CUCINA NELL'ANTICA ROMA

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Le memorie di Adriano - Marguertie Yourcenar




    Mangiar troppo, è un vizio romano, ma io sono stato sobrio con voluttà. Ermogene (il suo medico, ndr) non ha dovuto modificar nulla del mio regime, se non forse frenare l'impazienza che m'ha sempre fatto divorare ovunque, a qualsiasi ora, un cibo qualsiasi, come per troncare d'un colpo le esigenze della fame. Un uomo ricco, che non ha mai conosciuto altre privazioni che quelle volontarie, o non ne ha sperimentate se non a titolo provvisorio, come uno degli incidenti più o meno eccitanti della guerra e dei viaggi, dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse di non satollarsi. Impinzarsi i giorni di festa è stata sempre l'ambizione, la gioia, e l'orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l'aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l'odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m'ispiravano ripugnanza e tedio tanto che se alle volte - durante un'esplorazione o una spedizione militare - ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi. Non mi farai l'ingiuria di prendermi per un rinunciatario qualsiasi: un'operazione che si verifica due o tre volte al giorno, e serve ad alimentare la vita, merita certamente le nostre cure. Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho mai affondato i denti nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che quella miscela rozza e pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors'anche in coraggio. Ah, perché il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede che una parte dei poteri d'assimilazione di un corpo?
    A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d'aglio e di orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s'inondano di salse, e s'intossicano di spezie. Un apicio va fiero della successione di portate, di quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono l'armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così, giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente dosati, erano il risultato di un'arte, esattamente come quella del musico o del pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile.
    In Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare l'appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle mani sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un'essenza di immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto, o piuttosto sorseggiarlo una sera d'inverno, quando si è in quello stato di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto, bere l'acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma, oggi, anche l'acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con misura. Non importa: anche nell'agonia, mescolata all'amaro delle ultime pozioni, mi sforzerò di sentire sulle labbra la freschezza insapore.
    Nelle scuole di filosofia, dove è di prammatica provare una volta per tutte ogni regola di condotta, ho sperimentato per breve tempo il regime vegetariano e, più tardi, in Asia, ho visto i ginnosofisti indiani, volgere il capo alla vista degli agnelli fumanti e dei quarti di gazzella serviti sotto la tenda di Osroe. Ma quest'astinenza, nella quale si compiace la tua austerità giovanile, esige attenzioni complicate, più della golosità: trattandosi di una funzione che si svolge quasi sempre in pubblico, il più delle volte sotto il segno della pompa o dell'amicizia, finirebbe per distinguerci troppo dagli altri. Preferisco nutrirmi tutta la vita di oche ingrassate e di galline faraone anziché farmi accusare dai commensali, a ogni pasto, di un'ostentazione di ascetismo. Già mi è stato tutt'altro che facile, con l'aiuto di poche frutta secche, o di una coppa sorseggiata lentamente, nascondere agli invitati che i manicaretti creati dai miei cuochi erano destinati a essi più che a me, e che la mia curiosità per quelle vivande cessava assai prima della loro. Un principe, in questo campo, non ha la libertà di un filosofo, non può concedersi troppe singolarità tutte insieme, e gli dèi sanno se quelle per le quali mi distinguevo non erano già troppo numerose, a onta della mia illusione che molte di esse passassero inosservate. Quanto agli scrupoli religiosi dei ginnosofisti e la ripugnanza che provano alla vista della carne sanguinolenta, mi colpirebbero di più se non venisse fatto di chiedere a me stesso in che cosa la sofferenza dell'erba falciata differisca essenzialmente da quella di un montone sgozzato, e se l'orrore che proviamo nel vedere trucidare un animale non dipenda soprattutto dal fatto che la nostra sensibilità appartiene al medesimo regno. Pure, in certi momenti della vita, a esempio nei periodi di digiuno rituale, o durante le iniziazioni religiose, ho apprezzato i vantaggi, nonché i pericoli, per lo spirito, delle diverse forme d'astinenza, persino dell'inedia volontaria, di quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un'immagine della gelida levità della morte. In altri momenti, queste esperienze mi hanno consentito di bloccarmi con l'idea del suicidio progressivo, la morte per inedia, che fu quella di qualche filosofo; una specie di orgia alla rovescia, nella quale si perviene grado a grado all'esaurimento della sostanza vitale. Ma aderire totalmente a un sistema non mi sarebbe piaciuto mai, né avrei mai voluto che uno scrupolo mi privasse del diritto di saziarmi di carne d'ogni specie, se per caso ne avessi avuto voglia, o se quel nutrimento fosse stato il solo a mia disposizione.

    Naturalmente non è un libro sull'alimentazione. Mi ha favorevolmente stupito però questo brano, che la Yourcenar fa dire ad Adriano, Imperatore Romano.
    Adriano è al tramonto della sua vita, malato e prossimo alla morte e, nella prima parte del libro, scrive al nipote Marco alcune sue considerazioni sugli aspetti che nella sua vita hanno avuto maggior rilevanza.
    Fra questi vi è il cibo.
     
    Top
    .
  2. ZIALAILA
     
    .

    User deleted


    Nell'Antica Roma



    image



    LA CENA



    Si racconta comunemente che i Romani facessero tre pasti al giorno : JENTACULUM - PRANDIUM - CENA .
    Il Jentaculum di cui parla Marziale si compone di pane e formaggio e avveniva fra la terza e la quarta ora, ovvero le otto e le nove del mattino ; il Prandium si riduce qualche volta a un pezzo di pane accompagnato da carne fredda , verdura e frutta , innaffiati con un po' di vino e consumato fra la sesta e la settima ora, cioè attorno a mezzogiorno
    Jentaculum e Prandium erano così presto finiti che non c'era bisogno di apparecchiare la tavola ne' di lavarsi le mani dopo .
    Erano evidentemente pasti presi in fretta e furia e il solo pasto degno di questo nome era per tutti la Cena .
    Anche se si suole rappresentare gli antichi Romani come ghiottoni insaziabili , in realta' fino a sera facevano quasi a meno di mangiare .

    LA CENA

    l'ora di inzio era quasi per tutti la stessa : dopo il bagno cioe' dopo l'ora ottava in inverno e dopo l'ora nona in estate .
    Invece l'ora in cui la cena terminava differiva secondo che si trattasse di una cena senza pretese o di un festino in gran pompa : di regola doveva finire prima che fosse notte fonda
    La Cena quando viene offerta da gente agiata , ha sempre luogo in una stanza separata dalla casa : il TRICLINIUM che trae il suo nome dal letto a tre posti sui quali i convitati si sedevano .
    Intorno a una tavola quadrata ,di cui un lato restava libero per il servizio erano disposti tre letti ricoperti con materassi e coperte lussuose
    La sala da pranzo di solito prevedeva 4 tavole per 36 convitati .

    image



    I banchetti non erano prerogativa dei soli ricchi, e quando la situazione economica del padrone di casa lo richiedeva, erano gli stessi commensali a portare il loro contributo per il pasto.

    I convitati avevanoa disposizione coltelli ,stuzzicadenti e cucchiai di forme diverse : il mestolo o Trulla , il cucchiaio o Ligula , un cucchiaino a punta o Cochlear per vuotare le uova o conchiglie
    I Romani non avevano le forchette e poiche' mangiavano con le mani erano costretti a frequenti abluzioni , prima del pasto ed ad ogni portata

    La lista delle vivande servite , raccontata dalla letteratura , ci dimostra come l'anfitrione volesse meravigliare i suoi ospiti con la profusione delle portate e la ricchezza dell'argenteria
    Si trattava di almeno 7 portate o Fercula :
    gli Antipasti
    tre primi piatti
    due arrosti e
    il Dessert
    come nel leggendario festino di TRIMALCIONE

    image

     
    Top
    .
  3. beaaa
     
    .

    User deleted


    la cucina romana è ottima...però..potevate mettere la ricette per far l'abbacchio..o il carciofo alla romana??? boni...boni...ihihih
    qui si parla solo di come mangiavano...a me piace mangiare! .....
     
    Top
    .
  4. tappi
     
    .

    User deleted


    grazie
     
    Top
    .
  5.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline
    grazie antonella
     
    Top
    .
  6.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    ;) grazie..
     
    Top
    .
  7. gheagabry
     
    .

    User deleted




    Nell'antica Roma, i banchetti costituivano un'occasione ideale di incontro e di socializzazione tra i cittadini, oltre al fatto che davano la possibilità, a chi vi intervenisse, di degustare prelibatezze di ogni tipo e di assistere a vere e proprie ''performances'' culinarie. In tale contesto, il padrone di casa aveva la possibilità di rendere manifesta a tutti, attraverso il lusso delle portate ovvero l'allestimento della sala da pranzo, la propria posizione sociale e garantirsi buona fama in quanto a banchetti e senso dell' ospitalità. Le lunghe liste di patti: primi, contorni e desserts, erano una buona occasione di incontro e di discussione sui più svariati argomenti, dal filosofico al faceto. Ma nel corso della giornata di un uomo Romano medio, non era certo la norma, quella di organizzare lauti banchetti ogni qual volta egli consumava un pasto. Di certo il momento più importante era la CENA (era in questa occasione che si aprivano le porte della propria casa all'ospite) ma erano tre in realtà i pasti consumati giornalmente. Quando, al canto del gallo, l’uomo romano si destava dal sonno, consumava un pasto piuttosto modesto, spesso sbocconcellando qualche avanzo della sera precedente, che i convitati erano autorizzati a portarsi via in un fagottino(senza il timore di sembrare inopportuni). Era questo il momento della colazione del mattino: IENTACULUM in cui si mangiavano pane, formaggio, a volte anche della carne e frutta. A metà giornata si svolgeva il PRANSUS, che era, in realtà, un rapido spuntino, un pasto frugale in cui a mala pena si toccava cibo. La CENA era invece il momento in cui il pasto si faceva più elaborato; cominciava verso le prime ore pomeridiane, dopo che ci si era recati nelle terme a ristorare le membra dalle fatiche della giornata. L'orario in cui terminava era sempre lo stesso, ragion per cui prima si iniziava a banchettare, più si straviziava. Al calar della notte, solitamente si poneva fine al banchetto. Secondo questa suddivisione della giornata, mangiare a mezzogiorno era davvero considerata una infamia! L’orario deputato era difatti l’ora nona (le tre ca.). Quanto al bere, durante i banchetti, 'eccedere' diventava la norma e naturalmente il vino, in tutte le vesti (mulsum, piperatum, ecc.), signoreggiava sulla tavola.e donne non erano ammesse nel triclinio, se non come flautiste, ovvero come cortigiane. Del resto gli argomenti di conversazione non dovevano essere sempre molto edificanti, per cui molti erano i padri severi che impedivano alle giovani figlie di partecipare ai banchetti, visti i turpiloqui che "fiorivano" spesso in questi ambienti. Quanto all'abbigliamento dei convitati, Petronio parla di abiti, i vestimena cubitoria, indossati appositamente in occasione delle cene, ed era un obbligo imprescindibile, prima che si cominciasse a mangiare, che gli schiavi provvedessero a lavare i piedi ai commensali, poiché essi indossavano calzature aperte, che si impolveravano facilmente. Gli ospiti, come avviene anche oggi, potevano portarsi qualcuno e costui era chiamato Umbra, e per lo più era un parassita, oppure un cliens. Oiginariamente il modo di mangiare era ben diverso: si viveva in capanne e si cucinava con un focolare rudimentale che permetteva di preparare un pasto frugale, il quale assicurava il sostentamento dei nuclei familiari che vi abitavano. Col passare del tempo arrivarono i mercanti Campani, Etruschi, Greci, e le usanze cambiarono, si diffusero i LETTI TRICLINARI, che furono importati proprio grazie all’afflusso di questi popoli.

    ALIMENTAZIONE E CUCINA.

    Diverse erano, presso le società primitive, la qualità e la quantità del cibo, a seconda dell'ambiente, di chi cacciava, coltivava, delle possibilità di scambi con i popoli vicini. A Roma, i gusti e le abitudini alimentari cambiarono col tempo e dunque non si mangiò sempre allo stesso modo. Nel periodo repubblicano, si viveva per lo più dei prodotti della terra e della pastorizia, e il cibo più importante era la polenta di farina di grano e farro con legumi,e si mangiavano ortaggi, quasi tutto l’anno. Questo costituì il pasto dei poveri anche quando, in seguito, i borghesi e i nobili potevano permettersi di mangiare cibi più raffinati e costosi. Dal II sec. a.C. l’alimentazione dei ceti più abbienti cambiò: si adoperarono, in abbondanza, spezie provenienti dall’Oriente, per insaporire, i cibi, salse e pesci. CATONE (234-149 a.C.) consigliava di preparare pasti semplici e genuini e nel De Agricoltura riportava ricette di cibi tradizionali come il Libum e lo Scribilita. ORAZIO mangiava con piacere cicorie e malva e, nella sua dieta, prediligeva cibi semplici e dai sapori genuini Ma sulla sobrietà finì col prevalere il fasto delle cene di Lucullo( cfr. Plutarco, Vita di Lucullo, 40-41), di Nasidieno ( cfr. Orazio, Satire, II, 8), o di Trimalcione ( cfr. Petronio, Satyricon). Molti scavi hanno portato alla luce mosaici, pitture e affreschi che descrivono ambienti e scene legate alla realtà quotidiana, ed in particolare sono frequenti le attestazioni legate alla sfera culinaria: la frutta ricorre soprattutto nelle nature morte, ma è possibile anche ritrovare affreschi che riproducono scorci ci cucine piene di utensili, oppure ricorrente è la rappresentazione di dolci, pollame e uova.

    COME ERA FATTA UNA CUCINA.

    La cucina era costituita solitamente da BANCONI IN MURATURA: adoperati come piani di lavoro e su di essi c’erano teglie, casseruole, griglie. Il FOCOLARE era il piano di cottura in muratura, realizzato con una fila di coppi all’esterno per evitare la caduta della cenere, la quale andava sotto il piano di cottura. I LAVELLI servivano per pulire le stoviglie: potevano essere bacinelle di legna o terracotta, oppure in muratura con apertura per far scolare l’acqua. Il FORNO era invece il luogo in cui si faceva cuocere il cibo più grosso e si potevano preparare anche pane e biscotti ( anche se di solito erano i fornai a preparare il pane).

    COME SI CUCINAVA?

    Innanzitutto si bruciava la legna e si preparava la brace, poi, stesa sul piano di cottura una parte di brace, la si copriva con della cenere per avere una temperatura più bassa. I cibi si potevano cuocere a temperature alte, direttamente sulla brace, oppure a temperature bassa, sulla cenere.

    PASTI NELLA GIORNATA.

    Tre erano i momenti in cui si mangiava in una giornata:

    1. IENTACULUM: era il pasto del mattino a base di pane condito con sale, uva secca, olive e formaggio

    2. PRANDIUM: si svolgeva alla sesta ora (mezzogiorno). Si mangiavano cibi caldi e pietanze fredde avanzate dal giorno prima.

    3. CENA: era il pasto principale della giornata, iniziava alle 15:00 o alle 16:00 del pomeriggio e si protraeva per molto. La Coena o Cena consisteva in un Antipasto(Gustus), che era solitamente a base di verdura ; nella cena vera e propria( Primae mensae ) ricca di piatti a base di carne e pesce; e nelle Secundae Mensae ovvero i nostri desserts, a base di frutta fresca, secca e dolci. Su tutto signoreggiava una bevanda sola, in mille vesti diverse: il vino. Esso si presentava nella veste di mulsum nell’antipasto: mosto ovvero vino e miele, per assumere sapori ricercati e nuovi nel prosieguo della cena: spesso veniva aromatizzato fino ad assumere sapori che sarebbero inconsueti per il nostro palato attuale.

    DOVE SI MANGIAVA?

    Nei tempi più antichi si desinava nell’atrio della casa, vicino al focolare, dove si veneravano i Lari. Perciò, quando una stanza della casa fu adibita a cucina, fu consacrata a queste divinità. In età imperiale il luogo deputato allo svolgimento dei banchetti: il triclinio aveva spesso al suo interno le statue dei Lari. Agli dei della casa si rivolgevano preghiere, e si facevano offerte di cibo e libagioni. Agli spiriti dei defunti si lasciavano gli avanzi e i cibi caduti a terra.

    SEZIONE BASILICATA

    In Basilicata solo dal VI sec. appaiono servizi di tipo greco, funzionali al rituale del banchetto, basato cioè sulla cottura delle carni e sull’uso del vino. Questo attesta il coinvolgimento dei gruppi dominanti nella diffusione della cultura ellenica. Si chiamano Kylikes e Skyphoi, queste prime attestazioni di materiale da banchetto, comprese molte grattugie trovate nella zona. · Presso le comunità della Basilicata si nota l’eredità del mondo greco anche nella poetica del Symposion, in cui si beveva tutti assieme attorno alla stessa tavola, si recitavano versi, si raccontavano motti di spirito, si discuteva. · Tra gli utensili più ricorrenti in questi incontri simposiali, ci saranno il Cratere: simbolo delle cerimonie simposiali, La Lucerna: per i simposi notturni, la Grattugia: perché insieme al vino si mangiava anche del formaggio. Il Cratere, in particolar modo, era spesso dipinto con scene mitologiche e afferenti soprattutto il culto di Dionisio. I servizi per bere si arricchirono col tempo, e si aggiunsero le brocche per versare: fiasche, barili, colini in bronzo e in ceramica.





    I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori, mantennero da principio a tavola abitudini frugali. La grande trasformazione della cucina arrivò con le prime conquiste, a partire dai contatti con la Magna Grecia, quando man mano centinaia di ingredienti e cibi sconosciuti arrivarono dai loro nuovi domini. All’inizio mangiavano soprattutto uova, latte e formaggi. Delle uova preferivano la chiara al tuorlo e le cucinavano come facciamo noi oggi alla coque, sode, al tegamino o strapazzate.
    L’uovo, simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre all’inizio dei pasti. Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento indispensabile era bevuto sia fresco che aromatizzato. Veniva impiegato per preparare zuppe finché non venne sostituito dal brodo di carne. Il latte con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci.
    Da esso si ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il burro era usato raramente, poiché non si conosceva la tecnica per conservarlo e veniva impiegato piuttosto come medicinale o unguento per il corpo.
    Lo yogurt esisteva ma non era paragonabile a quello odierno, visto che era fatto con latte, aceto e cipolla.

    La carne
    La carne venne introdotta con l'urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino mentre la migliore era considerata quella d’agnello o di capretto.
    La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d'asino selvatico e la selvaggina di grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra).
    Non veniva invece mangiata la carne di bue, sia perché questo veniva utilizzato nel lavoro dei campi, sia perché era ritenuto sacro. Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i romani cucinavano specie importate dalle varie regioni dell'impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, era considerato poco pregiato e lo mangiavano soprattutto i poveri.



    Il pesce

    Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l'orata, la triglia, la sogliola e il luccio. I frutti di mare, che da principio venivano mangiati durante il periodo della carestia, ben presto furono considerati un piatto prelibato. Più tardi il pesce, sia di fiume che di mare o allevato in grandi vivai, divenne per i romani un alimento essenziale, tanto che si contavano ben 150 specie conosciute. Molto richiesti erano aragoste, seppie, scampi, astici, polpi, datteri, rane, gamberi e soprattutto le ostriche di cui addirittura i benestanti possedevano allevamenti personali.

    Tra le verdure andavano per la maggiore radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, bulbi, porri, ma anche asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli. Per quanto riguarda i peccati di gola, i gusti degli antichi erano molto simili a quelli di oggi: i cibi più apprezzati erano tartufi, funghi, ostriche e aragoste ma anche asparagi, fichi e cibi speziati.

    Il pane
    Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di frumento. All'inizio il pane veniva fabbricato in casa, poi cuochi e artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di forni e mulini. La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi.
    Vi erano essenzialmente tre tipi di pane: quello nero o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi.
    Il pane veniva preparato anche con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe. Poiché era molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell'olio, nelle minestre o accompagnato dalle salse. Il grano con cui era fatto il pane aveva un'importanza primaria, tanto che vennero promulgate leggi che ne regolavano la corretta distribuzione e organizzati speciali servizi di approvvigionamento.
    Il grano veniva depositato in magazzini speciali e distribuito alla popolazione sotto forma di grano in chicchi o, più tardi, direttamente in pani già cotti. Da principio al posto del pane veniva usata la polenta che era preparata in un contenitore di terracotta dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni pezzi di carne o di pesce.
    Questo miscuglio che conteneva un'infinità di ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o scherzi pesanti).

    Il vino
    Il vino la bevanda più amata dei romani, concludeva tutte le cene e aveva un carattere sacro. Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto.
    I Romani conoscevano il vino rosso (chiamato nero) e il vino bianco, ma non quello secco. I vini erano pesanti, acidi o amari e venivano serviti in coppe molto larghe e quasi piatte. Spesso veniva miscelato con acqua calda o raffreddata con la neve per abbassarne la gradazione. Quasi mai limpido, per filtrarlo veniva usato un passino. Il vino più famoso? Il vinum mulsum, miscelato con il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto di bere vino puro.
    Molto apprezzati erano anche i vini pepati e aromatizzati: di soliti venivano aggiunte spezie come mirra, canna, giunco, cannella e zafferano. Il vino era conservato fino a 15 anni in anfore con tappi di sughero o argilla e sulle anfore usate per il trasporto era riportata su una targhetta l’origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già all'epoca esistevano casi di alterazione. I vini invecchiati (quelli cioè che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) considerati di gran pregio venivano ostentati dai ricchi nei loro banchetti.
    Il consumo di vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale soprattutto nelle zone di produzione e nelle grandi città. Il consumo medio in un anno era di 140 - 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali. Non mancavano i surrogati come la “lora”, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la “posca”, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Tra i poveri e i barbari era invece diffusa la birra.





    gronco al garum





    Ingredienti per 4 persone:

    un pezzo centrale di gronco (1 kg circa)
    3 cucchiai d'olio d'oliva
    2 cucchiai di farina
    una cipolla
    1 bicchiere di vino liquoroso
    1 cucchiaino di pepe
    una manciata di prezzemolo (o levistico)
    1 pizzico di cumino
    1 pizzico d'origano
    4 uova
    1 cucchiaino d'aceto
    1 cucchiaino di garum
    1/2 bicchiere di vino liquoroso
    Tempo di cottura: mezz'ora circa

    Fate scaldare l'olio in una padella e immergetevi il pezzo di gronco infarinato, che indorerete da tutte le parti. Nell'olio mettete anche, per insaporirlo, una cipolla tagliata in quattro. Quando il pesce è indorato, aggiungete il bicchiere di vino e rimestate; aggiungete poi, mescolando ogni volta, il pepe, il prezzemolo, il cumino, l'origano, i tuorli delle uova che avrete fatto sode, l'aceto, il garum e infine ancora altro vino. Servite ben caldo.
     
    Top
    .
  8. gheagabry
     
    .

    User deleted






    cos’era il garum? Una salsa di pesce macerato nel sale, alcuni dicono dall’odore nauseabondo, che i nostri progenitori includevano qua e là nelle loro preparazioni culinarie.
    Devo confessare che fin dalla prima volta che sentii parlare di questo strano condimento, sbrigativamente descritto come il maleolente risultato della macerazione di pesci e delle loro interiora, insaporite con erbe aromatiche, pensai quanto diverso fosse il gusto degli antichi dal nostro, e come a giusta ragione quelli avessero detto: de gustibus non disputandum est!!!
    Parlando del garum, la prima cosa che viene da chiedersi è perché i Romani avrebbero dovuto ritenere una costosa prelibatezza quella che pare essere una schifezza dal sapore e dall’odore sgradevolissimi? Il garum è quindi una questione innanzitutto per il suo uso: chi oggi sognerebbe, o solo consiglierebbe, come faceva Apicio nel suo ricettario, di mettere senza parsimonia quella salsa su quasi tutte le pietanze, dall’antipasto al dolce, su piatti di carne come di pesce, e sulle verdure? Questo uso frequentissimo e apparentemente indiscriminato che Apicio fa del condimento ha fatto ritenere alcuni che quello che egli chiama liquamen fosse solo una forma di sale semiliquido, ma i dati a nostra disposizione sembrano smentire una simile interpretazione, che avrebbe però il merito di rendere meno disgustoso ai nostri occhi l’uso di questo preparato.

    Garum o Liquamen?

    Si è accennato al fatto che il garum venisse anche chiamato liquamen (in effetti liquido, salsa, quindi garum come salsa per eccellenza). Plinio lo chiama garum, così come Petronio e Marziale. Garum è evidentemente la latinizzazione della parola greca γάρον, che a sua volta derivava il suo nome da quello del pesciolino da cui i Greci ricavavano la salsa in questione.
    E’ importante per questa questione rileggere il passo citato delle Geoponiche (libro XX, cap.46), nel quale viene accuratamente descritta la preparazione del garum: il capitolo inizia con le parole “Preparazione del garum: quello che è chiamato liquamen (ovviamente dai Romani!) si ottiene in questo modo...” La lettura di questa testimonianza non lascerebbe dubbi sulla perfetta identificazione del garum e del liquamen, se anche l’autore delle Geoponiche chiaramente spiega la doppia denominazione di ciò di cui subito dopo specificherà i modi di produzione, ovvero una salsa derivata dalla fermentazione nel sale di piccoli pesci!
    Da quanto detto finora, non sorgerebbe minimamente il dubbio che garum e liquamen non fossero sinonimi: se qualche dubbio potrebbe talvolta nascere è dovuto a chi sugli usi cilinari del garum ha scritto di più, ovvero il buongustaio Apicio. Come detto più volte, l’autore del De Re Coquinaria include la nostra salsa di pesce in tantissime ricette; e di questa salsa Apicio fa un uso definibile eccessivo, e talvolta persino disgustoso.
    L’uso del garum come insaporitore di piatti di pesce appare pienamente consono, ma ciò già diventa meno comprensibile (per un palato moderno, intendiamoci!) quando lo si comincia a mettere su piatti di carne o di verdure. Possiamo ipotizzare alcune ragioni di tale uso: la conservazione della carne nell’antichità fu un grosso problema, infatti questa veniva solitamente salata (soltanto la cacciagione veniva consumata fresca), e al momento di usarla la si faceva prima bollire in acqua o latte per dissalarla. Per camuffare po il cattivo sapore della carne, che talvolta veniva cucinata al limite della putrefazione, i piatti venivano abbondantemente conditi e speziati, e il garum credo potesse risultare un valente insaporitore.
    Ho talvolta potuto leggere che secondo alcuni il garum fosse usato come sostituto del sale. L’uso ipotizzato mi pare strano: solitamente sostituire vuol dire usare, magari per una qualche convenienza, un equivalente o un surrogato. Ma assolutamente esso non poteva essere un surrogato, in quanto se è vero che nell’antichità il sale fu costoso, sappiamo che il garum fu costosissimo, e in più aveva un’altra caratteristica che lo rendeva poco adatto per dare semplicemente sapidità a molti cibi: il forte sapore di pesce! Tale forte sapore che il garum dona ai cibi, anche se aggiunto in poche gocce, ci rende quasi impossibile credere che questo venisse usato solo semplicemente per salare una pietanza, ma aveva il preciso scopo di donare ai cibi, anche dolci, un sapore che i Romani sembra apprezzassero parecchio.
     
    Top
    .
  9. tappi
     
    .

    User deleted


    GRAZIE
     
    Top
    .
  10. ZIALAILA
     
    .

    User deleted


    UN RICCO MENU'




    image





    Ecco il menu consigliato da Orazio in Satira II, 4



    GUSTATIO image

    Uova bislunghe

    Cavolo cresciuto in campi asciutti

    Funghi prataioli

    Caviale con feccia di vino

    Sale nero

    Erbe di lapezio

    Pepe bianco


    I MENSAE image

    Gallina annacquata viva

    Dattero di mare

    Cinghiale dell'Umbria

    Spalle di lepre

    Granchi arrosto

    Lumache d'Africa

    Prosciuto e salcicce

    Ricci di Miseno



    II MENSAE image

    More nere

    Mele Piceno

    Uva venuncola o uva albana

    Mele con l'uva


    POTIO

    Mulsum


     
    Top
    .
  11.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline
    grazie antonella
     
    Top
    .
  12. tappi
     
    .

    User deleted


    GRAZIE ANTONELLA
     
    Top
    .
  13. ZIALAILA
     
    .

    User deleted






    SAPORI DELL'ANTICA ROMA


    image





    E’ sempre suggestivo portare in tavola ricette che risalgono ai tempi antichi: peccato che spesso il gusto dei nostri antenati non coincida esattamente con il nostro, e di conseguenza le ricette originali non riscuotono molto successo.
    Ecco alcune ricette dell’Antica Roma adattate al nostro gusto moderno
    ( dal libro di Patrick Faas " Intorno al tavolo romano: Cibo e banchetti nell’antica Roma " ) :



    image





    Columella Salad

    Gli scritti di Columella testimoniano che le insalate romane erano molto ricche e fantasiose: Mettere l’insalata nel mortaio con menta, ruta, coriandolo, prezzemolo, porro affettato, o, se non è disponibile, cipolla, foglie di lattuga e rucola, timo verde, o nepitella. Aggiungere mentuccia e formaggio salato fresco. Schiacciare il tutto. Mescolare con un po’ di aceto pepato. Mettere il composto in un piatto e aggiungere dell’olio. (Columella, Re Rustica, XII-lix) .

    Si tratta di una splendida insalata, insolita per la mancanza di sale e per il fatto che gli ingredienti vengono schiacciati nel mortaio. Si può seguire il metodo di Columella utilizzando però i seguenti ingredienti:

    100 g di menta fresca (e / o mentuccia)
    50 g di coriandolo fresco
    50 g di prezzemolo fresco
    1 porro piccolo
    un rametto di timo fresco
    200g di formaggio salato fresco
    aceto
    pepe
    olio d’oliva



    Lenticchie con coriandolo
    Bollire le lenticchie. Quando hanno espanso, aggiungere i porri e coriandolo verde, seme di coriandolo, mentuccia, radice di laser, semi di menta e semi di ruta. Bagnare con l’aceto, aggiungere il miele, garum, aceto, defrutum, aggiungere l’olio e mescolare. Legare con amulum, irrorare con l’olio verde e polverizzare con pepe. Servire. (Apicio, 192).

    Ingredienti:
    250 g di lenticchie
    2 litri d’acqua
    1 porro tagliato, lavato e tritato
    75g di coriandolo fresco
    5g di semi di coriandolo
    3g di pepe, più extra per la finitura del piatto
    3g di semi di menta
    3g di semi di ruta
    75g di mentuccia fresca, o menta
    10ml di garum (o pasta d’acciughe)
    10ml di aceto
    5ml di miele
    olio d’oliva

    Lavare le lenticchie e metterle in una pentola con 2 litri di acqua fredda. Portare a ebollizione, poi aggiungere il porro e la metà del coriandolo fresco. Macinare le spezie e le altre erbe, e aggiungere il garum*, l’aceto ed eventualmente il defrutum*. Lasciare cuocere finché le lenticchie sono quasi cotte. Controllare ogni tanto che l’acqua non sia evaporata. All’ultimo minuto aggiungere l’olio d’oliva, il pepe macinato al momento e il resto del coriandolo tritato.

    image



    Arrosto di tonno
    Sugo di tonno arrosto: pepe, levistico, menta, cipolla, un po’ di aceto e olio. (Apicio, 435)
    Per la vinaigrette:
    3 cucchiai di aceto forte
    2 cucchiai di garum, o aceto con pasta d’acciughe
    9 cucchiai di olio d’oliva
    4 scalogni tritati 

    1 cucchiaino di pepe 

    1 cucchiaino di semi di levistico 

    25g di menta fresca
    Mettere tutti gli ingredienti per la vinaigrette in un vaso e agitare bene per mescolarli.
    Lavare i filetti di tonno con olio, pepe e sale, poi grigliarli su un lato su una griglia calda. Girarli e spennellarli sul lato grigliato con la vinaigrette. Ripetere. La carne del tonno deve essere rosa dentro quindi non lasciare che cuocia troppo. Servire con la vinaigrette avanzata.

     
    Top
    .
  14.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    image
     
    Top
    .
  15.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline
    grazie antonella
     
    Top
    .
35 replies since 14/10/2010, 11:37   7064 views
  Share  
.