviglioso. E se non è vera, dovrebbe essere vera…….

    E la storia inizia quando una donna è incinta di un bambino, e tutte le donne del villaggio vanno con lei nella foresta. Lei siede in mezzo, e le donne siedono intorno a lei.

    E tutte le donne ascoltano in silenzio tranquillamente fino a che sentono la canzone del bambino non ancora nato.

    E quando sentono questa canzone, tutte le donne la cantano alla donna che diventerà madre.

    E quando è ora che il bambino nasca, le donne si riuniscono e con il loro canto fanno entrare il bambino nel mondo.

    Il bambino viene salutato proprio con la sua canzone. E quando cresce, se fa cose che non dovrebbe fare, anziché punirlo, il villaggio si riunisce in cerchio, e il bambino viene messo nel centro. E così cantano la canzone del bambino, per ricordare a quel bambino chi è.

    E nei momenti della vita che sono importanti come i passaggi o il matrimonio, viene cantata di nuovo la canzone del bambino.

    Per cui la canzone accompagna questo bambino per tutta la vita e quando arriva il momento di morire, tutto il villaggio si riunisce e canta fuori l’anima con la sua canzone.

    Desidero per me e per ciascuno di voi, di cominciare a sentire la nostra canzone.

    Che si possa camminare attraverso la vita cantandola, e sapere che la nostra canzone

    va insieme alla canzone dell’universo.

    ( Sidra Levi Stone)
    le tribu'







    LE CONOSCENZE ASTRONOMICHE DEI DOGON


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    Dogon

    Le conoscenze astronomiche dei Dogon

    I Dogon sono una tribù indigena che occupano da migliaia di anni una regione del Mali, a sud del deserto sahariano. La tribù è composta da circa 100.000 membri. La tribù è molto solitaria e vive in caverne alle pendici di una collina, oppure sparsi su un altopiano roccioso facente parte dei Monti Homburi, vicino Timbuktu, nel sud-ovest del Mali. Per secoli i Dogon sono stati geograficamente e culturalmente isolati. L'impressione che se ne ricava è che ben difficilmente questa tribù possa detenere conoscenze avanzate in campo astronomico. Ma questo pregiudizio dimostra che spesso ci facciamo trarre in inganno dall'apparenza esteriore.

    Si crede che i Dogon discendano dagli antichi egizi. Dopo aver vissuto in Libia per qualche tempo, essi si stabilirono in Mali intorno al 3.200 a.C., portando il loro patrimonio di leggende astronomiche.


    I primi scienziati occidentali che visitarono e studiarono i Dogon furono gli antropologi francesi Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, che presero inizialmente contatto con la tribù nel 1931 e continuarono a studiarli per i succesivi 30 anni. Il periodo di studio più intenso e fruttifero fu quello dal 1946 al 1950. Durante questi lavori, gli antropologi documentarono la mitologia tradizionale e le sacre credenze dei Dogon, che comprendono straordinarie conoscenze antiche riguardanti Sirio, la brillante e lontana stella della Costellazione del Cane.

    I loro sacerdoti raccontano di una segreta leggenda Dogon riguardante proprio la stella Sirio (distante 8,6 anni luce dalla Terra). Essi dicono che Sirio ha una compagna e questa è invisibile all'occhio dell'uomo. Essi affermano che questa stella più piccola ruota con un'orbita ellittica attorno a Sirio, impiegando 50 anni a compiere un giro completo; e, pur essendo piccola, è incredibilmente pesante, e ruota sul proprio asse.

    Con un'incredibile sforzo di fantasia, i moderni astronomi chiamano Sirio "Sirio-A" e la stella più piccola "Sirio-B". Sirio-B è stata avvistata per la prima volta con un telescopio nel 1862 e non fu fotografata fino al 1970.Per i Dogon, Sirio-B si chiama "Po Tolo", espressione formata dalla parola "stella" (tolo) e da "po", il nome del più piccolo seme da loro conosciuto. Con questo nome essi vogliono significare che Sirio-B è la stella più piccola. Essi dicono infatti che Po Tolo è "la cosa più piccola che esiste" e, aggiungono, che è bianca ed "è la stella più pesante".

    Secondo i Dogon, Po Tolo è composta di un metallo misterioso e super-denso, chiamato "sagala" che "è più pesante di tutto il ferro contenuto nella Terra".

    Solo nel 1926 gli scienziati scoprirono che la piccola Sirio-B è una nana bianca, una categoria di stelle caratterizzate da un'altissima densità. Nel caso di Sirio-B, gli astronomi hanno stimato che un singolo metro cubo di questa stella possa pesare circa 20.000 tonnellate. Molti manufatti dei Dogon descrivono il sistema di Sirio, inclusa una statua esaminata da Dieterlen, vecchia di almeno 400 anni.


    Anno dopo anno ci sono giunte dagli astronomi le conferme che le antiche leggende dei Dogon sono scientificamente corrette: infatti è stato verificato che Sirio-B possiede un'orbita ellittica, con Sirio-A posto in uno dei due fuochi dell'ellisse; che il periodo orbitale è di circa 50 anni (esattamente 50,04 +/- 0,09 anni), e che la stella ruota sul proprio asse.

    I Dogon descrivono anche una terza stella nel sistema di Sirio, chiamata "Emme Ya" ("sorgo femmina"). Nell'orbita di questa stella, essi dicono, c'è un singolo pianeta. Sino ad oggi, Emme Ya non è stata ancora identificata dagli astronomi.


    In aggiunta alle loro cognizioni su Sirio, la mitologia dei Dogon ci racconta degli anelli di Saturno e delle quattro principali lune di Giove. Essi usano quattro calendari, aventi come riferimento il Sole, la Luna, Sirio e Venere e da tempo immemorabile sanno che questi pianeti ruotano attorno al Sole.

    I Dogon ci dicono che le loro conoscenze astronomiche gli sono state trasmesse dai "Nommo", esseri anfibi inviati sulla Terra da Sirio per il bene dell'umanità. I Nommo sono anche chiamati i Padri dell'Acqua, i Guardiani e i Maestri. Secondo la leggenda Dogon, i Nommo, esseri enormi e spaventosi, arrivarono a bordo di una navicella, tra fuoco e tuoni. Dopo il loro arrivo, costruirono un bacino colmo d'acqua dove si immersero. Esistono molti riferimenti nella tradizione orale, nei graffiti e nelle tavolette cuneiformi dei Dogon, che descrivono questi esseri simili all'uomo ma con le squame al posto della pelle nella parte bassa del corpo. Dunque i Nommo erano simili a pesci e vivevano nell'acqua.

    Essi vengono descritti come salvatori e guardiani spirituali: "Il Nommo suddivise il suo corpo fra gli uomini affinchè se ne cibassero, per questa ragione è detto che "l'universo è ebbro del suo corpo", e fece bere l'uomo. E donò tutti i suoi principi vitali agli esseri umani". Inoltre "il Nommo fu crocifisso e resuscitò e in futuro visiterà nuovamente la Terra, questa volta in forma umana. Successivamente egli assumerà la forma anfibia e guiderà il mondo dalle acque".La mitologia Dogon è conosciuta solo da alcuni loro sacerdoti ed è parte di un complesso sistema di conoscenze.

    Secondo i Dogon, questi segreti, attentamente protetti, non andrebbero facilmente divulgati agli stranieri, anche se amici. In effetti se la stella Emme Ya fosse effettivamente scoperta nel sistema di Sirio, fornirebbe un supporto notevolissimo alla tradizione dei Dogon. Sembra che i Nommo potrebbero vivere sulla terra, ma sarebbero più inclini a dimorare nell'acqua, essendo in parte simili a pesci (probabilmente una via di mezzo tra le sirene e i tritoni). Esistono testimonianze di creature simili anche in altre antiche civiltà: Oannes di Babilonia, Ea di Accadia, Enki dei Sumeri e la dea Iside degli Egizi. Secondo i Dogon è proprio dai Nommo che provengono le loro conoscenze astronomiche. Cronologicamente, le prime entità anfibie sarebbero riconducibili agli uomini-pesci dell'antica Babilonia.

    Sarebbero coloro che i babilonesi chiamavano "Annedoti", che può essere tradotto come "repulsivo", ma nonostante le loro sembianze poco attraenti, pare che essi abbiano influenzato a sufficienza la civiltà babilonese, che accettò i loro insegnamenti e da essi acquisì i principi fondamentali della civilizzazione. Il membro più venerabile degli Aneddoti era Oannes, rappresentato negli antichi graffiti babilonesi come un complesso e singolare ibrido di uomo e pesce, con un viso barbuto al di sotto di una testa di pesce e con un corpo di pesce, ma con una schiena umana.

    Secondo le leggende babilonesi, questa divinità acquatica veniva sulla terra di giorno per diffondere i propri insegnamenti, mentre di notte si immergeva nelle acque del Golfo Persico, dove viveva, in una dimora subacquea chiamata Apsu. E' Oannes il Nommo a cui fanno riferimento i Dogon? Una figura equivalente ad Oannes è citata dalla religione dei Filistei, i quali risiedevano nell'area dell'attuale Israele. Questa divinità con il corpo di uomo e l'estremità di pesce era chiamata Dagon. Se ci spostiamo più ad est, nel basso Egitto, la località di Pharos era considerata la dimora del Padre del Mare, una divinità anfibia conosciuta come Proteus, figlio degli Oceani e considerato un oracolo dagli antichi Greci.

    Curiosamente, la leggenda evidenzia il fatto che Proteus cercava riparo in una caverna per evitare il calore di Sirio. Robert Temple nel suo libro Il Mistero di Sirio, cita appunto i Dogon, descrivendoli come una tribù di 100.000 uomini, insediatisi nell'Africa occidentale. Una delle prove principali portate da Temple riguarda la conoscenza dei Dogon circa la stella Sirio e la sua compagna Sirio B. Come abbiamo detto, essi sanno che Sirio B orbita attorno a Sirio in una rivoluzione di 50 anni.

    Temple inoltre evidenzia che questa leggenda è parte di un corpus di conoscenze astronomiche che includono la rappresentazione eliocentica del nostro sistema solare, le orbite ellittiche dei pianeti, i satelliti di Giove e gli anelli di Saturno. Da dove provengono queste conoscenze vecchie di migliaia di anni, si chiede Temple, se non da visitatori extraterrestri? Il mistero continua.
     
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    "La primavera è tornata, il sole ha abbracciato la terra...

    Presto vedremo i figli del loro amore...

    Ogni seme, ogni animale si è svegliato...

    Anche noi siamo stati generati da questa grande forza...

    Per questo crediamo che anche gli altri uomini e i nostri fratelli

    animali abbiano il nostro stesso diritto a vivere su questa terra".


    Gli ultimi luoghi della Terra: tribù sconosciute, zone vergini e vette inviolate
    Ci sono punti del pianeta dove l'uomo non ha ancora messo piede oppure non conosce chi ci abita

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    Una veduta aerea della zona di Acasta, a nord di Yelloknife, nei Territori del Nord Ovest del Canada, dove sono state trovati affioramenti di rocce che risalgono a 4,03 miliardi di anni fa (newarkcampus.org)


    La Terra non è un pianeta così noto come siamo generalmente portati a pensare. Il fatto che la popolazione mondiale, nell'ultimo secolo, sia passata da un miliardo a oltre sei, spinge a credere che il Mondo sia ormai occupato, o almeno conosciuto, in ogni suo angolo. Ma le cose, come ha mostrato una serie di servizi del New Scientist, e tradotti da Internazionale, non stanno così. Sul pianeta esistono ancora molti “ultimi luoghi”; dove l’uomo non è ancora arrivato, o del quale non esiste una mappa, o dove vive gente non ancora entrata in contatto con la civiltà. Secondo le ricerche di Survival International sono ancora più di 100 le tribù, per un totale stimato in circa 40mila persone, non ancora entrato in contatto con il resto del Mondo.

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    Una veduta aerea della zona di Acasta, a nord di Yelloknife, nei Territori del Nord Ovest del Canada, dove sono state trovati affioramenti di rocce che risalgono a 4,03 miliardi di anni fa (newarkcampus.org)
    L’ULTIMO POSTO IN CUI NESSUNO HA MAI MESSO PIEDE - Il Gangkar Puensum, nel Bhutan, con i suoi 7541 metri è l’ultimo luogo della Terra più alto mai raggiunto da un umano. Gli alpinisti hanno tentato tre volte di raggiungere questa vetta ma dal 1994 il governo del paese asiatico ha proibito nuove spedizioni, per rispettare le tradizioni religiose della popolazioni locali. Ma anche dove non ci sono divieti "politici", sono moltissime le montagne ancora vergini. Solo nella regione tibetana di Nyainqentangla Est 159 cime su 164, tutte al di sopra dei 6mila metri, non sono mai state scalate. Altre si trovano in Groenlandia, per non parlare di quelle dell’Antartide. Ultimi luoghi non ancora raggiunti da piedi umani sono anche quelli che si trovano sotto la superficie terrestre: la grotta più grande della Gran Bretagna, battezzata Titan, nel Derbyshire, è stata scoperta solo nel 1999 e gli speleologi sono convinti di avere ancora molta di strada da fare, prima di poter dire che non esitano cavità sconosciute.

    L’ULTIMO POSTO SENZA UNA MAPPA – L’uomo fa e, ultimamente, disfa. E’ il caso del mare di Aral: non esiste più e, al suo posto, si estende un deserto di 50mila km quadrati. E’ questo l’ultimo luogo della terra del quale non esiste una mappa. Solo foto satellitari. Fino a quarant’anni fa Muynak, in Uzbekistan, era una delle più importanti località di villeggiatura dell’Unione Sovietica e un attivissimo porto di pesca. Ora, da Muynak, l’acqua di quello che era il quarto lago più esteso del mondo, non si vede nemmeno all’orizzonte. C’è solo sabbia. La canalizzazione selvaggia, lunga oltre 40mila km, dei due fiumi Ama Dariya e Syrdariya, per irrigare giganteschi campi di cotone e riso, si è rivelata nel corso degli anni all'origine di un disastro ambientale le cui proporzioni non sono ancora misurabili fino in fondo. Intanto però si sa per certo che malnutrizione, carestie, mancanza di acqua potabile e mutamenti climatici hanno messo in ginocchio decine di migliaia di persone. Una ricerca di Medicins Sans Frontieres tra la popolazione dell’area documenta che questa è diventata la zona del mondo con il più alto numeri di casi di tubercolosi. E che molti ceppi non risultano curabili.

    L'ULTIMO POSTO ENTRATO IN CONTATTO CON LA CIVILTA' - Filadelfia, Paraguay, paese al confine con la giungla. A circa cento chilometri da qui c'è l'ultimo luogo della terra dove un gruppo di umani, che nessuno aveva mai visto prima, il 3 marzo 2004 decise che era venuto il momento di rompere gli indugi. Diciassette indigeni Ayoreo uscirono dalla vegetazione spinti dalla sete perché gli allevatori di bestiame si erano appropriati delle loro riserve d'acqua. Se non messi in ginocchio da condizioni esterne ed estreme, i "selvaggi" solitamente ben si guardano dall'entrare in contatto con il resto del mondo. Anzi: nel 2006 i sentinelesi, indigeni che abitano una minuscola isola delle Andamane, hanno ucciso due pescatori che si erano avvicinati troppo alle loro coste e, subito dopo lo tsunami del 2004, scagliarono frecce verso gli elicotteri che sorvolavano la loro isola. Il ministero brasiliano per gli affari indigeni ha aggiornato recentemente l'ultima stima del 2005 sulle tribù ancora sconosciute nel proprio territorio ed ha alzato il numero da 40 a 67.


    Gli 'uomini rossi' dell' Amazzonia scoperta la tribù incontaminata

    Una delle ultime tribù mai entrate in contatto con altri esseri umani è stata avvistata in Brasile dal Fronte di Protezione etnoambientale del Funai che stava sorvolando l' area vicina al fiume Evira proprio alla ricerca di conferma dell' esistenza di questo gruppo etnico. «Dapprima hanno guardato l' aereo impauriti, poi, dopo aver messo al riparo nella foresta mogli e i figli, hanno reagito e hanno iniziato a lanciare frecce per tenerci lontano». José Carlos dos Reis Meirelle Junior, coordinatore dell' associazione, che si trovava sull' aereo, descrive così l' incredibile scoperta antropologica. La comunità appena individuata nello Stato di Acre, al confine con il Perù, vive in capanne costruite su uno spiazzo strappato alla foresta ed è composta da una quindicina di persone. Gli uomini, definiti "forti e in buona salute", hanno il corpo interamente dipinto di rosso. Il loro avvistamento è una conferma che la foresta è ancora uno scrigno importante per la sopravvivenza di tribù isolate. «La scoperta ha grande valore perché molti sostengono che queste tribù non esistono più. Lo hanno fatto il Presidente del Perù, Alan Garcia, sulle pagine del quotidiano El Comercio nel novembre scorso e anche Cecilia Quiroz, portavoce della Perpetro (l' ente governativo responsabile dell' assegnazione delle licenze per l' estrazione petrolifera), che ha paragonato l' esistenza delle tribù alla leggenda del mostro di Loch Ness», spiega Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia. Definirli "leggenda" o addirittura sostenere che sono "inesistenti" spesso serve agli Stati e alle multinazionali per preservare i proprio interessi economici a scapito di queste popolazioni. Nel mondo si contano un centinaio di gruppi che vivono in quasi totale isolamento dal resto degli esseri umani. Una condizione che, nel XXI secolo, è difficile persino concepire. «Qualcuno in effetti, può anche non aver mai avuto contatti con i brasiliani, ma, almeno in passato, avrà certamente conosciuto le tribù vicine. Altri hanno avuto contatti con i coloni, sia pure centinaia di anni fa. Alcuni dei "popoli" non contattati sono di fatto piccoli gruppi appartenenti a tribù i cui altri membri, invece, hanno rapporti con gli stranieri, spesso in "luoghi di contatto", che per il Brasile, per esempio, sono stabiliti dal governo». Evitare ogni rapporto con l' esterno in modo assoluto, non è così semplice, anche se questa sarebbe la strada migliore per sopravvivere. Ma come vivono queste tribù? «Ogni comunità ha un proprio stile di vita. I Totobiegosode, il gruppo più isolato degli Ayoreo vivono in piccoli gruppi in una fitta foresta che si estende tra il Paraguay, la Bolivia e l' Argentina. Coltivano zucche, fagioli e meloni, raccolgono miele selvatico e cacciano tartarughe e maiali che vivono nella foresta. Ma oggi, la loro terra è finita quasi tutta in mani private che cercano petrolio. Spesso, pur di sottrarre terre, lo scontro è inevitabile e chi ci rimette sono gli uomini delle tribù», spiega Casella. Non tutte le tribù sconosciute però, vivono in America latina. La tribù dei Jarawa, per esempio, vive nelle foreste pluviali delle isole Andamane, in Oceano Indiano. E' composta da circa 300 persone che si spostano all' interno della foresta in gruppi di 40-50. Gli interessi economici (legno e petrolio) che circondano queste poche decine di comunità sconosciute sono tali che a stento esse riescono a sopravvivere. Ma si può ancora sperare in un loro futuro? Casella: «Se togliamo dai nostri pensieri l' idea che essi sono "popoli primitivi" o "reperti archeologici" destinati inevitabilmente all' assimilazione culturale ed economica, oppure all' estinzione essi possono continuare a convivere con noi. La storia dimostra che laddove le loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il futuro della tribù è assicurato».
     
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    Gli ultimi uomini -Viaggio tra le tribù della Nuova Guinea


    In un'epoca in cui gli esploratori possono utilizzare i telefoni cellulari per chiamare dalle vette dell'Himalaya, l'Irian Jaya e la Papua Nuova Guinea sono rimasti gli unici luoghi immuni alla 'civilizzazione': in questa parte del mondo ci sono ancora centinaia di popolazioni sconosciute, molte delle quali in via di estinzione. La mostra ci conduce nelle ultime enclave preistoriche, luoghi intatti in cui il tempo e la natura sono quelli degli albori dell'umanità. Questo patrimonio, che probabilmente non riuscirà ad opporsi all'avanzare della modernità, è accuratamente descritto in questa mostra che è un'indagine unica sulla vita quotidiana e sulle sfide che queste popolazioni devono affrontare.


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    Alla tribù del nostro wantok appartiene un personaggio inquietante.
    Questo guerriero, che indossa una spaventosa maschera da primate,
    si muove con inaspettata agilità, impersonando uno spirito folle ma benevolo.




    La Nuova Guinea è la patria indiscussa degli ultimi uomini della Terra. Qui, tra angoli di preistoria nascosti dal tempo e dalla natura, sopravvive ancora qualcosa dell'uomo originario, colui che non ha ancora varcato il confine ideale tra il necessario e il superfluo, dovendo quotidianamente adoperarsi per risolvere i problemi relativi al cibo e alla sopravvivenza e non solamente scegliere tra molteplici alternative preparate per lui da altri.

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    Le danze degli inquietanti mud men sono in realtà sequenze di un'antica battaglia.
    Archi, frecce e bastoni sono le armi esibite da questi guerrieri coperti
    di fango che si muovono minacciosamente in cerca di un bersaglio.



    Un territorio ostile e privo di collegamenti di qualsiasi genere, lontano quanto più possibile dai predatori occidentali, apparentemente privo di ricchezze facilmente asportabili e infine una sinistra fama di antropofagia e di taglio di teste hanno protetto gli abitanti di questo preistorico Eden fino alla fine del secondo millennio. Solamente qui, mentre gli esploratori di oggi vengono redarguiti dai moderni Gps quando escono dalla rotta prestabilita, è ancora possibile trovare qualcuno a cui chiedere che sapore avesse la carne umana.

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    Abitanti dell'ultima terra dimenticata dal tempo, gli indigeni papuani esibiscono pitture
    corporali dai colori e dai disegni estremamente marcati. Tanta forza espressiva riflette
    la vitale importanza dell'identità tribale in una popolazione indigena tra le più variegate al mondo




    Olga Ammann, la scrittrice antropologa divenuta famosa per le sue interviste a ex cannibali, riporta: 'a questa domanda gli occhi dei vecchi guerrieri si accendono. 'Era carne', rispondono con prudenza. Ma sanno disquisire anche sulle differenze.
    E solamente qui, in Nuova Guinea, è possibile incontrare uomini completamente concentrati su loro stessi, straordinariamente e giustamente consapevoli soltanto della parte di mondo che il loro sguardo riesce ad abbracciare. Nessuno ha ancora inquinato questa terra con notizie provenienti da altri luoghi lontani e sconosciuti. Questi uomini possono quindi credere di essere in grado di affrontare e risolvere qualsiasi problema, perché hanno conoscenza solo di ostacoli per loro affrontabili e risolvibili.

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    Sole e silenziose, isolate dalla confusione dei canti, procedono le vedove.
    Lo sguardo attonito, gli occhi fissi su un punto lontano. Non un gesto,
    non un rumore, se non lo strisciare dei feretri trascinati alle loro spalle.



    Questa meravigliosa e anacronistica visione del mondo non li salverà tuttavia dagli osceni progetti che irresponsabili 'portatori sani' di turismo stanno architettando alle loro spalle e a loro insaputa.
    Prima che tutto questo accadesse, Iago Corazza e Greta Ropa hanno parlato con questi uomini, conosciuto le loro storie, li hanno fotografati, hanno imparato le loro abitudini mentre li guardavano vivere.

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    Non hanno certo conosciuto i primi, perchè erano trascorsi anni, anche se non molti, dall'arrivo dei missionari che li avevano inizialmente avvicinati. Ma hanno conosciuto gli ultimi. Raccontando le storie degli Ultimi Uomini sulla Terra forse potremo ottenere per loro un riscatto e per noi qualcosa di simile a un perdono.


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    Abitanti dell'ultima terra dimenticata dal tempo, gli indigeni papuani esibiscono
    pitture corporali dai colori e dai disegni estremamente marcati. Tanta forza espressiva riflette
    la vitale importanza dell'identità tribale in una popolazione indigena tra le più variegate al mondo.
     
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    Le cristallerie del diavolo

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    Tappeti pungenti, meduse pietrificate e persino… spade nella roccia. Sono nascosti in grotte sorprendenti, mondi segreti che unicamente gli speleologi, talvolta soltanto i più coraggiosi, riescono a vedere.
    Max Wisshak è uno di questi. In uno stupefacente libro - Inside Mother Earth (Dentro la Madre Terra) - ha raccolto le tappe di un viaggio fotografico realizzato in diverse esplorazioni speleologiche.
    Le luci del fotografo illuminano particolari di formazioni geologiche - dalle stalattiti a impressionanti colonne di ghiaccio - e grandi profondi spazi di grotte così come di altre mete sotteranee raggiunte da questo straordinario fotografo e speloelogo. Una serie di immagni a colori di grande interesse.
    Che vi mostriamo in queste pagine.
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    Pronti a scendere nel ventre della Terra? Non sempre è facile. Una discesa di 40 metri porta a una grande caverna. È nel Causse Noir (sud della Francia), altopiano calcareo dove le acque hanno scavato grotte: le rocce calcaree sono disciolte più facilmente dall’acqua, acida per la CO2 contenuta

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    Nella vastità di questo pozzo profondo più di 100 metri è facile perdere le proporzioni. Lo vedete lo speleologo che si sta calando in corda doppia?


    In una grotta sul massiccio francese della Montagne Noire, una spettacolare “medusa” di calcite rossa: le stalattiti di questo minerale si formano dalla precipitazione del carbonato di calcio presente nelle goccioline d’acqua che scendono nelle grotte. image
     
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    Pigmei

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    I pigmei sono un gruppo etnico diffusi in gran parte dell'Africa equatoriale. Sono di bassa statura (inferiore ai 150 cm), e caratterizzati da pelle scura, capelli crespi, naso schiacciato e cranio brachiomorfo.
    Il nome "pigmeo" deriva dal greco πυγμαιος pygmâios ("alto un cubito") che i Greci usavano per riferirsi a un leggendario popolo di nani, localizzato a sud dell'Egitto o in India, perennemente in guerra contro le cicogne (o le gru) che devastavano i loro campi.
    Per estensione, il nome "pigmei" viene indicato per riferirsi ad altri gruppi etnici di bassa statura, per esempio gli Andamanesi, i Semang della Malesia o i Negritos delle Filippine.

    Distribuzione [modifica]

    Gruppi di pigmei sono diffusi lungo gran parte della fascia tropico-equatoriale dell'Africa; sono presenti in Camerun, Repubblica Centroafricana, Gabon, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Ruanda. Si tratta di comunità di dimensioni molto ridotte; il numero totale dei pigmei africani si stima infatti essere inferiore a 250.000.
    Storia [modifica]

    In Egitto sono state ritrovate iscrizioni del secondo millennio a.C. che si riferiscono ai pigmei come "Danzatori degli Dei". Anche da questi antichi contatti con la civiltà egizia si desume che i pigmei vivessero un tempo in regioni molto più a nord di quelle che abitano oggi, forse fino all'Alto Nilo. In una lettera pervenutaci in condizioni integre e risalente all'Antico Regno, un faraone ringraziava un suo governatore, Harkhuf, per avergli fatto dono di un "nano" proveniente dalla "terra degli spiriti" (espressione che gli egizi usavano per riferirsi ai territori a sud del loro dominio).[1]
    Nell'arte romana, i pigmei della valle del Nilo sono spesso rappresentati come figure caricaturali,in scene che urtano la sensibilità umana per lo scarso pudore: sesso estremo, già ampiamente diffuso tra i romani, specialmente tra i soldati di alto rango, con il quale si ristoravano dopo le estenuanti battaglie. Alcuni affreschi con questo tipo di soggetti, rinvenuti a Pompei, sono oggi esposti al Museo archeologico nazionale di Napoli. Altre scene erotiche con pigmei sono ancora visibili a Pompei, per esempio sul fianco di un triclinio nella Casa dell'Efebo.
    In antichità i pigmei ebbero contatti anche con i popoli bantu dell'Africa subsahariana, che erano molto superiori dal punto di vista tecnologico, e non ebbero difficoltà a cacciarli dalle loro terre o sottometterli. Nella cultura bantu i pigmei sono identificati da nomi come batwa ("piccoli uomini").
    Cultura [modifica]

    Insieme ai boscimani, i pigmei sono fra i pochi popoli africani ad avere conservato una cultura e una tecnologia di tipo preistorico. Sono cacciatori-raccoglitori; gli uomini cacciano con arco e frecce avvelenate, e le donne pescano. Il loro stile di vita è in gran parte basato su una profonda conoscenza dell'ambiente (per esempio degli usi delle piante a fini curativi o per la produzione del veleno). In alcuni casi praticano modesti scambi commerciali con i popoli vicini (per esempio bantu). Lavorano il legno e l'osso (ma non la pietra).
    Sono considerati "nomadi stanziali": ogni tribù (composta in genere di poche famiglie) si sposta periodicamente da un accampamento all'altro, sempre rimanendo all'interno di un'area circoscritta.
    Le pratiche religiose dei pigmei sono incentrate sulla credenza negli spiriti e in una particolare forma di metempsicosi, che prevede la trasmigrazione dell'anima del morto dentro il corpo di un elefante[2].
    I matrimoni tra pigmei sono di natura esogamica; per riequilibrare il rapporto fra donne e uomini all'interno di ogni gruppo sociale, il gruppo ricevente una sposa è tenuto a concederne una a quello offerente.
    La sopravvivenza delle comunità pigmee e delle loro tradizioni è messa in pericolo tanto dall'impoverimento ambientale, dalla deforestazione e dalla difficoltà di integrazione nella società africana moderna.
    Il dio supremo della loro religione tradizionale, Kvum, viene descritto come il creatore e signore di tutte le cose. Presenza tangibile, comanda sopra ogni uomo, controllandone ogni azione. Secondo la mitologia dei pigmei, il primo uomo e la prima donna (Ntaum e Rae) ebbero origine da due uova di tartaruga; oppure (a seconda delle tradizioni) Kvum li creò soffiando in una noce di cola.





    Il popolo della foresta nera

    "Forse lo vedremo quando moriremo, ma allora non potremo più dirlo... Non possiamo sapere a che cosa assomiglia o come si chiama, ma sappiamo che deve essere buono, perché ci dona tante cose, e sappiamo che si trova certamente nella foresta"

    "All'inizio- dice un vecchio pigmeo- Dio viveva con la gente e dava loro i suoi comandamenti. Egli creò il mondo. Egli non può mai morire. Se egli morisse il mondo finirebbe con lui. Dio è il signore di tutte le cose. Egli comanda sopra ogni uomo, del quale controlla ogni sua azione giorno e notte".
    Origine dell'uomo e degli animali

    In origine non c'era che acqua, acqua a perdita d'occhio fin sopra alle più alte montagne. Sulle acque nuotava una tartaruga enorme, coprendole in parte con il suo guscio. La tartaruga faceva le uova, e queste uova generavano animali, uccelli e rettili. Passò una piroga. Due uova vi caddero dentro e da queste due uova nacquero il primo uomo e la prima donna. Si chiamarono Ntaum e Rae.

    Origini dell'umanità
    (Pigmei del Gabon)

    Kmvum, il dio creatore era solo al villaggio e si annoiava.
    Allora disse: - Farò degli uomini ed essi mi faranno da mangiare. - Subito andò nel bosco e si diresse verso l'albero di cola, lo scosse e le noci caddero a terra. Le mise nel sacco da cacciatore fino a riempirlo e tornò al villaggio. Così fece per alcuni giorni finché ebbe accumulato un gran numero di noci nella sua capanna. Dato uno sguardo al mucchio disse: - Ora basta!
    Prese le noci, scese alla spiaggia e le mise nella piroga, poi chiamò il coccodrillo dicendo: - Vieni! - Il coccodrillo venne e fu attaccato alla piroga. Il dio disse: - Va' al largo - e il coccodrillo cominciò a remare e remò tanto che il sangue gli usciva dalla punta delle unghie.
    L'acqua era tanta che non se ne vedeva la fine e il coccodrillo seguitò a tirare finché il Creatore comandò: - Fermati!
    Allora il dio prese una noce, la più grossa che trovò, la girò fra le mani a lungo, vi soffiò sopra e disse:
    - Tu sarai un uomo, il primo uomo.
    - E gettò la noce di cola verso la terra. La noce rimase a galla ed andò verso terra. I1 Creatore prese un'altra noce e la gettò lontano nell'acqua dicendo:
    - Tu sarai una donna!
    E la noce se ne andò verso terra.
    Lo stesso fece con tutte le altre noci, l'una dopo l'altra.
    Poi disse al coccodrillo: - Torna indietro! - E il coccodrillo ubbidiente, si mise di nuovo a remare.
    Giunto che fu alla spiaggia, il Creatore mise piede a terra. Tutti gli uomini erano lì ad aspettarlo.
    I1 Creatore li condusse tutti al suo villaggio e quando furono sulla piazza disse: - Voi abiterete qui. Ecco le vostre capanne.




    Il popolo della foresta nera

    "La foresta è la nostra casa; se lasceremo la foresta o se la foresta morirà, anche noi moriremo. Noi siamo il popolo della foresta"

    Moke, un anziano Mbuti

    Situato nell'Africa centrale, il Camerun si estende dal golfo di Guinea fino alla sponda meridionale del lago Ciad. Le diverse popolazioni che vi abitano, creano una grande varietà etnico culturale e religiosa. Accanto ai Douala, Bamileke, Peul, Bulu, ci sono minoranze come il popolo Mbuti noti come i Pigmei (nome che deriva dal greco e che significa di bassa statura), che da secoli vivono nella foresta del centro sud. I Pigmei sono circa 250.000 in tutta l'Africa centrale, il cambiamento del loro habitat naturale per la deforestazione selvaggia, la conseguente scarsità di animali da cacciare e i governi, preoccupati per la sicurezza dei loro confini, obbligano i Pigmei ad abbandonare la foresta e a stabilirsi in maniera stanziale lungo le piste. E' un popolo gentile e pacifico che ha la capacità di mimetizzarsi così bene nella foresta che chiunque può passarci senza notarli. Sebbene siano separati dalla distanza e parlino diverse lingue, la maggior parte dei gruppi è unita dallo stesso profondo legame con la foresta che abitano.


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  6. gheagabry
     
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    Il giorno che moriremo una lieve brezza cancellerà le nostre impronte sulla sabbia.
    Quando calerà il vento chi dirà nell’eternità che una volta camminammo qui, all’alba del tempo?
    (poesia boscimane)


    I boscimani del Kalahari



    "Le cose miglioreranno per voi e i vostri figli", ci dicevano. E all'inizio abbiamo creduto nelle cose che ci venivano dette.Ci dicevano che avremmo dovuto mandare i nostri figli a scuola, e che i nostri figli avrebbero badato a noi una volta che si fossero civilizzati, come quelli che erano andati a scuola e che avevano imparato a leggere e a scrivere. Abbiamo aspettato a lungo quel giorno. Non capivamo sempre esattamente, ma credevamo che le cose sarebbero migliorate. Le cose che avevamo imparato dai nostri vecchi non potevano piu' aiutarci ormai.Ora alcuni dei nostri figli hanno gia' finito gli studi, vengono a casa e non riescono a trovare lavoro. Non possono fare neanche cio' che i nostri vecchi avevano insegnato a noi perche' non conoscono la savana e gli animali. Per troppo tempo siamo stati in collera e ancora lo siamo. Abbiamo perduto tutto, la nostra terra e cio' in cui credevamo. Ora abbiamo capito che ci dobbiamo muovere da soli. Forse se potessimo fondare una nostra scuola, dove i nostri figli possano imparare i nostri vecchi valori, la nostra lingua, e a lavorare bene con le mani cosi' come con la testa, come avviene nelle altre scuole, potremmo finalmente risollevarci. La scuola e' cio' di cui abbiamo bisogno, dobbiamo farla da noi, nel senso vero e proprio della parola.

    Altra gente ci aiutera', ma un giorno i nostri figli potranno fare le cose da soli, come le facevamo noi molto tempo fa.

    Questo colloquio avuto con un vecchio Boscimane di East Hanahait in Botswana descrive perfettamente la situazione dei Boscimani di oggi, prossimi all'estinzione fisica, costretti ancora una volta a cercare di adattarsi ad un mondo che si allontana sempre di più da quello a cui si erano conformati con grande lentezza in migliaia di anni.

    Molta gente dopo aver letto i soliti libri di avventura, va in Africa e si chiede: "Dove posso trovare un vero Boscimane"?

    Che cosa e' accaduto ai cosiddetti "primi abitatori"?

    Tracce dal Nord e dal Sud, segnate soltanto da misteriosi graffiti rupestrie ossa di quasi 50.000 anni fa, conducono al deserto del Kalahari.

    Per i Boscimani del Kalahari, la maggior parte del 20° Secolo e' stata cosi' traumatica come i secoli precedenti lo sono stati per i loro predecessori in Sudafrica che non sono sopravvissuti alla loro leggenda, cosi' come lo si puo' leggere nei libri di Wilbur Smith.

    Tutto inizia quando il Botswana si chiamava Bechuanaland e chiede la protezione della Gran Bretagna, sentendosi minacciato dai colonizzatori dei paesi circostanti. Naturalmente gli inglesi hanno in mente i propri interessi, e molto presto importano allevatori interessati a stabilirsi nelle vaste aree "non occupate" intorno a Ghanzi.



    Questa immigrazione viene consentita per fermare ogni possibile invasione dei Tedeschi dalla vicina Namibia, che minacciavano cosi' il sogno inglese di Cecil Rhodes di avere un impero che andasse dal Capo di Buona Speranza fino al Cairo.

    Nel Nord dello Ngamiland, migliaia di Herero erano fuggiti da una guerra senza pietà combattuta contro i tedeschi, e invadevano quindi un'area "non occupata" con le loro mandrie. A questo punto furono i Boscimani che soffrirono irrimediabilmente la perdita della terra che avevano occupato da migliaia di anni, in una tale completa armonia con la natura stessa che si potevano a malapena notare.

    Con la perdita della terra crebbe la tensione di dover vivere in villaggi, di dover aver a che fare con altre culture e altre lingue, e persino combattere in guerre che non li riguardavano.Non c'e' da meravigliarsi se ora dicono:"Dio ci ha dimenticati, siamo morti"

    Se non fosse stato per i Remote Areas Dwellers (Abitatori delle Aree Remote), organismo governativo per la tutela degli ultimi boscimani rimasti, oggi non avrebbero accesso a nessuna terra.

    I sette agglomerati dove si raggruppa la maggioranza dei Boscimani del Kalahari, assommano al 2% circa del territorio del distretto. I programmi di Governo hanno portato dispensari sanitari e la scuola primaria. In risposta alla severa siccita' degli ultimi anni, il governo ha iniziato un programma che consisteva di diverse parti, come programmi nutrizionali e programmi di lavoro assistitoper la ricerca di vene d'acqua.

    Le famiglie ora allevano bovini e capre. Sebbene la terra diventi ben presto sovrappopolata da uomini e animali e i pascoli non bastino più.

    Per risolvere i tanti problemi si devono quindi battere altre strade.

    A D'Kar, una piccola comunita' intorno a una fattoria nel cuore del Kalahari, alcuni passi sono stati fatti in differenti direzioni per risolvere i molti problemi.

    Quando divenne chiaro che la piccola comunita' non poteva pretendere l'assistenza governativa perche' si trovava su una proprieta' privata, la gente stessa si mosse per trovare una soluzione, formo' un comitato che comincio' a aiutare gli individui e i piccoli gruppi creando infrastrutture.

    Era negli scopi del comitato coinvolgere la gente responsabilizzandola. Quello che si puo' vedere oggi e'l'esempio degli sforzi dell'unico gruppo autorganizzato di Boscimani in Botswana.

    Come risultato di questo lavoro, gruppi di donne oggi cuciono e producono coperte a telaio e teli decorati a mano, usando propri disegni o disegni degli artisti del centro d'arte.

    Il centro d'arte pittorica funziona a pieno ritmo; annualmente la sua produzione viene esposta al Museo di Arte Tribale di Gaborone. Oggi i resti di quello che erano i Boscimani, sopravvivono soltanto nel Desero del Kalahari.

    Contrariamente alle credenze popolari questi sopravvissuti non sono piu' i discendenti di coloro che dipinsero i graffiti piu' antichi e che furono spinti nelle aree piu' inospitali da popoli molto piu' potenti di loro; oggi non fanno piu' graffiti e non hanno piu' tradizione di arte rupestre , i gruppi che vissero piu' a sud detentori di questa arte, parlavano linguaggi diversi. Divennero virtualmente estinti circa un secolo fa come risultato della colonizzazione bianca."

    Col periodo coloniale nacque in Botswana una economia legata all'allevamento, le esportazioni di bovini, divennero la fonte di maggior reddito del paese. Il Governo per tutelare gli allevatori dalle malattie che gli animali di allevamento potevano contrarre dagli animali selvatici, fece innalzare una recinzione che ancor oggi divide di fatto il Botswana in due meta' . Una recinzione ininterrotta di migliaia di chilometri che impedisce le migrazioni di animali da nord a sud.I Boscimani che vivevano di caccia, persero da un giorno all'altro la possibilita' di cacciare gli animali che dal deserto del Kalahari erano soliti migrare a nord per abbeverarsi. Per poter sopravvivere si misero quindi a predare gli animali di allevamento, scatenando la reazione violenta degli allevatori.

    Adesso che il Governo li ha riuniti in villaggi cercando di riorganizzare la loro vita in modo occidentale, non possono piu' cacciare tranne che in rare eccezioni.

    East Hanahait e' un piccolo villaggio nel deserto del Kalahari, in cui il RAD, l'ente che sovrintende allo sviluppo delle aree remote, ha riunito gruppi di Boscimani Nharo che si sono dedicati alla pastorizia per sopravvivere. Qui abbiamo conosciuto un altro gruppo che e' stato riconvertito alla pastorizia. In questo gruppo familiare abbiamo potuto conoscere tre diverse generazioni.

    Il nonno (con in braccio i nipotini), che ci ha raccontato con tanto rimpianto negli occhi di quando andava a caccia in bande di una decina di uomini, la preda che riuscivano a cacciare era la preda di tutti e le famiglie potevano contare su un cibo sicuro.

    Ancora c'erano i leoni perche' la grande recinzione non era stata costruita e gli animali erano abbondanti.

    Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto spiegare ai nipoti, come aera la sua vita nel bush in gioventu' .

    Suo figlio, al mutare delle condizioni aveva cercato lavoro in Sudafrica, tutto quello che era riuscito a trovare era stato qualche lavoretto saltuario in un paio di fabbriche, in ultimo si era quindi ridotto a fare il pugile e a combattere per platee di bianchi.

    Quando il Botswana aveva messo in moto il progetto per gli abitatori delle aree remote, era tornato e si era fatto una famiglia, erano nati dei bambini e erano cresciuti nel campo nell'inattivita' generale, dopo una minima scolarizzazione, cercavano i modelli occidentali, una radio, una maglietta, le solite domande sul nostro paese di provenienza e una gran voglia di scappare da li. Le bambine come sempre ci guardavano da piu' lontano, ridendo e scappando se cercavamo di avvicinarci.

    Ci siamo congedati dal vecchio patriarca e lo abbiamo ringraziato per averci concesso il permesso di entrare ne villaggio e di averci raccontato un poco della sua vita di gioventù. "Grazie a voi figli miei" e ha continuato a giocare con suo nipote.





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    Boscimane? Chi era costui?

    Uomini del bush (boscaglia): questo significa “bosjemans”, il vocabolo boero che da tre secoli si utilizza per indicare i San, probabilmente il gruppo etnico più antico dell’Africa australe che popolava dal Capo di Buona Speranza fino all’Angola e alla Rhodesia.
    Tradizionalmente nomadi, erano i signori incontrastati delle savane in cui vivevano di caccia e raccolta di radici, miele e frutti selvatici. Non avevano capi, moneta, proprietà privata. Nel deserto furono costretti a ritirarsi quando altre popolazioni di allevatori e agricoltori invasero le loro terre.
    Il sistema sociale dei boscimani è molto particolare: come detto non esistono capi, le decisioni vengono prese collegialmente e le donne partecipano attivamente alle discussioni. Gli individui possiedono solo pochi oggetti personali, i beni appartengono alla comunità. La solidarietà per questo popolo è un principio fondamentale: i frutti della caccia e della raccolta vengono distribuiti tra tutti e di quanto viene raccolto nulla viene sprecato.
    Del resto, per popoli la cui sopravvivenza dipende strettamente dalla conoscenza e dalla integrità dell’ambiente in cui vivono, l’ecologia non è un “lusso”... Ciò è tanto più vero per i popoli nomadi. Suddivisi in gruppi di trenta o quaranta persone, quando nel deserto trovano un albero carico di frutti, smettono per un po’ di tempo il loro vagabondaggio e costruiscono delle capanne provvisorie nella steppa sabbiosa.
    Tra le caratteristiche più “sorprendenti” dei boscimani va ricordata senz’altro una formidabile conoscenza della natura, dei fenomeni fisici e biologici. Ma anche nozioni approfondite di medicina, botanica ed etologia. Dalle tracce lasciate sul terreno riescono a determinare il sesso, l’età, la velocità di spostamento e altre informazioni cruciali su un animale.
    I boscimani vivono nell’ambiente, non lo dominano: sono predatori e prede, adattati (o costretti) a vivere in condizioni estremamente difficili, dove l’acqua è la risorsa più importante e più incerta. Per conservarla si utilizzano uova di struzzo: riempite d’acqua, vengono distribuite sul territorio e utilizzate come serbatoi d’emergenza nei periodi di maggiore siccità. Le donne raccolgono ben 105 specie di piante e, quando capita, anche serpenti commestibili, insetti, bruchi, uova di uccelli, miele, tartarughe, piccoli roditori. Di ogni pianta conoscono il valore nutritivo, le proprietà medicinali, la possibile utilizzazione come veleno, come cosmetico. Delle prede abbattute i boscimani non sprecano assolutamente nulla: dalle parti commestibili fino ad arrivare alle pelli e alle ossa tutti trovano vari impieghi, come nel caso della vescica (è usata come contenitore) o dell’intestino (è usato come corda). Non si spreca nulla neanche nel regno della natura: un cacciatore non ammazza più del necessario, neppure se si trova di fronte a un intero branco di animali. Le donne non raccolgono mai le piante fino al loro esaurimento, per non compromettere il futuro raccolto.
    I boscimani, insomma, sono uno dei pochi popoli della Terra che ha vissuto per millenni in un ambiente senza deteriorarlo o comunque cambiarlo, integrando... “cultura e natura”.



    Un po’ di storia etnologica

    I boscimani (San) fanno parte del gruppo etnico dei Khoisan insieme a coloro che venivano un tempo chiamati ottentotti (Khoi).
    Sono caratterizzati da tratti somatici ben diversi dai neri di origine Bantu: sono molto più piccoli di statura ed hanno carnagione giallo-bruna. Gli uomini sono magri e le donne sono grasse con sopracciglia folte: sono bassi (la loro statura oscilla tra 1,40 e 1,60 metri), di carnagione giallo-rossastra, zigomi alti con gli occhi allungati come quelli dei mongoli, i capelli neri e ricciuti disposti “a grani di pepe”, la pelle raggrinzita solcata da rughe profonde.
    Parlano lingue curiose, caratterizzate da affascinanti successioni di schiocchi metallici e suoni scoppiettanti prodotti dalla lingua contro il palato, peraltro ormai quasi svanite: un patrimonio tramandato oralmente, ricchissimo di leggende, canzoni, danze rituali. Nonostante la grande quantità di gruppi e clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sono accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e abitudini simili.

    Già ventimila anni fa (Tarda Età della Pietra) gruppi di cacciatori-raccoglitori, progenitori degli attuali boscimani, abitavano tutta l’Africa meridionale. Grazie al loro nomadismo e alla loro abilità nel procurarsi il cibo, i piccoli uomini dalla pelle giallo-bruna e dagli zigomi pronunciati erano in grado di far fronte a condizioni climatiche estreme. La splendida arte rupestre che hanno lasciato ne è testimone: la storia di questo popolo è scritta nella roccia. I piccoli signori delle savane hanno infatti lasciato straordinarie testimonianze della loro presenza millenaria, dipingendo sulle pareti granitiche delle caverne (dove abitavano in piccoli gruppi) o lasciando incisioni sui massi delle pianure australi.
    Le loro stupende pitture sono state scoperte in Tanzania, in Etiopia, in Uganda e nel Sudan meridionale, insieme ad alcuni dei loro manufatti, quali per esempio le sfere di pietra forata ancora in uso per appesantire le zappe. Alcune di queste opere risalgono a oltre 25 mila anni fa e sono autentici cimeli di uno stupefacente museo della storia, grazie ai quali gli studiosi hanno potuto ricostruire (almeno in parte) le radici più antiche e profonde della civiltà del Kalahari.
    Con l’Età del Ferro (duemila anni fa), l’introduzione del bestiame domestico ad opera di etnie Bantu giunte da Nord, dalla corporatura più possente e dal temperamento meno remissivo, fece convertire i nomadi in pastori semi-nomadi, soprattutto nelle aree costiere dell’attuale Sud Africa. Questi si chiamavano Khoikhoi (“gente vera”, da Khoe = persona) per distinguersi dai gruppi rimasti cacciatori, che non possedevano bestiame, che i pastori chiamavano San (“l’altra gente”).
    Al loro arrivo, i colonizzatori europei chiamarono i Khoikhoi “ottentotti”, e i San “bushmen” (boscimani). Quest’ultimo era un termine dispregiativo, riferito a persone che si sostentano con quello che trovano nel bush (la boscaglia).
    Khoikhoi e San, che hanno dunque un’origine genetica comune, vengono tuttora considerati rispettivamente “pastori” e “cacciatori-raccoglitori”, ma gli antropologi ormai tendono ad adottare il termine Khoisan per abbracciare tutti i gruppi: nonostante siano frazionati in numerosi clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sopravvissuti sono infatti accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e caratteristiche fisiche simili.
    Con l’arrivo dei popoli Bantu dal Nord e, nei secoli più recenti, degli europei, i Khoisan hanno perso la possibilità di rimanere nomadi o seminomadi, e in generale indipendenti.
    I veri problemi cominciarono due secoli fa, allorché i primi coloni olandesi penetrarono nella regione, confiscando pozzi, terre e selvaggina. I San, trattati alla stregua di animali, furono cacciati a fucilate, catturati e costretti a lavorare come schiavi nelle fattorie dei bianchi. Molti morirono a seguito di micidiali epidemie di vaiolo e morbillo. Fu un autentico genocidio.
    I conflitti e le malattie hanno decimato le loro popolazioni, i superstiti sono stati forzatamente “integrati” nell’economia agricola delle colonie, soprattutto in qualità di servitori. Alcuni si sono congregati intorno alle missioni dove era possibile continuare ad esercitare la pastorizia.




    XX secolo: cultura e uomini a rischio di estinzione

    L’erosione dei gruppi, la mescolanza con altre etnie e, nel ventesimo secolo, la segregazione in zone a loro assegnate, hanno portato i Khoisan alla perdita dell’identità e del patrimonio culturale originario.
    La documentazione delle lingue, delle narrazioni orali e del sapere tradizionale, costituiscono l’eredità culturale dei boscimani. Molti studiosi occidentali e sudafricani hanno portato alla nostra conoscenza questo patrimonio, nelle facoltà di antropologia e affini; ma gli stessi Khoisan, che non hanno fini accademici, sono solo recentemente divenuti tragicamente consapevoli del rischio che la loro cultura corre di scomparire.
    A partire dagli anni ‘90, finalmente, i cambiamenti sociali del Sud Africa e della Namibia hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei Khoisan. Alcune organizzazioni erano già nate grazie all’intervento di antropologi stranieri, altre sono sorte in anni recenti, volute e animate dagli stessi boscimani. Ha preso corpo, così, un vero e proprio movimento per i diritti dei Khoisan, articolato in molti progetti che fanno capo ad una organizzazione-ombrello, WIMSA.
    I Khoisan sono impegnati a migliorare la qualità della loro vita, a rivendicare i diritti sulle loro terre di appartenenza, a guadagnarsi il rispetto degli altri popoli dell’Africa e del mondo, a mantenere viva la loro tradizione culturale ma a forgiarne anche una moderna. Infatti, mentre gli anziani boscimani considerano fondamentale la loro antica cultura, in molti casi i loro figli vorrebbero occidentalizzarsi, e nessuno ha il diritto di impedirglielo. Solo considerando i boscimani come civiltà viva, attiva e in trasformazione, si dà loro una chance di inserirsi nel mondo di oggi con pari dignità. Non considerandoli una civiltà in via di estinzione.


    I boscimani oggi

    I San sono ormai coscienti del fatto che la perdita del rapporto con la loro terra significa anche la distruzione del loro singolare sistema di vita e la scomparsa definitiva delle loro conoscenze circa la sopravvivenza nel deserto.
    Oggi i boscimani sono circa 90 mila: la metà sta in Botswana, tra il deserto del Kalahari (grande come la Francia) e le paludi dell’Okavango; il resto vive in Namibia (38000), Angola (6000), Sud Africa (4500), Zambia (1600), Zimbabwe (1200). Solo poche centinaia - appartenenti prevalentemente alle tribù Gana e Gwi - sono riusciti a mantenere uno stile di vita tradizionale, in gran parte auto-sufficiente, in cui la caccia e la raccolta rivestono un ruolo centrale e le esercitano ancora in settori inaccessibili del Kalahari.
    Attualmente la maggior parte dei boscimani non vive più della caccia, come tradizionalmente dovrebbe essere, ma ha iniziato a coltivare mais e miglio, e a tenere capre, asini e cavalli. Sradicati dalla loro terra, molti boscimani dipendono completamente dall’elemosina del governo, la disperazione ha comportato l’alcolismo e di conseguenza una totale miseria. Sono costretti a vivere in squallidi insediamenti costruiti appositamente per loro dove ricevono misere sovvenzioni dallo Stato, ma dove non è possibile cacciare né raccogliere. Lavorano sottopagati in allevamenti e miniere (alcune ragazze si prostituiscono). A tanti non resta che mendicare e ubriacarsi.
    Come detto, dagli anni ‘90 i cambiamenti sociali dei paesi vicini (Sud Africa e Namibia) hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei discendenti dei San, mentre in Botswana (dove sono più numerosi) la loro situazione rimane grave. Per questo nel 1986 è nato il Kuru Development Trust, per fornire assistenza ai boscimani un tempo nomadi e ora divenuti stanziali per lavorare nei ranch dei boeri discendenti dai colonizzatori.
    L’organizzazione Kuru (che significa ‘farè) è cresciuta fino a consolidare con altri enti del subcontinente un vero e proprio movimento pro-San, a cui fanno capo anche i boscimani/khomani del Sud Africa. Oggi Kuru sviluppa progetti di autosostentamento presso le comunità più emarginate, ed è diretto da boscimani scelti tra i villaggi che partecipano ai progetti con gruppi di lavoro. Le attività vanno dall’allevamento di ovini, caprini e asini, alla coltivazione di funghi e frutta.
    Dal 1990, grazie alla creazione di un laboratorio d’arte, si sta affermando uno stile di arte contemporanea boscimane che ha già ricevuto molti riconoscimenti internazionali. Oggi le loro mostre colorate stanno girando il mondo, affermando il loro messaggio di appartenenza al Kalahari, il vasto territorio di wilderness che occupa parte dell’Africa meridionale.
    Una coalizione di ONG locali sta attualmente conducendo trattative con il governo del Botswana (e una campagna internazionale) al fine di indurlo a riconoscere il diritto dei boscimani a vivere nel Kalahari centrale: lo scopo è di ottenere terra per i San, con il procedimento di “reclamo delle terre” analogo a quello in atto in Sud Africa.
    Un ente-ombrello sorto recentemente su richiesta dei San di cinque paesi dell’Africa meridionale (WIMSA) elabora anche progetti di sviluppo adatti alle specifiche comunità. In Italia questi progetti sono appoggiati e fatti conoscere dall’associazione culturale Heritage, eletta dai leader San in assemblea come “gruppo di supporto dall’Italia e portavoce”.
    Il grande problema di questo popolo non è stato solo quello di aver loro progressivamente negato l’accesso alle risorse naturali (da cui dipende la loro esistenza così interconnessa con i ritmi della natura), ma anche che la loro dignità è stata mortificata da tutti i gruppi etnici del subcontinente.
    Le autorità considerano i boscimani “primitivi”, “essere inferiori”, “fermi all’età della pietra”, e li disprezzano per la loro diversità... In realtà si tratta di un popolo tenacemente attaccato alle proprie radici e alla propria indipendenza, che nonostante secoli di violenze, continua a resistere. Un popolo fiero, nobile, che non finisce di affascinare e stupire gli studiosi.




    Zoo umano o turismo etico?

    Esistono numerosi progetti di promozione turistica delle terre boscimani: politici e affaristi spingono per fare spazio a nuovi lussuosi lodge destinati a turisti danarosi. I boscimani più fortunati (si fa per dire!) sono stati arruolati da impresari senza scrupoli che li hanno trasformati in attrazione turistica. Li hanno sistemati in apposite capanne costruite nei pressi di bungalow lussuosi e hanno stampato le loro immagini su depliant che pubblicizzano “emozionanti visite ad un vero villaggio preistorico”.
    A lanciare l’idea dell’etno-show è stato un sudafricano, Peter De Waal, proprietario della riserva naturale di Kagga Kamma (260 km a nord di Città del Capo). In questa riserva, De Wall ha radunato un piccolo gruppo di boscimani che un tempo viveva (tutt’altro che bene, a dire la verità) nel Parco Gemsbok Kalahari, ai confini con il Botswana. Gli ha offerto un rifugio dignitoso e un buon stipendio. I boscimani se lo guadagnano mostrando ai visitatori antiche pitture rupestri, confezionando ornamenti e facendo finta di prepararsi alla caccia con arco e frecce. Per una manciata di monete, rispolverano i perizoma di pelle e si mettono in posa per le foto. “Fermi così, sorridete, non guardate verso l’obiettivo”, si sentono ripetere tutti i giorni. Alla sera, su richiesta, possono anche mettersi a ballare: cantano e saltellano attorno al fuoco, con i tradizionali sonagli legati alle caviglie, illuminati dai flash dei turisti.

    Per evitare che escano dalla storia, seppur col loro inguaribile sorriso, qualcuno si sta muovendo per il loro riconoscimento come popolo e per ottenere una rappresentanza a livello politico e governativo: è John Hardbattle, figlio di una san e di un poliziotto scozzese, che si impegna da anni come interprete e difensore della cultura boscimane. È proprio con lui che è possibile provare un’esperienza unica al mondo: vivere con i boscimani nella Central Kalahari Game Reserve, imparando da loro tutto quello che rischia di andare perso per sempre. Dal 23 al 28 giugno, dal 28 giugno al 3 luglio e dal 3 all’8 luglio, Hardbattle si fa guida per un ristretto numero di persone (dieci per ogni turno) disposte a scoprire il san che c’è in loro. Gli ospiti dormono in tende mobili perfettamente attrezzate e mangiano ottimi pasti in stile occidentale, ma per il resto vivono a stretto contatto con i boscimani. Sperimentando, con gli uomini, la fabbricazione di archi e frecce, l’osservazione delle impronte, la caccia, la preparazione di medicine vegetali; e, con le donne, la raccolta delle piante, la lavorazione dei gusci delle uova di struzzo per farne utensili e gioielli, la concia e la tintura delle pelli. Nei tramonti infuocati e nelle notti stellate, canti e danze sprofondati nella magia del Kalahari.
    I profitti di questa iniziativa saranno devoluti per l’acquisizione di terre per le comunità boscimane del Botswana.




    Caccia proibita e acqua negata

    Recentemente il governo del Botswana ha deciso di sgomberare i loro villaggi e deportare le comunità lontano dalle terre in cui hanno vissuto finora. “Sono uomini selvaggi” - dicono le autorità - “bisogna civilizzarli e integrarli al resto della società”. Con questo pretesto li si fa sloggiare dalla Central Kalahari Game Reserve, un’ampia zona protetta - una delle più grandi riserve naturali d’Africa - creata negli anni Sessanta proprio per tutelare i boscimani e gli animali da cui dipendevano. Il governo ha provato a convincere gli indigeni a spostarsi promettendo loro scuole, assistenza sanitaria, lavoro, piccoli appezzamenti di terra, bestiame e denaro contante (promesse quasi mai mantenute). In pochi però hanno risposto all’offerta. Così ha pensato di limitare in ogni modo la caccia, da cui dipende la sopravvivenza delle tribù, appellandosi alla necessità di conservare la fauna.
    Poco importa se i boscimani hanno vissuto di caccia per secoli senza mai ammazzare un solo animale di troppo, poco importa se nessuna specie da loro cacciata è in pericolo di estinzione. Gli indigeni accusati di aver superato la quantità di cacciagione consentita (tre antilopi per persona all’anno) sono stati imprigionati e torturati dai funzionari del dipartimento faunistico: l’associazione boscimane First People of the Kalahari ha raccolto testimonianze di gente percossa, gettata a terra, minacciata col fuoco, legata per i piedi al paraurti delle auto. E le intenzioni del governo non sono neppure troppo velate: recentemente un ministro del Botswana, Margaret Nasha, ha paragonato la questione dei Boscimani a quella degli elefanti. “Tempo fa - ha spiegato in TV- abbiamo avuto un problema simile quando volevamo eliminare un certo numero di pachidermi...”.
    Ultimamente, per intimidire le comunità e sollecitare gli sfratti, la polizia non ha esitato a penetrare con la forza nelle abitazioni dei boscimani, usando violenza su uomini e donne. Ma non è bastato: centinaia di persone hanno opposto resistenza e si sono rifiutate di lasciare le loro terre per “rimanere vicino alle tombe degli antenati”. Allora il governo ha deciso di giocare la sua ultima carta: a marzo di quest’anno ha ordinato la sospensione dell’approvvigionamento d’acqua ai villaggi delle tribù Gana e Gwi. In pochi giorni ha chiuso l’unico pozzo, smantellato la pompa, bloccato i rifornimenti con l’autocisterna. Lo ha fatto con la scusa di non poter sostenere i costi della fornitura d’acqua (3,28 euro per persona a settimana). Una scusa, appunto: il Botswana è il più grande esportatore di diamanti al mondo, una delle nazioni africane più ricche, e potrebbe permettersi la spesa senza problemi. Ma volendo, potrebbe anche evitare di usare i suoi soldi perché l’Unione Europea si è offerta di finanziare l’approvvigionamento. A tutt’oggi, però, il Botswana ha accuratamente ignorato la proposta.



    Il business dei diamanti

    Perché? Per quale motivo il governo è tanto interessato a far sloggiare i boscimani dalle loro terre ancestrali? “Probabilmente per potersi dedicare con tranquillità allo sfruttamento dei giacimenti diamantiferi presenti nella regione” spiega Francesca Casella, rappresentante dell’associazione Survival International. Con l’uso di misure repressive il governo del Botswana tenta di cacciare gli ultimi boscimani dal parco nazionale nella zona centrale del deserto del Kalahari, in modo da poter sfruttare indisturbatamente le ricche risorse di diamanti presenti nella zona.
    Nel febbraio del 2002 circa 1.100 San (boscimani) vivevano ancora nel parco, grande 52.000 km2. Poi, come detto, il governo ha semplicemente tolto l’acqua: con la scusa della lunga siccità, tutte le riserve d’acqua sono state svuotate e le pompe smontate. Agli indigeni non è rimasta altra possibilità che trasferirsi in uno dei 63 villaggi d’evacuazione situati al di fuori della zona protetta. In Botswana ci sono circa 50.000 boscimani, ma grazie a questa campagna di trasferimento forzato, iniziata 17 anni fa, all’interno del parco vive ormai solo qualche dozzina di San.
    La multinazionale De Beers, numero uno al mondo nel settore dei diamanti, ha già ottenuto importanti concessioni nella Riserva del Kalahari: ha già investito 32 milioni di euro per le prime trivellazioni di prova sul territorio tradizionale dei San. I boscimani si sono appellati all’Alta Corte di Giustizia del proprio paese. Chiedono che la Corte dichiari incostituzionale il loro trasferimento forzato e confermi i loro diritti territoriali. A causa di un errore di forma, la querela di 248 boscimani è stata respinta il 19 aprile scorso, ma poi riammessa a metà luglio grazie ad un processo d’appello.
    In molte parti del mondo, i diritti dei popoli indigeni vengono tuttora disattesi o messi in discussione, non appena si scoprono risorse preziose sui loro territori. Numerose organizzazioni non governative si impegnano da anni affinché il numero più alto possibile di Stati firmi e ratifichi la Convenzione ILO (International Labour Organisation) 169, finora l’unico accordo internazionale che possa proteggere e dare voce ai diritti di circa 300 milioni di indigeni nel mondo. La ILO 169 fissa i diritti elementari degli indigeni, quali il diritto alla propria terra, ai propri stili di vita, al mantenimento della propria cultura e lingua. Anche l’Italia e la Germania fanno parte dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo.


    Quale futuro per gli ultimi “selvaggi”?

    Le Nazioni Unite hanno dichiarato il periodo 1995-2005 ‘Decennio dei Popoli Indigeni’, riconoscendo anche che, più degli altri, i popoli indigeni sono custodi di un’eredità che ha urgenza di essere protetta: la Natura, poiché da essa dipendono molto più di noi, che abbiamo forgiato il territorio per assecondare le nostre esigenze.
    Quello che i boscimani desiderano (così come altri popoli indigeni e chiunque altro essere umano su questo pianeta, credo...) è solo poter vivere sulla loro terra, liberi da aggressioni e intimidazioni, per continuare a provvedere a se stessi, utilizzando il territorio e accedendo liberamente all’acqua. È chiedere troppo?
    Abbiamo visto come la sapienza di questo antico e pacifico popolo africano, come nel caso della ricerca di nuovi farmaci contro l’obesità, potrebbe essere ancora utile, sempre che essa venga adeguatamente riconosciuta.
    Ma al di là di tutto, ciò che fondamentalmente andrebbe riconosciuto è il valore della vita di ciascun individuo e di ciascun popolo che, inserito nel suo ambiente e grazie all’adattamento a questo, può esprimere tutte le potenzialità insite nel suo DNA.
    «Quando anche l’ultimo boscimane avrà abbandonato la sua cultura, un’immensa conoscenza sarà andata perduta... Ma soprattutto sarà scomparsa la loro profonda gentilezza» ha scritto Laurens van der Post, scrittore sudafricano che ha passato gran parte della sua vita con i San. Il DNA di questo “popolo gentile” rischia di smettere di lasciare le sue «orme leggere» su questa terra per lasciare spazio agli «uomini pesanti», quelli che calpestano, soffocano e stravolgono la natura.






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    Foto di una tribù finora sconosciuta per fermare lo sfruttamento dell’Amazzonia peruviana


    amazzonia-2

    Foto e addirittura una campagna pubblicitaria per dimostrare che nell’Amazzonia peruviana esistono ancora tribù sconosciute, mai venute in contatto con l’Occidente.

    Lo scopo è fermare i progetti della società Perenco, intenzionata a costruire un oleodotto nei territori degli indigeni. Sarebbe per loro la rovina, la distruzione.

    L’iniziativa per dar voce ai popoli che non hanno voce è di Survival International, il movimento che si occupa delle tribù di tutto il mondo. Vi faccio vedere l’immagine più grande: quello in alto è solo un particolare.









    Viaggio in Orissea: antichi templi, villaggi e tribù sconosciute

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    Isolate dal mondo, in Orissa sopravvivono tribù legate ad antichissime tradizioni, usanze e strutture sociali della cultura tribale, tramandate per via orale di padre in figlio per lunghi secoli. Earth Viaggi si fa testimone di un mondo arcaico che sopravvive saldo nelle sue tradizioni e nelle sue credenze, nonostante la globalizzazione e la modernità che tutto inghiottono.
    Orissa – Antichi templi, villaggi e tribù sconosciute
    Da/a: Milano; durata: 13 giorni e 12 notti;
    Partenze e itinerario: L’itinerario che Earth Viaggi propone tocca le città di Bhubaneshwar, Konarak e Puri per la visita dei bellissimi templi dell'arte Nagara, tra cui spiccano il tempio Sri Jagannath dedicato a Vishnu. Ci si addentra quindi nella foresta per raggiungere i villaggi delle tribù Adivasi. Nell'area tribale il viaggio prevede lunghi spostamenti su strade sterrate e sistemazioni alberghiere modeste (3 stelle). Il viaggio si effettua da ottobre a marzo su mezzi privati con autisti esperti e guide professionali parlanti inglese o italiano per gruppi di minimo 8 partecipanti.
    Prezzo: da Euro 2.720 (base 4/7 partecipanti); da Euro 2.810 (base 8 partecipanti) a persona con sistemazione in camera doppia in hotel categoria 3 stelle; trattamento di pensione completa nell’area tribale e mezza pensione a Kolkata, Bhubaneshwar e Puri. Inclusi i voli internazionali e i trasferimenti a terra, visite ed escursioni.

    Dell’oltre un miliardo di abitanti presenti nel subcontinente indiano, il 7% circa vive ancora a livello tribale nelle aree inaccessibili pre-himalayane dell’Arunachal Pradesh e nelle foreste interne dell’Orissa. Adagiata sulle coste sabbiose dell’Oceano Indiano, Orissa vanta una delle più alte concentrazioni di Adivasi (popolazioni tribali) di tutta l’India. Sessantadue tribù di origine dravidica che si rifugiarono nella jungla impenetrabile per sfuggire all’avanzata delle popolazioni Arya che attorno al 1600 a.C. arrivarono dall’Asia Minore sulle sponde dell’Indo ed invasero il subcontinente indiano. Un colorato mosaico di 62 etnie diverse che vivono nelle foreste più interne legate a tradizioni e credenze antichissime, a contatto con una natura incontaminata; gli Adivasi dell’Orissa, molto diversi tra loro, sono agricoltori, allevatori e cacciatori e vivono in villaggi di capanne e hanno credenze animiste. Le tribù dell’Orissa sopravvivono isolate dal resto del mondo, legate a usanze e strutture sociali della cultura tribale.

    Le tribù dei Gadaba, dei Bonda e dei Dongria Kondh, si ritrovano nei mercati settimanali, colorati luoghi di incontro pullulanti di umanità, di Chattikona, Onkudelli e Kundli, per scambiare i prodotti della terra e i piccoli oggetti di artigianato su cui si basa l’economia locale. Le meravigliose, statuarie, donne Bonda, riconoscibili dal ringa (gonnellino a righe tessuto al telaio), con il petto nudo coperto unicamente da migliaia di fili di perline colorate e le donne Gadaba, con i grandi orecchini di bronzo, caratterizzano l’impressionante mosaico tribale.
    Earth Viaggi offre uno sguardo su un mondo sconosciuto e prezioso con l’occhio attento del viaggiatore che entra discreto, in punta di piedi, nella vita delle comunità tribali, partecipa e vive momenti rituali e “conosce” momenti di vita quotidiana, canti e danze, senza necessariamente “rapire” sguardi con l’invadenza.
    L'itinerario tocca le città di Kolkata, Bhubaneshwar, Konarak e Puri per la visita dei bellissimi templi dell'arte Nagara ed entra nell'India più sconosciuta per raggiungere i villaggi delle tribù Adivasi che vivono concentrati nelle foreste interne e si ritrovano nei grandi mercati settimanali.
     
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  8. gheagabry
     
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    ... SCONOSCIUTI AL MONDO ...
    ...C’è da restare senza parole; ci sono popolazioni e luoghi nel nostro mondo che sfuggono alla grande rete della comunicazione e delle conoscenze. Ogni tanto si viene a sapere di persone che vivono ancora con la convinzione che la guerra nel Vietnam sia in atto; oppure come nel caso della notizia apparsa oggi, intere popolazioni che vivono allo stato tribale, completamente scollegate dal mondo e dalle mappe ed itinerarari conosciuti. Sembra difficile da credere che nell’epoca della globalizzazione, della conoscenza totale e dell’esplosione di internet e della multimedialità ci possano essere zone e popolazioni non conosciute. Mi vien da pensare, guardando agli aspetti più degenerati di questo nostro tempo, da questa scoperta chi possa trarne beneficio o danno. Mi vien da ragionare ed immaginare a quello che possono aver pensato quegli indigeni al cospetto dei loro scopritori. Non sono certo che una eventuale “civilizzazione” di quei popoli possa costituire per loro vantaggio o progresso; forse il loro essere rimasti nella più totale inconsapevolezza dell’esistenza del mondo globalizzato, li abbia resi forti e autonomi. Riflettendoci bene, non mi stupisce o disturba il fatto che quei popoli non abbiano cognizione della mondo esterno; anzi mi darebbe molto fastidio sapere che ad essi potrebbe essere imposto il civilzzarsi. Credo sia diritto di ognuno poter scegliere e quindi lascerei a loro la decisione; anche perché c’è una frase in quell’articolo che mi ha sorpreso … l’invito a noi “civilizzati” di non avvicinare quelle popolazione perché potremmo portare con noi malattie a cui loro non sono immuni … Credo che la più grande malattia a cui quei popoli non sono immuni è … LA CIVILTA’ … ….
    (Claudio)




    Una tribu' primitiva nel cuore del Peru'.
    Un video amatoriale, girato da a bordo di una imbarcazione, mostra alcuni indigeni armati di lance e frecce rudimentali, membri di una tribù che vive isolata nella Foresta Amazzonica, in Perù. Le autorità peruviane hanno confermato che si tratta di una tribù che vive all’interno del territorio protetto del Parco Nazionale del Manu, in un’area identificata con il nome di Yanayacu. Nel corso dell’anno ci sono stati diversi avvistamenti di questo tipo e le autorità peruviane hanno invitato gli escursionisti ad evitare le zone frequentate da queste tribù primitive, soprattutto per il fatto che i loro componenti sono molto vulnerabili alle malattie, contro le quali poi non hanno idonei mezzi di difesa. Secondo gli antropologi, sarebbero da tremila a cinquemila gli indigeni che vivono in isolamento volontario nei territori peruviani della foresta Amazzonica.


    CAMMINANDO

    Si possono percorrere
    milioni di chilometri
    in una sola vita
    senza mai scalfire
    la superficie dei luoghi
    nè imparare nulla
    dalle genti appena sfiorate.
    Il senso del viaggio
    sta nel fermarsi ad ascoltare
    chiunque abbia
    una storia da raccontare.


    Camminando si apprende la vita,
    camminando si conoscono le cose,
    camminando si sanano
    le ferite del giorno prima.
    Cammina guardando una stella
    ascoltando una voce
    seguendo le orme di altri passi.
    Cammina cercando la vita
    curando le ferite
    lasciate dai dolori.
    Niente può cancellare
    il ricordo del cammino percorso.

    (Rubén Blades)



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