Abruzzo ... Parte 3^

TAGLIACOZZO..CARSOLI..LE LEGGENDE..CAVALIERI TEMPLARI LE ORIGINI DE L’AQUILA ...

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    BUONGIORNO ISOLA FELICE ... BUON RISVEGLIO A TUTTI

    “... Venerdì ... il nostro viaggio oggi raggiunge la punta più alta della sua magia ... la nostra mongolfiera continua il suo viaggio attraverso le terre abruzzesi ... facciamo rotta verso l’Aquila ... è qui che la magia raggiunge il suo punto più alto... il tentativo che faremo oggi è quello di descrivere questa fantastica città prima del tragico evento tellurico della notte del 6 aprile del 2009 ... è questo il tributo ad una città ricca di bellezze e storia e al tempo stesso l’augurio che essa possa tornare allo splendore di prima di quella triste notte ... oggi quindi cercheremo con i nostri racconti di costruire un ponte luminoso che unisca il passato al futuro dell’Aquila e dei suoi splendidi abitanti consegnando ad essi un raggio di speranza verso il futuro ...Buon risveglio amici miei ... oggi faremo un viaggio davvero unico speciale ...”

    (Claudio)



    TAGLIACOZZO..CARSOLI..LE LEGGENDE..CAVALIERI TEMPLARI LE ORIGINI DE L’AQUILA ...



    “Pescocostanzo si affaccia con discrezione nel cuore di una vallata immensa e silenziosa, circondata dai monti della Maiella che sembrano proteggerne con imponenza il centro abitato….Una strada lunga e poco asfaltata, porta fino ad una serie di curve pericolosamente suggestive a strapiombo sulla vallata, dove il sole al tramonto colora il cielo di rosa intenso, distogliendo l’attenzione dei nostri guidatori, mentre le auto salgono con il cambio in seconda e la temperatura inizia a scendere… a 1.400 metri di altezza c’è tutta un’altra prospettiva ed il freddo è veramente freddo!.. Un lungo viale di pietra bianca - su cui si affacciano piccole botteghe con insegne in ferro battuto che sembrano antichissime .. portano fin dentro il centro, dove filari di graziose casette si alternano a scorci improvvisi sulla vallata, con lunghe scalinate che, seguendo il profilo del suolo, scendono armoniose e portano alla parte più bassa del paese….Passeggiare per le strade di Pescocostanzo diventa una scoperta continua dei mille volti straordinari di questo piccolo centro, ricchissimo di storia e cultura: una serie infinita di edifici nobiliari, fontane e chiese rinascimentale - dalla Basilica di Santa Maria del Colle alla Chiesa di Gesù e Maria con annesso Convento, da Palazzo Sabatini allo stesso Palazzo Comunale.. Camminando con lo sguardo in aria per leggere le numerose iscrizioni sulle mura, si ha come la sensazione di essere trascinati in un passato che pulsa, ancora vivo, lungo i balconcini bombati e le finestre minuscole delle case antiche ma intatte, o dei tipici “vignali”, con gradinate e piccoli pianerottoli esterni, cui si accede passando attraverso porte incorniciate da pietra lavorata… come se cinquecento anni di storia e vita non avessero mai intaccato…”

    “Ecco il paesaggio di d’Annunzio. Ecco la terra d’Abruzzo con i suoi pastori e le sue greggi. Ecco i pascoli dei monti e le fonti alpestri”…. l’antico borgo di Santo Stefano di Sessanio…L’altopiano di Campo Imperatore. Il quadro in cui ci trova è quello di una prateria ampia e selvaggia dalla vegetazione rada e insolita. Non ci sono molti alberi e tra l’erba ruvida …. un fiore bellissimo.. il cardo blu…. una specie in via d’estinzione….La trasparenza e la brillantezza dell’aria di questo tratto d’Appennino destinato ad incontrarsi col mare in un graduale scalare di colori e profumi….Le montagne del Parco Nazionale del Grand Sasso e Monti della Laga… qui Natura e Uomo convivono serenamente da millenni….Santo Stefano di Sessanio..le case di pietra bianca che il tempo ha ormai sbiadito…la cinta muraria costruita quando il borgo era residenza dei Medici di Firenze…. ogni sasso racconta una storia nel silenzio e nella quiete… una piccola fessura si apre su una bellissima piazzetta medioevale dove l’unico segno dello scorrere del tempo sono le piccole botteghe artigiane e i negozietti di prodotti tipici….Archi, corti e brevi corridoi si susseguono.”

    “C’è una piccola località dell’Abruzzo che si distingue per le sue piccole anomalie…Trasacco….il suo nome dall’antica espressione transaquas, che significa “al di là delle acque”. l’Altopiano del Fucino, in cui sorge, giustifica l’antica posizione a lato di quello che era un ex lago glaciale….la prima anomalia: sopraelevata all’attuale urbe si distingue una torre “mezza quadrata e mezza rotonda”. Costruita evidentemente in periodi storici diversi, ad una solida pianta quadrata si contrappone la parte superiore di forma cilindrica….La seconda … riguarda il perno centrale della città, la Basilica dei Santi Cesidio e Rufino. In realtà, più di una cosa non rispetta i canoni artistici consolidati della zona. La torre campanaria si sviluppa in altezza con una forma piramidale…Meno originale è l’affluenza alla Basilica in nome di uno dei santi patroni, San Cesidio. Si narra che nel corso della sua vita abbia compiuto una serie di miracoli. La chiesa è divisa in navate, due delle quali rigorosamente riservate agli uomini e alle donne; con tanto di ingressi separati.”

    “Tagliacozzo è uno dei centri più importante della Marsica…Importante centro della zona sin dai tempi più antichi.. è stato teatro di numerose vicissitudini storiche…La più importante, citata anche da Dante nel ventottesimo canto dell’Inferno della Divina Commedia, è la cosiddetta Battaglia di Tagliacozzo avvenuta nel 1268 e combattuta in realtà nel vicino paese di Scurcola Marsicana…Durante il periodo del feudalesimo, il paese venne dominato da diverse dinastie feudali, fino a quando la famiglia De Pontibus creò un unico feudo sotto la propria autorità, grazie all’aiuto di Carlo D’Angiò….Importante fu anche il governo di quella Orsini e successivamente della dinastia Colonna, che permisero al paese di affermarsi … Il centro storico, infatti, mantiene un aspetto ben curato che ricrea con facilità atmosfere di altri tempi…. è diviso in due zone: quella più interna denominata Insulatera e la zona intorno a Piazza Obelisco…Quest’ultima rappresenta una delle piazze più importanti del patrimonio culturale abruzzese.. in passato presentava al centro il pilozzo: un sedile in pietra con un foro in mezzo sul quale venivano con la forza fatti sedere i debitori a calzoni calati…. successivamente sostituito con la fontana dell’Obelisco in stile barocco.”

    “Carsoli, il paese del lupo, è sul confine tra Abruzzo e Lazio. Proprio per questa sua dislocazione particolarmente favorevole è stato, in passato, protagonista di un intenso sviluppo industriale..questo piccolo centro abruzzese è stato toccato, durante tutta la sua esistenza, da importanti vicende storiche….Prima tra tutte la conquista da parte degli antichi Romani con i quali Carsoli si integrò completamente….Meno felice fu il periodo in cui Carsoli conobbe sulla propria pelle le vicende del secondo tragico conflitto mondiale… I ruderi dell’antico Castello Orsini e la presenza dell‘Antica Fortezza….questo luogo magico si presenta come un susseguirsi di stradine in sampietrini che si alternano tra discese e salite…. ci si ritrova immersi in un’atmosfera di altri tempi. Gli abitanti hanno cercato di mantenere l’antico stile che presentava negli anni passati…a livello naturalistico, oltre alle stupende distese montuose che circondano il paese, il suggestivo ambiente carsico che si sviluppa nei pressi dell’antica piccola frazione di Pietrasecca …due grotte: l‘Inghiottitoio dell’Ovito e la fantastica Grotta del Cervo…Entrambe sono ricche di stalattiti e stalagmiti che si perdono in una successione continua di stretti piccoli laghi e splendide cascate.”

    “Esistono dei luoghi che sembrano non appartenere al nostro tempo, dove la vita scorre pacata e si respira un’aria di eterna vacanza, sospesa a metà tra passato e presente, tra realtà e incanto…quando si entra ad Alfedena per la prima volta è esattamente questa la sensazione che si prova…un lunghissimo viale alberato attraversa tagliando a metà una prateria verde al confine con il bosco e più si procede, più il viale si infittisce di deliziose villette e casette in pietra, fino a dentro il paese, ad un passo dal Parco Nazionale d’Abruzzo…Il centro storico si snoda in una serie di viuzze e stradine che si confondono tra angoli nascosti carichi di fascino: attraverso l’arco di un cunicolo in pietra si accede alla piazza antistante l’antica scalinata che porta su alla maestosa Torre ottagonale risalente all’anno mille, quello che resta del castello legato al feudo di Simone, conte di Sangro.”

    “Circondato dai monti della Meta e dal Monte Greco il paese è arroccato su uno sperone roccioso che sporge sulle Gole del fiume Sangro, ed offre un panorama davvero particolare su tutta la vallata ed il laghetto di Barrea….sono ancora lì i resti delle mura e gli antichi torrioni difensivi Torre Quadrata e Torre Rotonda.. c’è un’altra Barrea, quella che si poggia sulle rive del lago, che durante gli inverni più rigidi diventa uno specchio di ghiaccio che la rende unica tra gli altri comuni appartenenti all’area del Parco Nazionale d’Abruzzo….. un’enorme ricchezza di paesaggi.., monti e foreste ….come il Lago Vivo, il Rifugio di Forca Resuni e il Lago Pantaniello, fanno da teatro le specie di animali, come il Camoscio d’Abruzzo, l’Orso bruno Marsicano, il Lupo Appenninico e l’Aquila reale… fauna tipica del Parco Nazionale d’Abruzzo..”

    “Scontrone è da sempre lì, un mucchietto di casette di pietra arroccate sul cucuzzolo di una montagna vecchia e solida, come dipinte, in un’armonia perfetta di colori e sfumature...Di giorno, baciate dal sole alto e prepotente che batte sulle rocce; di sera un presepe antico, illuminato dai focolai delle famiglie semplici che vi abitano….la lunga stradina fatta un po’ di ciottoli, un po’ di asfalto, che porta su per le curve vertiginose fino alla cima…Piazza Sangro, una terrazza rotonda sospesa tra cielo e terra…qui a 979 metri sul mare scopro un mondo fatto di piccole porte appena socchiuse, angoli nascosti e balconi fioriti…Per le viuzze che si incrociano e si confondono si respira un’atmosfera ancora dal sapore medievale… saranno gli stemmi dei signori feudali, le mura che si alzano imponenti tra un angolo e l’altro del piccolo borgo, a racchiudere, come in una fortezza, le poche famiglie che in questo posto vivono ancora al ritmo lento delle primavere e degli inverni….. la leggendaria Porta di San Rocco…. un tempo, qui c’erano le torri della fortezza, un tempo, da qui probabilmente passavano i mercanti che praticavano la transumanza, come da millenaria tradizione etrusca di tutta la valle dell’alto Sangro”

    “In uno scenario naturale che la vede alle pendici del Gran Sasso e circondata da 3 Parchi Nazionali e uno Regionale, L’Aquila è una città medievale piena di sorprese….La storia ufficiale della sua fondazione si mescola a quella delle leggende e dei misteri, dei cavalieri templari e delle costellazioni, di personaggi straordinari come Federico II e Celestino V….A fondare la città furono i castelli del circondario e a ricordo di questo evento nel 1272 fu edificata la fontana delle Novantanove Cannelle….Fondata dall'Imperatore Federico II di Svevia intorno al 1230 col nome di Aquila, divenne Aquila degli Abruzzi nel 1861 e L'Aquila nel 1939…. è città particolare, unica nel Medioevo italiano, nata non per una casualità ma per progetto secondo un disegno armonico che non trova precedenti nella storia dell'architettura urbana (un caso simile, nel 1703, fu la nascita di San Pietroburgo). Fu costituita dall'unione di molti villaggi della zona (99, secondo la tradizione locale), ognuno dei quali costituì un quartiere…”

    “L'Aquila fu colpita duramente nel 1300, nel 1400, poi duramente nel 1703. Ancora duramente oggi, nel 2009. Con in mezzo varie altri eventi sismici duri…L'Aquila sempre qui è rinata. Gli aquilani sono tenaci, ostici, spesso burberi. Ma L'Aquila è nata a tavolino, non con un processo di sviluppo casuale, è nata per scelta qui. I suoi castelli fondatori volevano intrecciare commercio e difesa con un centro maggiore, scelsero il colle e li costruirono, le mura, la fontana delle 99 cannelle e dentro la città, le sue piazze, le sue chiese, ognuna come rappresentazione in città di una comunità fondatrice. Centro storico grande, piazze, chiese, fontane, ogni palazzo un monumento, con il suo portone, il cortile, il suo portico…L'Aquila da qui non si sposta..L'Aquila città universitaria…Degli oltre 100 centri che costellano L'Aquila, tra le sue frazioni e i comunilimitrofi, ci sono ancora centinaia di piazze, centinaia di chiese, migliaia e migliaia di case. La terra d'origine, i castelli fondatori….L'Aquila città storica e umanistica, delle arti ..Ma, come nel 400, come nel 700… impiegheremo 20 anni per finire, ma ce la faremo.. Ricostruire il centro storico, sul doppio colle. Così come era. Con le sue piazze, le sue chiese, le sue fontane, i suoi palazzi, i suoi vicoli….città della musica, del teatro, della storia, delle lettere e delle arti…L'Aquila città dell'ambiente, dei monti, dell'acqua, dei parchi, dei borghi …I nostri monti sono cresciuti un pò, le nostre colline si sono diversamente avvallate, ma la nostra neve è li, le aquile volano sopra di noi, l'orso continua a cacciare miele e mele, i lupi si sentono se ci si sposta in montagna, il cielo stellato si può ancora vedere come in nessun altro posto d'italia, le nostre gelide acque sono più rigorose che mai e in pochi al mondo ne hanno così in abbondanza, non a caso è possibile trovare la lontra, la nostra flora è stata colpita dagli incendi passati, ma è ancora tra le più estese d'europa, la genziana è più in alto, tra le rocce, e crescerà di nuovo, lo zafferano non teme il sisma, solo cinghiali affamati e acque avvelenate, ma è ancora li e crescerà di nuovo e di più… Le greggi hanno avuto paura, ma rassicurate dai nostri splendidi pastori abruzzesi-maremmani non sono fuggite. I nostri parchi saranno ancora i più belli d'europa, i nostri borghi feriti saranno ripopolati e rimessi a nuovo, uno ad uno….L'Aquila è qui, è la sua storia, la sua tragedia e la sua forza. L'Aquila come sempre tornerà qui, esattamente qui, perchè il Gran Sasso, le sue acque e le terre che si aprono nel suo avvallarsi, non potremmo trasportarle con noi in nessun altro luogo.”

    D’Innocenzo








    Il Parco Nazionale della Majella



    Il Parco Nazionale della Majella, istituito nel 1991, è uno dei tre parchi nazionali dell'Abruzzo.

    È uno dei non numerosi parchi nazionali italiani con la peculiarità di presentarsi compatto dal punto di vista territoriale. Infatti, la sua area si raccoglie attorno al grande massiccio calcareo della Majella e alle Montagne del Morrone ad ovest e ai monti Pizi e Porrara ad est. La maggiore vetta compresa nell'area del parco è quella del Monte Amaro (2.793 metri).



    Nel parco sono state censite oltre 2.100 specie vegetali che rappresentano all'incirca un terzo di tutta la flora italiana; alcune specie sono state per la prima volta identificate dai botanici proprio in loco. Le specie animali sono invece oltre 150, tra cui posto di rilievo spetta al piviere tortolino.

    All'interno del parco si trovano ben sette riserve naturali statali e alcuni beni d'interesse culturale, tra i più rilevanti d'Abruzzo.







    Parco nazonale della Maiella

    L'Aquila

    è una città italiana di 72.935 abitanti, capoluogo della regione Abruzzo e dell'omonima provincia. Situata sul declivio di un colle, alla sinistra del fiume Aterno in posizione predominante rispetto al massiccio del Gran Sasso, conta una presenza giornaliera sul territorio di oltre 100.000 persone per studio, attività terziarie, lavoro e turismo. La città è sede di Università e di enti ed associazioni che la rendono vivace sotto il profilo culturale. L'Aquila è posta nell'entroterra abruzzese e possiede una superficie comunale di 467 km² che, su scala nazionale, la pone al decimo posto per ampiezza. Proprio a causa dell'estensione del territorio sparso su una zona montuosa interna, L'Aquila dispone di una rete infrastrutturale e di servizi ardua e di amministrazione molto complessa: conta infatti più di dieci cimiteri, diversi depuratori, decine di complessi scolastici, quasi 3.000 km di strade e molte migliaia di chilometri di reti impiantistiche. È divisa in 59 tra quartieri e frazioni (vedi elenco). Parte del territorio comunale è compresa nel Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, ed alcuni punti superano i 2.000 metri di quota.



    Storia

    Le origini

    Il territorio dove sorge L'Aquila fu abitato fin nei tempi più antichi. Prima della conquista da parte di Roma, tutta la valle dell'Aterno fu luogo di insediamento per i Sabini e per i Vestini, i cui territori confinavano proprio nel punto dove in futuro sarebbe sorta la città. Dopo la conquista dei Romani, avvenuta nel III secolo a.C., nella località che corrisponde all'odierna San Vittorino, pochi chilometri ad ovest dell'Aquila, venne fondata la città di Amiternum, di cui, ancora oggi, possiamo ammirare i resti: un teatro e un anfiteatro che testimoniano l'importanza assunta nel tempo dalla città. Qui nacque uno dei maggiori storici romani, Sallustio, di cui oggi è presente una statua in Piazza Palazzo; fu sede di diocesi insieme alle vicine città di Forcona e Pitinum. In seguito, sopravvissuta alla caduta dell'Impero Romano d'occidente, Amiternum visse un periodo di grande decadenza, fino a scomparire completamente nel X secolo. Nel frattempo, il territorio aquilano era stato inglobato nel longobardo Ducato di Spoleto e venne per la prima volta scisso dall'Abruzzo meridionale che era, invece, sotto il controllo del Ducato di Benevento, con numerose ripercussioni sull'economia della zona. Una delle attività economiche principali delle terre che costituiranno la futura città era, infatti, l'allevamento ovino, che comportava la transumanza, cioè l'annuale spostamento delle greggi, che venivano portate a svernare nel Tavoliere delle Puglie. Con la divisione dell'Abruzzo la transumanza diventò una pratica certamente meno agevole, provocando la decadenza economica del territorio. La rinascita economica del territorio avverrà solo dopo l'anno mille con l'arrivo dei Normanni. Si assiste ad una ritrovata stabilità, grazie anche alla riunificazione di tutto l'Abruzzo (conquistato da re Ruggero II tra il 1139 e il 1153). Durante il periodo normanno si assiste al fenomeno dell'incastellamento, di cui sono esempio e testimonianza, ancora oggi visibili, il castello di San Pio delle Camere e il castello di Ocre; quest'ultimo occupava una posizione strategica nella vallata dell'Aterno ed era proprietà dei conti dei Marsi. Un altro importante fattore di sviluppo economico fu la diffusione delle abbazie cistercensi, tra cui quella di Santo Spirito d'Ocre.

    La fondazione della città

    Nel 1229 gli abitanti dei castelli del territorio decidono di ribellarsi alle vessazioni dei baroni feudali. Rivoltisi a papa Gregorio IX, ottengono, l'anno successivo, il permesso di Federico II per la costruzione di una nuova città. Di questo permesso è rimasta testimonianza nel Diploma di Federico II, un documento conservato in duplice copia negli archivi cittadini, in cui si esortano i castelli degli antichi contadi di Amiternum e Forcona a unirsi per formare un unico centro. Le vicende della fondazione dell'Aquila sono raccontate dagli storici aquilani Buccio di Ranallo da Poppleto (autore di una "Cronica" rimata che narra la storia della città dal 1254 fino al 1362, l'anno precedente la sua stessa morte) e Anton Ludovico Antinori, che ne scrisse dettagliatamente accludendo riferimenti documentari. Controverse sono le notizie riguardanti il numero dei castelli che contribuirono alla fondazione: la tradizione vuole che siano stati novantanove, ma è più probabile che il numero effettivo si aggirasse intorno alla sessantina. A ricordo della fondazione, la campana della Torre Civica (la Reatinella) batte ancora oggi 99 rintocchi ed il primo grande monumento della città, la fontana delle 99 cannelle, sembra contribuire all'alimentazione di questa leggenda. La città venne chiamata Aquila dal toponimo del luogo in cui fu fondata (Accula) e perché il nome richiamava l'insegna degli Hohenstaufen (un'aquila, appunto). Successivamente divenne Aquila degli Abruzzi e infine, nel 1939, per decreto del Ministero dell'Interno, prese il nome odierno di L'Aquila.













    Celestino santo l'Aquila



    La distruzione ad opera di Manfredi e la ricostruzione

    L'Aquila è una città unica nel Medioevo italiano, essendo nata secondo un disegno armonico senza precedenti nella storia dell'architettura urbana (un caso simile, nel 1703, fu la nascita di San Pietroburgo). Costituita dall'unione di molti villaggi, è suddivisa in piccoli quartieri (generalmente una piazza, una chiesa e una fontana), ognuno dei quali rimanda al villaggio-madre. Gestita da un podestà e da un libero consiglio, ebbe organizzazione autonoma e propri statuti. Contribuirono all'ascesa dell'Aquila la posizione strategica e la crescente importanza in ambito religioso, suggellata dal trasferimento della sede vescovile da Forcona all'Aquila nel 1257 ad opera di papa Alessandro IV.
    Nel 1249, colpevole di essere rimasta fedele alla Chiesa nella contesa tra papato ed impero, fu punita e rasa al suolo da Manfredi. Venne ricostruita nel 1265 per mano di Carlo I d'Angiò, chiamato in soccorso dell'Italia e della Chiesa, minacciata dagli Svevi e dalle incursioni dei saraceni, dal Papa francese Jacques Pantaleon de Troyes, eletto al soglio pontificio, a Viterbo, con il nome di Urbano IV. La città dell'Aquila riconoscente, si sottomise spontaneamente al nuovo conquistatore, riacquistando prestigio e preminenza.

    Celestino V e il giubileo aquilano

    Nel 1288 l'eremita Pietro da Morrone, decise di edificare all'Aquila la basilica di Santa Maria di Collemaggio, capolavoro dell'arte romanica e monumento simbolo della città. Proprio nella basilica da lui fortemente voluta, l'eremita venne incoronato papa con il nome di Celestino V il 29 agosto 1294: si tratta della prima, ma non unica, incoronazione di un papa al di fuori di Roma. Nell'agosto del 1294, Celestino V emanò una Bolla con la quale concedeva un'indulgenza plenaria e universale a tutta l'umanità. Bolla ancora oggi valida, che anticipò di sei anni l'introduzione dell'anno santo, avvenuta per volere di papa Bonifacio VIII nel 1300 e può essere quindi considerato il primo giubileo della storia. La Bolla del perdono di San Pietro Celestino, oggi nota come la Bolla della Perdonanza, poneva come condizioni per l'ottenimento del perdono: l'ingresso nella basilica nell'arco di tempo compreso tra le sere del 28 e del 29 agosto di ogni anno e l'essere "veramente pentiti e confessati". La porta di Celestino V, situata sul lato settentrionale della basilica è dunque a tutti gli effetti una Porta Santa.



    Fiume Aterno



    Castello di L'Aquila

    Fontana Luminosa





    Questa immagine ... più di altre è il mio, il nostro augurio per il futuro di questa città ... gente spensierata che cammina e vive quei meravigliosi luoghi ...



    Tagliacozzo

    SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’ORIENTE










    Il santuario della Madonna dell’Oriente sorge a circa 3 Km da Tagliacozzo e prende il nome da una preziosissima icona, ivi conservata, della quale si narra sia stata miracolosamente sottratta alle fiamme cui erano destinate le immagini sacre, a causa della persecuzione iconoclasta, avviata dall’imperatore bizantino Leone III Isaurico durante il pontificato di Gregorio II (715-731)e qui portata da ignoti pellegrini. In realtà da recenti studi, la tavola del dipinto è stato fatto risalire al XIII secolo anche se nessuna testimonianza è riuscita a chiarire l’arrivo e la presenza in questo luogo.
    Al di la dei cenni storici dell’icona, la Madonna dell’Oriente è molto venerata dagli abitanti di Tagliacozzo e da quelli dei paesi limitrofi nonché dai tagliacozzani sparsi per il mondo.
    In questo luogo, quando il tempo me lo permetteva, andavo e mi fermavo molto volentieri per trovarvi un po’ di pace, quella che invita alla riflessione e al distacco dal mondo esterno in contrapposizione alla vita frenetica del mio lavoro.

    Santa Maria in Collemaggio



    Il Duomo di L'Aquila



    Chiesa di San Bernardino



    Il cielo sopra L'Aquila

    Basilica di S.Maria di Collemaggio

    Fontana delle 99 Cannelle



    Tramonto



    Una donna vende al mercato - L'Aquila, mercato rionale, piazza centrale

    Come non essere d'accordo con questo cartellone pubblicitario?...



    Gioielli d'Abruzzo



    Piazza Duomo



    Anche questa immagine è piena di simboli meravigliosi ... uno scatto ancora da l'Aquila ... un arco la sua storia, le montagne intorno e un arcobaleno simbolo della speranza ...



    Amici ... ho cercato di raccontare a modo mio una città meravigliosa ... ora mi assento per andare a mangiare ... spero di avervi regalato belle emozioni ... l'ho fatto come sempre col cuore ... a dopo ....
    Claudio





    Pesccostanzo..abruzzo


     
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    Anversa degli Abruzzi



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    Anversa degli Abruzzi è un comune italiano della provincia dell'Aquila in Abruzzo. Fa parte della Comunità montana Peligna. È annoverato tra i borghi più belli d'Italia.

    Nel territorio del comune si trova la Riserva Naturale Guidata Gole del Sagittario.

    Storia
    Nelle zone circostanti tra il Cenozoico ed il Mesozoico si è avuta un'orogenesi per sedimentazione carbonatica (le rocce nei dintorni contengono carbonati vari, tra cui principalmente carbonato di calcio sotto forma di calcare compatto).
    Nel XX secolo la popolazione subisce un notevole calo demografico (specialmente per luoghi che offrono possibilità di lavoro migliori, tra cui Sulmona).
    La popolazione passa dai 1934 abitanti nel 1901, agli attuali poco più di 400 abitanti.
    Nel 1997 ad Anversa viene istituito il Parco Letterario Gabriele D'Annunzio (Si ricorda che D'Annunzio ha ambientato ad Anversa degli Abruzzi uno dei suoi capolavori: "La fiaccola sotto il moggio" di cui la fiaccola, secondo una leggenda popolare è il rudere del castello normanno, tale castello appartenuto alla famiglia Di Sangro, al visitatore, pare avere la forma di una fiammella).
    Monumenti e luoghi d'interesse


    IL CASTELLO DEI NORMANNI

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    Storia
    Il castello subì una ristrutturazione ed un ampliamento nel XV secolo da Antonio di Sangro su di un preesistente rudere di una torre del XII-XIII secolo. Simone di Teodino, insiele al Castello dell'Orsa diede luogo ad un allineamento ottico difensivo che divideva le diocesi di Sulmona e la ex diocesi di Corfinio. D'Annunzio, visitando il castello con Antonio De Nino, vi ha ambientato la tragedia "La fiaccola sotto il moggio", dramma in cui si possono notare degli elementi della Valle del Sagittario, tra cui i ruderi del castello normanno di Anversa degli Abruzzi.
    Nel 1706 il castello fu gravemente danneggiato da un terremoto.
    Struttura
    Il castello è strutturato da un insieme di corpi architettonici tra cui la torre puntone di cui ne rimangono delle rovine ed un blocco a parallelepipedo con funzioni abitative più tardo della torre (XV secolo). Il coronamento non è più visibile per via del suo crollo. Gli unici lati della torre puntone sono privi di elementi decorativi, mentre il blocco destinato alle funzioni abitative constava di finestre, in alcuni casi incorniciate da piattabande in marmo, in altri casi con balconi. La torre e l'apparato abitativo erano collegati tramite un apparato a sporgere con beccatelli.
    Nel suo interno vi era la Cappella comitale di San Michele Arcangelo il quale custodiva il Trittico di Anversa.
    Questo trittico, detto semplicemente anche Trittico di Anversa, rappresentante l'incoronazione della Vergine con santi, trattasi di una tempera su tavola di grandezza modesta a sfondo dorato e colori predominanti rosso e verde cupo.
    Originariamente si trovava nella cappella comitale dedicata a San Michele Arcangelo, interna al castello normanno di Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila, fu poi portato nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie, sita sempre nella stessa cittadina abruzzese, poi rubato nel 1981 e sostituito con una copia.
    Il trittico è di anonimo del XVI secolo, ma pare essere di scuola fiorentina, ma secondo altri studiosi è di scuola marchigiana.

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    le Case dei Lombardi (fatte costruire tra il 1480 ed il 1520)


    le chiese:

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    La Chiesa di Santa Maria delle Grazie è sita in Piazza Roma ad Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila.
    Cenni storici e struttura
    La chiesa è originaria del XVI secolo.
    Il portale è datato 1540.
    Il portale è impreziosito da una cornice con preziosi altorilievi in pietra calcarea.
    Il rosone è del 1585 reca lo stemma della famiglia Di Sangro e lo stemma di Anversa.•L’interno è a 3 navate divise da colonne cilindriche in pietra, con abside rettangolare avente la statua di San Rocco del 1530, un tabernacolo ligneo (del maestro Picchi di Pescasseroli) a mo’ di tempietto del XVI secolo.
    Sull’altare maggiore vi era il Trittico di Anversa del XVI secolo di anonimo (appartenente alla scuola fiorentina o marchigiana secondo alcuni studi), rubato nel 1981, oggi vi è esposta la copia.
    Originariamente si trovava nella cappella comitale di San Michele Arcangelo del castello normanno dello stesso paese. Il Trittico rappresentava l’incoronazione della Vergine con santi.
    Questo trittico trattasi di una tempera su tavola di grandezza modesta a sfondo dorato e colori predominanti rosso e verde cupo.


    San Marcello (XI secolo)

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    La chiesa di San Marcello è sita in via Duca degli Abruzzi ad Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila. È dedicata a Papa Marcello I, santo patrono del paese.
    Cenni storici e struttura [modifica]
    La chiesa, dell'XI secolo, fu ampliata durante il feudo del conte Nicolò da Procida che fece apporre il proprio stemma sul portale.
    La facciata è romanica. Il portale è in stile tardo-gotico intarsiato vivacemente con vari elementi nella cui lunetta a sesto acuto vi è un trilobo d'influenza borgognona del 1472 raffigurante la Madonna con Bambino fra S. Marcello e S. Vincenzo martire. Di pregevole fattura sono i battenti in legno di castagno, opera di Nicola da Sulmona (1468).
    Le pareti interne presentavano numerosi affreschi, come testimoniato dai recenti ritrovamenti delle estese tracce dipinte nella parte alta della parete di fondo. Sul lato destro dopo l'ingresso sono stati rinvenuti due affreschi raffiguranti Santa Caterina d'Alessandria e Sant'Antonio. Altri brandelli di affreschi si trovano in una parete della scalinata del campanile, ma versano in cattivo stato



    Chiesa di Santa Maria ad Nives


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    La chiesa di Santa Maria ad Nives si trova un chilometro fuori da Anversa degli Abruzzi, nella valle del Sagittario, in provincia dell'Aquila.
    Adiacentemente si trovava l'annesso monastero.
    Agli inizi del IX secolo fu possesso dei frati benedettini originari del Volturno.
    Allora venne chiamata "Santa Maria de Flaturno" e dipendeva come feudo della chiesa di Santa Maria Appinianico.
    Nel XVI secolo fu donato ai frati domenicani dalla famiglia che tenne in feudo Anversa degli Abruzzi in quel periodo, vale a dire i Belprato.
    Nel 1652 il papa Innocenzo X soppresse il monastero che passo in gestione direttamente alla famiglia feudale di Anversa degli Abruzzi.
    La chiesa perse così d'importanza e venne gradualmente abbandonata, fino a che oggi se ne possono ammirare solamente i ruderi.
    Negli anni a seguire il 1652 il monastero fu adibito dapprima come fienile, indi come lazzaretto nelle epidemie susseguitesi ad Anversa degli Abruzzi, in seguito, dopo la II guerra mondiale fu abbandonato anch'esso, dopo che nella guerra stessa fu usato verosimilmente come rifugio-bunker.

    San Vincenzo (XIII secolo)

    La chiesa di San Vincenzo de Flaturno è sita a poche decine di metri dal centro abitato di Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila.
    Fu edificata dai monaci originari del Volturno.
    Constava di un annesso cimitero.
    Nel 1333 vi fu sepolto un frate locale, Pietro d'Anversa degli Abruzzi, vescovo di Carinola prima, e di Valva poi).
    Il portale d'ingresso, rinascimentale, constava di un bassorilievo raffigurante l'Agnus Dei.
    Ora ne rimangono parte delle mura.




    Monumenti e luoghi d'interesse


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    Il borgo fortificato



    L'antico borgo fortificato che dominava l'alta valle del Sagittario controllava uno degli accessi della Valle Peligna. Il borgo fortificato di Castrovalva ha le caratteristiche di un insediamento su di un crinale dove prevale l'utilizzo della pietra. In alcuni casi gli edifici versano uno stato di semi-abbandono tuttavia si può riconoscere l'architettura tradizionale. L'edificio posto sull'estremità dello sperone roccioso parrebbe essere, a prima vista, la residenza del signore feudale ma mancano studi a prova di ciò.

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    Le chiese e varie
    La Chiesa della Madonna della Neve (del XVI secolo), la chiesa di Santa Maria delle Grazie, la chiesa di San Michele Arcangelo (del XII secolo) il panorama sulle Gole del Sagittario e la Riserva delle Gole del Sagittario.


    Nella suggestiva cornice delle gole calcaree del Fiume Sagittario, in quel lembo di terra che, ai viaggiatori inglesi Richard Keppel Craven e Edward Lear, apparve “pauroso e bello” sorge la Riserva Regionale “Gole del Sagittario”.

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    Il canyon è il risultato dell’azione erosiva svolta nei secoli dal corso d’acqua attraverso imponenti strati di roccia calcarea. Questi sono quello che resta di un antico fondale marino, esteso in gran parte dell’Appennino centrale, dove, per circa 200 milioni di anni, tra Cenozoico e Mesozoico, si è avuta una quasi ininterrotta sedimentazione carbonatica.
    L’area, già oasi WWF dal 1991, è diventata riserva naturale regionale nel 1997 grazie all’apposita legge istitutiva L.R. 16/97. Si estende su una superficie di 450 ettari.
    Abbraccia ambienti molto diversi compresi tra i 500 m s.l.m. del fondovalle a ridosso del paese di Anversa (AQ) fino ad arrivare ai quasi 1500 m s.l.m. del Pizzo Marcello. Al suo interno si possono riconoscere tipologie ambientali molto varie. Tra le più rappresentative vi sono le rupi ed i ghiaioni calcarei, i prati aridi, la vegetazione delle sorgenti, il bosco mesofilo di fondovalle, la faggeta e le praterie primarie d’alta quota. In questi luoghi trovano riparo numerosissime specie animali e vegetali di notevole interesse naturalistico e conservazionistico. Basti pensare che nella riserva è confermata la presenza del lupo e dell’orso marsicano che qui fa registrare il maggior numero di avvistamenti al di fuori del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Altri importanti mammiferi presenti sono il cervo, il capriolo, il cinghiale, il tasso, la volpe e la lepre.

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    Estremamente assortita è l’ornitofauna che annovera molte specie tra quelle protette a livello europeo. Oltre al picchio dorsobianco, che è anche il simbolo della riserva, vivono sulle rupi più inaccessibili la maestosa aquila reale e gli inconfondibili gracchi corallini, bellissimi uccelli neri con becco e zampe color vermiglio. Non è raro, inoltrandosi sulle zone più alte, vedere queste due specie schernirsi in volo. Restando in quota è possibile incontrare la coturnice, elegante galliforme dei pascoli più elevati. Continuando con una veloce carrellata dei volatili più rappresentativi, sono da citare la rondine montana, il passero solitario, il falco pellegrino e lo sparviere.

    L’area ha un notevole valore conservazionistico anche dal punto di vista floristico e vegetazionale. La vegetazione ripariale, nei tratti meno incassati, è composta da salici bianchi e purpurei, pioppi e dalla sempre più sporadica farnia.
    Numerose le piante che fioriscono tra le gole che, fortunatamente, hanno conservato intatta la loro bella e preziosa flora rupicola. Esplorandole in primavera è come visitare un santuario eretto a lode di endemismi e specie rare che qui da sempre dimorano. Tra le prime citiamo, oltre al rarissimo fiordaliso del sagittario, che vive solo lungo questa valle, la viola di Eugenia, la campanula di Cavolini, la piverina tomentosa. Tra le specie rare ricordiamo l’efedra dei Nebrodi rinvenibile solo per poche stazioni in Abruzzo e la dafne sericea, localizzata in Italia solo in poche isole e località costiere del Tirreno meridionale.
    La riserva è gestita dal Comune di Anversa degli Abruzzi in convenzione con il WWF Italia.
    I servizi per la gestione ordinaria, l’accoglienza dei visitatori e l’attività didattica sono affidati alla Coop. Daphne con sede in Anversa.
    Intensa è l’attività scientifica all’interno di questa area protetta dove si svolgono regolari corsi e seminari sulla vegetazione, attività di inanellamento scientifico degli uccelli, censimenti faunistici e approfondimenti su specifici temi come lo studio della lepre italica, dei chirotteri, dei macroinvertebrati acquatici, degli anfibi e dei rettili.
    Molte anche le offerte didattiche rivolte in particolare alle scuole con laboratori sui diversi temi naturalistici e sulla solidarietà Nord-Sud del mondo (commercio equo e solidale), oltre alla possibilità di visite guidate alla stazione ornitologica e di inanellamento ed al giardino botanico.


    le porte:

    Porta Pazziana; è una delle porte superstiti della cinta esterna del borgo medievale.

    Porta San Nicola;

    le necropoli;

    La necropoli Coccitelle
    è una necropoli sita nei pressi di Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila.
    La necropoli viene fatta risalire al IV-III secolo a.C.
    Questo sito archeologico consta di qualche grotta di modesto interesse culturale ed è posto a qualche centinaio di metri dalla strada che, da Anversa degli Abruzzi, va verso Bugnara, Introdacqua e Sulmona.
    Si tratta di resti di 50 tombe a lastroni con ogni probabilità riferibili a popoli preromani che dopo la guerra sociale vennero assoggettati molto probabilmente a Roma.
    Il nome Coccitelle deriva verosimilmente da come i contadini chiamano i lastroni delle tombe.
    Le donne in particolar modo erano dedite alla sepoltura.
    Molte delle sepolture più ricche erano di donne, in quanto hanno riportato alla luce scheletri femminili con gioielli e monili femminili.



    Le Necropoli di Cava della Rena e di San Carlo -
    Fonte Curato si trovano nei pressi della Necropoli di Coccitelle ad Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila.
    La Necropoli di Cava della Rena risale al III-I secolo a.C. ed è composta prevalentemente da tombe a camera, in cui all'interno sono state ritrovate ceramiche, bronzi e materiali in ferro.
    Nell'adiacente Necropoli di San Carlo-Fonte Curato sono state ritrovate tombe ricoperte da lastroni, come nell'altra necropoli anversana Necropoli di Coccitelle, ma risalente al IV-I secolo a.C.
    Questi scavi sono stati portati alla luce per caso nel 1996.
    Come per l'altra necropoli anversana Necropoli di Coccitelle si protrebbe trattare di scavi archeologici inerenti a una popolazione preromana assoggettata a Roma durante la guerra sociale









    Giardino botanico delle Sorgenti del Cavuto


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    Il Giardino botanico delle Sorgenti del Cavuto si trova ad Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila.
    Le Sorgenti del Cavuto si immettono direttamente nel Sagittario.
    Il Giardino botanico rappresenta l'ultima propaggine della Riserva delle Gole del Sagittario in prossimità di Anversa degli Abruzzi. Vi si accede mediante una discesa dalla stessa cittadina che ne è anche l'ente gestore insieme al WWF ed alla provincia dell'Aquila.
    Il parco del Giardino botanico è stato istituito nel 1996 con L.R. 35/97.
    Il parco ospita 380 specie di piante di cui 45 ascritte alla lista rossa di estinzione e conservazione cries.
    Il giardino è provvisto di vivaio irrigato dal Sagittario e dalle Sorgenti del Cavuto. Queste ultime alimentano anche una centrale elettrica.
    In passato, prima della realizzazione della centrale elettrica si producevano le famose ceramiche di Anversa degli Abruzzi.


    Zona piante acquatiche

    Il parco si suddivide nelle seguenti zone:
    Giardino Rocciera abitato (dal custode del parco);
    zona piante acquatiche;
    centro visite della riserva;
    Sorgenti del Cavuto;
    zona di pesca idrica controllata (i gestori del parco controllano che non venga superato il limite massimo di pesci pescabili);
    Bosco ripariale.





    Cultura
    Letteratura


    Gabriele D'Annunzio nel castello normanno-aragonese in cima alla collina del paese ambientò il suo romanzo, La fiaccola sotto il moggio.
    Ad Anversa si svolge il Parco letterario D'Annunzio a partire dal 2002.
    La fondazione nel 2002 viene dedicata a Gabriele d'Annunzio dai fondatori: il comune di Anversa degli Abruzzi, il WWF Italia e la Fondazione "Ippolito Nievo", ma anche i comuni vicini di Cocullo, Villalago e Bugnara hanno dato un contributo.
    Lo scopo dell'associazione è non solo di rappresentare e/o leggere brani e opere di D’Annunzio, ma anche di percorrere e visitare i luoghi della tragedia dannunziana La fiaccola sotto il moggio; le manifestazioni si svolgono nella maggior parte dei casi presso il centro storico del paese.
    Il Parco letterario è gestito dal comune di Anversa degli Abruzzi e si svolge nei mesi tra aprile e luglio ed a settembre ed ottobre, gli ingressi sono solamente tramite prenotazione.
    Le visite durano circa 2-3 ore.

    Ad Anversa restano i ruderi di un palazzo edificato da un De Sangro. Scritto al Sindaco per sapere se tra le pietre vi sia lo stemma gentilizio della famiglia. (Esiste un'iscrizione già nota). Un signor Di Gusto mi risponde che non si trova alcuna traccia di stemma. Ora, tu che sai tutto, potresti indicarmi lo stemma ..."
    Gabriele d'Annunzio

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    La fiaccola sotto il moggio
    L'incredibile successo della prima tragedia di argomento abruzzese, nel 1904, spinse d’Annunzio a riproporre sulla scena, l’anno seguente, un nuovo spaccato della sua terra d’origine, di un paese che ancoragli sembrava sopravvivere intatto. La fiaccola sotto il moggio riportava l’Abruzzo ad una dimensione storica, per quanto al puntodi crisi del Regno e dell’aristocrazia che per secoli l’aveva dominato e drammaticamente viveva l’impatto con i ceti emergenti.
    Come sempre, d’Annunzio fece ricorso al suo poderoso archivio memoriale, consegnato anche alle brevi note degli inseparabili Taccuini, dando corpo fantastico alle remote impressioni di un’avventurosa cavalcata nella Valle del Sagittario che aveva compiuto diciottenne, nel 1881, in compagnia di Francesco Paolo Michetti, Costantino Barbella e Antonio De Nino; e certo, il più comodo viaggio in carrozza del 1896 insieme all’amante Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, si era aggiunto a rianimare la suggestione dei luoghi focalizzando l’attenzione su Anversa, grazie anche ai fotogrammi d’Olinto Cipollone e alla guida sapiente dello storico d’arte Emile Bertaux.

    Ad Antonio De Nino, assente nell’escursione per motivi di salute, il Vate sarebbe comunque ricorso nelle fasi preparatorie del materiale erudito e in quelle più concitate dell’elaborazione creativa e della messa in scena, da caratterizzare con le peculiarità tutte abruzzesi di certi personaggi che al dramma davano tono e colore essenziali, calati nell'ambiente quali elementi portanti della sua ricostruzione. Così la memoria privata s’innervava di quella storica e i feudatari de Sangro erano chiamati ad occupare la ribalta in un tempo non più remoto, attualizzato al declino irreversibile della dinastia borbonica, quando il “turbine abbatte una vecchia casa magnatizia”.

    Era una formula già sperimentata, nella quale venivano però a smottarsi le braci residue di un Abruzzo barbarico e misterico, attizzate come sempre dalla terribilità pittorico-coloristica di Michetti e dalla saggezza esperita del cantafavole De Nino: chè senza il serparo Edia Fura, e la luce radente esacrale e sinistra che il suo avvento dà a paesaggio e personaggi, i tanti nomi di luoghi e persone tolti di peso dalla Guida dell’Abruzzo di Enrico Abbate non sarebbero comunque valsi a fare sulla carta quella parte di terra, chiusa o aperta che fosse, almeno nelle prime intenzioni d’autore, a “sogni di terre lontane”; resisterebbero invece solo in quanto orpelli, perle preziose colte abilmente e disposte in fastosa corona attorno a quello che, nel suo tragico spessore, è infine un dramma che subito s’intuisce quale consapevole tormento di una persona eroica e sola. Mentre Gigliola, figlia non illegittima delle Elettre dei tre massimi tragediografi greci, replica a specchio la galleria delle superfemmine di cui si compone la parte migliore del teatro dannunziano, su tutto e su tutti, sulla “casa che crolla”, sta imponente solo il Sagittario che “si rompe e schiuma”; mentre in alto, magicamente arroccate e sospese, le “case di Castrovalva” continuano ad ardere sul “sasso rosso”.


    Economia

    Fino al 2° dopoguerra si producevano nel paese delle ceramiche, di cui nella piazza principale vi è una sala mostre.

    Ceramiche di Anversa degli Abruzzi

    Anversa degli Abruzzi, nel XIX e XX secolo già produceva ceramiche interessanti, ma nel paese si incominciavano a produrre ceramica già minimo dal secolo XV.
    Secondo studi, a Villa d'Este a Tivoli e della Chiesa di S. Maria delle Grazie a Collarmele (AQ), paiono creazioni del maestro Bernardino de' Gentili di Anversa degli Abruzzi, trattasi di un ceramista abruzzese della seconda metà del XVI secolo.
    Infatti negli archivi comunali e locali si sono trovati documenti appartenenti ad una famiglia Gentili ad Anversa nel XVI secolo, mentre nel secolo seguente, altri membri di questa casata vengono chiamati "vasai".
    Si può quindi dire che già vi erano nel Rinascimento officine e maestranze ad Anversa degli Abruzzi attive anche al di fuori del territorio comunale.
    Scavi, fatti durante l'estate del 1999, hanno attestato che esisteva una via Santa Maria delle Fornaci con relativi antri identificabili con dei laboratori di ceramica con annesse discariche.
    Lo stesso scavo ha portato alla luce dei resti di lavorazione di ceramica databili fra il XV ed il XVII secolo.
    Sempre questi studi hanno fatto avvalorare l'ipotesi che già nel XVI secolo già esisteva un commercio di ceramiche con il Lazio.
    Ad Anversa degli Abruzzi si produceva l'ingubbiata e l'invetriata dipinte, meno comunemente la graffita.
    Fino al 2° dopoguerra si producevano nel paese delle ceramiche, di cui nella piazza principale vi è una sala mostre.
    Le botteghe, 15 in tutto, erano site presso le Sorgenti del Cavuto che fornivano l'acqua per la produzione, iniziata circa nel XV secolo.
    La successiva incanalazione del Cavuto per la realizzazione di un impianto di produzione di energia elettrica dopo la II guerra mondiale ha fatto crollare la produzione di ceramiche che ora si attua a livello amatoriale.

    Le botteghe, 15 in tutto, erano site presso le sorgenti del Cavuto che fornivano l'acqua per la produzione, iniziata circa nel XV secolo.
    Le maioliche del luogo hanno raggiunto Villa d'Este presso Tivoli e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Collarmele opere rinascimentali di un certo Bernardino de Gentili nativo del luogo.
    La successiva incanalazione del Cavuto per creare una diga per la fornitura di energia elettrica ha fatto crollare la produzione di ceramica del paese, attualmente ridotta a ceramica artigianale.
    I massimi esponenti e maestri di produzione di maioliche e ceramiche sono da ricercare tra i secoli XV e XVI.


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    Il prodotto del borgo

    La "pignata", il recipiente in terracotta (pignatta) usato per la cottura dei legumi, è simbolo di Anversa (gli abitanti erano chiamati "pignatari") insieme al "cucù", il fischietto d'argilla dal caratteristico suono.
    La ricotta affumicata di Anversa è uno dei celebri profumi e sapori della terra d'Abruzzo, certificato dalla medaglia d'oro alle Olimpiadi del formaggio di montagna del 2002.


    Il piatto del borgo
    Tra i piatti locali meritano una menzione speciale i quagliatelli e fagioli, una minestra a base di pasta con acqua e farina ma senza uova, il capretto "cacio e uovo", le pizzelle cotte con il "ferro" artigianale e i dolci natalizi come le pizze fritte e i ceci ripieni.






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    gola del sagittario

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    Castrovalva



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    Castrovalva è una frazione di Anversa degli Abruzzi, in provincia dell'Aquila.
    L'abitato è sito su uno sperone roccioso che si erge dalla Cresta di Sant'Angelo, a 820 metri sul livello del mare. Il paese conta 26 abitanti.


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    Cenni storici
    Gli abitanti che la fondarono provenivano da 5 ville. La chiesa di San Cesidio fu possesso di Montecassino. Prima dell'anno 1000 fu possesso dell'Abbazia di San Vincenzo al Volturno.
    Tuttavia il primo documento che cita Castrovalva è il Catalogo dei Baroni quando, nel 1079 cita il luogo come "Castro di Valva" che nel 1173 era appartenuto a Simone conte di Sangro, mentre, nel 1187 era possedimento di Simone di Teodino conte di Castel di Sangro. Nel XIII secolo il castrum de Valva viene citato nello Statuto per la riparazionedei castelli imperiali svevi.
    Nel 1817 Ferdinando I delle Due Sicilie, promulgando una riforma dello stato, unì definitivamente Castrovalva ad Anversa, ma dal 1927 viene eletta, ogni quattro anni, una commissione amministrativa di cinque membri dai cittadini di Castrovalva
    Maurits Cornelis Escher nel 1929 realizzò una litografia su Castrovalva Le autorità comunali hanno deciso di dedicare all'artista olandese l'ultimo tornante prima dell'ingresso al paese. Dal cosiddetto girone Escher è possibile, infatti, osservare Castrovalva dalla medesima prospettiva ritratta nella litografia.

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  4. tomiva57
     
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    PETTORANO SUL GIZIO


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    La storia

    Le origini dell’attuale abitato di Pettorano sul Gizio risalgono all’epoca medievale, ma il territorio circostante e le alture vicine al paese vennero frequentate dall’uomo fin dal paleolitico. Ricerche condotte lungo le pendici del Monte Genzana e in varie zone circostanti hanno fornito testimonianze antichissime, soprattutto utensili appartenuti ai primi cacciatori che frequentarono e sporadicamente abitarono queste lande. Le testimonianze archeologiche rinvenute permettono di seguire nel corso dei millenni, dall’età medievale, lo sviluppo dei primi insediamenti e le attività di questi antichi abitati dell’alta valle del Gizio.
    Da una situazione di nomadismo legata alla caccia d’altura si passò ad attività agro-silvo-pastoriali e ad insediamenti più stabili. Nel corso dell’età del ferro avanzata (VI-V sec. a.C.) si sviluppò un vero e proprio centro fortificato sull’area collinare del Monte Mitra.
    L’insediamento, preceduto certamente da una frequentazione assidua da parte dei cacciatori preistorici e protostorici, si rivela particolarmente importante per la sua estensione e per la posizione nel territorio, certamente di controllo e predominio su gran parte della Valle. Venute meno nei secoli posteriori alla romanizzazione le esigenze Litografiadi difesa, si svilupparono nelle zone a valle, a nord del paese attuale, piccoli insediamenti secondo il sistema paganico-vicano tipico in queste zone in età repubblicana.
    I numerosi ritrovamenti di materiale dell’età romana, soprattutto nella contrada Vallelarga, testimoniano antichi centri abitati, anche se non ci sono prove sicure sull’identificazione di tali insediamenti con il Pagus Fabianus citato da Plinio il Vecchio, come cedettero alcuni storici locali.
    Tra i numerosi reperti antichi rinvenuti nel territorio o riutilizzati nel paese bisogna ricordare, oltre ad alcune epigrafi in dialetto peligno, un importantissimo frammento in greco dell’Edictum de pretiis rerum venalium, documento di carattere economico emanato nel 301 d.C. dagli imperatori Diocleziano e Galerio (in oriente) e Massimiano Erculeo Litografia di Pettorano sul Gizio realizzata da M. C. Escher durante il suo viaggio in Abruzzoe Costanzo (in occidente). Il frammento, l’unico in greco conosciuto in occidente, fu probabilmente portato a Pettorano nel corso del XIX secolo e si conserva in una casa gentilizia privata.
    Al di là delle fabulae a sfondo storico rintracciabili in alcune pagine storico locali, spesso eccessivamente campanilisti, le origini del paese attuale sono da ricercare nel periodo medievale, precisamente nella fase in cui i pagi e i vici di tradizione tardoantica venivano uniti in un unico complesso urbanistico per motivi difensivi, politici ed economici. Uno storico pettoranese del XIX secolo Nicola Bonitatibus, ha così ben descritto la formazione di Pettorano: “Undeci, ed anche più si vuole che fussero le Ville, le quali, unitesi in società circa il decimo secolo, si determinarono ad eriggere Pettorano nel luogo dove al presente si vede. Lo circuirono di muri, e di torri, e lo munirono d’una fortezza, per far fronte a comuni inimici, ed agli invasori”.
    Pettorano sul Gizio in una cartolina d'epoca dei primi '900Per il Bonitatibus, quindi, le originarie vite, che avrebbero poi dato origine all’attuale abitato, potevano essere individuate nelle superstiti chiesette rurali, eredi degli antichi pagi e da lui recensite su tutto il territorio in numero superiore ad undici.

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    Fino all’ XI secolo il toponimo Pectoranum indicava genericamente una intera vallata, tanto da trovare spesso nei documenti anteriori all’XI secolo l’espressione “in valle Pectorianu”. Soltanto dal 1903 il toponimo passò a designare più precisamente il Castello: un documento del maggio di tale anno attesta infatti “Castellu qui Pectorianu bocatur”.
    Nel corso dell’XI secolo si è dunque verificato l’incastellamento, termine con cui si indica la fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello, inteso come concentrazione di uomini ed interessi. Le importanti trasformazioni economiche attuatesi tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo crearono i presupposti per l’incastellamento del sito.

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    Le interpretazioni etimologiche del toponimo Pettorano sono state diverse: secondo alcuni deriverebbe da pettorale, per la forma a petto di corazza assunta dall’insieme urbanistico; secondo altri da pettorata, termine dialettale con cui si indica una rapida salita, per disegnare in questo caso il dirupo che dalla valle del Gizio sale fino al Piano delle Cinquemiglia; altri lo spiegano come derivato dal sostantivo greco preta, -as (= pietra, roccia) per indicare la natura rocciosa del sito; altri infine da Pictorianus, nome di pagus, o di un fundus legato al gentilizio di età romana Pictorius, attestato epigraficamente nel vicino paese di Introdacqua.

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    Alla fine del XII secolo Pettorano era la sede di un feudo che si intendeva dalla valle del Gizio verso il Piano delle Cinquemiglia e al Sangro fino alla futura Ateleta. Infatti, con i Normanni il Castello costituiva una già consolidata realtà economica e politica. A capo del feudo troviamo un certo Oddone della famiglia dei Conti del Molise.

    Nel XIII secolo il Castello fu teatro di avvenimenti storici di grande interesse: nel 1229 l’esercito di papa Gregorio IX, guidato da Giovanni di Brienne, cacciò il duca di Spoleto della Marca, assediò Sulmona e conquistò il Castello di Pettorano. Qui si asserragliò Corrado di Lucinardo insieme a Roberto di Bacile (o Pacile), i quali avevano aderito al partito papale contro Federico II.
    Pettorano sul Gizio in una cartolina d'epoca dei primi '900Dopo questo episodio, che dimostrò l’importanza del Castello come punto di difesa sulla via di comunicazione tra la contea del Molise e la valle di Sulmona, Federico II tentò di riportare la situazione sotto il proprio controllo nominando titolare del feudo il figlio Federico, detto di Pettorano, e facendo vigilare il territorio perché non vi dimorasse gente sospetta ed infedele. Con la venuta degli Angioini l’intero feudo di Pettorano, insieme a Colleguidone, Pitransieri, Pacentro e Roccaguiberta, fu concesso al milite Amiel d’Angoult, signore di Courbain, venuto al seguito di Carlo I d’Angiò.


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    Nel 1269 (tre anni dopo la vittoria di Benevento) i “traditori” che avevano parteggiato per gli Svevi vennero puniti con la confisca dei beni, ceduti poi a fedeli angioini. Tra i beni confiscati risulta anche una Bectonia di Cerrano, sita proprio nel territorio di Pettorano. Sempre nel 1269 il feudo passò ad Oderisio de Ponte, che pensò bene di donarlo alla figlia Giovanna andata sposa ad Agoto di Courbain, figlio di Amiel di Courbain.

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    Nel 1310 il feudo fu trasmesso ai Cantelmo, probabili discendenti dei reali di Scozia, venuti in Italia dalla ProvenzaPettorano Veduta Est al seguito di Carlo I d’Angiò, i quali lo tennero per lunghissimo tempo, fino al 1750. Della famiglia Cantelmo vanno ricordati: Andrea (1599-1648) e Restaino (1653-1723), importanti uomini d’armi della loro epoca; il Cardinale Giacomo (1654-1702), potente uomo di chiesa della Napoli del ‘600; Fabrizio (1611-1658) per le opere realizzate a Pettorano. Ad essi seguirono i Montemiletto, che lo tennero sino al 1806, anno dell’abolizione del regime feudale. Il Castello di Pettorano rimase a lungo luogo di rifugio per coloro che si ribellavano al potere imperiale. In un documento del 1384 Carlo III di Durazzo ordinò al capitano di Sulmona di procedere contro alcuni “rebelles et infideles” del castello di Pettorano, i quali avevano sequestrato e liberato solo dietro riscatto un certo Coluccio de Regazio di Sulmona, fedele suddito di re Carlo.

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    Per tutto il XV secolo Pettorano ha costituito ancora una terra di rifugio per gli avversari del potere politico. Tale fenomeno, tra l’altro, fu favorito dal fatto che la struttura urbana era scarsamente abitata; si contavano solo 117 fuochi nel 1447, a causa della depressione economica che aveva colpito la zona: una terra di nessuno dove era assai facile di trovare asilo politico.


    Nel XVI secolo la situazione cominciò a cambiare, quando nuovi edifici religiosi e civili contribuirono ad una rinascita edilizia del paese e ne definirono la fisionomia così come oggi è visibile. Il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono notevoli resti, vide la luce proprio nel corso di questo secolo, con un allargamento della superficie difesa e protetta dal castrum. Questa espansione edilizia, simbolo di una ripresa economica e di un assestamento della situazione politica locale, continuò anche per tutto il secolo XVII, come ci testimoniano alcuni importanti particolari architettonici.

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    Nel corso del XVII secolo si assistette ad un vero e proprio arricchimento della tipologia architettonica, con la costruzione o la ristrutturazione dei più imponenti palazzi nobiliari del paese, nel Palazzo Croce al Palazzo Gravina, dalla Castaldina al Palazzo Vitto-Massei.

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    Il ruolo politico e culturale svolto dai notai, medici, avocati a partire dal XVIII secolo fu significativo: questi “professionisti” costituivano infatti gli avamposti territoriali del potere centrale. Ancor più significativa risulta la tendenza illuminista di alcune famiglie borghesi di Pettorano; la scienza e la cultura cominciarono ad essere vissute con spirito più democratico e con maggiore professionalità. In tale ambiente spicca una delle personalità più significative dell’Ottocento abruzzese, il notaio Pietro De Stephanis, che affrontò la storia locale con i metodi della critica e delle scienze ausiliarie. Il suo contributo, che va ben oltre lo studio della storia locale, fu anche di carattere prettamente civico: da amministratore riuscì nel 1865 a far approvare al Consiglio Comunale una deliberazione contro la pena di morte, un atto di grande maturità democratica e civile, in un momento in cui non era certamente facile assumere Pettorano sul Gizio - Veduta sud-ovestdecisioni così nette ed inequivocabili in un paese ai margini della storia. Nell’Ottocento Pettorano vede la realizzazione di importanti opere per migliorare la viabilità e favorire le comunicazioni con Napoli: il secolo XIX si apre con la costruzione di una nuova strada - la “Napoleonica”- e si chiude con l’apertura della ferrovia Sulmona–Carpinone.
    Nel centro abitato prende forma l’attuale Piazza Umberto I con la costruzione della Casa Municipale (1828) e la bella fontana monumentale con le statue di Antifirite e Nettuno (1897), addossata alla parete destra della Chiesa Madre. Dopo l’unità d’Italia il paese cambia denominazione e con R.D. 21.4.1863 n°1273, Pettorano assume il nome di Pettorano sul Gizio.

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    Dal punto di vista economico e sociale... il fiume Gizio con le attività ad esso collegate (mulini, remiere, ecc.) continua ad avere una notevole importanza, tanto da essere oggetto, soprattutto per i mulini, dapprima di aspre , e in seguito di grandi tumulti per la tassa sul macinato. Ma il fenomeno economico e sociale di gran lunga più importante per Pettorano, che emerge con forza nel secolo scorso e continuerà fino a pochi decenni fa, è quello dell’immigrazione.
    Nel secolo scorso l’emigrazione era soprattutto stagionale: centinaia di taglialegna e carbonai pettoranesi si recavano per gran parte dell’anno nel Lazio, in Campania e perfino in Liguria e Calabria per lavorare; alla metà del secolo più di settecento uomini migravano stagionalmente. Tale fenomeno, pur avendo origine da condizioni di arretratezza e indigenza, creò le condizioni per un forte sviluppo demografico, che all’inizio del Novecento portò popolazione a circa cinquemila abitanti, rendendo Pettorano il centro più popoloso nella Valle Peligna, dopo Sulmona e Pratola Peligna. Le Pettorano sul Gizio - Veduta nord-estmigrazioni stagionali crearono un’altra conseguenza dal punto di vista sociale: l’assenza degli uomini rese liberi posti di lavoro nel settore agricolo, affidato quasi elusivamente alle donne, consentì a molti abitanti di Introdacqua di insediarsi nelle case sparse presso Pettorano, sull’attuale strada provinciale dell’ Albanese.
    All’emigrazione stagionale si aggiunse nel Novecento dapprima quella transoceanica, che portò migliaia di pettoranesi in Argentina, Brasile, Venezuela, Stati Uniti e Canada, poi quella verso l’Europa e il nord Italia. Pettorano ha avuto uno dei flussi migratori più elevati di tutto il Mezzogiorno e ciò è facilmente intuibile visitando un centro storico bellissimo ma ormai spopolato, abitato da circa un decimo della popolazione stimata agli inizi del secolo.

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    il castello cantelmo




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    La Storia...

    Il castello di Pettorano sul Gizio fa parte di un sistema di fortificazione comprendente i castelli circostanti di Popoli, Pacentro, Raiano, Vittorito, Prezza e Anversa. Originariamente doveva essere composto solo dalla torre centrale di avvistamento (puntone) a pianta pentagonale, con la punta diretta verso SO, intorno alla quale fu innalzata, in epoca angioina, l’attuale cinta muraria con le superstiti due torri circolari. Delle due torri, a base scarpata per attutire l’impatto di eventuali proiettili, quella posta a SO è di maggiori dimensioni rispetto a quella posta a NO . A SE invece si può osservare una torre quadrilatera.
    Fino all’XI secolo inoltrato il nome Pectoranum era genericamente un toponimo che individuava una intera vallata, tanto da trovare spesso negli antichi documenti interiori al 1021 la espressione in valle de Pectorianu. E’ soltanto dal 1093 che il toponimo è passato a designare più precisamente il Castello: un documento dal maggio1093 attesta un castellu qui pectoraniu bocatur. In questo lasso tempo (1021- 1093) è avvenuto l’incastellamento, termine con cui si suole definire il fenomeno della fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con la delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello inteso come concentrazione di uomini e interessi. E’ proprio tra X e XI secolo che si verificano trasformazioni economiche di rilievo: i signori laici iniziano il processo di erosione dei beni mobili e Sala dei carbonai allestita all'interno del castelloimmobili di chiese e monasteri. Nel territorio di Pettorano un documento del 1021 attesta la rivendicazione da parte del Monastero di S. Venanzio al Volturno della usurpata chiesa di S. Comizio. Secondo quanto testimonia il Chronicon Casauriense, prima della fondazione di S. Clemente a Casauria (873) non vi sarebbero stati Castelli, e solo agli inizi del X secolo a causa delle scorrerie saracene avrebbero cominciato a costruire castelli . Chi ha costruito i Castelli? Senza dubbio, sia gli abati sia i signori laici per concessione degli abiti.
    All’evento dei Normanni il Castello di Pettorano costituiva una già consolidata realtà economica e politica, tanto che alla fine del XII secolo era il perno di un feudo che si estendeva dalla Valle del Gizio verso il Piano delle Cinquemiglia, al Sangro fino alla futura Ateleta. A capo del feudo troviamo un certo Oddone della famiglia dei Conti del Molise. Nel XII secolo il Castello fu teatro di Giovanni Brienne, cacciò il Duca di Spoleto dalla Marca, assediò Sulmona e conquistò il Castello di Pettorano. Qui si asserragliò Corrado di Lucinardo insieme a Roberto di Bacile o Pacile, che avevano aderito al partito papale contro Federico II. Dopo questo episodio, che aveva dimostrato l’importanza del Castello come punto di difesa della via di comunicazione tra la Contea del Molise e la Valle di Sulmona, Federico II tentò di riportare la situazione sotto il proprio controllo nominando titolare il figlio Federico detto di Pettorano, e facendo vigilare il territorio affinché non vi dimostrasse gente sospetta ed infedele. Con la venuta degli Angioini l’intero feudo di Pettorano, insieme a Colleguidone, Pietransieri, Pacentro e Roccaguiberta, fu concesso al milite Amiel d’Angoult signore di Courbain venuto dalla Provenza al seguito di Carlo I d’Angiò. Nel 1269 (tre ani dopo la vittoria di Benevento) i “traditori” che avevano parteggiato per gli Svevi vennero colpiti con la confisca dei beni, che furono così ceduti a fedeli angioini. Tra i beni confiscati anche una Bectonia di Cerrano sita proprio nel territorio di Pettorano.
    Nel 1269 il feudo passò ad Oderisio de Ponte, che pensò bene di donarlo alla figlia Giovanna andata sposa ad Agoto di Courbain, figlio di Amiel di Courbain. Nel 1310 il feudo fu trasmesso ai Cantelmo, venuti in Italia al seguito di Carlo I d’Angiò, e lo tennero per lunghissimo tempo fino al 1750, quando i Cantelmo furono rimpiazzati dalla famiglia dei Montemiletto fino al 1806.
    Il castello di Pettorano rimase a lungo luogo di rifugio di rebelles al potere imperiale. In un documento del luglio 1384 Carlo III di Durazzo ordinò al capitano di Sulmona di procedere contro alcuni rebelles et infideles del Castello di Pettorano che avevano sequestrato e liberato solo dopo il pagamento di un riscatto un certo Coluccio de Rigazio di Sulmona, fidelis al potere Carlo. Ancora per tutto il Quattrocento Pettorano costituiva una terra di rifugio per gli avversari del potere politico. Il XVI secolo è stato decisivo per Pettorano: la fisionomia dell’intero abitato, dominato dall’alto del Castello, ha preso consistenza nel corso di questo periodo, come pure il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono consistenti tracce. Il risultato di tutta questa attività edilizia è stato l’allargamento della superficie difesa e protetta del castrum, così come ancora oggi è possibile vedere.

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    ...Dal rudere...

    Il Castello Cantelmo, esaurita la sua funzione imminente difensiva e militare, per secoli è stato abbandonato. L’incuria e l’azione inesorabile del tempo lo hanno ridotto ad un rudere. L’affresco di Porta S. Nicola, datato 1656, raffigura tra l’altro un Castello sulle cui torri avevano già messo solide radici gli alberi. Negli ultimi quattro secoli il castello ha subito notevoli danni e spoliazioni. Tutti i materiali di maggior pregio sono stati saccheggiati, fino alla vendita degli stemmi che impreziosivano l’edificio, avvenuta nel secolo scorso. La quarta torre che sorgeva a nord-est è andata completamente persa e sul sito dove era stata innalzata sono state costruite nuove abitazioni appoggiate al castello e addirittura incuneate in esso fino a raggiungere il puntone centrale, tanto da impedire oggi il percorso intorno al mastio.

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    ...Al restauro


    Il progetto di restauro risale al 1988 all’interno del vasto programma ideato dalla Sovrintendenza dell’Aquila ai Beni Culturali Ambientali denominato: “Sulmona città d’arte”. I lavori sono stati finanziati con la Legge 64/86 e realizzati nell’arco di sei anni dal 1992 al 1998. I lavori hanno recuperato tutto ciò che era recuperabile del castello con una attenzione particolare a non modificarne l’impianto originario. Tutti gli interventi di ricostruzione sono ben visibili ed evidenziati. Le strutture inserite ex-novo sono state realizzate con materiali completamente diversi rispetto a quelli originari. E’ stato recuperato in gran parte il percorso di guardia e sono state volutamente lasciate incomplete le parti delle quali non esisteva documentazione della struttura originaria.

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  5. tomiva57
     
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    Le chiese



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    Chiesa Madre

    Una chiesa dedicata a San Dionisio viene citata già in documenti di Lucio III del 1183 e di Clemente III del 1188. La ritroviamo poi citata in alcuni documenti dal XIV al XVI secolo.
    Fino al 1589 viene definita chiesa madre quella in onore di San Dionisio, ma dal 1594 il titolo passa ad una non ben identificata S. Maria della Porta. La denominazione "della Porta" fa pensare alla vicinanza ad uno degli accessi cittadini e a volte viene attribuita anche a San Dionisio.
    La spiegazione ditale denominazione potrebbe ricercarsi nell'urbanistica originaria del paese: in prossimità dell'attuale Chiesa Madre doveva chiudersi la più antica cinta muraria, estesa in seguito, nel corso del XVI e XVII secolo, fino alle condizioni attuali.
    Bisogna forse spiegare le differenti attribuzioni pensando ad una fusione di due complessi architettonici dedicati rispettivamente a San Dionisio e a Santa Maria; l'accorpamento dovette avvenire dopo il terremoto del 1456. Da questo momento si trova infatti attestato un edificio dedicato ad entrambi i Santi. Alcune vicende posteriori della chiesa ci vengono raccontate dall'iscrizione posta sull'architrave del portale: l'edificio, dopo un incendio del 1694, subì ulteriori danni in seguito al terremoto del 1706 e la ricostruzione, iniziata nel 1718, finì nel 1728.
    La zona della Chiesa Madre veniva denominata "Prece", nome derivante secondo un'etimologia popolare dal latino "preces", preghiere. Forse è preferibile ricondurre il toponimo alla parola latina "praeceps, - ipitis", che significa precipizio, pendio, data la sua posizione a cavallo delle due vallate, a est verso il torrente Riaccio e ad ovest verso il Gizio.
    Da notare sul lato destro della chiesa il bel portale rettangolare traslato dal Convento del Carmine nel 1842, come ricorda la data incisa sotto lo stemma comunale posto sopra l'ingresso: la decorazione a blocchi bugnati è arricchita da figurazioni a bassorilievo di animali fantastici ed elementi vegetali, due statue di leoni a tutto tondo sorreggono l'arco.
    Sullo stesso lato della Chiesa Madre venne costruita nel 1897 una fontana ornamentale con due statue in bronzo raffiguranti le divinità Nettuno ed Anfitrite e teste zoomorfe da cui sgorga l'acqua.



    Chiesa di San Rocco

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    L'iscrizione sulla facciata della chiesa



    Fu costruita in seguito alla peste che falcidiò la popolazione nel 1656. San Rocco, protettore degli appestati, venne onorato in quasi tutti i paesi che conobbero la terribile malattia con la costruzione di una chiesa a lui dedicata. Particolare risulta la posizione della chiesa a Pettorano; infatti solitamente la chiesa di San Rocco veniva edificata fuori dalle mura urbane, mentre in questo caso l'edificio si trova nel cuore del paese. L'iscrizione sulla facciata della chiesa, un edificio dalle forme assai semplici databile alla fine del XVII secolo, esprime il terrore degli abitanti per il terribile male che li aveva colpiti e l'invocazione al Santo perché li liberi. Scendendo lungo Via Orticello, sul portale laterale della chiesa è ben visibile uno stemma bernardiniano.



    Chiesa della Madonna della Libera

    Fu fatta costruire nel 1680 dalla famiglia aquilana dei Vittori, come si legge nell'iscrizione posta sulla sinistra dell'ingresso. L'edificio, molto semplice nella facciata e nell'architettura, conserva all'interno un altare in marmo sormontato da un dipinto raffigurante la Madonna della Libera. Tale culto, particolarmente sentito dai cittadini della vicina Pratola Peligna, richiamava in quel luogo ogni anno molti pellegrini pettoranesi, per i quali si pensò di far costruire questo piccolo santuario.



    Chiesa di S. Nicola

    Si tratta di una delle più antiche chiese pettoranesi: una prima attestazione si trova in un documento pontificio di Pasquale II del 1112, confermata dai successivi documenti papali del XII secolo. Secondo la tradizione locale sarebbe stata costruita sulle fondamenta di un tempio pagano, del quale però non esistono prove certe.
    Si presenta come una tipica chiesetta rurale, con interno molto semplice; un'iscrizione del XII-XIII secolo sull'architrave della facciata appartiene alle fasi più antiche dell'edificio, assai rimaneggiato nel corso dei secoli, soprattutto in seguito al terremoto del 1706.



    Chiesa di San Giovanni

    La più antica attestazione si trova in un documento di Lucio III del 1183 e in uno successivo di Clemente III del 1188. L'edificio attuale, semplice e modesto nelle proporzioni, non conserva nulla di quello originario che nei documenti del XVIII secolo risulta adibito a magazzino; sulla facciata, scolpita sull'architrave del portale, una iscrizione riporta la data "Die 16 iunii 1536", da riferire ad una delle ristrutturazioni operate sull'edificio.
    L'interno, a pianta irregolare, è stato completamente ristrutturato di recente; si conserva una bella acquasantiera in pietra.



    Chiesa di Sant'Antonio


    Secondo lo storico locale Pietro De Stephanis la chiesa doveva essere inizialmente dedicata a S. Maria della Vittoria. Annesso all'edificio sacro era un ospedale per il ricovero dei poveri e dei pellegrini (xenodochio), che nel 1719 fu dichiarato luogo profano e quindi chiuso dal vescovo Francesco Onofrio, come ricorda un'iscrizione ancora visibile sulla porta dell'originaria sacrestia.
    L'architettura del complesso ha subito radicali mutamenti nel corso dei secoli; in particolare la chiesa non mostra nulla dell'edificio originario, essendo stata completamente ristrutturata nel 1949.

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    i palazzi

    Palazzo Ducale

    Fu dimora principale della famiglia feudale che per secoli governò il paese, i Cantelmo. Il palazzo, che doveva essere tra i più monumentali e ricchi del paese, ha subito varie modifiche nel corso dei secoli, dovute soprattutto alle diverse funzioni (attualmente ospita il municipio) ma conserva ancora parte del suo fascino; è formato da tre corpi rettangolari uniti ad "U", con il lato aperto verso la vallata del Gizio.
    Nel cortile spicca una bella fontana in pietra, decorata con motivi vegetali, fatta costruire da Fabrizio II Cantelmo nella prima metà del XVII secolo, come si legge nell'iscrizione ancora ben visibile sulla base.
    La facciata principale è in parte coperta da una scalinata, alla base della quale è visibile uno stemma inciso nella pietra; sulla stessa parete è dipinta un'antica meridiana, arricchita da una cornice raffigurante i segni zodiacali ed altri elementi celesti.Il portale, ornato dallo stemma gentilizio, era originariamente sulla parete laterale e venne in seguito spostato nella collocazione attuale. Nei locali sottostanti la scalinata, ora occupati da un ristorante, si trovavano la scuderia e una cantina, della quale si conserva ancora un caratteristico torchio in legno.

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    La Castaldina


    L'edificio era in origine la residenza dei Castaldo, amministratori della famiglia Cantelmo. Nel 1770 venne integralmente ristrutturato dal nuovo proprietario, Filippo De Stephanis, come testimonia l'iscrizione posta sulla finestra centrale.
    Proprio a questo intervento settecentesco si deve il caratteristico aspetto tardo-barocco dell'edificio, con le due colonne del portale centrale che sembrano sorreggere il balcone soprastante. La facciata si presenta tripartita ed è arricchita dai particolari architettonici: i portali e le finestre sono tutti lavorati ed impreziositi da piccole finestrelle ogivali; tra le finestre del piano rialzato due nicchie abbellite da elementi vegetali dovevano originariamente contenere ulteriori elementi decorativi, purtroppo scomparsi; un grande stemma orna il portale della finestra centrale.
    Tra gli elementi più caratterizzanti la struttura e pienamente rispondenti al gusto dell'epoca sono i balconi fortemente sporgenti ed arrotondati, lavorati in ferro battuto ed ingentiliti da applicazioni floreali.
    Secondo una tradizione locale l'edificio sarebbe sorto sulle fondamenta di un'antica torre di difesa: la posizione, fortemente a strapiombo sulla valle del Gizio, potrebbe avvalorare tale ipotesi ma fino ad ora non ne sono state riscontrate prove certe.

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    Palazzo Croce

    Ha mantenuto la sua struttura originaria soprattutto all' esterno e presenta due ingressi, uno su Via S. Antonio e l'altro sull'attuale strada provinciale, un tempo denominata Via Sabaot. L'interno conserva nell'atrio il prezioso frammento epigrafico dell'Edictum di Diocleziano.



    Palazzo Giuliani

    L’imponente edificio fu costruito nel corso del XVIII secolo: sul portale principale è scolpito lo stemma della famiglia, raffigurante un cavallo ed una croce, le iniziali del capostipite della famiglia pettoranesi (Gaetano Giuliani) e la datazione in cifre romane (1772). All’interno del palazzo è ancora conservata la bella gradinata in pietra originaria.



    Palazzo Vitto-Massei

    Accanto al palazzo Croce, anch'esso ha ingressi sulle due strade parallele. La magnificenza del palazzo, ancora ben conservato nei suoi elementi architettonici e decorativi originari, traduce simbolicamente la potenza economica della famiglia. Qui venne ospitato il re Ferdinando di Borbone nel 1832.
    Nell'atrio del palazzo è visibile un'iscrizione di età romana rinvenuta all'inizio del XIX secolo, che riporta il nome di una sacerdotessa di Cerere e Venere, appartenente alla gens Mamia.



    Palazzo Del Prete-Nola

    Attualmente suddiviso in due proprietà, Del Prete nella parte prospiciente il Castello, Nola nella restante parte lungo Via Marconi. Il palazzo, databile al XVIII secolo, costituiva originariamente un corpo unico, fatto costruire o riadattare su un edificio preesistente dalla famiglia Croce, come indicano gli stemmi di tale casata presenti sopra i portali principali.
    Infatti, prima di essere di proprietà dei Nola-Del Prete, l'edificio apparteneva a don Croce Croce, notaio del regno di Ferdinando di Borbone. Di un certo interesse risulta un bassorilievo lungo la prima rampa di scale nella proprietà Del Prete.



    Palazzo Gravina

    Edificio costruito nel XVII secolo su un corpo preesistente, le cui strutture sono ancora ben conservate e visibili nelle cantine; da notare anche una bella bifora al piano superiore. Importante componente della famiglia fu Pasquale Gravina, medico appassionato di botanica al quale venne anche dedicata una pianta, la cosiddetta Brassica gravinae.



    La Locanda

    E' posta poco lontano dal Castello, sulla vecchia Via Napoleonica, un luogo di sosta e ristoro per chi transitava lungo questa importante arteria viaria del Regno di Napoli e allora definita"regina viarum" proprio per il suo ruolo nella viabilità tra la Valle Peligna, il Molise e la Campania.
    La Locanda era anche un luogo di rifugio per i viaggiatori, visti i numerosi pericoli in cui incorreva chi si metteva in viaggio attraverso regioni infestate all'epoca da briganti e banditi, motivo che induceva le principali compagnie di trasporto a stipulare assicurazioni per i propri passeggeri. L'edificio ha un ampio portone d'accesso sulla via Napoleonica, un tempo utilizzato dalle carrozze, sormontato da uno stemma dei Cantelmo.
    Tramite un cortile interno si accede al pianterreno dove erano i servizi di ristoro e i magazzini; una gradinata conduce al piano superiore, dove erano allestite le stanze d'alloggio. Attualmente la Locanda è adibita ad abitazione privata e ristorante.



    le porte

    Porta San Nicola

    Conserva ancora sulla sinistra notevoli resti di un tipo di torretta di difesa circolare che in origine doveva affiancare tutte le porte cittadine. Di notevole interesse risulta l'affresco situato nella parte più alta dell'arco: vi è raffigurata, tra due colonnine terminanti a fiaccola, Santa Margherita che sorregge con la mano sinistra il paese e con la destra una croce. La raffigurazione della struttura urbana, vista da SW, risulta particolarmente realistica; infatti sul puntone pentagonale del Castello è rappresentata una rigogliosa vegetazione, visibile fino ai recenti lavori di restauro del fortilizio. L'opera potrebbe essere datata intorno al 1656, come suggerisce una targa recentemente riportata alla luce da lavori di restauro



    Porta del Mulino

    E' il più modesto degli accessi al paese ma assai utile in passato. Come suggerisce il nome, attraverso questo passaggio si accedeva ai mulini sul fiume, fatti costruire dai Cantelmo.
    Attualmente la zona, assai suggestiva dal punto di vista naturalistico, conserva ancora i resti di queste antiche costruzioni (alcune risalenti al XVI secolo), e della ramiera ducale officina per la lavorazione del metallo.



    Porta Cencio detta anche Reale o delle Manare


    Le diverse denominazioni derivano da varie situazioni; il toponimo Cencia designava la piazzola antistante a forma circolare, come una cintura (dal latino cingula, cintura) realizzata su un dirupo.
    L'antica denominazione di Porta delle Manere (o Manare) non ha spiegazioni sicure: secondo alcuni si potrebbe collegare con la quasi omonima Porta Manaresca di Sulmona, termine spiegabile con l'espressione latina "mane arescit" che indicherebbe l'aridità del suolo per la lunga esposizione al sole (le porte sono esposte entrambe ad oriente) oppure derivante dal nome Manerio, conte di Valva e Signore di Pace ntro.
    Solo dopo il 1832, quando il re Ferdinando II di Borbone entrò nel paese attraverso questa porta, assunse il nome di Porta Reale. Nei pressi di questa porta fino a qualche decennio fa erano ancora visibili i resti di una torretta di difesa, simile a quella posta a lato di Porta S. Nicola.



    Porta San Marco o delle Macchie

    Era ed è tuttora l'accesso più vicino al castello. La statua che sovrasta l'arco rappresenta Sant'Antonio, posto tra due pinnacoli. Nelle vicinanze doveva trovarsi una chiesa dedicata a San Marco, ricordata in alcuni documenti, che dette il nome alla zona e alla porta. La denominazione secondaria si deve invece al fatto che da questa porta parte una strada, un tempo denominata via delle Macchie, che conduce alla Chiesa di San Rocco.



    Porta S. Margherita o delle Frascare

    E' posta sul versante SW del paese verso le sorgenti del fiume Gizio, dalla quale parte la strada esterna per raggiungere le chiese rurali di S. Margherita e di San Sebastiano e San Lorenzo. L'etimologia popolare riconduce il nome secondario della porta al fatto che vi passassero i taglialegna per andare in montagna a fare le frasche.

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    riserva naturale regionale monte genzana alto gizio




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    il territorio

    Istituita con Legge Regionale n. 116 del 28 novembre 1996, la Riserva Naturale Monte Genzana Alto Gizio, ha un'estensione di 3164 ettari e ricade interamente nel territorio del Comune di Pettorano sul Gizio che, in collaborazione con l’Associazione Ambientalista Legambiente, ne rappresenta l’Ente Gestore. Essa riveste, nell'ambito del sistema delle aree protette regionali, un ruolo di notevole importanza in quanto, si pone come corridoio ecologico tra il Parco Nazionale d'Abruzzo ed il Parco Nazionale della Majella. Il suo territorio, compreso tra i 530 m s.l.m. del fiume Gizio ed i 2170 m s.l.m. del Monte Genzana, è costituito da ambienti naturali assai diversi che custodiscono un elevato patrimonio floristico e faunistico. Al suo interno, infatti, troviamo gli ambienti fluviali del fiume Gizio e del torrente Riaccio, i boschi misti a dominanza di roverelle e carpini del piano collinare, le faggete, spesso accompagnate da tassi ed aceri, del piano montano, gli arbusteti prostrati del piano subalpino e le praterie culminali del piano alpino.



    la fauna

    La Riserva Naturale presenta una grande diversità biologica, offrendo un panorama quasi completo della fauna appenninica.
    Indipendentemente dalla ricchezza faunistica generale, è importante sottolineare che in Riserva, e nei territori adiacenti, sono presenti due importanti entità faunistiche, indicate come specie di interesse comunitario da direttive dell'Unione Europea (CEE...): l'Orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus) che ne è anche il simbolo, e il Lupo (Canis lupus).
    Tra gli altri carnivori sono presenti la Volpe (Vulpes vulpes), la Faina (Martes foina), la Donnola (Mustela nivalis), il Tasso (Meles meles), la Martora (Martes martes) e il Gatto selvatico (Felis sylvestris). Gli ultimi due in particolare si rivelano importanti indicatori delle condizioni ambientali generali dell'area perché le loro esigenze ecologiche sono molto particolari in quanto a tipo e naturalità del bosco e a ricchezza in roditori.
    Tra i Cervidae sono presenti il Capriolo (Capreolus capreolus) e il Cervo nobile (Cervus elaphus), diffusi in maniera uniforme. Altri mammiferi la cui presenza è stata segnalata sono il Ghiro (Glis glis), il Moscardino (Muscardinus avellanarius), il Quercino (Elyomis quercinus), lo Scoiattolo (Sciurus vulgaris) e la Lepre (Lepus europaeus).
    Lepre europea (Lepus europeaus)La Valle Peligna e la Valle del Sagittario rappresentano aree di continuità importante per i transito degli uccelli che attraversano l'Appennino durane le migrazioni.
    Sul territorio della Riserva non mancano specie di interesse biogeografico. Tra gli Ardeidae si segnalano regolarmente la presenza dell'Airone cenerino (Ardea cinerea) e dell'Airone rosso (Ardea purpurea); mentre cicogne e Anatidi migratori, come l'Oca selvatica (Anser anser) e il Germano reale (Anas platyrinchos), possono sorvolare la valle del Gizio per raggiungere il Lago di Scanno e il Lago di Barrea.
    Tra i rapaci sono frequenti gli avvistamenti del Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), dell'Astore (Accipiter gentilis) e della Poiana (Buteo buteo).
    Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus)L'aquila reale non sembra nidificare nella Riserva ma è facilmente osservabile durante le incursioni sulle praterie di alta quota; altri predatori sono il Lodolaio (Falco subbuteo) e il Falco pellegrino (Falco peregrinus).
    Nella Riserva del Genzana Alto Gizio la fauna invertebrata e in particolare i Lepidotteri sono rappresentati da molte specie, con popolazioni a volte numerose che occupano ampie zone e in altri casi molto localizzate.
    Nei boschi misti, nei prati di media montagna e nella valle lungo le sponde del Gizio vi sono farfalle con più generazioni l'anno ed è possibile incontrarle dalla primavera alla fine dell'estate. Vi sono poi specie migratrici come la Vanessa del cardo (Vanessa cardui) e la Vanessa atalanta (Vanessa atalanta) che dal Nord Africa e dalle coste meridionali del Mediterraneo raggiungono il Nord Europa.



    la flora


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    Paeonia officinalis



    Nel territorio della Riserva sono rappresentati tutti i piani bioclimatici dell'Appennino centrale, dal collinare all'alpino, con alcune tipologie vegetazionali più stabili. Sul piano collinare dominano boschi termofili di Roverella (Quercus pubescens) e Carpino nero (Ostrya carpinifolia).

    Sul piano montano la faggeta, sul piano subalpino arbusteti prostrati, sul piano alpino le praterie culminali. Le rupi e i pascoli di alta quota rappresentano le aree più peculiari della Riserva dove si localizzano le specie più interessanti, per la maggior parte entità a carattere relittuale ed endemico come Aster aplinus, Astragalus vesicarius, Cirsium acaule, Euphorbia gasparrini subsp. Samnitica, Festuca bosniaca, Festuca paniculata, Saponaria bellidifolia, Genista sagittalis, Ranunculus oreophilus, Leucanthemum caratophylloides.
    Un altro elemento interessante del settore cacuminale del Genzana è costituito dai residui della fascia degli arbusti Gentiana luteacontorti che si localizza oltre i 1.800 metri, costituita essenzialmente da ampie macchie circolari di Juniperus nana a cui spesso si associano Rhamnus aplinus, Daphne mezereum e Daphne oleoides.
    Sulle rupi invece si rinvengono interessanti e rare formazioni a Rosa pimpinellifolia, riscontrabili in maniera così frequente sui Monti Pizzi.
    Inoltre, si sottolinea la presenza della Brassica gravinae, specie endemica dei ghiaioni dell'Appennino centrale, abbondante sul Monte Genzana. Il nome della specie, gravinae, deriva da Pasquale Gravina, medico di Pettorano sul Gizio, il quale, nella prima metà del secolo scorso fu corrispondente di Michele Tenore per la Flora Napoletana e da cui ricevette la dedica della pianta.



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    Il prodotto del borgo

    Fino gli anni '50, la polenta ha rappresentato il piatto unico per tutti i pettoranesi che passavano lunghi periodi lontano da casa ad estrarre carbone muniti di roncole e asce.

    Per gli umili carbonai, la polenta, appena insaporita con qualche aringa, era colazione, pranzo e cena.


    Il piatto del borgo

    È la polenta rognosa rigorosamente cotta nel paiolo di rame e tagliata a fette con un filo.

    Tipici del luogo anche i mugnoli e cazzarielli, gnocchetti lavorati con farina e acqua e conditi con verdura.



    image SAPORI IN FESTA a Pettorano sul Gizio che vede ristoratori e aziende vinicole distribuite per le belle piazze e vie del borgo a presentare piatti tipici abbinati a vini abruzzesi.


     
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    Villalago


    Da Wikipedia

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    Villalago è un comune italiano di 621 abitanti della provincia dell'Aquila in Abruzzo. Fa parte della Comunità montana Peligna e dei borghi più belli d'Italia.

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    Cenni storici

    Insediamenti preromani e romani e periodo dalla caduta dell'Impero romano alle invasioni barbariche e all'inizio dell'egida del ducato di Spoleto

    In località San Pietro, presso il sito dell'antico monastero benedettino è stata ritrovata un'epigrafe romana riferibile ad un periodo risalente al massimo al II secolo d.C.. In località Villa Vecchia Antonio De Nino aveva ritrovato dei resti di mura ciclopiche, tuttavia questa zona è un ammasso caotico di massi calcarei risultanti dalla frana del Monte Genzana. La posizione e la loro elevazione rispetto al terreno circostante possono fare ipotizzare ad un'area utilizzata come fortificazione da popolazioni di origine peligna in caso di pericolo.

    Non si hanno notizie certe e documentate dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente al periodo delle invasioni barbariche. Durante il periodo longobardo Villalago fu annessa al Ducato di Spoleto. In questo periodo il contado peligno divenne regione valvense.


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    Il Medioevo e storia attuale

    Intorno al VIII secolo incomincia ad essere menzionata la località di Flaturno, questo la zona di Flaturno viene citata nel Chronicon Volturnense nell'epoca quando il duca di Spoleto Ildebrando offre all'Abbazia di San Vincenzo al Volturno, oltre ad altri beni, la valle del Flaturno. In un dossier del Chronicon si evince che in questa valle esisteva una curtes riferibile ad un monastero di Pescina. Successivamente una definizione di Flaturno è citata in un documento del 996 riferibile ad una cessione di terreni. Nell'874 venne fatto un censimento della popolazione di Flaturno da cui si rivelò che vi abitavano circa 500 persone suddivise in nove villae. Attualmente si possono collocare 5 delle nove ville: Selectu (sita in località valle di Santa Maria presso Castrovalva), Miscella (non identificata), Macranu (non individuata), Fefile (non identificata), Campilu (a nord-nord-est di Cocullo nella valle alluvionale del rio Pezzana in località Santa Maria di Campo), Cesa (identificabile con: Iª ipotesi Le Cesa presso Castrovalva, IIª ipotesi Cesa, Le Cese o Valle di Cesa presso la riva sinistra del Sagittario, IIIª ipotesi Cesa dei Fiori o Cesa Tiberio presso sempre la riva sinistra del Sagittario), Buxi (Passo di Bussi presso la riva destra del Sagittario) Mebio (non individuato), Connei toponimo presso la zona Fonticino presso Castrovalva). Queste località (perlomeno quelle allo stato attuale identificate) oggi sono poste tuttavia fuori dal territorio comunale di Villalago tra il paese di Anversa degli Abruzzi, la frazione Casali di Cocullo e Castrovalva, tuttavia Alfonso Colarossi-Mancini riferisce che Flaturno sia identificabile presso Villalago stessa, tuttavia il nome parrebbe derivare da un luogo geografico, un fiume, un villaggio o un monte.

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    Tra la fine del X secolo ed il primo ventennio del secolo seguente San Domenico abate abitò nei pressi di Villalago, in località Plataneto o Prato Cardoso dove eresse un altare in onore della Trinità. Successivamente, su richiesta dei conti di Valva, costrui il Monastero di San Pietro in lago o di san Pietro de Lacu, richiesta di cui si ignora la data esatta perché l'atto di donazione è andato smarrito o distrutto, tuttavia si può affermare che questo sia avvenuto tra il 1001 ed il 1026. Il primo documento del monastero è datato 1067 ove si cita anche il monastero degli eremiti a Prato Cardoso. In loco esiste l'eremo di San Domenico, mentre in località San Pietro sono tuttora in atto degli scavi archeologici per ritrovare le antiche vestigia del Monastero di San Pietro del Lago o de Lacu.

    Negli anni attorno il 1000 il paese risulta citato come Villa de Lacu quando venne fondato da coloni europei attirati molto religiosamente dal monastero di San Pietro in Lago, i cui resti sono ancora visibili a circa a un chilometro a nord di Villalago.
    La motivazione di chiamare il luogo Villa de Lacu o Villam de Lacu invece che Castrumm de lacu sarebbe da ricercare nel fatto che si il paese fosse un luogo non cinto da mura ed aperto con unica struttura non solo difensiva nella rocca ma anche politico-economica.

    Dopo la Morte di San Domenico il monastero di San Pietro entrò in pieno possesso dei Conti di Valva. Il monastero fu abitato dai monaci fino al XV secolo epoca che fu abbandonato.[6] La cella di Santa Maria de lacu si staccò dal monastero di San Pietro. Celidonio ed H. Bloch affermano che questa cella non si tratti altro che della chiesa parrocchiale di Villalago tuttavia vi è una cella di Santa Maria in fiume Flaternus ove San Domenico soggiornò per due anni e mezzo nel periodo che venne costruito il monatero di San Bartolomeno a Trisulli. A confondere le acque c'è una terza chiesa: Santa Maria in Flaturno da identificare con la chiesa di Santa Maria ad Nives a Castrovalva, comunque la chiesa di Santa Maria in Flaternus fu l'embrione da cui nacque e si sviluppò la cella di Santa Maria de Villa de Lacu. La chiesa risale al 1323 mentre la rocca Sancti Petri de Lacu risale ad un'epoca precedente al 1092-93.

    Presso il pagus di Flaturno vi era anche la chiesa di San Vincenzo in Flaturno che viene citata in una bolla di Clemente III adel 1188 ed in successive bolle papali datate dal 1112 in poi.

    Un documento del 1067 cita una donazione al monastero di San Pietro in Lacu.

    Tra il 1092 ed il 1093 rocca di Sancti Petri de Lacu con le sue pertinenze fu invaso da Oderisio II di Sangro, in seguito, tra il 1241 ed il 1245 Villa de Lagu era vicolato dal fatto che doveva manutengere o riparare il Castro de Valva. Due anni più tardi Innocenzo IV restituì a Berardo e Teodino di Sangro Villam de Lacu dopo che Federico II di Svevia espropriò questa terra al loro genitore Rinaldo.

    Nel 1277 viene eseguita un'inquisizione in seguito ad operazioni illecite di vari funzionari pubblici in vari luoghi tra cui Villa Lacus.

    Nel 1289 viene eseguito un reclutamento in vari luoghi tra cui Villa de Lacu dal Giustiziere d'Abruzzo per le milizie dei Baroni.

    Nel 1304 Margherita di Sangro mise a ferro e fuoco Villa de Lacu ed il limitrofo monastero di san Pietro ed al monastero di Santa Maria de Villa de Lacu arrestando, tra l'altro, Riccardo de Aversa.

    Nel 1308-1309 gli ecclesiastici di Villa de Lacu pagano le decime, mentre nel 1323 la chiesa diS. Mariae de Villa de Lacu dipese dal monastero di san Pietro de Lacu. Nello stesso anno Villa de Lacu appartenne alla Diocesi di Sulmona.

    Dopo il dominio dei conti di Valva i successivi feudatari di Villalago furono dapprima i Borrelli e poi i di Sangro.

    Nel 1568 Villalago si dichiarò comune Università autonomo staccandosi da Anversa per via del fatto che i Belprato usurparono il monastero di Montecassino facendo rimpiangere agli abitanti del paesello i monaci del monastero di San Pietro in lacu , cui dipesero fino al 1474[ i Belprato pretesero il pagamento di 600 ducati, Villalago così non fu soggetta al feudalesimo, anche se l'università continuò ad esistere fino al 1806 quando furono promulgate le leggi che abolirono il feudalesimo. In seguito si affrancò anche da Raiano.

    Con il crollo del Regno delle due Sicilie fu assorbita dal Regno d'Italia ed in seguito alla decadenza della pastorizia il paese fu interessato dall'emigrazione, poi si è cercato di tamponare questo fenomeno con l’artigianato, il turismo e l'ambiente.

    Tra le altre famiglie feudali vi furono i Manso (nel 1621), con il celebre letterato Giovanbattista, biografo del Tasso. Tra Ottocento e Novecento risentì dell'influenza della famiglia borghese dei Lupi, come ricorda il nome della piazza principale del paese, intitolata all'avvocato Celestino Lupi, morto durante la prima guerra mondiale.

    Dopo l'eversione dei feudi segui le sorti delle vicine Scanno e, in tono minore, di Anversa degli Abruzzi.

    Oggi dipende turisticamente dal vicino lago di Scanno.

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    Chiesa della Madonna di Loreto (Villalago)

    La chiesa della Madonna di Loreto è sita nel centro storico di Villalago, di cui è la chiesa parrocchiale, in provincia dell'Aquila.
    La chiesa venne citata per la prima volta nelle cronache valvensi nel XIV secolo con nome di Santa Maria della Villa.

    Struttura

    La facciata è in stile romanico.
    La facciata presenta un bassorilievo con un angelo.
    L'interno è ad una navata con una navata più piccola che si dirama sulla destra di fronte all'altare.
    Sulla navata principale si ergono degli altarini tra cui il principali sono quello della Madonna del Rosario (con un olio del 1581) e di Michele Arcangelo.
    L'altare maggiore è in stucco marmorizzato.
    L'altare della navata minore è dedicato a San Domenico di Sora ed ospita una statua del santo e, sotto l’altare, un resto ligneo del letto di San Domenico proveniente dall’eremo di San Domenico.
    Nella sagrestia si trova un reliquiario con il molare che San Domenico donò agli abitanti di Villalago.




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    Chiesa della Madonna Addolorata

    La chiesa della Madonna Addolorata si trova a Villalago, in provincia dell'Aquila. Vi si accede per mezzo di un cortile annesso al Palazzo Lupi, un tempo sede di una delle più facoltose famiglie locali.
    La chiesa nasce come cappella privata, donata alla locale parrocchia di Villalago sul finire del Novecento dagli originari proprietari.
    Sicuramente è antecedente il 1652 quando fu visitata dal vescovo di Sulmona.
    Alla fondazione fu chiamata "Oratorio di Santa Maria della Pietà o delli Morti". Durante il feudo dei Lupi, che fecero costruire il palazzo che da loro prese il nome, la chiesa divenne cappella interna al palazzo.
    L’interno è di forma quadrata in stile barocco-romanico con altare in stucco marmorizzato. Dietro l’altare vi è un’edicola con la statua della santa titolare della chiesa. Ai lati, in alto, vi sono 2 cantori.
    Ai tempi in cui la chiesetta apparteneva ancora alla famiglia Lupi la festa dell'Addolorata consisteva nel portare in processione la statua della Vergine, il tutto seguito da un rinfresco finale offerto dai proprietari. Oggi la processione si svolge appena all'imbrunire e il rinfresco viene sostituito dalla distribuzione di una ciambella e un bicchiere di vino rosso, destinati a tutti coloro che hanno partecipato alla processione.


    Chiesetta di San Michele Arcangelo all'Arapezzana

    La chiesetta di San Michele Arcangelo all'Arapezzana si trova nel centro storico di Villalago in provincia dell'Aquila.
    Fu probabilmente costruita dai longobardi quando installarono sul monte Argoneta un avamposto difensivo dell'abitato.
    Sopra la porta d'accesso vi è una lunetta in stile romanico del Cristo Pantocrate (anche se il Cristo Pantocrate richiama l'arte bizantina) che regge in mano il "libro della vita" con, ai lati due angeli inginocchiati.
    Dietro l'altare, in un'edicoletta, vi è la statua di San Michele Arcangelo nell'atto intimidatorio con la spada verso un drago.



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    Vecchio municipio di Villalago

    Il vecchio municipio è sito nel centro storico di Villalago in provincia dell'Aquila.
    Risale alla 2ª metà dell'800 ove sorgeva la chiesa di San Giovanni Battista.
    La torre campanaria è stata convertita in torre civica, e, nel 1887 provvista di orologio
    L'aspetto esterno è barocco, mentre alcuni interni sono molto moderni.
    Alcuni locali all'interno ospitano la biblioteca comunale, al piano superiore vi è una scuola per operatori forestali.

    Museo delle arti e tradizioni popolari

    Nel 2003, all'interno del vecchio municipio è stato inaugurato il museo delle arti e tradizioni popolari.
    Varie sale a tema portano il visitatore a viaggiare indietro nel tempo, ogni sala affronta un tipo di attrezzo diverso: attrezzi agricoli, dei pastori, dei pescatori, per la preparazione del formaggio, della cardatura e tessitura della lana usati dai nonni ed avi degli abitanti di Villalago oggi scomparsi dall'uso quotidiano.
    Altre sale del museo sono site nella rocca di Villalago.

     
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    Rocca di Villalago

    La rocca è sita nel centro storico di Villalago in provincia dell'Aquila.
    Probabilmente è di origine longobarda.
    Fu anche utilizzata come prigione.
    Costruita in posizione strategica su di un colle prospiciente sulla Valle del Sagittario aveva la funzione di difesa e di avvistamento.
    Attualmente in alcuni interni della rocca vi è il museo delle arti e tradizioni popolari di Villalago.
    Strutturalmente constava di mura difensive e di un torrione-mastio cilindrico d'avvistamento alto una decina-dozzina di metri dotato di merlatura costruiti in stile romanico.
    Le mura difensive sono state parzialmente sostituite da case civili, oggi rimane il torrione-mastio in buono stato di conservazione.

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    Lago Pio




    Il Lago Pio è un lago sito a Villalago tra il Monumento degli Alpini,il Monumento ai caduti e l'arboreto forestale gestito dalla guardia forestale del paese stesso, in provincia dell'Aquila.


    L'aspetto fisico

    Il lago non ha emissari e immissari.
    Secondo recenti studi, il lago avrebbe origini carsiche, le acque proverrebbero dal lago di Scanno mediante cunicoli sotterranei e non si tratterebbe di un semplice stagno che raccoglie solamente acqua piovana.
    Ha una profondità massima di 14 metri ed una larghezza massima di 10.


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    Lago di San Domenico



    Il Lago di San Domenico è sito presso l'eremo di San Domenico, nel comune di Villalago, in provincia dell'Aquila.
    Trattasi di un lago artificiale creato per alimentare l'energia elettrica di Villalago.
    L'affluente principale è il Sagittario, che è anche l'unico fiume che sgorga dalla diga del lago, ma consta di affluenti di infima importanza come le cascatelle della Sorgente Sega ed il fiumiciattolo di Prato Cardoso che si immette carsicamente nel lago, quest'ultimo si tratta di un corso d'acqua occasionale spesso a regime torrentizio creato dalle piogge o dallo scioglimento delle nevi.



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    PRESEPE SUBACQUEO



    La manifestazione si svolge il 26 dicembre, appena dopo il tramonto nelle acque del lago di S. Domenico. Il Tortuga Club di Teramo organizza presso il lago di San Domenico di Villalago un pittoresco Presepe Subacqueo, con la collaborazione del Comune di Villalago, e del MSP Italia. La stupenda manifestazione consiste in una scenografica processione, sulla superficie del lago, di sub che, per mezzo di apposite zattere, trasportano le statue in ceramica fino al punto dove esse verranno posizionate su una zona del fondale del lago. Il presepe è costituito da sei statue realizzate dall’Istituto d’Arte di Castelli (Teramo) e rappresentano i Re Magi, San Giuseppe, La Madonna e Gesù Bambino. Ogni anno i sub provvedono a riposizionare le statue nel loro sito “subacqueo”. Il tutto in uno scenario di fiaccole, ceri accesi tutto intorno al lago e fuochi d’artificio. L’evento è unico nel suo genere in tutto l’Appennino e anche la RAI TV nazionale ne dà importante rilievo ogni anno.
    Sempre a dicembre il 27 o 28 c’è il Concerto di Capodanno con orchestre sinfoniche internazionali.



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    Eremo di San Domenico




    L'Eremo di San Domenico è un'architettura religiosa nel comune di Villalago (AQ).

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    Affresco del porticato



    Comprende una grotta scavata nella roccia di arenaria, travertino, argilla e grafite scavata secondo la tradizione dal santo circa 1000 anni fa e una chiesa di età posteriore che è passaggio obbligato per entrare nella grotta, attraverso una ripida scalinata.

    L'accesso alla chiesa è mediante un ponte che collega l'edificio religioso alla statale delle Gole del Sagittario.

    Nel porticato della chiesa, ove da un lato è l'accesso dal ponte e dall'altra vi è l'accesso alla spiaggia del lago artificiale di San Domenico, vi sono delle raffigurazioni di miracoli del santo, in particolare quello di aver salvato un ragazzo dalla caduta di un albero e quello di aver tramutato in serpenti i pesci dell'ingordo.

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    Interno della chiesa



    All'interno della chiesa, dietro all'altare vi è una statua del Santo, e alla destra della chiesa, rispetto all'entrata, vi è un affresco di Madonna con Bambino (purtroppo quasi del tutto rovinato e sbiadito).

    Di fronte all'Eremo si trova il Lago di San Domenico su cui vi è una vista dalla bifora del loggiato antistante alla chiesa dell'eremo, mentre nella chiesa principale di Villalago vi è un resto del letto di legno dove si ritiene San Domenico meditò nel suo eremo nonché viene conservato un molare che il santo donò agli abitanti di Villalago come segno del suo passaggio.

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    Interno della grotta



    È meta, ogni 21 agosto, di un pellegrinaggio rigorosamente a piedi dei fedeli di Fornelli, in provincia di Isernia. La tradizione vuole, infatti, che l'insediamento abitativo di Fornelli sia stato costituito da popolazioni originarie della Diocesi di Sulmona-Valva che vi abbiano portato il culto di San Domenico, divenuto, assieme a San Pietro da Verona, co-patrono della parrocchia. I pellegrini, oltre cento e a volte anche 300, partono alle ore 22.00 di ogni 19 agosto dalla Cappella della Madonna delle Grazie in Fornelli e ricevono poi il saluto del parroco nella chiesa di San Pietro Martire. Il cammino sino a Villalago, di oltre 80 km tra tratturi, sentieri e, oggi, anche strade asfaltate, tocca i comuni molisani e abruzzesi di Cerro al Volturno, Pizzone, Alfedena, Barrea, Villetta Barrea, Scanno e Villalago.


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    Fuori il Santuario di San Domenico un cartello dice: il principale complesso religioso del paese è intitolato a San Domenico, l'abate nativo di Foligno (951-1031), il quale, secondo la tradizione, intorno all'anno 1000, mentre si muoveva alla volta di Villalago, fece sosta a Cocullo, dove operò miracoli che lasciarono memoria in varie celebrazioni religiose: prima fra tutte la celeberrima festa dei “serpari”. La ricorrenza, che si lega all'antica divinità pagana della dea marsicana Angizia (protettrice contro i morsi dei serpenti), ha ancora luogo ogni primo giovedì di maggio. (Qui c'è una parte semi-cancellata che riporto comunque)... Secondo la leggenda quando l'abate benedettino giunse a Cocullo, in città imperversava un'invasione di serpi velenose, e il santo, col suo flauto, richiamò tutti i rettili, incantandoli e rendendoli innocui. Fu così che i cocullesi, pieni di gratitudine scelsero l'abate Domenico come proprio protettore e santo patrono, e nel paese fu eretto un santuario in suo onore, che divenne una rinomata meta di pellegrinaggio... (sembra quasi la favola del Pifferaio Magico... forse è per questo che hanno provato a cancellare questo tratto... bo...). La pittoresca processione, che prende l'avvio dalla chiesa di San Domenico, è stata magistralmente celebrata dal D'Annunzio e descritta con grande suggestione nei dipinti di Francesco Paolo Michetti. La statua dell'abate, prelevata dalla cappella a Lui intitolata, venne esposta avvolta dalle spire di una moltitudine di serpenti vivi, mentre una folla copiosa, in cui si confondono i “serpari”, uomini che recano in mano e a tracolla serpi sinuose, si muove al suo seguito. Si tratta di un vero e proprio rito esorcistico contro l'invasione dei campi da parte dei serpenti, che, legati alla natura lacustre della zona, hanno da sempre funestato il territorio marsicano o, più semplicemente, si tratta della trasposizione popolare dell'eterna lotta del bene contro il male. (…) Taglio il resto del testo che tanto parla solo della struttura dell'edificio (purtroppo danneggiato dal sisma). E' stato davvero molto bello ammirare la processione, la banda e la sfilata del Santo ricoperto dai serpenti, che erano ovunque, in un contesto di assoluta naturalezza tra la gente! In molti li portavano addosso, e soprattutto i bambini. (Ho ancora negli occhi la scena di tre bimbe bellissime che correvano saltellando una affianco all'altra portandosi appresso un serpentone di circa due metri... povero serpente... di sicuro gli sarà venuto un infarto... è capace che dopo ci avranno giocato pure a salta la corda...). Io credo che chi ha questo tipo di fobia debba partecipare assolutamente a questa festa. Ogni cosa è percepita in maniera spoglia di suggestioni ansiopatiche, è pura, diretta. Anch'io (con una certa nonchalance) mi sono fasciata il collo con un serpente, provando molta ammirazione per un animale così simbolico. E' stato davvero bello partecipare a questo evento. Cocullo ha un sito molto dettagliato che fornisce molteplici informazioni a riguardo della sua storia e delle sue manifestazioni. Prima di riprendere la strada per tornare a casa abbiamo fatto una breve sosta al lago del Sagittario e a quello di Scanno.

    Pubblicato da naturagrezza a 13:19


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    LE FANOGLIE
    Il 21 e 22 gennaio di ogni anno viene celebrata la festa di San Domenico, nella ricorrenza della sua morte, con il rito della benedizione e dell’accensione delle fanoglie (falò) in tutti i rioni del paese i cittadini di Villalago accendono in ogni rione del paese dei fuochi devozionali, detti appunto “Fanoglie”. Sono alte costruzioni in legno costituite da una struttura su cui vengono appoggiati dei tronchi a formare una specie di cono sulla cui sommità vengono poste delle frasche secche o degli alberi di pino.
    Il giorno 22 gennaio tutta la popolazione si raduna in piazza Celestino Lupi, dopo aver recitato i vespri, si accende il falò della piazza, si resta a gustare del buon vino e le “ciambelle”( dolci tipici locali), poi ognuno torna nel proprio rione ad accendere la propria fanoglia, per riunirsi intorno al fuoco, per pregare insieme e festeggiare e consumare tutti insieme salsicce, patate cucinate sotto la cenere del fuoco (come si usava una volta) e il tipico baccalà, fino a notte inoltrata.



    PROCESSIONE DI PASQUA
    La processione si celebra il lunedì di Pasqua, in occasione della nascita di San Domenico, avvenuta nell’anno 951 in un paesino dell’Umbria, Colfornano di Capodacqua, frazione di Foligno. Durante questo evento tutto il popolo si reca in preghiera presso l’Eremo di San Domenico che si specchia nella acque dell’omonimo lago. Al termine della processione tutti gli abitanti si organizzano per un piacevolissimo pic-nic lungo le rive del lago.





    FESTA DI SANT’EMIDIO
    La festa di Sant’Emidio vescovo e martire, si svolge nelle ultime settimane di maggio. Il culto per questo Santo è molto radicato nei villalaghesi infatti tutti gli abitanti del paese si radunano numerosi nella processione.

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    FESTA DI SANT’ANTONIO E MADONNA DELLE GRAZIE
    La festa di Sant’Antonio si svolge il secondo sabato del mese di luglio, il giorno successivo si svolge la festa della Madonna delle Grazie.


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    FESTA DEL SANTO PATRONO E DELLA MADONNA DI LORETO
    La Festa della Madonna di Loreto, il giorno 21 agosto precede quella di San Domenico Abate. Anche questa è una festa molto antica, strettamente connessa con quella di San Domenico.
    Il 21 e 22 agosto, si festeggia l’elevazione agli altari del Santo. Nell’occasione a Villalago si raccolgono numerosissimi pellegrini, devoti di San Domenico Abate, provenienti dalla provincia di Chieti, dal basso Lazio e dal Molise. Una particolare citazione merita il pellegrinaggio dei devoti di Fornelli; secondo la tradizione, risalente al XVI secolo, partiva un pellegrinaggio che, seguendo il percorso del tratturo magno, arrivava a Villalago. Ancora oggi questo pellegrinaggio ha luogo: si parte da Fornelli la sera del 19 agosto e si transita per monte Pizzone, per la montagna di S. Francesco, per la diga della montagna spaccata, attraverso Villetta Barrea, Passo Godi di Scanno, e infine il santuario della Madonna del Lago, per giungere all’Eremo di San Domenico a Villalago, il pomeriggio del 21 Agosto, dopo aver affrontato ben 80 Km di cammino, per incontrarsi con i villalaghesi, in un abbraccio intenso e bellissimo. I pellegrini partono recitando canti devozionali e seguendo riti ed usanze che fanno parte di una rigorosa tradizione. Il 22 Agosto ha luogo la festa di S. Domenico con la processione per le vie del paese. Il 23 agosto la festa si conclude con la visita all’Eremo di San Domenico ed una scampagnata nei luoghi calcati dal Santo, a Prato Cardoso.





    FESTA DELLA MADONNA ADDOLORATA
    La festa della Madonna Addolorata si tiene nel mese di settembre. La chiesa è situata sulla sommità del paese, nel cortile di Palazzo Lupi. La ricorrenza ha origini antichissime ed è molto sentita dagli abitanti del paese. La Madonna la sera del venerdì viene portata nella chiesa parrocchiale per le celebrazioni. Alla sera del sabato, viene riportata nella sua chiesa, con una processione molto devota e suggestiva, al buio, con la sola luce delle fiaccole. Alla fine della processione, al rientro della statua, uno dei proprietari del palazzo offre ai partecipanti alla processione del vino rosso e delle ciambelle salate.





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    Scanno (Aq)


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    Perla d’Abruzzo

    Situato tra il Parco Nazionale d’Abruzzo e l’Alta Valle del Sagittario, su uno sperone del Monte Carapale, Scanno è un suggestivo ed antico borgo, circondato da una rigogliosa natura. Inserito tra “I Borghi più belli d’Italia”, è una frequentata meta turistica sia estiva che invernale ricca di natura e di magnificenze architettoniche da ammirare, a partire dall’incantevole centro storico, un intreccio di strette viuzze e ripide scalinate, sulle quali si affacciano meravigliose dimore gentilizie in pietra, arricchite da stupendi portali. Tra queste i Palazzi: di Rienzo, De Angelis, Mosca, Serafini, Roncone, Serafini-Ciancarelli, Colarossi, Tanturri, Silla, Nardillo e il Castellaro, il più grande di Scanno. Il nome del borgo, da “scamnum”, deriva dalla conformazione del luogo, simile infatti ad uno sgabello, con le case addossate tra loro. Il paese conserva magnifici monumenti religiosi, come la Chiesa di S. Maria della Valle del XII secolo, la coeva Chiesa di S. Eustachio, la Chiesa di S. Giovanni Battista, la Chiesa di S. Maria di Costantinopoli e quella di S. Antonio Abate del XIV secolo e S. Maria delle Grazie del XVI secolo. Poco distante dal centro abitato c’è l’incantevole lago di Scanno, una meta ambita da pescatori e da chi ricerca la quiete assoluta. Si trova ad un’altitudine di 930 tra i monti che legano la catena del Sirente e La Meta ed è il lago naturale più grande della regione. Sulle sue sponde si erge la piccola ed incantevole Chiesa di Santa Maria del Lago risalente al 1702. Il Lago di Scanno ha ricevuto la prestigiosa Bandiera Blu 2009. Per secoli Scanno è stato un importante centro di riferimento per la produzione ed il commercio della lana e dei prodotti caseari, ed è tuttora famosa per l’arte del tombolo e per l’oreficeria. E’ nata qui in particolare la Presentosa, una medaglia in filigrana d’oro che tradizionalmente si regala il giorno del fidanzamento. Prestigiose sono le realizzazioni artigianali lavorate al traforo della storica azienda “Orafi Rotolo”, attiva dal 1884. Crea modelli esclusivi, tra cui, oltre alla Presentosa, l’Amorino e i Circeje, ossia orecchini a “navicella”. L’unica attività economica a Scanno fino al 2° dopoguerra era la pastorizia ed il commercio della lana e il paese ha dedicato a questa antica tradizione, un museo. In questo tra l’altro è conservata una lapide da cui si evince che il borgo era frequentato già in epoca romana come luogo di villeggiatura di nobili ed altolocati romani. Degli antichi resti murari, rimane oggi solo la Porta della Croce del XV secolo e ricostruita nel XIX secolo. Sono ancora da ammirare nel borgo la Fontana Sarracco, la Fontana del Pisciarello e gli antichi archi di Sant’Eustachio, di Case Roncone, della Nocella e della Zazzarotta. Le feste principali oltre a quella patronale di Sant’Eustachio a settembre, sono Ju Catenacce in agosto il Premio Scanno a settembre. Assolutamente da assaggiare i prodotti tipici scannesi, quali formaggi, salumi, dolci, confetture e miele e, in ordine alla gastronomia. Tra le specialità, ottimi sono i piatti a base di pesci di acqua dolce.

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    archi di accesso



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    chiesa di S. Maria della Valle

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    campanile della chiesa della Madonna delle Grazie


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    chiesa di S Maria del lago




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    lago di Scanno




    Il Lago di Scanno è il lago naturale più grande della regione e si trova nell'alta valle del Sagittario a 930 metri di altezza, all'interno del Parco Nazionale D'Abruzzo.
    Luogo di incantevole bellezza il lago presenta coste ridotte e poco sabbiose anche se sono presenti delle strutture alberghiere e balneari.
    E' perfetto per chi ama essere immerso nella natura e d'estate vuole fare un bagno senza la calura che regna nelle coste marittime.
    Una particolarità di questo lago dalle acque color verde smeraldo è la perfetta forma a cuore che esso assume guardandolo da alcune angolazioni.


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    Da: Vinaigrette's blog
    Il Libro Delle Ricette
    Dolci E Dessert
    Cose d'Abruzzo

    Cicirchiata e Clus'tr


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    Se la cicirchiata è dolce tipico carnascialesco di tutto l'Abruzzo, le "Clus'tr" sono particolarità, sembrerebbe esclusiva, di Ateleta amato paesello della provincia di L'Aquila. Graditissime eventuali smentite in proposito, come pure notizie intorno alle origini di queste singolari frittelle a forma di rosa, che ricordano molto le "carteddate" , dolce tipico natalizio della vicina Puglia. Certo che i nomi sono strani per entrambe! Le prime (clus'tr) potrebbero, comunque, derivare, dalle seconde (carteddate), perchè è in Puglia che famiglie di Ateleta (ma non solo) furono costrette a "sfollare" nel corso dell'ultimo cruento periodo della seconda guerra mondiale. Chissà! Bisognerebbe interessare della cosa lo storico roccolano UDC. Una cosa è comunque certa, sono buonissime e la ricetta è la stessa, molto semplice, della cicirchiata che ha come unità di misura: 1 uovo, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaio di olio (una volta strutto) e farina q.b.

    Ingredienti


    un uovo, un cucchiaio di zucchero,
    un cucchiaio di olio extravergine di oliva,
    (oppure 2 uova, due cucchiai ecc),
    olio di semi di arachide, miele q.b.

    Preparazione
    mettere la farina a fontana, ropere le uova al centro, aggiungere zucchero e olio e mescolare fino ad ottenere un composto morbido ed elastico. ricavare dei bastoncini tipo grissini, ritagliare delle palline, friggerle in abbondante olio, scolarle su carta assorbente. Nel frattempo scaldate il miele che deve diventare di un bel colo oro, immergervi le palline di pasta fritte, rigirarle e rovesciarle su un piano di marmo bagnato (ideale) altrimenti sopra un piatto di ceramica, cercando di dare la dorma di ciambella (con estrema attenzione perchè il tutto scotta parecchio.


    Ingredienti
    Clus'tr
    un uovo, un cucchiaio di zucchero, un cucchiaio di olio extravergine di oliva, (oppure 2 uova, due cucchiai ecc), olio di semi di arachide (o strutto) miele facoltativo o zucchero al velo.

    Preparazione
    mettere la farina a fontana, ropere le uova al centro, aggiungere zucchero e olio e mescolare fino ad ottenere un composto morbido ed elastico. Stendere con il matterello, ritagliare con l'apposita rondella delle strisce di circa 3 cm di larghezza, formare dei fiocchetti da unire dando la forma rotonda, friggere fino a doratura, servire cosparse di miele o zucchero al velo .



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    Tarallucci con la marmellata d'uva

    Certo quelli della sorella sono più buoni e quelli di Dirce,origine dell'ispirazione, ancora di più, ma si conta di migliorare il risultato con la ripetizione, a breve distanza, della stimolante ricetta. L'unità di misura è un bicchiere o una tazzina, l'importante è mantenere le proporzioni tra i liquidi

    Ingredienti
    Per la pasta
    Un bicchiere di olio
    Mezzo bicchiere di vino bianco (Trebbiano d'Abruzzo)
    Farina 00 q.b. (circa 200-300 gr)

    Preparazione

    Preparate il ripieno scaldando la marmellata con il cacao e le mandorle tritate. Mentre il composto raffredda preparate la sfoglia mescolando l'olio con il vino e la farina. Quando avrete ottenuto un impasto morbido ed elastico (non dovete lavorarlo molto) fate riposare per circa mezz'ora, quindi stendete la sfoglia con il matterello, ricavate dei dischetti con il coppapasta o con un bicchiere, mettete al centro del dischetto un po' di marmellata, ripiegate a metà e chiudete come per dei tortelli. Infornate per 20- 25 minuti a 160°. Non appena fuori dal forno passate i tarallucci nello zucchero semolato, fate raffreddare e servite.




    Pallott' casc' e ova (Polpette cacio e uova)

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    Polpette di Formaggio



    La condivisione di uno dei pezzi forti della cucina tradizionale abruzzese è di grande soddisfazione soprattutto se si confessano i reiterati fallimenti che hanno preceduto il più che dignitoso ultimo risultato (quello della foto). E già, perchè si fa presto a dire mescolare gli ingredienti, formare delle polpette e friggerle, il tutto non è proprio così banale: la mollica deve essere di pane tipo casereccio, non fresco ma neanche troppo raffermo, idem per il formaggio; la proporzione tra gli ingredienti va calibrata a seconda della consistenza degli stessi e della grandezza delle uova. Una volta, però, azzeccato l'impasto, ogni successiva ripetizione è garantita. Il suggerimento è di prepararne un bel po', giacchè ci si trova, e di congelarne una parte.
    La ricetta completa prevede "la discesa" delle polpette, una volta fritte, in un sughetto di pomodoro molto leggero (c'è chi aggiunge anche stiscioline di peperoni).

    Ingredienti
    200 gr di formaggio grattugiato misto (rigatino, parmigiano)
    2 uova
    mollica di pane raffermo q.b.
    un ciuffo di prezzemolo
    uno spicchio di aglio
    olio per friggere (di arachidi o di oliva)

    Preparazione
    Rompete le uova in una ciotola, mescolate con una forchetta e versate a pioggia il parmigiano. Aggiungete la mollica di pane mescolata con aglio e prezzemolo tagliuzzati finemente fino ad ottenere un composto morbido. Fate riposare l'impasto per 15 minuti, quindi formate delle polpette oblunghe(quenelle) aiutandovi con due cucchiai. Friggete in olio bollente e scolate su carta assorbente.


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    LE GROTTE DI STIFFE



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    Le Grotte di Stiffe sono, tecnicamente parlando, una risorgenza, cioè il punto in cui un fiume torna alla luce dopo un tratto sotterraneo; nel caso di Stiffe questo punto è situato all'apice della forra che sovrasta il piccolo paese omonimo.

    La presenza del corso d'acqua, che in alcuni periodi dell'anno raggiunge portate considerevoli, è sicuramente la caratteristica più importante delle Grotte, che a volte sono percorse da un piccolo ruscello le cui acque mormorano e bisbigliano, altre volte vengono attraversate da un fiume che si precipita a valle lungo rapide e cascate con un boato assordante.

    La risorgenza di Stiffe è conosciuta da molti anni dagli abitanti del luogo, infatti esistono documenti che ne fanno risalire la conoscenza dei primi ambienti in tempi molto lontani. Proprio la presenza di un copioso corso d'acqua all'interno della grotta ha permesso, agli inizi del XX secolo, la costruzione di una centrale idroelettrica: alimentata dalle acque trasportate a valle per mezzo di una condotta forzata, di cui qualche tratto è ancora visibile in prossimità dell'ingresso, ed ha costituito fonte di energia sino alla sua distruzione avvenuta durante la seconda guerra mondiale.
    Il progetto di valorizzazione turistica della grotta risale a oltre trent'anni fa, ma solo negli anni ottanta si è provveduto alla realizzazione dello stesso, per giungere, nel 1991, all'inaugurazione del Complesso Turistico "Grotte di Stiffe".

    Se, dopo aver visitato virtualmente questo sito, vorrai venire a trovarci, sappi che, mettendoti in contatto con il nostro centro prenotazioni, avrai tutte le informazioni di cui hai bisogno; in tal senso, è particolarmente indicato telefonare durante il periodo invernale e primaverile, poiché in qualche giorno dell'anno, a causa delle piene, le condizioni meteorologiche all'interno della grotta ne rendono impossibile la visita.


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    Le esplorazioni

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    La storia delle esplorazioni delle Grotte di Stiffe, se escludiamo occasionali escursioni avvenute sicuramente nei secoli, inizia solo nel secolo scorso, e precisamente nel 1903, quando i progettisti della futura centrale idroelettrica effettuarono i primi sopralluoghi, dei quali resta una ricca documentazione fotografica all'interno del Museo di Speleologia.

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    Dopo l'abbattimento della diga che chiudeva la grotta, nel 1956, iniziarono le esplorazioni del Circolo Speleologico Romano che giunse ad individuare la cavità da cui proveniva l'acqua alla sommità della prima cascata, ad oltre 20 metri di altezza.

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    Nel 1959 e nel 1960, prima il Circolo Speleologico Marchigiano, poi il Gruppo Speleologico URRI di Roma, prolungano il limite estremo della grotta conosciuta, oltrepassando la prima parete ed addirittura la seconda, ma devono fermarsi dinanzi al primo sifone.

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    Per quasi 20 anni nulla fu fatto per oltrepassare la galleria allagata, fin quando, nel 1991 Sergio Gilioli, del Gruppo Speleologico Aquilano, si immerse nelle gelide acque, ottenendo però dei risultati solo parziali; i tempi, però, erano ormai maturi e nell'agosto del 1994 due speleosub francesi, Bruno Maurice e Vincent Durand, appositamente contattati dal Gruppo Speleologico Aquilano, effettuarono la storica immersione, esplorando 800 metri di grotta.

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    Da allora le immersioni si moltiplicarono, permettendo di ottenere grandi risultati: nell'ottobre 1994 Maurice e Durand, con l'aquilano Panzanaro, effettuarono una dettagliata operazione topografica, nel 1995, con Gilioli, raggiunsero il secondo sifone, che fu sorpassato nel 1997, quando fu scoperto ed oltrepassato anche il terzo sifone.

    Attualmente le esplorazioni sono ferme sul limitare di una grande galleria orizzontale diretta verso l'ignoto!

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    Il Presepe nelle Grotte di Stiffe

    Più di dieci anni fa, il rigido clima e il gradevole riparo offerto dalla grotta richiamarono alla mente di alcuni artigiani della zona un’altra grotta che fu riparo della Sacra Famiglia. Fu così che nell’inverno del 1996 si decise di allestire nelle Grotte di Stiffe il primo presepe, e tale fu la solennità dell’evento e la complicità dell’indiscutibile scenario che l’inaugurazione venne salutata persino da un beneaugurate telegramma del sommo pontefice Giovanni Paolo II, nella ricorrenza del 50° anniversario della Sua ordinazione. Il Papa espresse il suo più sincero apprezzamento per quell’idea che rilanciava la secolare tradizione del presepe e ne auspicò l’annuale ricorrenza come simbolo di pace e fratellanza tra i popoli. A sigillo dell’occasione fu realizzato anche un “annullo postale” dedicato appositamente all’evento, a celebrare il luogo e il suo nuovo significato.

    Da allora, ogni anno, dall’8 dicembre al 6 gennaio, le Grotte di Stiffe rinnovano questo appuntamento e, in concomitanza delle festività natalizie, vengono ricreate lungo tutto il percorso turistico le ambientazioni del tradizionale presepe. All’ingresso della grotta si incontrano i Romani nella scena del Censimento, nella Sala del Silenzio viene rievocato il momento dell’Annunciazione ai pastori, e momenti di vita quotidiana dell’epoca, con l’attività artigiana e quella contadina, accompagnano il visitatore fino alle ultime sale, in cui si rimane incantati tra le atmosfere della Natività di Gesù Bambino e dell’arrivo dei Re Magi.

    Ogni anno, tutte le scene e tutti i personaggi si arricchiscono della cura artistica e professionale di quei pochi artigiani aquilani che ancora oggi, come un tempo, raccontano una passione sincera per l’arte della pittura e della tessitura e il privilegio di un amore inconsueto per le cose divine.


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    La Natività



    Le scene, perfettamente integrate con l'ambiente, ripropongono l'evento in una cornice del tutto insolita e indimenticabile, permettendo di vivere momenti di grande spiritualità.

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    Il Museo di Speleologia "V. Rivera"


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    Il piccolo Museo di Speleologia annesso al Complesso Turistico Grotte di Stiffe è stato realizzato, nel 1996, in collaborazione con il Gruppo Speleologico Aquilano e con la Sovrintendenza Archeologica dell'Abruzzo.

    All'interno è possibile ammirare collezioni eterogenee relative alle varie sezioni museali: Geologia e carsismo, Mineralogia e Paleontologia, Evoluzione dell'uomo, Preistoria nella Valle dell'Aterno, Fotografia speleologica.

    La presenza di grandi selci lavorate e di una copia del teschio di Broken Hill, unitamente alle illustrazioni del fenomeno carsico e speleogenetico, fa sì che il Museo di Speleologia rappresenti un'immancabile tappa per i numerosi visitatori delle grotte, fornendo loro l'occasione di avvicinarsi piacevolmente all'affascinante mondo sotterraneo ed al suo immenso patrimonio.

    E' auspicabile che quanto prima, non appena la Sovrintendenza Archeologica avrà completato i primi studi, il museo di Speleologia possa ospitare anche il materiale archeologico rinvenuto all'interno delle Grotte di Stiffe e risalente al neolitico e all'eneolitico medio ed antico, nonché gli ulteriori reperti che verranno alla luce nel corso delle campagne di scavo.

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    Ocre




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    Questo comune abruzzese, facente parte del parco regionale del Sirente Velino istituito dalla Regione Abruzzo nel 1989, sorge sulle pendici nord orientali del monte d'Ocre (m.2206) in provincia di L'Aquila da cui dista circa 13 km e si estende su 140 ettari.
    E' formato dalle frazioni di San Panfilo (sede comunale m.850), San Felice, San Martino, Valle e Cavalletto.
    Con le sue peculiarità naturali, i suddetti antichi centri abitati e i suoi preziosi monumenti, dà la possibilità al visitatore di percorrere un piacevole ed interessante itinerario culturale e naturalistico.




    Historiae Universitatis Ocrensi

    Nel periodo 293-90 a.C. il territorio vestino cismontano, al quale appartiene quello di Ocre, è incorporato nello stato romano.
    Tracce di un insediamento vestino nel territorio di Ocre sarebbero costituite da alcune iscrizioni site dov'è la chiesa di S. Maria d'Aprico, tra S. Felice e Valle, e da alcune costruzioni in opera poligonale, presenti vicino al monastero di S. Spirito.
    E' però probabile che già in periodi precedenti vi sia stata un'altura fortificata, che il termine italico 'ocre' sta appunto ad indicare, costituita sul monte Circolo e corrispondente all'odierno Castello d'Ocre.
    Dall'opera "Punica" dello storico Silio Italico e da recenti studi sull'economia dell'Abruzzo pre-romano e romano, possiamo dedurre che le genti di Ocre vivessero essenzialmente di pastorizia, integrata in minima parte dalla caccia e dall'agricoltura.
    Nel 27 a.C. il territorio vestino fu incorporato nella IV Regione d'Italia.
    Nella notte del 19 ottobre 250, durante il regno dell'imperatore Decio Bruto, dal versante a strapiombo del Monte Circolo che dà su Fossa (Aveia), fu precipitato il martire cristiano S. Massimo Levita.
    Successivamente il territorio di Ocre viene incorporato in quello di Forcona a sua volta posto, dal 554, sotto l'autorità dell'Esarca di Ravenna che durerà fino all'avvento dei Longobardi (distruttori della città di Aveia verso la fine del VI secolo).
    È questo un periodo di transizione in cui viene meno l'autorità imperiale (nel 410 Alarico devasta Roma), stenta ad affermarsi un nuovo ordine ed il vuoto di potere che ne consegue, porta alle scorribande barbare per tutta l'Italia Centrale.
    È con i longobardi che inizia la formazione in Abruzzo di sette Gastaldati, che diventeranno Comitati o Contee, base delle successive divisioni feudali; il territorio di Ocre sito in quello di Forcona diviene, tra il VI e VII secolo, di proprietà del Ducato di Spoleto.
    Nel 773 il papato, rafforzatosi con la diffusione del cristianesimo, si allea con i Franchi per contrastare la minaccia longobarda e favorisce le discese in Italia di Pipino il Breve e di suo figlio Carlomagno.
    I nuovi invasori dimostrano di non essere migliori dei precedenti e nell'801 Pipino conquista Teate (Chieti) e massacra 32.000 abitanti su 40.000.
    L'abitudine di Merovingi e Carolingi (Pipino fu il primo di questi) di assegnare in usufrutto ai loro guerrieri le terre conquistate, innesca il processo di frazionamento dei territori in feudi (parola tedesca che indica beneficio del possesso) che porterà a quell'assetto politico, economico e sociale che durerà fino al XIII secolo.
    Nell'843 ha origine una delle prime famiglie feudali abruzzesi, quella dei Conti dei Marsi o d'Albe che riunirà sotto di se i Gastaldati, ora divenuti Comitati della Marsica, di Forcona, di Amiterno, di Rieti e di Valva.
    Tra il 930 ed il 940 l'abate del monastero di Farfa, Ratfredo, dà in concessione vari terreni ed annessi situati nel territorio di Forcona che nel documento in questione è chiamato Ocre, usando per la prima volta questo nome e quello di S. Panfilo, individuando presso questi l'esistenza di un centro produttivo.
    Si parla infatti di terre coltivate e di vino, nonché della presenza di mulini che presuppongono la presenza di una coltivazione del grano di una certa rilevanza.
    Il documento testimonia inoltre come il cristianesimo, ormai forte e alleato con i Franchi, dà origine ai vari ordini monastici; vengono infatti fondati nel VII secolo l'abbazia di Farfa (Rieti), quella di Santo Stefano ad rivum maris (842), quella di S. Clemente a Casauria e molte altre.
    Nel 1143 la Marsica, Forcona, Amiterno, Cicoli e Rieti sono annessi al Regno di Sicilia.
    Negli anni seguenti il re Guglielmo II il Buono fa compilare un elenco dei baroni da cui Todino di Collimento risulta essere il primo feudatario di Ocre.
    Nel 1178 da una Bolla del papa Alessandro III si deduce l'esistenza in Ocre di un castrum, castello o elemento fortificato.
    Nel 1198 Federico II raccoglie le contee in una regione (poi Abruzzo) chiamata Justitiarus Aprutii con capitale Sulmona.
    Da un'inchiesta sui feudatari del castello risulta che intorno al 1222 esso è posseduto da Berardo d'Ocre Conte d'Albe al quale succede il figlio Berarduccio ed un nipote, tale Tiballo Francesco.
    Terminate le successioni dei Conti d'Albe, dopo un breve possesso di Boamondo Pissono, Giustiziere d'Abruzzo, il castello passa alla Regia Curia.
    Nel 1226 viene edificato il monastero cistercense di S.Spirito d'Ocre che, con la presenza dei monaci, permise un'evoluzione dell'economia locale fino ad ora di tipo curtense: Curtis: entità economica autosufficiente, tendente a svolgere un ciclo economico chiuso, limitando i rapporti commerciali con l'esterno.
    I monaci introducono il giogo pettorale e la rotazione agraria triennale, favoriscono inoltre il commercio rivolto però esclusivamente verso le realtà cistercensi vicine.
    Le coltivazioni risultano essere principalmente del grano, orzo, miglio, alberi da frutta, viti ed ortaggi, ovviamente vengono ancora praticate la caccia e l'allevamento degli ovini.
    Quando l'imperatore Federicò II conferisce, per i servizi prestati come cancelliere del regno, il castello di Ocre e la relativa baronia a Gualtieri d'Ocre, inizia il feudo di questo che, dopo l'interruzione del conte Tommaso di Celano, continua grazie a Corrado IV; occorre inoltre ricordare che da prima del 1250 della baronia di Ocre facevano parte anche Fossa e Rocca di Cambio.
    Nel 1254 viene ordinata la distruzione di tutti i castelli del circondario per favorire la fondazione di L'Aquila; il Castello d'Ocre si salva grazie all'influenza del Gualtieri presso la corte di Corrado IV e soprattutto grazie alla sua posizione che gli permette un controllo visivo, sulla Valle del fiume Aterno, e strategico, per le comunicazioni con l'altopiano di Navelli e la valle del Tirino, nonché quelle con la Marsica, attraverso l'altopiano delle Rocche, e delle vie di accesso a L'Aquila; tutto ciò è organizzato in un sistema di avvistamenti triangolare.
    Il castello conserva la sua importanza fino al XVI secolo quando ormai la sua originaria funzione difensiva dei piccoli centri locali sarà secondaria a quella di centro di comunicazione e di controllo strategico del territorio.
    Il 21 maggio 1254 muore Corrado IV al quale succede Taranto Manfredi che affida il castello di Ocre al Conte Galvano Lancia.

    Dal 1262 tutto il contado di Ocre fa parte della Terra Paganese, fino al 1266 quando nella battaglia di Benevento Carlo I d'Angiò sconfigge Manfredi e si impadronisce di tutti i suoi beni.
    A seguito di alcune rivolte dei vassalli aquilani, sia sotto Manfredi che sotto Carlo I d'Angiò, la città dell'Aquila viene distrutta e ricostruita, così come vengono saccheggiati o distrutti vari castelli del contado.
    Il castello di Ocre sembra non avere ripercussioni perché già nel marzo e aprile del 1267, un anno dopo il saccheggio del 1266, vi risiede la regina Beatrice ed in aprile Carlo I d'Angiò stesso; castellano probabilmente è in questo periodo Egidio di Roceleau.
    A quest'ultimo fino quasi al 1283 succede Morel de Saours.
    Questo è uno dei periodi di maggiore splendore e di importanza di tutta la baronia di Ocre indicata con il nome di Terra Ocrensi e comprendente Fossa e tutto l'Altopiano delle Rocche.
    Dai registri angioini risulta che in esso risiedono il castellano, un cappellano e venti serventi e che è per importanza il terzo di tutto l'Abruzzo Ulteriore.
    A seguito della battaglia di Tagliacozzo, dove Carlo I d'Angiò batté Corradino di Svevia e i baroni che gli si erano uniti, l'Abruzzo viene diviso in due province separate dal fiume Pescara: la citra e l'ultra.
    Nel 1283, dopo quasi due anni di possesso da parte del milite Giovanni di Bissone, il castello di Ocre diventa demaniale.
    Nel 1351 si ha la prima notizia di una controversia sui confini e sui diritti di pascolo tra le università (comuni) di Ocre e di Fossa, che quindi non costituiscono più un'unica baronia; a conferma di ciò vi è un documento del Catasto Onciario di re Ladislao del 1409 in cui si citano separatamente da Ocre la stessa Fossa, Rocca di Cambio e Rocca di Mezzo.
    Nel 1423 Alfonso V d'Aragona dona la signoria dell'Aquila a Braccio Fortebraccio di Montone che il 12 maggio inizia l'assedio della città che lo aveva rifiutato.
    Dopo aver conquistato i castelli del circondario su richiesta degli abitanti di Fossa, nonostante un tentativo di difesa da parte degli aquilani, viene espugnato anche il castello di Ocre nel quale vengono installate alcune bombarde (prime bocche da fuoco ad essere costruite).
    Dopo la conquista di Rocca di Mezzo a fine maggio 1424 le truppe del Fortebraccio assaltano per due volte l'Aquila che però resiste sotto il comando di Antonuccio Camponeschi.
    Proprio in quei giorni a Rocca di Cambio arrivano, al comando di Jacopo Caldora, le truppe di Giovanna II d'Angiò e di papa Martino V, ed il 2 giugno nella conca aquilana si svolge lo scontro decisivo che vede la morte dello stesso Fortebraccio.
    Dopo tre giorni vengono liberati anche i castelli di Ocre e di Paganica.
    Nel frattempo, nel paese di San Martino d'Ocre, si rifugia Gaspare Bonanno, tesoriere del Fortebraccio, ritenuto il capostipite della famiglia Bonanni, successivi baroni del feudo di Ocre.
    Nel 1430 il sindaco di Fossa Mico di Martino e quello di Ocre Antonio di Silvestro d'Angelo di Massimo si accordano su alcuni confini e su alcuni pascoli che sarebbero rimasti in comune tra le due università.
    Il 3 novembre 1448 viene decisa la costruzione nel castello di Ocre, probabilmente già riparato dai danni dovuti alle guerre braccesche, di una chiesa dedicata a S. Silvestro.
    Nel 1481 Ocre si sottomette alla giurisdizione di L'Aquila rinunciando a tutti i privilegi che aveva avuto precedentemente, in cambio di protezione da parte della città; a giurare fedeltà sono il sindaco Jacopo Antonio de Casellis, i massari Mico Bucci di Marcello e Giovanni di Nardo e 45 altri uomini di Ocre.
    Altra controversia tra Ocre e Fossa si ha nel 1488; essa si risolve con l'assegnazione delle chiese di S. Angelo e S. Spirito al comune di Ocre e con la definizione dei terreni di pascolo nonché degli acquedotti e dei rii.
    Altre controversie vi sono nel 1491 e nel 1496.

    Nel 1503 Ocre ha delle vittime a causa della pestilenza.

    Nel 1507 subisce, ad opera del Camerlengo e dei Cinque delle Arti, una sentenza sfavorevole per l'ennesima controversia con Fossa sui confini e sui diritti di pascolo.

    Dal 1520 in poi tutto l'aquilano viene sconvolto dagli scontri tra gli eserciti di Carlo V e Francesco I.
    I vari eserciti di passaggio saccheggiano la città ed il contado; nel 1526 prima tocca alle truppe francesi di Odetto de Foix, visconte di Lautrec, poi all'esercito spagnolo di Sciarra Colonna.
    Tutte queste angherie portano nel 1528 il popolo aquilano alla rivolta che però, già nel febbraio dell'anno successivo, viene soffocata da Filiberto di Chalon, principe d'Orange, che accampa presso Fossa un esercito di 2.500 lanzichenecchi.
    Arresasi, la città deve sottostare al Tallione, ossia all'obbligo di dover pagare 120.000 ducati; la città impoverita dai saccheggi contro cui si era ribellata non è in grado di pagarli e così questi le vengono prestati da vari ricchi mercanti tedeschi tra cui Francesco Incuria ed Angelo Sauro che in nome del debito sfruttano le popolazioni aquilane negli anni successivi.
    Ocre stessa nel 1530 deve pagare a Francesco Incuria 1.600 ducati.
    Oltre alle conseguenze economiche appena descritte a L'Aquila viene tolta la giurisdizione dei castelli del contado che vengono infeudati, e quello di Ocre viene concesso dal 1529 al 1554 per 250 scudi all'alfiere del Marchese del Guasto, Domingo Lopez d'Azpeitia.

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    Nel 1534 il viceré di Napoli don Pedro di Toledo conferma, per 20.000 ducati, la vendita del feudo concesso dal principe d'Orange, al barone d'Ocre Lopez d'Azpeitia dandogliene il possesso dei castelli, degli uomini, delle case, delle vigne, delle terre coltivate ed incolte, dei boschi, dei pascoli, dei forni, dei macelli, della caccia, delle acque, dei mulini, dei passaggi, dei pedaggi, delle fide, dell'imposizione di gabelle e dell'amministrazione della giustizia nelle cause di prima e seconda istanza.
    Nel 1541 il tribunale della Regia Camera stabilisce che gli atti del principe d'Orange sono stati ingiusti e che la città di L'Aquila, pagando un indennizzo ai possessori dei vari castelli, può rientrarne in possesso; nel 1545 il Governo centrale del Regno ordina un'inchiesta sui soprusi subiti dal contado aquilano ad opera dei locali baroni.
    Nel documento come barone di Ocre compaiono i nomi di Domenico Specie, sicuramente italianizzazione di Domingo d'Azpeitia, e quello di uno dei suoi governatori, Gaspare Zilio; ad essi si imputano rispettivamente 13 e 23 capi d'accusa.
    Da questo documento risulta come la popolazione fosse costretta a pagare il governatore per l'uso dei pascoli, dei boschi, dei forni, dei macelli, delle fontane, dei terreni coltivati e incolti e dei rii d'acqua perché di proprietà di quest'ultimo; rimane a carico della popolazione anche il mantenimento di tutti coloro che lavorano per il barone, ossia il governatore, il capitano, gli ufficiali baronali, etc.
    Tutti questi hanno bisogno di case, paglia, legna, aglio, sale, formaggi, frutta, tartufi, lepri, etc..
    A carico del governatore sono riportate anche altre accuse riguardanti atti contro la popolazione; tutto il documento riporta per ogni accusa l'entità della somma prevista come risarcimento.

    Nel 1554 poiché undici castelli del contado aquilano erano tornati alla Regia Corte per linea finita, la città decide di acquistarli con i relativi diritti di portolania (dazio a carico di chi occupava l'area comunale a scopo commerciale), pesi e misure per un totale di 11.357 ducati; l'amministrazione di questi castelli viene affidata al Capitano della città e dal contratto di acquisto risulta che la loro rendita annua complessiva è di 725 ducati mentre in particolare quella del castello di Ocre risulta di 100 ducati.
    Non potendo però la città pagare neanche i pesi fiscali, essa deve cedere i castelli con patto di retrovendita al napoletano Diomede Carafa nel 1558 per 25.000 ducati aumentati nel 1560 a 30.000; dopo varie trattative tra la Corte, il Carafa ed Elisabetta Pica, i feudi di Ocre, Onna e Barete passano a quest'ultima nel 1563 e dal luglio 1565 al 25 agosto 1572 barone d'Ocre è Giovanni Antonio Porcinari e, dopo questo, fino al 1578, Prospero, entrambi figli di Elisabetta.

    Fino ai primi del 1600 i castelli aquilani sono oggetto di una serie di compravendite speculative tra le grandi famiglie feudali aquilane che così si sostituiscono definitivamente ai baroni spagnoli dei periodi precedenti.
    Alla baronia di Ocre si alternano in questo periodo i Caracciolo, il del Pezzo ed i Citarella.

    Dal 1600 al 1612 barone di Ocre è Bartolomeo Fibbioni in quanto il feudo era stato acquistato dal padre per 10.000 ducati.

    Nel 1619 il feudo di Ocre viene messo all'asta pubblica e aggiudicato per 9500 ducati ad Alessandro Pica.
    Il 3 maggio 1626 un lungo conflitto tra le famiglie Bonanni e Pica viene risolto da un arbitrato che vede la vendita del feudo di Ocre ad Andrea Bonanni per 16.000 ducati.
    Ancora oggi alcuni discendenti della famiglia Bonanni abitano in Ocre e ne hanno perso il possesso solo con l'abolizione, nel 1806, di ogni forma di feudalità; nello stesso anno la riforma amministrativa varata dal re Giuseppe Bonaparte include Ocre nel circondario di Bagno nel distretto di L'Aquila.


    Abbazia cistercense di Santo Spirito




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    Nelle Historiae Marsorum (1678) Muzio Febonio fornisce i documenti dell'origine di questo monastero cistercense, terzo in Abruzzo per ordine di fondazione, dopo Santa Maria di Casanova (1195-97) e Santa Maria di Arabona (1208): il Conte Berardo di Ocre avrebbe concesso con diploma del 1222 all'eremita Placido de Vena un terreno in località Pretola per costruire una chiesa e una cella monastica.
    Già nel 1226 Placido avrebbe ricevuto il permesso dal vescovo amiternino Tomaso per costruire un vero e proprio monastero di cui sarebbe stato abate; ma solo nel 1248 Santo Spirito sarà accolto nella famiglia Cistercense come "filiazione" di Santa Maria di Casanova da cui proveniva l'abbate Ruggero che ne prese la direzione.
    Nel 1632 Santo Spirito d'Ocre entrerà nella Provincia Romana della Congregazione di San Bernardo in Italia, con Gregorio XV, ma già nel 1652 la campagna di soppressioni attivata da Innocenzo X decreterà la fine del monastero il quale si ridurrà progressivamente allo stato di rudere.
    L'impianto conventuale presenta l'aspetto compatto di un monastero-fortezza e si costruisce secondo l'austera tradizione borgognona; tuttavia nell'adattamento dello schema cistercense alle preesistenze realizzate dal Beato Placido si riscontrano alcune deroghe nell'edificio chiesastico, che manca di prospetto conservando l'ingresso esterno laterale, ed ha navata unica senza transetto né abside.
    Del tutto conformi alla tipologia cistercense sono invece gli ambienti disposti sul braccio orientale, sul quale si attestano il vano delle scale di accesso ai dormitori, la sala capitolare, un ambiente successivo ipotizzabile come armarium (biblioteca).

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    La chiesa è ad aula.
    Singolare risulta la copertura della navata, che presenta una particolare botte sestiacuta a "chiglia", dovuta al restauro del Moretti che ha inteso ripristinare l'ipotetica volta originaria, sostituendo le cinquecentesche incavallature lignee che riconnettevano i due rinfianchi interrotti a metà dell'intradosso.
    La conferma che l'impianto chiesastico fosse già definito alla fine del XIII secolo secondo il perimetro attuale è fornita dall'affresco tardo-duecentesco posto in controfacciata: dentro una lunetta, oggi sparita ma che il Moretti ancora nel 1970 documentava fotograficamente, sta una Madonna col Bambino in trono tra i Santi Pietro e Paolo e due committenti; in relazione alla data precisa dell'anno 1280, fornita da un lascito testamentario di Jacopo di Simone da Ocre riportato dall'Antinori, questi personaggi possono essere interpretati come lo stesso Jacopo e la moglie, ma vi sono stati visti anche il Conte Berardo di Ocre e la madre Roalda, la quale avrebbe sollecitato la donazione del terreno al Beato Placido.
    Lo spazio ad aula della chiesa è decorato in affresco da un fregio cinquecentesco continuo dal quale scendono vistose fasce verticali che ripetono in successione i colori giallo verde bianco rosso.
    Lo spazio presbiterale è interamente occupato dagli affreschi non felicissimi di Paolo Mausonio (dell'ultimo scorcio del XVI secolo), che illustrano sulle pareti laterali episodi miracolosi della vita del Beato Placido, e sulla parete di fondo una coloratissima Immacolata Concezione.
    Nella cappella-sagrestia di sinistra si sovrappongono gli strati dei cicli di affreschi duecentesco e trecentesco.

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    Convento di Sant'Angelo d'Ocre

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    Situato ad un paio di km. dal comune di Fossa ad un'altezza di 757 metri, venne edificato nella prima metà del XIII secolo, presso la grotta del Beato, su una rupe affacciata sulla valle in un luogo estremamente suggestivo, ma solo ai primi del XV secolo si sarebbe annesso l'edificio conventuale.
    Fondato dalla contessa Sibilla d'Ocre appartenne per primo alle monache Benedettine; il Costa ci informa della gestione difficoltosa del monastero da parte delle monache, dovuta ad esempio a numerosi furti, sicché il complesso - dopo un primo affidamento ad una badessa francescana la quale tuttavia non sarebbe riuscita a risollevarlo dal degrado - passò definitivamente a una comunità di Frati Minori dell'Osservanza, che lo acquistarono impegnandosi in cambio a partecipare alle spese per il completamento della cupola di San Bernardino all'Aquila e la realizzazione del Sepolcro per il Santo.
    L'atto ufficiale, dato motu proprio da Sisto IV, è dell'8 dicembre 1480, e tra i nuovi frati che vennero ad abitare il convento c'era il Beato Bernardino da Fossa il quale descrive ampiamente nella sua cronaca i lavori realizzati dai frati.

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    Il convento sarà retto dagli Osservanti fino al 1593, passando successivamente ai Minori Riformati.
    Caduto in abbandono all'inizio dell'Ottocento, ridotto poi a lazzaretto e soppresso nel 1860, ebbe una breve ripresa nei primi decenni del XX secolo, prima che l'occupazione tedesca vi facesse scempio bruciando gli arredi e soprattutto l'intera biblioteca dotata di circa 1500 volumi.
    La chiesa è a navata unica voltata a botte, scandita nella giustapposizione di due campate quadrate ed è dotata di coro anch'esso quadrato; del 1652 è l'altare maggiore (a timpano spezzato, nel centro del quale si erge un Crocifisso tra due angeli adoranti) realizzato da Paolo Coccetta e Bernardino di Giuseppe Marrone entrambi di Poggio, mentre i primi due altari laterali sono seicenteschi: quello di destra, dedicato a Sant'Antonio di Padova, è a timpano spezzato e vi si legge sull'architrave: altare hoc R.D. Dominici Cacchioni ac Iosephi Canalis Devotione erectum A.D. mdclxxvii; quello di sinistra, dedicato a Sant'Anna, ha sotto la mensa la spoglia del Beato Timoteo da Monticchio, morto nel 1504.
    Nel 1729 fu ritoccata la cappella di San Michele sul lato sinistro, la quale tuttavia esisteva fin dai primi del Cinquecento allorché vi furono tumulate le spoglie del Beato Timoteo da Monticchio (1504, poi spostate sotto l'altare di Sant'Anna) e del Beato Ambrogio da Pizzoli (1508).
    Nel 1761 era stata rifatta la facciata della chiesa, e nel 1791 vi fu aggiunto il portico anteriore, conservando tuttavia l'originale portale quattrocentesco.
    Allo stesso anno risalgono i rifacimenti interni, come si ricava dalla targa sul soffitto: Templum Istud Restauratum Fuit Anno Domini 1791.
    Il corredo artistico della chiesa è attualmente alquanto modesto: la cappella di sinistra appartiene ai Bonanni ed ha in altare una riproduzione su Maiolica dell'originale San Michele Arcangelo su tela (oggi all'Aquila, nel complesso di San Bernardino) a detta del Di Marco copia da Guido Reni, cui vanno aggiunte le seicentesche tele dell'Immacolata Concezione tra i Santi Domenico, Giuseppe, Francesco ed Antonio Abate e un committente, e di Sant'Antonio di Padova; il dipinto con Sant'Anna la Madonna e il Bambino nell'omonimo altare è firmato e datato Pietro Bugni P. Aquila 1758.
    Ai lati dell'altare due portelle, sovrastate dalle statue di Santa Lucia e Sant'Agata, immettono nel coro dove è notevole una seicentesca tavola in legno con sei nicchie separate da archetti e nelle quattro centrali le statuine dei Santi Pietro, Paolo, Michele Arcangelo, Francesco d'Assisi.
    Sulle pareti laterali del coro due grandi tele settecentesche con una Natività e un'Adorazione dei Magi, sul fondo due ovali con episodi della vita di Tobia, mentre sulla volta un Re David che suona l'arpa datato 1790.
    Nella sagrestia attigua al coro si conserva una piccola urna con le ossa del Beato Bernardino da Fossa (1420-1503), portate al convento nel 1516.
    Ma il patrimonio pittorico quattro-cinquecentesco più interessante del convento è stato trasferito nel Museo Nazionale dell'Aquila, dove va segnalato innanzitutto il notevole ed intatto polittico del quattrocentesco Maestro dei polittici crivelleschi, e diverse opere su tavola di Francesco da Montereale (una Resurrezione e un'Apparizione di Cristo pellegrino al Beato Bernardino da Fossa).
    Nelle 23 lunette del portico si sviluppa la narrazione agiografica di Sant'Antonio di Padova, tempere seicentesche dovute tradizionalmente a certo Borani: si ha infatti un documento del 1660 riportato dal Costa in cui "conceditur licentia pittori Borani et universitati Ocrae pingendi claustrum S. Angeli, dummodo iurgium inter fratres non insurgat".
    Sopra ogni lunetta figura lo stemma delle famiglia ocrese che la fece dipingere, e alle lunette si alternano dei medaglioni con le bonannidocre_img dei Beati dell'Ordine Francescano.
    Nel refettorio campeggia sulla parete di fondo il pregevolissimo affresco con l'Ultima Cena, opera del primo Cinquecento aquilano.
    Sulla trave lignea dipinta che l'attraversa il motto Silentium oris et pedu(m) ammonisce frati a non far rumore con la bocca e con i piedi.

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    chiesa di S. Pietro Apostolo -Cavalletto d'ocre


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    chiesa di S Panfilo





    Castello di Ocre



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    Più correttamente definito borgo fortificato (cerchia-urbana o borgo murato, secondo altre accezioni), questa costruzione, che i Bonanni tennero con potere di signoria fino al 1806, epoca in cui per le nuove Costituzioni d'Europa fu estinto in Italia il feudalesimo, è situata ad un'altezza di 933 metri e presenta un panorama straordinario che mostra il monte d'Ocre, il Gran Sasso, il Terminillo e la Maiella ed al tempo stesso domina Fossa da un lato e San Panfilo d'Ocre dall'altro; posto al centro della valle dell'Aterno assunse nel Medioevo una posizione strategica determinante poichè poteva controllare gran parte della conca aquilana ebbe quindi un ruolo decisivo nella generale strategia difensiva della città dell'Aquila.
    Vuole la tradizione che dalla cresta su cui si affaccia ora il castello venisse scaraventato nel 210 San Massimo levita di Aveia, perseguitato da Decio, poi divenuto patrono dell'Aquila.

    La data di fondazione risale al XII secolo, la prima data certa dell'esistenza di un castello nel feudo di Ocre è infatti quella del 1178, relativa ad una Bolla di papa Alessandro III in cui il fortilizio è citato tra i possedimenti del vescovo di Forcona Pagano.
    Ribadito nel 1204 il possesso da parte della diocesi forconese, il complesso è ricordato nel 1254 col nome di "Cassari Castro" allorché fu preservato dalla distruzione stabilita per tutti i castelli che avevano contribuito alla fondazione della città dell'Aquila.
    Con l'avvento di Carlo I d'Angiò il castello passerà nel 1266 di possesso della Regia Corte; nel frattempo il re francese aveva concesso la riedificazione dell'Aquila distrutta precedentemente da Manfredi alleato coi baroni dei castelli del circondario: per reazione alla distruzione della città, nel 1266 gli aquilani si erano vendicati dei baroni attaccandone i castelli, tra cui Ocre che fu saccheggiato ma non dovette essere distrutto.
    In conseguenza poi dell'appoggio dato a Corradino di Svevia da parte di alcuni baroni, l'angioino ne aveva confiscato i castelli, i quali saranno affidati ad uno scudiero francese ("scutifer") particolarmente fedele al re; per Ocre fu nominato nel 1269 Morel de Saours, ricordato spesso anche come Morello o Mauriello de Saurgio.
    Nel 1283 il castello, divenuto "demaniale" ossia di possesso diretto della Regia Corte, sarà assegnato al "miles" Giovanni di Bissone.
    Un altro saccheggio sempre ad opera degli aquilani fu subìto nel 1293 e alla ricostruzione fu incaricato un "Magister" Silvestro; ma l'attacco più grave sarà sferrato oltre un secolo più tardi - nel 1423 - dal capitano di ventura Braccio Fortebraccio da Montone.
    Il castello, perso definitivamente il ruolo strategico nella gestione difensiva della città dell'Aquila, andrà progressivamente decadendo, e già all'inizio del XVI secolo Ocre non sarà più menzionato come "castrum" ma come "villa", circostanza significativa del fatto che la popolazione residente dentro il borgo fortificato andava sempre più scemando, fino al definitivo abbandono.

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    Possiede una cortina muraria per l'intero perimetro dalla forma vagamente simile al triangolo isoscele interrotta da ben 7 torri dislocate in base ai rilievi del terreno; ne troviamo tre disposte parallelamente lungo il lato nord-ovest che costituisce la base del triangolo, di cui due ravvicinate sul vertice settentrionale ed una posizionata sull'angolo opposto.
    Altre tre torri, di cui una sola a sezione semicircolare, sorgono in corrispondenza della mezzeria del perimetro, e agiscono da rompitratta della cortina muraria, mentre una isolata è collocata in corrispondenza del vertice meridionale, là dove le mura si restringono ad imbuto.
    Questa apparente casualità della disposizione delle torri, era in realtà determinata, come detto in precedenza, dall'andamento orografico del terreno, e la stessa ubicazione a ridosso del ciglio della dolina del Monte Circolo favoriva il controllo dei territori a valle, configurando - rispetto al fattore ubicativo - un "insediamento di dolina".
    L'ampio impianto difensivo ha due lati pressochè lineari di cui il maggiore misura circa 180 metri.
    La cortina di Nord-Est si affaccia su uno strapiombo.
    All'interno della cinta difensiva s'è sviluppato l'agglomerato di case le quali, ormai dirute, sono a schiera ed allineate lungo le strade, esse costituivano un vero e proprio nucleo urbano che comprendeva anche la chiesa la quale, con pianta a croce greca, di cui sono ancora leggibili le tre navate e l'abside posto all'angolo Sud-Est, presenta i caratteri tipici dell'architettura aquilana del trecento.
    Si tratta della chiesa di San Salvatore "inter castrum Ocre", così come è documentata nelle Decime pagate nel 1449, e di cui si ha notizia fino al 1581 allorché risulta completamente diruta.
    Essa doveva tuttavia preesistere per la presenza di un importante resto di affresco (Madonna d'Ambro), oggi al Museo Nazionale dell'Aquila, databile a cavallo fra la prima e la seconda metà dell'XII secolo; raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due figure, dove quella di sinistra è identificabile come un Santo vescovo, quella di destra probabilmente come un angelo.
    Sebbene il borgo sia da tempo abbandonato è comunque parzialmente integro.
    La più importante nonchè inconsueta caratteristica difensiva che rendeva l'accesso al borgo facilmente controllabile e ben difendibile, sta nell'ubicazione della porta d'ingresso ad arco acuto, situata perpendicolarmente alle mura al termine di uno sterrato fiancheggiante le cortine e controllata dalla torre posta all'angolo occidentale.

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    Grotta del Beato Placido. Un eremo sospeso sulla parete del Monte Circolo (Ocre/Fossa)



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    Sull'Altipiano delle Rocche, al di sotto del Castello di Ocre, nella parte superiore del Monte Circolo, v'è l'entrata alla grotta del Beato Placido. Essa racchiude una storia affascinante (egregiamente narrata da padre Gerolamo Costa).
    L'apertura è di circa 5 metri per 5, mentre l'interno ha uno sviluppo planimetrico fra i 10 e i 15 metri. Il pavimento è in discreta pendenza verso il fondo e appare completamente ricoperto da massi caduti dalla volta. Sulle pareti si evidenziano alcuni segni che potrebbero testimoniare di uno scavo artificiale per la sistemazione della cavità e si notano inoltre alcune "lunette" che avrebbero potuto fungere da poggia oggetti (ad esempio per candele o lampade).

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  11. tomiva57
     
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    FOSSA



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    Fossa è un comune italiano di 673 abitanti della provincia dell'Aquila in Abruzzo. Fa parte della comunità montana Amiternina.
    La Soprintendenza archeologica ci ha scavato una necropoli vestina con delle tombe a circoli di pietra dell'età del Ferro.

    Il 6 aprile 2009, alle 3.32, si è verificato un sisma di 5.8 gradi della scala Richter, con epicentro a Paganica, un paese a pochi chilometri da L'Aquila. A Fossa, il terremoto ha causato cinque vittime, oltre ad aver arrecato danni ad edifici ed al patrimonio artistico, e numerosi crolli.

    Danni a edifici e crolli. Danni alle chiese di Santa Maria Assunta (crollato il campanile) e di Santa Maria ad Cryptas.[61] Frane sul monte Circolo (che sovrasta il centro storico), auto danneggiate, centro storico evacuato, crollo del Ponte Vallone (collegamento con la strada provinciale 261 Subequana), isolamento delle maggiori vie di comunicazione stradali, molti feriti anche gravi.


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    il municipio



    Architettura e urbanistica



    Il borgo iniziò quindi ad espandersi al di fuori dello stesso dalla fine del XIII sec. lungo la dorsale della stessa dolina carsica.

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    La prima fase di espansione si esplica con un insediamento di tipo concentrico intorno al recinto fortificato, ed alle stesse curve di livello del declivio, e con funzione di sedimentazione, mentre la seconda fase, con emergenze quattro-cinquecentesche ha carattere di accorpamento.

    L’urbanistica della parte alta si adagia sulla topografia del luogo assumendo pertanto le caratteristiche dei borghi alto medievali con stradine strette ed avvolgenti gli edifici, percorsi tortuosi ed in forte pendenza, terrazzamenti rocciosi, muri in pietra.

    Nella seconda fase il nucleo centrale trova il suo fulcro nella strada principale del paese, che si andò a collocare e sovrapporre esattamente al di sopra del declivio del monte.

    Lungo di essa si affacciano molti nuclei abitativi e su di essa convergono tutte le stradine secondarie.

    Questa seconda fase denota pertanto un carattere più lineare dell’impianto urbanistico in aperto contrasto con la fase iniziale.

    In questa seconda fase di sviluppo troviamo tra i massimi esempi di architettura civile medievale: la trecentesca Casa Torre dei Campione con la classica dislocazione a piani ovvero in cui il piano terra era adibito a locale di artigianato e commercio, il primo piano ad abitazione ed infine l’ultimo aveva funzione di difesa.

    La quattrocentesca Casa Masci si presenta in uno degli scorci più suggestivi del borgo: sobria ed elegante nel pieno rispetto dei canoni dell’architettura rinascimentale.

    Di pregiata realizzazione artistica sono i portali in pietra di numerosi palazzi cinquecenteschi adornati dal tipico stemma francescano raffigurante il simbolo di San Bernardino da Siena ovvero il sole recante all’interno il monogramma IHS : JESUS HOMINUM SALVATOR.

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    Diversi palazzi nobiliari (Bonanni, Lazzaro) proseguono dalla fine del cinquecento al tardo ottocento comprovando con la loro presenza la persistente ricchezza economica del piccolo borgo.


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    GLI ARCHI


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    Vera caratteristica del paese nella sua seconda parte di allargamento sono gli archi.

    La necessità di costruire in spazi ristretti indusse infatti a voltare molte strade per ottenerne un utile passaggio.

    Gli archi pervenivano a più necessità: sopra vi si abitava, al di sotto si transitava, si lavorava, si chiacchierava, vi si trovava riparo dalle intemperie improvvise, ci si rinfrescava dalle calure estive.

    Spesso fungevano da antistalla per gli animali.

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    Oggi gli archi denotano in tutto e per tutto l’ eccentricità del paese rimettendo velocemente da una stradina all’altra, passando dall’oscurità alla luce improvvisa del giorno, e, contrariamente, dal loro illuminato tepore al buio della notte.



    Il castello fortificato


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    Fossa deve la sua denominazione alla dolina carsica su cui il paese è stato fondato.

    Non abbiamo notizie sul nuovo nucleo abitativo che andò a sostituire l’antica prefettura romana dell’ Aveja. Quasi certamente fu un processo d’insediamento causato dalle alluvioni che procurarono l’impaludamento delle campagne sottostanti.

    Alle stesse si andarono ad aggiungere le invasioni barbariche che definirono, come avvenne per i molti borghi altomedievali, l’arroccamento del borgo sul monte per esigenze difensive e di dominio.

    Fu la stessa Aveja a fornire molto del materiale per le nuove costruzioni come si evince dagli elementi di spoglia presenti su molti edifici.

    L’insediamento originale è stato fatto risalire agli inizi del XII secolo ed era essenzialmente costituito dal recinto fortificato, con il mastio sulla sommità e dalle sue unità abitative.

    Il castello elevato superiormente di alcuni metri rispetto all’abitato assumeva originariamente una forma trapezioidale. Le mura perimetrali erano alte tra gli 8 e 10 metri e spesse oltre un metro. Non avevano finestre esterne e nell’estremità del torrione erano tirate a rocca, con mura merlate e passo interno di ronda.

    Due torri a pianta quadrangolare si trovavano negli angoli bassi del trapezio, le stesse oltre a di avere una funzione di avvistamento erano utilizzate anche come nuclei abitativi.

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    Lo stesso torrione circolare assumeva funzioni difensive con un altezza di ben 17 metri e con oltre 8 metri di diametro.

    Il torrione non aveva porte ad esso si accedeva attraverso una scala a pioli ritirabile internamente, e poi riutilizzata per ogni piano per una maggior sicurezza difensiva, mentre con un ponte levatoio poneva in comunicazione con il passo di ronda murario.

    Infine due piccole torri vedetta si ergevano a nord e al di fuori delle mura stesse.

    L’ingresso principale si andava ad aprire sulla cortina di nord-est. Oggi fa bella mostra di sé con le possenti colonne e l’arco ogivale, ma originariamente doveva essere fornito anche di una porta frontale in legno che si poteva chiudere dall’interno con un portone girevole su cardini di pietra.

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    L’antico stemma del borgo fortificato di Fossa raffigurava una torre, con mura, porta chiusa e pennoni alle sommità, sovrastante una mezza luna la quale stava a significare: castello di notte.

    Infatti è esattamente il torrione a definire la fisionomia del piccolo borgo, che ancor oggi viene da esso sovrastato al di sopra della mezza costa pedemontana, e certamente personalizzato da esso, in una ancora sentita richiesta di autonomia non solo dai più grandi ed importanti castelli del territorio limitrofo ma anche dalla vicina città dell’Aquila.

    L’ efficienza del castello dovette durare fino a tutto il XVI sec. : il tracollo venne di certo definito oltre che dall’invenzione delle armi da fuoco anche dallo sviluppo dei traffici e dei mercati che ruppero definitivamente quella che fu la chiusa economia alto medievale.

    Le scritte fasciste

    Come molti altri paesi dell’entroterra aquilano le mura di Fossa vennero coperte da motti fascisti che ancor oggi in maniera più o meno lacunosa sono lasciati quantomeno a monito degli scempi passati.


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    Lo Speleo Mitraico (201 d.c.). Si tratta di una cavità artificiale scavata nella roccia per la celebrazione del culto romano del Sole Invitto, di origine orientale. La "grotta", situata sulle pendici del Monte Circolo, si raggiunge seguendo un ripido sentiero roccioso che parte in prossimità della torre superiore del Castello di Fossa.


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    L'anfiteatro naturale del Monte Circolo che sovrasta Fossa. A mezza costa, sul lato destro, lo Speleo Mitraico.


    LA NECROPOLI DI FOSSA


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    L’antichissima area sepolcrale rinvenuta all’inizio degli anni Novanta nella piana alluvionale antistante il centro abitato odierno ( la distanza in linea d’aria è di Km 2), nella zona compresa tra le località Casale e Cave di Pietra, non è solo una delle realtà archeologiche più importanti del territorio aquilano, ma anche un’ evidenza culturale di risonanza nazionale, grazie alle peculiarità delle sepolture in essa contenute e alla ricchezza dei corredi rinvenuti al loro interno: splendide testimonianze di cultura materiale del popolo che visse in passato in queste contrade.

    Il ritorno alla luce di questa necropoli è avvenuto in maniera casuale, nell’estate del 1992, durante la rimozione del terreno per la realizzazione di impianti industriali. Così ad una prima fase di indagine da parte della Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo per verificare la reale entità della scoperta, seguirono importanti campagne di scavo durante tutti gli anni Novanta ( dal 1995 al 1999), che permisero al Funzionario di zona della Soprintendenza, il Dott. Vincenzo D’Ercole, di riscoprire una delle più monumentali necropoli note fino ad oggi nell’area centro-meridionale d’Italia.


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    La necropoli di Fossa ebbe una continuità di frequentazione di quasi mille anni, dal IX al I sec. a. C., e sono state rivenute anche tracce di precedenti frequentazioni della zona (media età del Bronzo) nelle vicinanze dell’area cimiteriale. Attraverso la sua lunga storia gli archeologi sono stati in grado di ricostruire le varie fasi di esistenza della comunità che la utilizzò per tutto questo tempo, comunità che si inquadra in maniera lineare e coerente con l’etnia che le fonti storiche in generale ci dicono abitante di questi territori dall’ età protostorica fino alla Romanizzazione e che conosciamo anche grazie ad altri importanti siti funerari presenti a Bazzano, Poggio Picenze o Capestrano; proprio i Romani in età storica chiameranno “Vestini” questi uomini, e ancora oggi il termine riaffiora in più parti della toponomastica locale, a testimonianza della relazione che lega questa regione al suo passato.



    L’area indagata nelle campagne di scavo corrisponde a mq 3500, e al suo interno le tombe scavate sono circa 500; le tombe rinvenute appartengono a diverse tipologie fondamentali: tumuli, fosse semplici, fosse con cassone ligneo, tombe a camera, tombe a incinerazione e sepolture infantili all’interno di coppi laterizi. In molti casi queste tipologie sepolcrali sono peculiari di un determinato periodo di frequentazione, ed è dunque possibile stabilire una relazione tra esse e i tipi di corredo presenti al loro interno, anch’essi differenti a seconda delle fasi d’utilizzo della necropoli.



    PRIMA FASE: L’ETA’ DEL FERRO (IX-VIII secolo a. C.)

    I primi due secoli (IX e VIII secolo a. C.) sono caratterizzati dall’ architettura sepolcrale dei tumuli, oltre che da semplici sepolture a “fossa terragna”, cioè fosse lunghe e strette scavate nel terreno.

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    I tumuli sono realizzati con cospicui ammassi di terra e sassi, a volte ricoperti da uno strato di pietrame; hanno un diametro medio compreso tra otto e quindici metri, e sono racchiusi da una “corona” di lastre infisse orizzontalmente nel terreno (definita tecnicamente “crepidine”). Rispetto alla media, spicca la tomba 300 con i suoi diciotto metri di diametro. Nel caso delle sepolture monumentali pertinenti agli uomini, alla crepidine che circondava i tumuli si associava un allineamento di pietre lunghe e strette, veri e propri menhir, infisse anch’esse nel terreno, in numero variabile e di dimensioni differenti, disposte in maniera decrescente dall’interno verso l’esterno. La stele più vicina al tumulo era inclinata verso di esso, appoggiata alle pietre di marginatura.

    Cosa possono rappresentare questi particolari segni che si trovano in corrispondenza delle tombe monumentali? Le ipotesi sono tante e differenti. è ipotizzabile che avessero una funzione astronomica-calendariale, anche se ancora non è possibile dire di più su questa supposizione.

    L’interpretazione più suggestiva (ma non per questo accettabile senza ulteriori dubbi) le considererebbe come una sintesi allegorica della vita umana, rappresentata nei suoi primi anni dalle lastre più piccole e nella sua maturità da quelle più grandi, fino ad arrivare alla stele reclinata, rivolta verso la deposizione funebre, che potrebbe rappresentare la morte.

    All’interno del tumulo si trova la fossa lunga e stretta (sempre riservata ad un solo individuo), dove venivano posizionati il defunto ed il suo apparato di effetti personali; di solito il piano di deposizione era ricoperto da un cumulo di pietrame, che si poneva dunque come primo rivestimento per la sepoltura. é interessante notare come in molti casi il fondo della fossa venisse coperto da un “letto” di pietre, che lastricava tutta la parte riservata alla deposizione.

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    I corredi sono in questi primi secoli realizzati con schemi ricorrenti. I vasi sono posizionati ai piedi dell’inumato, in alcuni casi in un “angolino” delimitato da pietre infisse di taglio nel piano di sepoltura, che formava un ripostiglio. Di solito all’interno di questo spazio si trova un vaso di grandi dimensioni, dentro il quale si trova un vasetto più piccolo, una vera e propria tazza-attingitoio . L’associazione di questi due elementi fa pensare a vasellame usato per contenere liquidi, e non è da escludere che potessero essere associati a dei riti religiosi. Assieme ai vasi in ceramica, nelle sepolture più ricche, si trovavano anche vasi in bronzo, differenziati a seconda del sesso dei defunti: nelle tombe maschili erano frequenti i lebeti, bacili utilizzati per la cottura e il consumo della carne, mentre in quelle femminili si trovavano tazzine in lamina sottile, con il manico rialzato. Il prestigio di questo vasellame, sempre più diffuso nelle tombe di VIII secolo, era dovuto alla quasi sicura provenienza esterna, probabilmente etrusca o picena; i bacili e le tazzine sarebbero dunque beni di importazione, destinati solo agli individui più importanti della comunità.

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    Altri elementi che distinguevano gli uomini dalle donne erano gli oggetti che si trovavano nelle diverse parti del letto di deposizione: rasoi e armi per gli uomini, gioielli in diversi materiali per le donne. I rasoi sono, nelle sepolture più antiche, di forma rettangolare, e poi assumono la forma semilunata, mentre le armi più frequenti sono spade corte in ferro inguainate in un fodero in lamina di bronzo o in materiale organico (legno oppure cuoio) decorato con parti in bronzo.

    La ricchezza e la raffinatezza della cultura materiale della comunità che utilizzava questa necropoli è manifesta soprattutto negli oggetti che abbellivano le tombe femminili. Spiccano in modo particolare i gioielli, come ad esempio le collane, realizzate con vaghi in bronzo alternati ad altri in pasta vitrea, oppure le fibule (spilloni utilizzati per fermare le vesti), per lo più in bronzo , ma a volte decorate da inserzioni in osso. Altri importanti oggetti di corredo femminile erano i cinturoni caratterizzati da placche quadrangolari in bronzo e posizionati a mo’ di stola sul corpo delle defunte .



    SECONDA FASE: L’ ETÀ ORIENTALIZZANTE E ARCAICA (VIII-VI SEC. a. C.)

    Durante questo periodo persiste l’uso di realizzare tombe a tumulo, anche se le dimensioni si riducono ad un diametro costante di m 4 e non si usano più le file di menhir allineati su un fianco della crepidine. Assieme ai tumuli si trovano anche le semplici tombe a fossa; in alcuni casi è attestato l’uso di un tronco d’albero usato come sarcofago.

    Sono ancora una volta i corredi a definire il periodo in questione e le sue caratteristiche culturali. Nelle tombe maschili continua l’abitudine di deporre le armi: la panoplia (ovvero l’insieme delle armi di proprietà di un guerriero) è solitamente composta da un pugnale corto con manico a quattro antenne in ferro, una coppia di lance (di cui rimangono sempre le cuspidi e i puntali posteriori, detti sauroteres), una mazza ferrata da usare come arma da percussione negli scontri ravvicinati ed un coltello a lama semilunata. La tomba 118 ha restituito una coppia di dischi-corazza da applicare sul torace come una primitiva forma di protezione del busto (sono anche chiamati kardiophylakes, “protettori del cuore”), elementi che, in questa fattura, si rinvengono anche nella vicina necropoli vestina di Bazzano e che possono essere assimilati a quelli che indossa sul petto il celeberrimo Guerriero di Capestrano. In questo contesto sono l’unico esempio di arma da difesa, non si trovano infatti altri esemplari di dischi-corazza o scudi o elmi.

    Continuano a trovarsi grandi contenitori (olle soprattutto) associati a tazzine-attingitoio, che nelle forme e nell’impasto presentano una leggera evoluzione rispetto alla tradizione della tarda età del Ferro. Assieme alla ceramica locale però si iniziano a trovare vasi di importazione (etrusca soprattutto), vero segno del benessere raggiunto dagli elementi di spicco di questa comunità. In questo senso vanno almeno menzionati gli splendidi vasi in bucchero (la ceramica etrusca di colore nero, ad impasto fine, caratterizzata da eleganti forme e decorazioni, che caratterizza tutto il VII secolo a. C. nell’Italia tirrenica: anfore, brocche, tazze a vasca profonda (skyphoi), calici ad alto e basso piede. Dopo il bucchero, dal versante tirrenico, arriva anche un altro tipo di ceramica, ovvero quella etrusco-corinzia, dal colore piuttosto chiaro, dipinta a fasce e motivi vegetali o zoomorfi, che gli etruschi iniziano a produrre dalla fine del VII - inizi VI secolo su imitazione della grande tradizione che proviene da Corinto, in questo periodo la più importante protagonista dei traffici marittimi tra tutte le città della Grecia . Caratteristiche forme di questa categoria di vasellame sono le kylikes (coppe), i piatti e gli aryballoi (brocchette dal corpo globulare usate soprattutto come contenitori di essenze e profumi), che qui a Fossa troviamo nelle tombe della prima metà del VI sec. a. C. (ad esempio nelle tombe 66, 215, 400 o 429).

    Continua il costume di deporre i cinturoni con placche in bronzo nelle tombe femminili, assieme a pendagli di varie forme e dimensioni, bracciali (armillae), anelli digitali.

    Con il VI secolo sparisce l’uso di tombe a tumulo e si ha la definitiva affermazione della tomba a fossa semplice. Il fatto che non si trovino più tumuli in età arcaica rientra pienamente nella tendenza di ridurre progressivamente la monumentalità dei sepolcri: a Fossa c’è una costante riduzione della volontà di monumentalizzazione nel corso dei secoli. Tuttavia in età arcaica la differenziazione sociale è maggiormente riscontrabile nel corredo, che può essere arricchito dagli splendidi elementi sopra citati (vasellame e gioielli) così come può presentarsi come estremamente povero.

    L’arma che viene introdotta in questo periodo è la spada a lama lunga, con elsa a croce, usata per vibrare fendenti contro l’ avversario .

    Una ulteriore novità legata a questa fase della necropoli riguarda le sepolture neonatali: l’area fino ad oggi esplorata della necropoli di Fossa ha restituito un’altissima percentuale di sepolture infantili (circa duecento). Tra queste a maggior parte sono a coppi laterizi: i neonati venivano adagiati in un coppo e coperti con un altro , quindi erano posizionati in piccole fosse. Il corredo in questi casi è quasi sempre assente, oppure consiste in un singolo elemento (come nel caso della tomba 476, che ha una fibula ai piedi del bimbo inumato). La prassi di seppellire i neonati nei coppi perdurerà per tutte le fasi di frequentazione della necropoli.



    TERZA FASE: L’ETà ELLENISTICA (iv - ii SEC. a. c.)

    La frequentazione della necropoli, in questo periodo, permette di comprendere alcuni importanti aspetti sociali della comunità vestina che viveva a Fossa; infatti la diversità delle tipologie sepolcrali è sempre più percepibile, tanto da far pensare a profonde stratificazioni sociali.


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    Di questa fase sono le tombe a camera, le tombe a cassone litico (costruite con lastre di pietra come pareti), le tombe a cassone ligneo (che individuiamo grazie alla presenza di elementi in ferro agli angoli della fossa, fasce angolari di metallo che servivano a rinforzare la cassa in legno, oggi completamente scomparsa), le tombe a segnacolo monumentale, le tombe a fossa semplice e le sepolture neonatali nei coppi. Spiccano in modo particolare le tombe a camera , ipogee, a pianta quadrangolare, alle quali si accedeva mediante un dromos (corridoio). Esse erano dei sepolcri di famiglia, poiché vi troviamo più di un defunto; erano dunque aperte ogni volta che dovevano ospitare un nuovo individuo.

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    Assieme alle tipologie sepolcrali anche i corredi ci dicono qualcosa di importante: si diffonde in questo periodo un tipo di ceramica che si può definire a produzione “industriale”, ovvero la ceramica a vernice nera, ampiamente attestata nel resto d’ Italia oltre che in altri siti del Mediterraneo, segno del fatto che anche qui si inizia a preferire questa produzione a quella locale. Anche se i corredi in questo periodo tendono a semplificarsi (spariscono ad esempio le armi nelle tombe maschili), in alcune tombe a camera sono state rinvenuti oggetti di splendida fattura, testimonianza della raffinatezza raggiunta in questo periodo dalla cultura vestina. Stiamo parlando prima di tutto dei letti funebri con decorazioni in placche d’osso , importantissime testimonianze archeologiche, utili per comprendere il senso artistico e il linguaggio figurativo delle popolazioni abruzzesi durante l’età ellenistica.

    Assieme ai letti, infine, vanno menzionati pendagli in pasta vitrea di provenienza punica (trovati anche a Bazzano, le pedine e i dadi da gioco, oggetti d’uso quotidiano di un popolo ormai raffinato e sempre più aperto alla comunicazione con altre culture del Mediterraneo.

    Con l’ultimo secolo (il I a. C.) si diffonde l’uso dell’incinerazione accanto a quello dell’inumazione; le ceneri del defunto vengono deposte all’interno di un’olla coperta da una pietra piatta o – più raramente – da un coperchio in ceramica. Con questa fase sparisce anche la consuetudine di deporre oggetti di corredo. E’ questo il momento in cui si percepisce ormai la definitiva assimilazione al contemporaneo costume funerario romano.

    La necropoli di Fossa è la testimonianza più eloquente della storia antica di queste contrade, delle vicissitudini e delle peculiarità culturali di un popolo di montagna che seppe aprirsi al confronto con altre etnie dell’Italia preromana.



    Lorenzo Di Domenicantonio




    Le Madonne Fossolane



    AFFRESCHI ESTERNI ed INTERNI , DIPINTI SU TAVOLA, SU TELA E SCULTURE POLICROME:

    LE MADONNE FOSSOLANE in cinque secoli d’arte.




    Tra i tesori del piccolo borgo abruzzese abbiamo molteplici dipinti raffiguranti la Vergine.

    Il primo dipinto in ordine cronologico vero gioiello dell’arte pittorica medievale abruzzese, e tra le più antiche tavole dipinte dell’ Abruzzo, è la cosiddetta Madonna del Latte.

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    La tavola era originariamente conservata nella chiesa di S.M. ad Cryptas ed oggi si trova all’interno del Museo Nazionale D’Abruzzo a L’ Aquila.

    Si tratta di un dipinto a tempera su legno, firmata Gentile da Rocca e datata 1283.

    La raffigurazione della Madonna in trono mentre allatta il bambino fu molto in uso alla fine del XIII secolo ed in special modo nell’ Italia centro meridionale.

    Nella Chiesa parrocchiale era originariamente conservata una scultura lignea della seconda metà del XIV sec. raffigurante una Madonna in trono con Bambino, e a Fossa onorata come Madonna di Loreto.

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    L’ opera attribuita al cosiddetto Maestro da Fossa dal Longhi rivela connotazioni stilistiche di chiara influenza umbra, e, tendenzialmente correlata alla lezione trecentesca di scuola francese.

    Originariamente era fornita di sportelli laterali con scene dipinte su legno e narranti la vita del Cristo certamente imputabili alla stessa mano dell’opera sculturea: per questo l’Andaloro la definì macchina plastico-pittorica.

    È conservata presso il Museo Nazionale D’Abruzzo nel Castello Cinquecentesco a L’Aquila.


    Esternamente alla parete nord della Chiesa di Santa Maria Assunta si colloca internamente ad una lunetta, che era di chiusura all’ingresso laterale del XIV sec., un affresco raffigurante una Madonna con Bambino tra Santi.

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    Seppur in maniera lacunosa il dipinto testimonia ancor oggi l’ eleganza stilistica e compositiva di un maestro della maniera tardo gotica abruzzese.



    Internamente alla Chiesa di S.M. ad Cryptas si colloca la cappella votiva della Madonna dell’Annunciazione, datata e firmata 1486 Sebastiano da Casentino,

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    È un pregevole affresco raffigurante un’ Annunciazione che incorpora perfettamente in sé sia i canoni stilistici dell’arte umbra, nella bellezza angelicata dei volti e nella raffinatezza emozionale, con che quelli dell’arte toscana, nella compostezza rappresentativa, comprovando ancora una volta il forte legame che intercorse tra questi e quei luoghi attraverso la cosiddetta Via della lana.

    Di non minore caratura artistica risultano le parti dipinte del sottarco raffiguranti immagini di Santi.



    Esattamente lungo la strada principale del paese fa bella mostra di sè internamente ad una nicchia un dipinto del tardo quattrocento raffigurante una Madonna con Bambino tra San Bernardino da Siena ed il Beato Bernardino da Fossa.

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    Infine una pregevole pala d’altare è collocata ancora nella Chiesa di S.M. ad Cryptas.

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    Della seconda metà del XVII sec autenticata da Paolo Cardone, tra i maggiori artisti del suo tempo nella cerchia aquilana, raffigura una Madonna con Bambino tra santi Benedetto e Scolastica con misteri del Rosario.



    SANTA MARIA AD CRYPTAS



    La facciata a forma di capanna presenta un portale, ad arco acuto con leoni in pietra e pilastri, che, pur conservando le caratteristiche proprie dell'arte abruzzese, è uno dei primi esempi locali ispirato alle forme gotiche.

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    L'interno segue il modello cistercense con una sola navata divisa in tre campate conclusa da un presbiterio di forma quadrata. Di fronte al presbiterio la scaletta che conduce alla piccola cripta, che secondo gli storici era originariamente un ipogeo dedicato al culto della dea Vesta.



    Il culto alla divinità femminile è stato sovrapposto nel corso dei secoli a quello mariano: di notevole spessore artistico sono due immagini la prima è una pregevolissima Madonna del Latte tempera su legno tra le più antiche d’ Abruzzo, datata e firmata Gentile da Rocca datata 1283, mentre, al centro della parete settentrionale, una raffinata Cappella ospita l’ Annunciazione datata 1486 di Sebastiano di Nicola da Casentino, tra i maggiori rappresentanti del rinascimento abruzzese.


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    Ma l’assoluta particolarità di Santa Maria ad Cryptas risiede nei due distinti cicli d’affreschi che ne ricoprono interamente l’interno.

    Il primo ciclo opera di artisti bizantino-cassinesi nell'abside, nella parete meridionale, nell'arco trionfale e nella parete di contro-facciata, il secondo ad opera di pittori di scuola toscana di gusto protogiottesco , che riaffrescarono la parete settentrionale riedificata in seguito al terremoto del 1313.

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  12. tomiva57
     
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    Fontecchio



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    Fontecchio è un comune italiano di 410 abitanti della provincia dell'Aquila in Abruzzo.
    L'antica, stupenda Fontecchio è situata nella suggestiva vallata dell'Aterno, ad una altitudine di 668 m. s.l.m. Il territorio comunale è compreso nell'area del Parco Regionale Sirente-Velino.

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    Il centro storico, di straordinaria bellezza, conserva intatta la caratteristica di borgo fortificato medievale, con porte di accesso, tratti di alte mura, torri, stretti percorsi a gradini acciottolati, eleganti archi in pietra levigata e maestosi palazzi, tra i quali spicca il possente palazzo fortificato dei baroni Corvi (sec. XV-XVI), dall'interno del quale, secondo un'antica tradizione, la Marchesa Corvi pose fine al lungo assedio dell'esercito di Braccio da Montone uccidendo, con un colpo di spingarda, i capi degli assalitori.

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    A ricordo di quell'evento ogni sera la Torre dell'Orologio batte 50 rintocchi, tanti quanti furono i giorni di assedio. L'orologio (XV sec.), considerato uno dei più antichi costruiti in Italia, muove l'unica lancetta in base ad un perfetto meccanismo di pesi e batte le ore "all'italiana", cioè di sei ore in sei ore.


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    Nella centrale e scenografica Piazza del Popolo, che ha conservato le sue case-bottega medievali e l'antico Forno del XV secolo, Fontecchio mostra la sua gemma più preziosa, che rappresenta anche il simbolo del paese: la stupenda Fontana trecentesca, con vasca a quattordici facce divise da pilastrini e, al centro, una ornamentale colonna sormontata da una piccola edicola di stile gotico.

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    Nella confinante frazione di S. Pio si trova il grandioso convento di S. Francesco (XII sec.), attualmente utilizzato come struttura ricettiva, che presenta uno stupendo portale romanico-gotico e un magnifico chiostro ad archi di pietra con ricchi capitelli.


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    Storia
    Civiltà Italica

    Gli albori di questo borgo, seppur di modeste dimensioni e collocato in un luogo ancor oggi ben lontano dalle frenesie della modernità, vanno ricercati in epoca remota, al tempo dei popoli italici, cui sono da attribuire i siti archeologici rinvenuti in località "Il Castellone" (948 metri s.l.m.) e "Monte San Pio" (1005 metri s.l.m.). Nonostante non si sappia con esattezza quale tra i Vestini, Sanniti, Marsi, oppure Peligni, fossero le popolazioni che abitarono anticamente il tratto della valle dell'Aterno oggi parte del Comune di Fontecchio; le tracce in muratura, la necropoli ed altri reperti rappresentano inequivocabilmente esempi ancora pressoché intatti di centri fortificati italici. Inoltre, non lontano dal sito del Monte San Pio, venne individuato un tracciato carrozzabile, probabilmente di derivazione dell'"Iter Superequum", che passava per il Castellone per poi dirigersi verso Opi e poi Peltuinum.

    Epoca Romana

    Numerose e ben visibili sono le emergenze architettoniche di tipo romano, rinvenibili in gran parte del territorio comunale. Tra queste possiamo facilmente notare il basamento del tempio dedicato a Giove ove poi venne edificata la Chiesa di S. Maria della Vittoria (la quale oltretutto conserva anche un'iscrizione che riporta il nome degli "Aufigenates", antica popolazione vestina); la cisterna nel cortile e la torre d'angolo del Palazzo Corvi, in pieno centro abitato; la pavimentazione in laterizio disposta a spina di pesce dietro l'abside della chiesa relativa al Convento di San Francesco (probabilmente a testimonianza di un antico manufatto di tipo sacrale). Tali ritrovamenti evidenziano nettamente l'importanza di tale territorio nell'antichità, costituendo un vero e proprio Castrum, ricco di testimonianze e leggende, tra cui quella che vede in San Pio di Fontecchio il luogo di ultima dimora di niente meno che Ponzio Pilato.

    Dalle invasioni barbariche al XIV secolo

    Le continue scorrerie da parte delle popolazioni settentrionali all'interno dell'Impero Romano, susseguitesi dal II fino a tutto il V secolo d.C., intaccarono anche i territori circostanti l'attuale borgo di Fontecchio, inducendo così gli abitanti della valle ad aggregarsi e a dar vita a veri e propri centri abitati. Intorno all'XI secolo i piccoli vicus di S.Giovanni, S.Pietro, S. Arcangelo, S. Felice e "Fons Tichiae", si unirono dando vita al "Castrum Fonticulanum"; ma, sebbene uniti per ragioni di sicurezza, inizialmente tali piccole realtà mantennero ognuna una propria chiesa, fondando solo intorno al 1080-1095 la comune parrocchia di S. Maria della Pace, tutt'oggi sede parrocchiale del paese. Grazie allo storiografo aquilano Anton Ludovico Antinori, si apprendono ulteriori frammentarie notizie collocabili in epoca basso medioevale. Due sono i riferimenti principali, di cui l'Arcivescovo Antinori, nel XVIII secolo, ci dà menzione: nel 1145 Fontecchio è feudo di Gualtiero di Gentile, contribuendo alle milizie dello stesso con due soldati seduti a cavallo; nel 1360, invece, il paese risulta appartenere alla diocesi "Valvense", con ben quattro chiese (S. Pietro, S. Biagio, S. Maria a Graiano e S. Nicola).
    L'assedio del 1425

    La storia di Fontecchio sembra entrare bruscamente nel vivo nel XV secolo, quando, a partire dal maggio del 1425, la quasi totalità dei castelli del circondario dell'Aquila vengono cinti d'assedio dallo spregiudicato condottiero mercenario Braccio da Montone, detto "Fortebraccio".


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    Nei dintorni...


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    La piccola chiesa di Santa Petronilla sorge isolta a circa un chilometro dal paese, sul colle detto di S.Francesco. lungo la vecchia strada che da Fontecchio conduceva alla frazione di Pedicciano, nel Comune di Fagnano.
    La data del 1493, posta sull'architrave della porta d'ingresso, è, con ogni probasbilità, riferita all'aedificazione della chiesa nelle forme in cui ancor oggi la vediamo. In origine era dedicata a San Pietro ad Aram, ed il nome può far pensare alla presenza, sul medesimo sito, di un'ara pagana.
    Dopo essere stata abbandonata per anni è stata oggetto recentemente di un intervento di restauro che ne ha impedito il crollo e la perdita completa. Si presenta con una semplice facciata in pietrame dai grossi cantonali d'angolo squadrati, con coronamento a capanna. Sulla stessa si apre un semplice portale riquadrato da conci in pietra squadrata e con due mensole semplicemente lavorate a sorreggere l'architrave monolitico; a destra della porta, entro un grande arco tamponato, si apre una finestra rettangolare con stipiti, soglia ed architrave in pietra. Gli altri prospetti non presentano alcuna apertura, ma in quello di sud è leggibile la traccia di un arco ed in quello di nord si presentano alcuni elementi lapidei ben squadrati che lasciano pensare ad una porta. La parete di sud si caratterizza per l'accentuata “scarpa” che permette di reggere il terrapieno sul quale è costruita la chiesa.
    L'interno è un unico ambiente spoglio di qualunque arredo,, ma si ha notizia, e documentazione fotografica, che sino agli anni settanta vi era un altare in pietra finemente lavorata a formare una bella edicola composta da un archivolto sestiacuto scolpito con motivi a fogliame poggiante su capitelli compositi e, a loro volta, su esili colonnine a pianta ottagona sorrette da due grosse mensole, Putroppo di questi pregevoli elementi scultorei quattrocenteschi non si ha notizia e non resta altro che la succitata documentazione fotografica.

    Chiesa Madonna delle Grazie

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    danneggiata dopo il terremoto



    Sulla strada statale Subequana, andando verso Sulmona, prima di uscire da Fontecchio si incontra sulla destra la piccola Chiesa dedicata a S.Maria delle Grazie. L'edificio è della famiglia Corvi, infatti nel 1648 la baronessa Corvi volle costruirla come ringraziamento per la liberazione del paese dall'assedio dei soldati spagnoli. La facciata presenta un modesto portale in pietra sovrastato da un arco ogivale contenente un affresco raffigurante la Madonna con Bambino, due finestre quadrotte con stipiti in pietra si posizionano ai lati del portale. Sul prospetto laterale di destra si eleva il piccolo campanile a vela in conci di pietra squadrata. L'interno è un piccolo vano rettangolare che contiene solo l'altare maggiore. Sulla parete di fondo, al di sopra della porticina di sinistra, si nota un affresco, entro lunetta, raffigurante la Madonna delle Grazie dal grande mantello aperto al di sopra del quale si collocano due angeli; questo è l'unico elemento di arredo della chiesa.

    Convento dei Cappuccini

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    A nord-est di Fontecchio, isolato rispetto al nucleo abitato, si posiziona uno dei tre conventi presenti sul territorio comunale: il Convento dei Cappuccini.
    Risalente al XV sec. è nel XVII che acquista importanza e potere, ma nel 1800, con la soppressione di numerosi conventi da parte delle leggi napoleoniche, viene abbandonato e da allora non più abitato.
    Allo stato attuale si presenta ridotto ormai completamente a rudere sia nella grande chiesa, sia nel convento, e nulla lascia prevedere un suo recupero. La lettura degli elementi rimasti consente di individuare un piccolo chiostro intorno al quale si colloca il corpo conventuale e sul quale, verso ovest, prospetta la chiesa. Quest'ultima dedicata a S. Maria della Misericordia, si presenta con una facciata a coronamento orizzontale posta su di un'ampia scalinata in pietra racchiusa da alti muri, un portico, formato da due grossi archi a sesto leggermente ribassato, nascondono l'ingresso alla chiesa ed al convento. Il portale della chiesa è formato da piedritti e architrave in pietra e reca la data del 1593 con una scritta che recita: Misericordie-Matri-Universitas-Fonticuloru-P-D-O. Sulla destra di questo si apre un piccolo portale in pietra con arco a tutto sesto che immette nel convento.
    L'interno della chiesa è completamente ricoperto di macerie dalle quali spuntano pezzi di pietre lavorate e conci d'arco che meriterebbero senz'altro migliore collocazione; ad unica aula presenta due cappelle a sinistra dell'ingresso ed un locale ancora voltato.
    Sulla destra della chiesa si accede, attraverso un atrio ancora voltato, al chiostro che conserva ancora il pozzo ed alcuni elementi lapidei a livello pavimentale; inrono al chiostro sono leggibili ancora una serie di locali che, soprattutto al piano terra ed al seminterrato, mostrano volte a botte in pietra non completamente crollati. Le condizioni del monumento sono tali che una visita all'interno dello stesso è attualmente sconsigliabile e si raccomanda di effettuare eventualmente foto solo all'esterno senza avvicinarsi troppo alle fatiscenti murature.


    Le Pagliare

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    Oltre il versante destro ortografico della Valle dell'Aterno ed in corrispondenza dei Comuni di Fagnano Alto, Fontecchio e Tione degli Abruzzi, si trovano dei pianori di alta quota in cui sono situati dei villaggi temporanei chiamati “Pagliare”. L' origine delle Pagliare è da collegarsi alla scarsità di terreni coltivabili nella sottostante vallata per cui gli abitanti di questa contrada furono portati a sfruttare ogni superficie suscettibile di cultura situata sugli altipiani soprastanti i loro paesi. A causa della distanza e della difficoltà del cammino, dovuta essenzialmente ai dislivelli da superare, coloro che vi si recavano a colivare le terre furono costretti a costruirsi dei ricoveri che a poco a poco vennero trasformati in vere case. Fu così che per seguire i normali lavori agricoli e governare il bestiame ovino e bovino, i contadini di Fontecchio, Tione e Fagnano, da maggio ad ottobre, si spostavano in montagna con le famiglie e scendevano in paese di tanto in tanto solo per rifornirsi delle cose necessarie. Le costruzioni che costituiscono i tre villaggi sono molto simili l'una all'altra. Hanno in genere pianta rettangolare o quadrata e constano di due locali, uno superiore usato come abitazione, ed uno inferiore, adibito a stalla. I due piani sono separati da un pavimento di legno, le 3 mura sono in pietra e cemento, mentre il tetto ad uno o due spioventi è in legno coperto di tegole fermate da sassi. Nel locale superiore, in un angolo, è in genere localizzato un camino di forma molto semplice, utile sia per cucinare che per far seccare ed affumicare il formaggio. Fuori è facile trovare delle larghe pietre incavate a colpi di scalpello usate per raccogliere l'acqua piovana e , fissati sui muri esterni delle abitazioni degli anelli in pietra realizzati appositamente o di origine naturale (dovuti al continuo lavorio delle acque sulle rocce calcaree) per attaccavi l'asino o il cavallo. Il problema delle Pagliare era, oltre la lontananza dal paese, la scarsità d'acqua sia potabile che non. Per la prima si ricorreva a dei pozzi o sorgenti nelle Pagliare di Fontecchio e Tione, mentre in quelle di Fagnano si doveva raggiungere il paese di Terranera a 5Km sull'Altipiano delle Rocche. Per le altre necessità, diverse case furono dotate di cisterne sotterranee situate sotto le stalle o attigue a queste ultime in cui veniva convogliata l'acqua piovana che cadeva sui tetti mediante grondaie e canale.


    Convento di Santa Maria a Graiano

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    Nei pressi della frazione di S. Pio, sulla strada che si ricollega alla SS 261, sorge l'antico Convento di Santa Maria a Graiano. Non si conosce la data esatta della fondazione del complesso monastico, ma si sa che apparteneva all'ordine dei Benedettini sin dall'origine ed era dedicato a San Mauro. Nel 1266 questo convento subì una riforma da parte delle autorità ecclesiastiche; i monaci presenti macchiati di “orrende colpe”, come riportano le cronache del tempo, vennero allontanati e sostituiti con monache di clausura dello stesso ordine. Nel 1836 con una bolla di Gregorio XVI il convento venne aggregato alla Diocesi dell'Aquila. Le condizioni dell'intero complesso sono attualmente disastrose; di recente la sola chiesa è stata oggetto di restauri statici che ne hanno impedito il crollo. La facciata della Chiesa di S.Maria, intonacata, è a coronamentro orizzontale; presenta un unico portale centrale con stipiti e timpano in pietra scolpita in forme mistilinee e, al di sopra, un finestrone rettangolare con decorazioni baroccheggianti in pietra e con incisa la data MDCCLXX (1770). Sul lato sinistro cinque contrafforti, a contenere la forte spinta della volta a botte a tutto sesto, sono intervallati da tre finestre. Il lato posteriore e di sud est è occupato in parte dai locali conventuali. L'inerno è un'aula unica, con cappelle laterali, coperta con volta a botte a tutto sesto e, sull'altare maggiore, da una cupola rivestita esternamente da un tiburio a pianta poligonale; le cappelle laterali si ripetono in modo uguale e contrapposto, sono poco profonde, e danno quasi l'impressione di essere altari incassati nelle pareti. Gli ambienti conventuali sono ormai allo stato ruderale e non è possibile individuare una fisionomia precisa della struttura; nel refettorio sono ancora visibili degli affreschi raffiguranti il Cenacolo di discreta fattura. Il complesso è stato molto depredato ma al suo interno conservava, sino ad una ventina d'anni fa, due opere di grande interesse storico-artistico che è stato possibile recuperare e restaurare. La prima è un dipinto a tempera su tela applicata a tavola che raffigura una Madonna con Bambino detta “Madonna de Ambro”; l'opera è databile intorno alla metà del '200 e deriva dalla cultura tardo bizantina che influenzava, ancora notevolmente, l'arte del XIII sec in Abruzzo. L'altra è una statua lignea policroma e dorata rappresentante lo stesso soggetto, è databile intorno alla metà del 1400 ed è attribuibile ad un artista abruzzese che risente di influenze toscane. Entrambe le opere sono esposte al Museo Nazionale d'Abruzzo presso il Castello Cinquecentesco dell'Aquila.


    Convento di San Francesco

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    Non lontano da Santa Maria a Graiano sorge il convento di San Francesco che senza ombra di dubbio, caratterizza con la sua presenza l'intero paesaggio circostante, focalizzando su di se gli sguardi del visitatore che arriva a Fontecchio dall'Aquila. Le sue origini rislagono ad epoche molto antiche, anteriori al 1138, e comprendevano, tra l'altro, una chiesa, di dimensioni molto minori dell'attuale struttura, dedicata a Sant'Agnese. A testimonianza di ciò esistono alcuni documenti dell'antica Diocesi di Valva ed alcune Bolle Pontificie del 1138 e del 1188. Ma lo stesso sito, con ogni probabilità, già in epoca romana era occupato da un edificio, così come evidenziato nei restauri degli inizi anni ottanta durante i quali, nei pressi del corpo absidale della chiesa, vennero scoperti i resti di pavimentazione romana con mattoni disposti in coltello a spina di pesce. Nel XV secolo la struttura venne ampliata con la probabile ristrutturazione dei locali conventuali e del chiostro che, nel 1488, subisce sicuramente una sistemazione, come prova una pietra scolpita con questa data infissa in un muro perimetrale dello stesso. Nei secoli successivi il convento subisce una serie di utilizzi diversi che lo portarono, alla fine degli anni '60, in condizione disastrose, e tali da rendere necessario un intervento di consolidamento e restauro da parte della Soprintendenza ai Monumenti dell'Aquila agli inizi degli anni '70. Negli anni ottanta un ulteriore restauro ha recuperato completamente il bel complesso monastico ed ha allontanato definitivamente i timori per un suo abbandono. Il convento ha nel chiostro l'elemento centrale intorno al quale si attestavano i vari ambienti monastici e la grande chiesa; più volte rimaneggiato e restaurato si presenta con forme medievali soprattutto negli elementi scultorei (capitelli, colonnine e basi) ma con evidente, soprattutto nei doppi loggiati laterali all'ingresso, lo spirito rinascimentale che ne influenzò la ricostruzione tardo quattrocentesca. La chiesa è ad una sola navata del tipo monastico francescano risalente al XIV secolo , ed ha subito diverse modifiche nei secoli successivi e soprattutto nel XVIII sec. La facciata si presenta incompleta, con il rivestimento murario a conci di pietra regolari posti sino a metà dell'altezza. L'unico portale, centrale, ha forme romaniche che riprendono quelle dei portali più antichi aquilani ed è ascrivibile alla seconda metà del XIV secolo, nella lunetta si leggono ancora le figure di una Madonna con Bambino con San Francesco e Sant'Agnese, affresco databile agli inizi del secolo XVI, opera di un maestro locale. Al di sopra del portale si apre un oculo circolare abbellito da una cornice molto finemente lavorata con motivi a fogliame risalente al XIV sec.
    Una poderosa torre campanaria, non portata a termine, sulla cui sommità venne collocato un campaniletto a vela con doppio fornice sovrapposto in epoca abbastanza remota, si colloca a sinistra della facciata. L'interno si presenta con navata unica terminante con coro quadrato voltato. La copertura attuale è da riteneresi opera del XVII sec. così pure i pilastri addossati alle pareti laterali che ostruiscono in parte gli affreschi della fine del XV e XVI sec; questi ultimi sono particolarmente interessanti nella parete di sinistra nei pressi del coro dove, dopo i restauri, è tornata alla luce la figura dell'apostolo Pietro risalente al XIV sec. e facente parte quindi della primitiva chiesa di più piccole dimensioni sostituita dall'attuale. Dopo gli ultimi lavori di restauro e di ristrutturazione finalizzati alla creazione di un centro studi, il convento di S.Francesco è stato gestito dal 1986 dall'attiva cooperativa il “Il Sirente”, ed è diventato uno dei centri più importanti nella Valle del medio Aterno come sede di convegni, soggiorni di studi, seminari e non ultimo come ostello e ristorante dove gustare prelibati piatti a base dei prodotti tipici locali.


    Santa Maria della Vittoria

    Sulla strada che dalla Piazza del Popolo si dirige verso la Stazione di Fontecchio, a circa metà percorso, troviamo i ruderi di Santa Maria della Vittoria. Costruita sui resti di un tempio pagano dedicato a Giove, fatto erigere da una nobile famiglia romana stabilitasi nella Valle dell'Aterno nel I sec d.C., la Chiesa di Santa Maria è la testimonianza inconfutabile della continuità venerativa che determinati luoghi assumono e che poi mantengono anche con l'avvento di religioni dai culti completamente diversi (pagano e cristiano). La tradizione vuole che la chiesa primitriva fosse dedicata a San Pietro e fosse la parrocchiale del piccolo borgo omonimo che partecipò nel XI sec. alla costruzione di Fontecchio; nel 1648 la chiesa subì notevoli danni da parte delle truppe del capitano Quinzi che assediava il sovrastante paese e fu proprio la vittoria che i fonticulani riportarono su questi che determinò la ricostruzione della chiesa ed il suo cambiamento di nome in Santa Maria della Vittoria. L'edificio si presenta con un' unica aula rettangolare con grandi finestroni sulle pareti laterali e con facciata a coronamento orizzontale molto slanciata. Il tetto è completamente crollato così come le coperture e parte delle murature degli annessi locali presenti sul prospetto posteriore ed ai lati della zona presbiteriale. I lavori di scavo e di restauro della chiesa, attualmente in atto, hanno evidenziato alla base dell'edificio un basamento di epoca romana perfettamente conservato sul quale, in epoche successive, è stata impostata d'apprima un'accurata muratura in blocchetti di pietra squadrata, su questa una muratura più caotica e meno curata, riconducibile ad un primo ampliamento della chiesa, ed infine, su quest'ultima, l'elevazione riferibile al XVII sec.
    All'interno ed all'esterno della muratura della chiesa si trovano inserite numerose pietre scolpite con iscrizioni ed incisioni; particolarmente importante è l'epigrafe trascritta dall'archeologo De Nino che ha consentito di individuare l'origine del toponimo Fagnano corrispondente all'attuale vicino omonimo abitato. Non è improbabile che gli attuali lavori di scavo portino alla luce nuovi reperti che ci consentano di chiarire ulteriormente le origini del tempio e dei centri che vi gravitavano.


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    dal web
    comune di fontecchio
    wikipedia





    LAGO DI CAMPOTOSTO


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    Il lago di Campotosto è il più grande dell’Abruzzo e si trova ad un’altitudine di 1313 metri sul livello del mare. Un tempo occupato da acquitrini, il bacino di Campotosto è stato trasformato in lago negli anni Trenta per rifornire le centrali elettriche della Valle del Vomano.

    Esteso su 1400 ettari, il bacino oggi è compreso all’interno del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga. Dal lago di Campotosto partono itinerari per il Monte di Mezzo e le Cime della Laghetta.

    Il bacino si può quindi frequentare dalla primavera inoltrata al primo autunno, nei mesi invernali quasi sempre la sua superficie è gelata.

    Tutte le sponde del bacino sono percorse da strade asfaltate e la loro l’agibilità è buona in massima parte. Si alternano rive degradanti in corrispondenza delle quali la profondità cresce lentamente e rive più scoscese dinanzi alle quali la profondità dell’acqua è subito molto elevata.

    Le specie ittiche presenti sono soprattutto Coregoni, Tinche e Triotti, è presente ancora qualche rara trota residuo di una ben più abbondante popolazione presente anni fa. In tempi recenti sono state effettuate immissioni di Lucci che stanno dando buoni risultati grazie all’habitat sufficientemente integro ed alla nutrita popolazione di “pesce foraggio“.

    La strada intorno al lago è ottima per passeggiate in bicicletta e d’inverno ci sono bei sentieri per gli sci di fondo; inoltre lungo il bacino si possono osservare uccelli quali la gallinella d’acqua, il germano reale e il merlo acquaiolo.

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    ROCCA DI CAMBIO



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    Rocca di Cambio è un piccolo centro montano in provincia dell’Aquila nel cuore dell’Abruzzo. Con i suoi 1434 metri è il comune più alto di tutto l’Appennino.

    Il paese è situato a Nord dell’Altipiano Sirente – Velino in una incantevole vallata, caratterizzata da un aspro paesaggio, dall’aria purissima,con acque cristalline, il verde cupo dei boschi e quello brillante dei prati.
    Ma non solo. Ci sono estese faggete e querce secolari cespugli di ribes, uva spina ,more, nocciolo,lamponi e rosa canina.

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    Una citazione a parte meritano i narcisi, splendidi fiori che tra maggio e giugno invadono l’altipiano e che sono i protagonisti di una sagra popolare nel vicino paese di Rocca di Mezzo. La fauna della zona è estremamente ricca con l’aquila reale , il lupo appenninico e l’orso marsicano; senza contare cinghiali, volpi, ghiri, faine donnole e scoiattoli neri. Questo è l’altipiano delle rocche. Un territorio che merita di essere conosciuto per gli usi, i costumi le tradizioni e l’inconfondibile sapore della sua cucina.

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    Oggi Rocca di Cambio è un affermato centro di turismo e sport invernali grazie anche alla stazione sciistica di Campo Felice ed è compreso all’interno del territorio del parco regionale Sirente-Velino.
    Quest’ultimo comprende una area vasta con una media di alte quote dei rilievi superiore ai 2000 metri e la presenza dell’altipiano carsico delle Rocche il secondo dei grandi altipiani carsici dell’Appennino in ordine di grandezza dopo Campo Imperatore. Una zona ricca quindi di nevai, inghiottitoi, pareti rocciose, gole e fitte faggete. A tal proposito, come non menzionare le grotte di Stiffe, uno dei fenomeni carsici più famosi dell’Italia centrale. Oltre alle ricchezze della flora e della fauna all’interno del territorio del parco e nelle zone limitrofe vi è un patrimonio storico culturale di notevole valore.

    C’è la chiesa di S. Maria in valle Porclaneta nei pressi di Rosciolo, ai piedi della punte gemelle del Velino con uno dei più bei pulpiti in pietra di tutta l’arte romanica.
    Vicinissimo ad Avezzano i resti ben conservati dell’antica Alba Fucens, posto sulla via consolare Tiburtina Valeria al crocevia che collegava i Marsi con i Vestini attraverso l’altipiano delle rocche.
    Come non ricordare la Piana Del Fucino, un antico lago che già i romani tentarono di bonificare con ancora evidenti i condotti di deflusso e lo splendido Castello Di Celano di XIV secolo.
    Le torri di Aielli, Collarmele e S. Iona che servivano a controllare i percorsi che portavano a Celano da dove partiva il regio tratturo Celano-Foggia.
    Ma anche lo stesso Altipiano Delle Rocche merita di essere visitato.
    Tra gli altri paesi, Rovere, con il suo borgo medievale fortificato e Rocca Di Cambio con la chiesa romanica di S Lucia che presenta al suo interno un interessantissimo ciclo di affreschi.
    Poco più a nord i suggestivi resti del borgo fortificato di Ocre oggetto di studi da parte dell’Università Degli Studi dell’Aquila negli ultimi anni.
    Ma ci sono anche le pagliare di Tione Fontecchio e Fagnano, oggi disabitate ma un tempo importantissimi per la transumanza che legava l’altipiano delle Rocche alla valle dell’Aterno.
    Quest’ultima con i centri di Fontecchio Tione degli abruzzi, Gagliano Aterno, Castelvecchio Subequo, Acciano, Beffi, e molti altri paesi che vale la pena visitare.
    Ma l’altipiano delle rocche è vicinissimo al capoluogo di provincia, L’Aquila e a moltissimi altri centri di notevole interesse.


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    -ABBAZIA DI SANTA LUCIA

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    La prima data certa in cui l’abbazia di Santa Lucia è citata è il 1313, però già in una bolla papale del 1178 era stata nominata “Rocca di Cambio con le sue chiese”. Probabilmente la prima costruzione risale al secolo XI, epoca di grande fioritura monastica. La facciata della chiesa si presenta sobria con un portale del XV secolo e una piccola finestrella a forma di ruota del periodo medievale. Il campanile a vela è stato aggiunto nel settecento. L’interno è suddiviso in tre navate, con un ampio presbiterio senza absidi. Da una piccola scala situata nella navata centrale si scende nella cripta, che conserva tracce di affreschi databili tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV. Lungo le pareti del presbiterio vengono custoditi pregevoli affreschi trecenteschi. La parete nord è divisa in tre fasce. Inferiormente è rappresentato Cristo con gli Apostoli nell’ultima cena. Come a Bominaco e a Fossa, Cristo è all’estrema sinistra della mensa, ma qui è nell’atto di benedire, mentre negli affreschi di Bominaco e Fossa è nell’atto di distribuire il pane. Nelle due fasce superiori sono rappresentate, in dieci riquadri, quattro a sinistra e sei a destra di una finestrella, “La Passione” e “La Resurrezione”del Redentore”. Domina la composizione in alto, dentro una mandorla, il Cristo tra gli Angeli.

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    L'abbazia di Santa Lucia è stata purtroppo danneggiata dal grave terremoto del 6 aprile 2009, con crollo interno ed esterno delle parete laterali.



     
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  14. tomiva57
     
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    Caporciano e Bominaco



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    caporciano




    Su di un colle nel mezzo di un altopiano, ad una quota di circa 800 m. slm., è adagiato l’abitato di Caporciano.Dalla sommità del paese, che prese il nome dal dio Giano, Capo di Giano, Caput Jani, si apre sulla pianura variegata un vasto orizzonte, chiuso dapprima dai monti vicini e poi, in lontananza, dalle cime più alte dell’Appennino: il Corno Grande, il Monte Amaro ed il Sirente.

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    Già prima dei Romani, i monti circostanti erano abitati dai popoli italici. I villaggi, ben organizzati e fortificati, avevano raggiunto un elevato grado di civiltà e dominavano l’altopiano.

    Avvicinandosi al paese ci appare maestosa ed imponente la torre quadrangolare dell’antico recinto fortificato che ospitava una guarnigione militare e, all’occorrenza le popolazioni del luogo.

    Dell’antico maniero che ebbe origini alla fine del XI sec., oltre al robusto mastio, oggi utilizzato come campanile, restano tre torri inglobate nelle abitazioni e due porte di accesso. Sui resti del castello vennero costruite, nel ‘600 e ‘700, la chiesa parrocchiale dedicata a San Benedetto e l’oratorio dedicato alla Madonna ed al culto dei morti.

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    chiesa e campanile



    Il primo edificio, a croce latina, è adorno di dieci cappelline. Particolarmente apprezzabile è l’armonia creata dalle proporzioni sapienti del suo interno: il giusto equilibrio tra la pianta e l’alzato le conferiscono un aspetto maestoso. L’annesso oratorio, della Confraternita dell’Addolorata, è interamente affrescato con opere settecentesche. Un importante coro ligneo ed un pavimento in pietra policroma le conferiscono un particolare aspetto.

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    chiesa di s.Pietro in Valle



    Dalla sommità del Paese, si dipartono le stradine medievali del centro abitato, ben conservato negli aspetti tipologici. Qua e là si scorgono pietre del periodo longobardo, portali, stipiti ed architravi scolpiti. Nelle immediate vicinanze del paese si incontra l’agreste chiesetta di San Pietro, un autentico gioiello a ridosso del bosco e delle sporgenze rocciose della montagna. L’edificio ebbe origine nel IX sec. Ma le sue attuali forme risalgono al sec. XII. Conserva al suo interno uno splendido ciborio di gusto goticheggiante, tre edicole con le medesime fattezze e numerosi affreschi. Il passato squisitamente agricolo del luogo, con le colture di cereali, legumi e zafferano, è magistralmente rappresentato dalla chiesa di Santa Maria di Centurelli. Nel bel mezzo della campagna, adiacente al percorso della romana via Claudia Nova, in un importante incrocio del Regio Tratturo, appare maestosa a chi percorre la SS 17 e ricorda la ricca economia pastorale di un tempo e i percorsi transumanti.

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    chiesa di S. Maria dei Cintorelli, Caporciano







    Salendo per la strada provinciale, si giunge a Bominaco, l’antica Momenaco sede, un tempo di uno dei più ricchi e celebri monasteri benedettini. La tradizione vuole che le origini del luogo, risalgano tra il III e IV, quando San Pellegrino, proveniente dalla Siria, subì il martirio a Bominaco. Carlo Magno (così come attestato in uno pseudo diploma del Chronicon Vulturnense 774-814) seppe della fama raggiunta dal Santo e si interessò per la costruzione di un più grande oratorio sul sacello originario. Si insediarono i primi monaci e nel 1001 il conte Oderisio donò vaste proprietà al monastero.

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    Restano oggi solo la chiesa abbaziale di Santa Maria Assunta e l’oratorio di San Pellegrino. La chiesa (sec. XII) ha un’architettura straordinaria. Lo stile romanico abbaziale tre navate con transetto rialzato e absidi circolari raggiunge in questo edificio la forma più sublime e armoniosa. Le originali colonne interne sono sovrastate da splendidi capitelli riccamente decorati.

    A metà navata si staglia l’ambone del 1180 eretto per volontà dell’Abate Giovanni, adorno di fogliame e figure simboliche. Sul presbiterio, con lo sfondo delle absidi semicircolari, s’innalzano, il ciborio del 1223 e il candelabro pasquale, la cui colonna tortile ha la forma slanciata e morbida e sorregge, in sommità, il capitello più raffinato del tempio. Il gusto ancora bizantineggiante, ricama una corona circolare che è quasi un merletto. L’esterno trova la massima realizzazione artistica nelle absidi in pietra calcarea. Slanciate, con un’accentuata eleganza e ricchezza di ornamenti, ostentano tutta la loro superba bellezza. Il vicino oratorio risale alla seconda metà del 1200. L’esterno, semplice ed essenziale, è appena ingentilito da un rosone sul retro e da un armonioso pronao del ‘600 sul fronte. Ma non appena varcato l’ingresso, un magnifico colpo d’occhio sull’unica aula divisa a metà da due plutei, con volta leggermente ogivale, conduce in un luogo che è l’apoteosi della pittura benedettina in Italia. Una girandola di affreschi che, con tecnica mirabile e sapienza storica, rendono il luogo una formidabile fonte di nozioni su tutta la Storia Sacra. Tre diversi maestri pittori (sicuramente monaci), il Maestro dell’Infanzia, della Passione e quello Miniaturista, hanno rappresentato altrettanti temi riguardanti l’infanzia di Cristo, la sua passione ed il famoso calendario bominacense. In alto, sul monte Buscito, si staglia la sagoma del recinto fortificato di difesa su cui troneggia la splendida torre circolare.

    Tornando giù verso il Paese e attraversandolo per l’unica strada, si scorgono alcuni pregevoli edifici abitativi che denotano la loro origine rinascimentale nei prospetti regolati da aperture ornate con stipiti in pietra. Proseguendo per la medesima direzione la strada si inerpica nuovamente verso la montagna. Lungo un sentiero si giunge all’Eremo di San Michele, suggestiva grotta dedicata al Patrono del paese ed al Santo protettore dei pastori, che da qui partivano per il Tavoliere dopo la rituale benedizione.

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    Le origini della piccola chiesa dedicata a San Pellegrino, monaco siriano martirizzato in zona intorno al IV sec., sono incerte: secondo alcuni si tratterebbe di un ex-hospitalia, che serviva ad accogliere i viaggiatori di passaggio lungo il tratturo L’Aquila-Foggia; leggenda vuole, invece, che a ordinarne la costruzione, nell’VIII sec., sia stato addirittura Carlo Magno, che l’assegnò all’Abbazia di Farfa, nell’attuale Lazio. A testimonianza, vi è un’iscrizione all’interno dell’Oratorio che attibuisce la fondazione dell’edificio a “re Carlo” e il suo “rinnovamento”, nel 1263, a un certo abate Teodino (probabilmente il committente delle opere pittoriche).

    L’esterno è semplice e armonioso, in stile romanico, decorato solo da due piccoli rosoni, uno sulla facciata anteriore, che presenta un portico aggiunto in epoca successiva, e l’altro sulla facciata posteriore, dove si trova il campanile.

    La struttura presenta una navata unica di dimensioni piuttosto ridotte coperta da una volta a botte e divisa in quattro campate tramite archi ogivali. I due plutei al centro della chiesa, raffiguranti rispettivamente un drago e un grifone, dividono l’ambiente in due settori separati: uno per gli officianti e l’altro per i fedeli. Si dice che il corpo del Santo sia sepolto vicino all’altare, sotto una pietra.

    L’interno è completamente ricoperto di dipinti parietali risalenti alla seconda metà del XIII sec., per un totale di oltre 450 metri quadrati di affreschi.

    Gli affreschi dell’oratorio, di forme bizantineggianti, rappresentano tre cicli principali di storia sacra: l’Infanzia di Cristo, la Passione e la Vita di San Pellegrino. A esse si aggiungono scene del Giudizio Universale, raffigurazioni di santi e profeti e un raro Calendario liturgico, detto “calendario bominacense”, probabilmente dipinto da un miniaturista, vista la precisione calligrafica e la ricchezza di particolari.

    Nel 1424 il complesso monastico di Bominaco fu completamente distrutto dal capitano di ventura Braccio da Montone, il quale però lasciò intatti l’Oratorio di San Pellegrino e l’adiacente Chiesa di Santa Maria Assunta.

    Le chiese di Bominaco sono generalmente chiuse, ma, chiamando il Comune di Caporciano (tel.: 0862 93731), vi verrà comunicato il numero di telefono del custode, che sarà felice di accompagnarvi durante la visita e fornirvi tutte le informazioni storiche e artistiche necessarie per apprezzare al meglio la peculiarità di questa costruzione. L’ingresso è libero, ma è gradita un’offerta.

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