CUCINA NELLA STORIA.......curiosità

....oggetti, abitudini, credenze...del passato

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  1. gheagabry
     
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    CURIOSITA' DAL MEDIOEVO



    Tavoli, tovaglie e banchetti







    L'uso di arredi mobili, smontabili e ripiegabili si protrae almeno fino al XVIII secolo, anche il tavolo o desco ha questa caratteristica. È composto da cavalletti di sostegno - trespoli, trepiedi o trespodi - su cui venivano allineate dalle assi tenute insieme da alcune traverse fissate nella parte inferiore. I tavoli sono sempre ricoperti da grandi tovaglie, decorate che testimoniano lo status sociale del padrone di casa, non era importante abbellire il tavolo, che restava nascosto dalla tovaglia, tutt'al più alle gambe dei cavalletti si aggiungevano semplici decori.
    La fortuna dei tavoli a cavalletto durò a lungo complice la praticità e l'adattabilità al numero dei commensali: potevano essere sistemati in L, a U o in file parallele. Erano perfetti per feste e conviti che si svolgevano all'aperto e che, soprattutto prima del 1400, mettevano in scena davanti agli occhi affamati del popolo il rito del banchetto del Signore.
    Nelle pause tra una portata e l'altra i commensali erano intrattenuti da intermezzi animati, danze, recite, canzoni, pantomime, spettacoli circensi, spesso si sceglieva un tema, in genere mitologico oppure tratto dalla letteratura cortese a cui ispirare la successione degli intermezzi e delle portate.



    Le buone maniere nella tavola medioevale






    ….. e ricordati di pulirti la bocca prima di bere dal bicchiere.
    E questa una delle raccomandazioni che nel tardo 1200 un anziano signore da ad un giovane che vuole ben figurare nell'alta società dell'epoca. Consiglio che tutto oggi vale, e che ha passato indenne il corso dei secoli. Infatti già nel Medioevo vengono codificate una serie di regole di buona educazione a tavola.

    Si consideri che l'apparecchiatura della tavola consisteva in un tavolaccio su dei cavalletti, e due serie di tovaglie che ricoprono il piano.
    Per ogni commensale veniva posta una ciotola di ceramica o di legno stagionato dove era servita la zuppa o qualsiasi piatto a base di brodo. Un secondo e un piatto piano era messo sotto alla ciotola, e poteva essere sia di ceramica che di legno. In alcuni casi si utilizzavano dei piatti fatti di un pane speciale chiamati Mense ( da qui la nostra parola mensa!).
    Infine veniva messo a disposizione del commensale un cucchiaio e era cura dell'invitato portarsi un coltello.
    Ogni due persone era posto un boccale da cui sorbire le bevande.

    L'apparecchiatura,come si può notare ,era molto diversa da quella che attualmente definiamo come il minimo indispensabile per poter mangiare.
    Infatti la nostra preziosa forchetta nasce a Venezia nel tardo trecento mentre il coltello viene posto a fianco del commensale solo dal seicento in avanti.
    Infine il tovagliolo era già conosciuto, e utilizzato, ma era una chicca solo per i più ricchi.
    Con questo tipo di preparazione era necessario conoscere un minimo di buone maniere per non mettere in imbarazzo gli commensali.
    Di conseguenza nasce il così detto galateo dove le regole più importanti erano:
    Quando mangi non parlare con la bocca piena, ma mastica silenziosamente senza far vedere cosa hai in bocca.
    Pulisciti la bocca prima di bere, in modo tale da non mettere in imbarazzo il tuo vicino che si servirà della stessa coppa.
    Non nettarti le dita sulla giubba o sulla tovaglia, ma puliscitele sul tovagliolo e lavale nell'acquamanile.
    Non pulirti i denti con il coltello e non emettere nessun rumore sgradevole che possa indurre il tuo vicino ad avere schifo di te.
    Non prendere il boccone più grosso e non rovistare nelle parti già tagliate cercando la più prelibata.
    Si accorto a non sporcare ne' il tuo vestito ne quello dei commensali.
    Non stropicciare il tovagliolo e non fare dei nodi con lo stesso, ma usalo per pulirti la bocca e le mani.
    Questo galateo, che in gran parte si può applicare ai nostri tempi, ci ricorda che certi comportamenti a tavola erano sgraditi anche nel 1200.

    Le stesse regole di buona creanza vengono elencate nel Menanger de Paris scritto nel tardo 1300, dove un marito insegna alla giovane moglie a tenere decorosamente la casa, a cucinare e a preparare la tavola come si deve.

    Questa cura per le buone maniere delinea perciò che il medioevo non è un epoca dove sontuosi banchetti venivano preparati per gozzovigliare allegramente e per rimpinzarsi di carni e cacciagione senza un minimo di decoro, ma erano eventi ben codificati, dove il modo di presentarsi e comportarsi erano molto importanti tanto quanto era importante indossare un bel vestito.
     
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    Enrico VIII e gli sfarzosi convivi di corte





    Figlio di Enrico VII e Elisabetta di York, Enrico VIII oltre ad essere famoso quale promotore della Chiesa Anglicana (Act of Supremacy -1534), è noto per le sei mogli. Salì al trono all’età di 18 anni, nel 1509. Uomo colto, di una certa intraprendenza e inarrestabile appetito…
    A tavola i ghiribizzi di Enrico VIII si traducevano in richieste imprevedibili alla copiosa schiera di maestri dei fuochi e scalchi che attorniavano la sua mensa. A corte amava stupire i suoi ospiti con portate mirabolanti. Pasticci e terrine di carne avvolte di morbida pasta che nascondevano sorprese meravigliose: fiori, frutta, piume colorate, salse che celavano gioielli e monili.
    Da buon patrizio rinascimentale prediligeva la carne di volatile e vitella, la selvaggina piumata (specie i fagiani), i tacchini importati dall’America e cotti arrosto dopo essere stati bardati con fette di lardo, gli ortaggi e la frutta fresca. Manzo e maiale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non erano considerate carni di qualità, quindi più adatte alla gente di ceto umile.
    Pasteggiava nelle sua stanze in compagnia della regina infilzando i bocconi con posate eleganti. Tuttavia, Enrico VIII, con il passare degli anni, diventò un inguaribile gourmand (ingordo) e ingrassò parecchio. La tavola, abbellita di argenterie, fiori e frutta, tracimava di ogni ghiottoneria. In particolare, non mancavano le primizie (frutti e verdure che maturano agli inizi delle stagioni e perciò considerati cibo regale). Ogni pietanza prima di esser adagiata sulla tavola era “testata” da una persona di fiducia, l’assaggiatore personale del re.
    Alcune abitudini alimentari ai nostri giorni appaiono strane, irrazionali. Il pesce di acqua dolce, ad esempio, era considerato un lusso, assai più di quello di mare che veniva a dir poco snobbato. Tutti i piatti venivano cotti con esigue percentuali di grassi liquidi. I più utilizzati erano il lardo, il sego di montone, la cotenna di porco trita; raramente l’olio di oliva che nel rinascimento iniziò nuovamente ad esser adoperato dopo il forte declino medievale. Le melodie di musici e suonatori deliziavano i lauti pasti di corte, non quelli abitudinari, bensì i banchetti importanti e le feste.
    Le coppe non erano mai scevre di vino, anche se l’Inghilterra non eccelleva nella produzione enologica, appresa dai conquistatori romani. Nelle top list del tempo primeggiavano i vini francesi di Provenza e quelli italiani, specie quelli di Toscana, come il Nobile di Montepulciano, la Malvasia e la Vernaccia di San Gimignano.
     
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    Emanuele Filiberto I e la cioccolata





    Emanuele Filiberto I fu capitano generale dell’esercito spagnolo, e trasferì da Chambery a Torino la capitale del suo ducato.
    Secondo una tesi, questo Savoia potrebbe essere stato il primo a far conoscere in Italia la cioccolata.
    Infatti, a metà Cinquecento egli avrebbe ricevuto del cacao dall'imperatore Carlo V , come dono per la vittoria di San Quintino sui francesi.
    Poi i matrimoni dei Savoia con le Infante di Spagna e le principesse francesi, che portavano al loro seguito cuochi, pasticceri e cortigiani, fecero di Torino una delle capitali europee della lavorazione del cioccolato.
    Nel 1678 la bevanda degli dei divenne di uso pubblico, quando Antonio Arri ebbe il “grazioso” permesso reale di: "vendere pubblicamente la cioccolata in bevanda per anni sei prossimi dalla data della presente".
    Ma torniamo a parlare di Emanuele Filiberto I, questa la descrizione che ne fece un cronista:
    “Dormiva non più di sei ore sulle ventiquattro, dividendo l'orario della giornata in modo da non stare in ozio neppure un'ora e non sentiva né sole, né caldo, né freddo.
    Cavaliere ardito ed elegante, poteva giocare, quattro e sei ore alla palla o al pallamaglio, sotto al sole senza sudare per gran fatica che facesse. Poteva cacciare il cervo per cinquanta e più miglia e darsi poi a spaccar la legna e giocar ancora al quadrello, per poi ripigliar fresco fresco il cammino”.
    La sua mensa sobria nei cibi, era apparecchiata splendidamente con ricchi lini e prezioso vasellame proveniente da tutta Europa.
    In un suo celebre editto ordinò che:
    "nelli convitti o banchetti, nelli piatti no se gli ha da mettere più di un capone per piatto, tre pernici oppure tre pollastri o piccioni, secondo la stagione".
     
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    A cena con i penitenti lungo la Via Francigena


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    A partire dell’Alto Medioevo cominciò ad aumentare il numero di pellegrini desiderosi di visitare i luoghi santi. Le mete erano Roma, Gerusalemme e Santiago di Compostela. I penitenti muniti di pochi cenci e sparute vettovaglie affrontavano camminate stremanti, talvolta rischiose. Tuttavia, lungo la marcia, l’ospitalità non mancava, e trovare in qualche monastero (o baracca) una scodella di zuppa era evento abbastanza comune…
    Nel racconto seguente dove elementi attendibili gareggiano con altri immaginari – si fa riferimento all’itinerario saggiato da Sigerico – arcivescovo di Canterbury (950 – 994 c.a.). Egli documentò con dovizia il suo gravoso tragitto (990 c.a.). Ancor oggi, quando si accenna alla Via Francigena, si ricorda il cammino affrontato dal prelato inglese. La Francigena entrava in Italia attraverso il Gran San Bernardo, oltrepassava la Pianura Padana, poi l'Appennino attraverso la Cisa. Più a sud, seguiva il litorale tirrenico lungo l’antica Aurelia per poi rientrare all'interno, in Toscana. Oltre, sulla via Cassia, costeggiava il lago di Bolsena, quindi Viterbo e finalmente Roma. La Via rappresentava un raggruppamento di arterie medievali di importanza strategica e persino commerciale.
    Con un quid di fantasia immaginiamo una confraternita di pellegrini in procinto di partire da Roma, dopo aver trascorso settimane intere a pregare e mondarsi così dei loro peccati terreni. La loro meta è Reims (Francia). Una marcia lunga, tra insidie e spauracchi di ogni genere. La storia, dove personaggi e fatti sono del tutto casuali, è ambientata approssimativamente nel X decimo secolo d.C. Partiti dall’Urbs Aeterna gli erranti dopo giorni di cammino si trovano nell’Appennino emiliano scendendo a valle lungo le sponde tortuose del fiume Taro. A breve dovrebbe delinearsi la grande pianura. L’obiettivo è quello di guadare il Po. Lo sfinimento si fa sentire, come la fame del resto. Da giorni si nutrono in modo frugale con il poco che serbano ancora, e ciò che la Natura magnanima offre: pane secco, frutta del sottobosco, bacche e acqua di torrente. L’ultimo pasto accettabile risale a qualche settimana addietro presso un’Abbazia Benedettina. I monaci, osservatori della Regola di Benedetto da Norcia, hanno offerto in abbondanza pane fresco, vino dolce e una zuppa calda di radici (radices), borragine e pezzi di lardo. Nei pressi di Berceto i pellegrini intravedono una stamberga e chiedono asilo per la notte. Nella capanna vivono dei contadini che seppur in umili condizioni riescono a fornire un ristoro caldo. La cena – servita al crepuscolo – comprende una razione di carne salata tagliata a pezzi, pesce di fiume bollito con acqua, finocchio, erbe selvatiche (herbes) e aglio, castagne lesse e pane abbrustolito da intingere nel sugo di pesce. Si cena con le mani usando povere coppe di legno per bene l’acqua o il vino. Questo vitto seppur morigerato consente agli stremati camminatori di rifocillarsi e riprendere le forze.
    A questo punto della cronaca è doveroso esternare una puntualizzazione sul pane. Da sottolineare che pur facendo parte della dieta, non era così importante come nel Basso Medioevo dove invece era considerato un alimento completo (companatico) ideale da intingere nel vino. Di solito, come prassi, il pane veniva impastato e poi cotto ogni dieci - quindici giorni o comunque in relazione al bisogno della famiglia o comunità. Genericamente l’ospitalità nei confronti dei viandanti era sentita, e durante il convivio i padroni di “casa” chiedevano agli ospiti ogni sorta di informazione relativa alla loro esperienza. Oppure notizie di eventi o novità di rilievo. Una specie di radio-giornale del tempo! La sveglia il mattino seguente avviene al canto del gallo. Il sole non è ancora alto. I pavidi pellegrini, dopo una veloce merenda a base di frutta, formaggio, acqua e vino, riprendono la marcia verso il Po. In verità, non sappiamo se riuscirono a oltrepassare le acque del grande fiume. Né se terminarono il loro viaggio. È saggio che questo breve racconto sfoci in un’atmosfera di incertezza. Tuttavia la storia e gli eventi di quel tempo rimangono affascinanti, come ogni impresa tracciata dall’uomo, seppur umili pellegrini che, con fede e tenacia, vinsero fatica pericoli immortalando una della pagine più significative del Medioevo.


    Stefano Buso
     
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    TAVOLA E TEMPO





    La cultura gastronomica delle grandi civiltà del bacino Mediterraneo (specie quella greca e romana) ha dato vita, per la prima volta nella storia, ad un complesso ed articolato utilizzo di alimenti base attraverso manipolazioni e cotture: questo enorme patrimonio sarà la base della cucina attraverso i secoli per giungere fino ai nostri tempi. Tracce persistenti sono riscontrabili tutt'ora nelle cucine regionali.

    DAL 1200
    Si affina la cucina dei conventi e delle corti raggiungendo l'apice nella gastronomia medioevale.
    E' una cucina ricca di ingredienti ma di semplice esecuzione, seppure arricchita da un uso massiccio e sapiente di spezie.

    DAL 1400
    Si sviluppa fino al 1600 la cucina rinascimentale particolarmente scenica e ricca nell'arredo e nelle vivande.
    La cucina esprime la magnificenza dei sovrani e diviene la rappresentazione del loro ruolo sociale. Per la prima volta nella storia è fondamentale l'estetica dei piatti atti a stupire e celebrare la grandezza del casato. Un esempio significativo: il pavone veniva cucinato poi rivestito delle sue piume e faceva il suo ingresso in tavola emettendo fiamme e fumo dal becco. Architetti e scenografi studiavano e realizzavano " marchingegni" per ottenere effetti speciali durante i banchetti.
    I gusti si affinano in una cucina armoniosa di sapori: la scoperta delle Americhe e l'arrivo dei nuovi prodotti darà una svolta notevole al gusto alimentare:

    DAL 1600
    L'influenza francese si espande.
    Così come la cultura e le arti, anche la cucina assorbe e si arricchisce di questa influenza per affermarsi definitivamente in Europa e divenire così un passaggio fondamentale nella storia del gusto e della cultura gastronomica.
    Attorno alla cucina francese si sviluppò un mondo di raffinatezze sullo stare a tavola, sul come ricevere: insomma quel "savoir vivre" tipicamente francese.
    Fu intorno alla "grande Cusine" che si è creata l'organizzazione alberghiera delle grandi brigate di cucina.

    DAL 1800
    La cucina borghese (definita poi cucina casalinga) proviene, a differenza dalla cucina classica, da quella privata.
    Si occupa principalmente delle specialità locali e regionali che spesso scaturiscono dalle condizioni climatiche. Una cucina ricca di tradizione, sostanziosa, spesso grassa, oggi rivisitata e modificata secondo le moderne concezioni tecniche e cognizioni alimentari.
    La cucina classica si basa su preparazioni della cucina francese e di quella internazionale. La denominazione dei piatti corrisponde alla sua composizione: Rossini....Bellini:::

    DAL 1900
    La cucina contemporanea considera i piatti della cucina borghese e classica.
    Adotta nuovi criteri (dieta mediterranea) e sostituisce prodotti troppo sostanziosi con alimenti più consoni al nostro tipo di vita per una sana e corretta alimentazione.
    Si promuove una cucina leggera, i metodi di cottura tendono a salvaguardare il contenuto vitaminico dei prodotti e si fanno molte ricerche sulla conservazione corretta degli alimenti.
    Un discorso a parte merita la cosiddetta "Nouvelle cuisine" nata in Francia da alcuni tra i più prestigiosi chef (Boucuse Girardet ed altri).
    Ognuno propugna una propria cucina ma una cosa li accomuna tutti. la freschezza dei prodotti, l'ottima qualità, la riscoperta della semplicità e della bellezza. Ancora li accomuna l'uso di tecniche di cottura naturali che rendono i cibi inalterati nella struttura, riproponendoli nella loro fragranza di sapori e colori.





    dal web


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    LA TAVOLA NELL'ANTICA ROMA DI APICIO



    Nella Roma dei primi secoli il romano spesso si cucinava il cibo da solo.
    Con l’andare del tempo, nell’epoca repubblicana anche il modesto cittadino aveva a disposizione due o tre schiavi che si occupavano di preparargli il cibo quando questi possedeva una cucina adatta a cucinare.
    Nei casi più sfortunati gli schiavi, quando non potevano cucinare, correvano a fare gli acquisti di cibi già preparati, a procurarsi l’acqua calda, a chiedere ai vicini in prestito pentole e vasellame o ingredienti vari.
    Non così però la cucina dei ceti più elevati: i banchetti infatti costituivano non solo l’occasione ideale d’incontro, ma davano anche la possibilità al padrone di casa di rendere manifesta a tutti, attraverso il lusso delle portate, la propria posizione sociale e garantirsi una buona fama in quanto a banchetti e senso dell’ospitalità.

    Alimenti e abitudini gastronomiche

    I gusti erano certamente differenti dai nostri, prediligevano cibi e accostamenti di sapori che oggi non trovano riscontro nelle nostre ricette.
    La cucina romana si diletta a preparare piatti dal sapore agrodolce, associando per esempio funghi (di cui sono ghiotti) e miele, o l’arrosto con pesche.
    Il nutrimento essenziale era rappresentato dalla polenta di frumento, puls, dai legumi come fave e lenticchie, da ortaggi, e dal farro che poteva essere cotto sia in grani interi, sia macinato, assumendo l’aspetto di ciò che noi chiamiamo farina (da far, farro). La polenta cotta nella pentola di terracotta veniva arricchita con fave, cavoli, cipolle, formaggio e talvolta pezzetti di carne o pesce; tutto per renderla più saporita fino ad arrivare ad una tale miscuglio di ingredienti chiamato satura o satira (da cui l’utilizzo moderno di queste due parole saturazione e satira in senso di battute di vario genere) che portava in breve tempo alla sazietà. Con l’arrivo del pane la polenta vide diminuire la sua importanza.Di pane ne esistevano tre qualità:
    panis niger, (pane nero) pane dei poveri fatto di farine setacciate
    panis secundarius, più bianco setacciato più volte
    panis candidus, bianco di farina finissima era il pane dei ricchi

    Il grano con cui era fatto arrivò ad avere una tale importanza che i Romani promulgarono delle leggi che regolavano la corretta distribuzione e conservazione.
    Il pane all’inizio non era lievitato (come i ricorda Apicio). Il lievito fu introdotto in età cristiana.Altro cibo assai diffuso era il pesce sia di fiume e di mare che allevato nei vivai.
    I pesci utilizzati in cucina erano di circa 150 varietà: orate, triglie, sogliole, dentici, aragoste, polpi, datteri, gamberi ....ostriche per la mensa dei ricchi. Di minor costo e pregio i pesci dei poveri, di solito conservati in salamoia.

    Anche se il pesce era più frequente non mancavano però le carni come quella di bue, di maiale, di cinghiale, di ghiro: grande leccornia per le tavole dei ricchi tanto da essere allevato nelle ghiraie per poi essere cucinato disossato e farcito.
    Veniva consumata anche la carne di tordi, di piccioni, di cicogne, gru pavone e fagiano. I modi di cucinarla erano tantissimi ma essendo carni assai dure venivano cotte fino allo sfaldamento.
    Nelle tavole dei ricchi i piatti di carne o di pesce erano serviti con tantissime salse che venivano preparate nei modi più fantasiosi e presentate in stupende sculture a sfondo mitologico. Famosi sono i piatti serviti nell’epica cena di Trimalchione, descritta da Petronio nel Satiricon e rievocata secoli dopo da Macrobio.Per quel che riguarda gli ortaggi erano molto usati la lattuga, il carciofo, il cavolo, la fava; consumavano molta frutta che coltivavano in gran quantità e poi veniva essiccata, in special modo il fico di cui erano ghiotti. La frutta veniva utilizzata, insieme al miele, anche come contorno alla carne proprio per quella loro predilezione per il sapore dolce-salato

    Occorre tener presente che anche a Roma, come in tutte le società, i gusti e le abitudini alimentari cambiarono col tempo.
    Nel periodo repubblicano si viveva per lo più dei prodotti della terra e della pastorizia e il cibo più importante era la farina di grano e di farro con legumi. Si mangiavano ortaggi quasi tutto l’anno: naturalmente i borghesi e i nobili potevano permettersi i cibi più raffinati e costosi.
    Nel II secolo a.c. l’alimentazione dei ceti più abbienti cambiò. Si adoperarono in abbondanza spezie provenienti dall’oriente per insaporire e conservare. Catone consigliava di preparare piatti semplici e genuini legati alla tradizione. Nel suo trattato "De Agricoltura" richiamava i Romani al mos maiorum e si scagliava contro le mode gastronomiche e lo stile di vita ellenico.
    Orazio mangiava con piacere cicoria e malva e prediligeva cibi semplici e sani accompagnati da buon vino. Ma sulla sobrietà finì poi col prevalere il fasto delle cene di Locullo o di Trimalchione.

    I Pasti

    Nei tempi antichi si desinava nell’atrio della casa, vicino al focolare, dove si veneravano i Lari. Perciò quando una stanza della casa fu adibita a cucina fu consacrata a questa divinità.
    In età imperiale il luogo deputato allo svolgimento dei banchetti era il triclinio ed al suo interno vi erano spesso le statue dei Lari. Agli Dei della casa si rivolgevano preghiere e si facevano offerte di cibo, agli spiriti dei defunti si lasciavano gli avanzi e i cibi caduti a terra.La cucina era costituita da banconi in muratura adoperati come piani di lavoro e su di essi c’erano teglie, pentole griglie. Il focolare era il piano di cottura, realizzato con una fila di coppi all’esterno per evitare la caduta della cenere, la quale andava sotto il piano di cottura del focolare. I lavelli servivano per pulire le stoviglie: potevano essere bacinelle di legna, terracotta o in muratura con un foro per scolare l’acqua. Il forno era il luogo in cui si faceva cuocere il cibo più grosso e vi si cuocevano pure i biscotti o (raramente) il pane.Tre erano i pasti consumati giornalmente.
    Quando, al canto del gallo, l’uomo romano si destava dal sonno, consumava un pasto modesto, sbocconcellando qualche avanzo della sera che i convitati erano autorizzati a portarsi via in fagottino. Era questo il momento della colazione del mattino ientaculum in cui si mangiava pane condito con sale, uva secca, olive ,formaggio.
    A metà giornata si svolgeva il prandium, all’ora sesta (mezzogiorno). Un pasto frugale, a volte consumato in piedi, spesso fuori casa nelle taverne.
    La cena era invece il momento in cui il pasto si faceva più elaborato.
    Cominciava verso le ore pomeridiane (15.30/16:00), dopo che ci si era recati alle terme per ristorare le membra dalle fatiche della giornata. L’orario in cui si terminava era sempre lo stesso, ragion per cui prima si iniziava a banchettare, più si “straviziava”.
    La coena o cena iniziava con un antipasto (gustus) che era solitamente a base di verdura, e la prima portata (primae mensae) era ricca di piatti a base di pesce e carne. I dolci (secundae mensae) concludevano con frutta fresca, secca e dolci.
    Su tutto signoreggiava il vino nelle sue mille vesti.
    Si presentava nelle veste di mulsum nell’antipasto (mosto, ovvero vino e miele), per assumere sapori ricercati e nuovi nel prosieguo della cena (merum) vino caldo, puro o allungato con acqua. Spesso venivano aromatizzati fino ad assumere sapori che sarebbero per noi assai inconsueti.

    Le donne non erano ammesse nel triclinio se non come flautiste, ovvero cortigiane.

    In quanto all’abbigliamento dei convitati Petronio parla di “vestimenta cubitoria” indossati appositamente in occasione delle cene. Ed era obbligo imprescindibile, prima che si cominciasse a mangiare, che gli schiavi provvedessero a lavare i piedi ai commensali, poiché essi indossavano calzature aperte e avrebbero dovuto mangiare stesi sul triclinio.

    Il cibo, prima di essere servito, veniva suddiviso in piccole porzioni (pulmenta) da uno schiavo (scissor) per evitare che gli ospiti si sporcassero. Ma anche perchè per mangiare usavano una sola mano visto che con l’altra si appoggiavano al cuscino del triclinio.
    Poco usato l’uso del coltello mentre era necessario il cucchiaio (colcher) per sorbire i cibi liquidi.
    L’uso della tovaglia si affermò solo nel I secolo d.c., mentre il tovagliolo (mappa) era fornito dall’ospite o portato da casa dal commensale che alla fine della cena vi avvolgeva gli avanzi da portar via.



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    La cucina nel Medioevo











    Nel Medioevo l'alimentazione dei più nobili era ricca di selvaggina condita spesso con spezie molto costose poichè provenivano dall' Oriente. L'alimentazione dei contadini era più povera e comprendeva alimenti che potevano sostituire la carne, come i legumi.
    Con i miglioramenti dell'agricoltura i contadini si nutrirono prevalentemente di cereali; ma le paste alimentari furono prodotte solo a partire dal XIII sec. I contadini mangiavano una zuppa a metà mattina, del pane (cotto ogni 15 giorni in pesanti pagnotte), del formaggio e castagne bollite durante il giorno, la sera - quando tornavano dai campi - mangiavano di nuovo la zuppa o altri cibi molto poveri. Anche per i ricchi, il pane restava comunque l'alimento principale ma lo volevano bianco, di frumento. Un decreto imperiale dell'884 stabilisce il limite di ciò che può requisire un Vescovo ad ogni tappa delle sue visite pastorali con tutto il seguito, in una regione agricola: 50 pani, 50 uova, 10 polli e 5 porcellini.
    Per fare il pane, i poveri mescolavano farine di vari cereali e, se occorreva, anche di legumi, come si faceva fin dai tempi antichi e come consigliava Dio nella Bibbia quando il profeta Ezechiele ricette il comando: "prendi del frumento, dell'orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio e della veccia e fanne del pane". Nei tempi di grande carestia, poi, si cercava di fare il pane con qualsiasi cosa, persino con la paglia e le cortecce macinate, e si ricorreva al cibo dei maiali: le ghiande. Il vino era bevuto sia dai nobili che dai monaci ma i poveri inizialmente erano esclusi da questo "privilegio". Mangiare molto e carne era considerato segno di ricchezza e di potenza. I monaci anche se provenivano da famiglie ricche erano soliti mangiare poco in segno di penitenza; essi però alternavano alle zuppe e verdure del pesce.
    Nel Medioevo si amavano profumi e sapori che per noi non sono usuali, come quello delle rose, e gli accostamenti un po' particolari come agro-dolce, dolce-salato, dolce-piccante ecc., forse anche per le tante spezie usate (sempre dai piu` ricchi, pero). Ancora a proposito di ricchi, ricordiamo che i primi libri "ufficiali" di ricette risalgono al 1300, ma si trattava per lo piu` di preparazioni riservate solo a chi se le poteva permettere, richiedendo spesso ingredienti molto costosi.



    A tavola la sedia del signore era la piu elevata, gli altri erano seduti su sgabelli. Si usavano vassoi d' argento e coppe d' oro, arrivavano in tavola interi cinghialetti arrostiti, frittate di centinaia di uova, enormi brocche di vino, fruttiere ricolme. In pieno Medioevo apparve uno strumento nuovo che impiegò molto tempo a conquistare le tavole di tutto il continente. Pier Damiani scrisse che durante un matrimonio tra nobili, la sposa si fece portare un "bidente d'oro" e mangiò la carne con quello, invece di usare le dita come dettavano le buone usanze. Era la prima forchetta, ma soltanto a due denti. Per molto tempo, però, fu usata soltanto dalle dame più nobili poichè per gli uomini era un segno di debolezza. Per pulirsi le mani c'erano diversi metodi, a seconda della raffinatezza, dell'ambiente e dell'epoca: si potevano strofinare con noncuranza sul mantello dei cani che girovagavano numerosi attendendo gli ossi, o si potevano lavare delicatamente con acqua di rose, o tergere su tovaglie di lino, che certo uscivano malconce dallo schizzare dei sughi. Dimenticare di offrire l'acqua di rose era considerato un'offesa, come del resto rifiutarla. C'era tutta una serie di regole da seguire, nei banchetti, tra cui "non sputare sul desco, tenere le unghie sempre "nette e piacenti", e infine - dopo essersi soffiati il naso - pulirsi le dita non sulla tovaglia ma nella propria veste. Sempre per pulirsi le mani, c'era anche un'altra soluzione, molto diffusa e graditissima ai poveri: si mangiava su... tovaglie di pane, cioè sopra uno strato di pasta sottile, rettangolare, una specie di "pizza", sulla quale ogni convitato tagliava la carne, lasciava colare il sugo, pulendosi poi le mani con un po' di mollica intatta; quel che restava di queste "tovaglie" veniva dato ai poveri che aspettavano alla porta.



    Per tutto il Medioevo sulle mense dei pratesi il pane aveva il primo posto; al pane si accompagnava un alquanto ridotto seguito di companatici, il che contribuiva ad accrescere ulteriormente l'importanza del principale alimento. La nostra civiltà ha attribuito al pane il ruolo di principale garante della sopravvivenza, di provvidenziale scudo contro la fame.
    I "buoni uomini" dei Ceppi elargivano farina e pane ai pratesi indigenti, per prima cosa garantivano ai beneficiati qualche giorno di minor preoccupazione: era così che si assicurava la tranquillità in occasione delle ricorrenze e negli altri frangenti in cui la fame di molti poteva rappresentare una fonte di grave turbamento. In questo Medioevo, quando si parla di carestia si deve intendere carestia di cereali: di tutto il resto si poteva anche fare a meno. Ma torniamo per ora al quotidiano; accanto al pane gli altri alimenti consueti per l'uomo comune sono gli ortaggi (prodotti spesso nell'orticello di proprietà, situato accanto all'abitazione o subito fuori le mura di Prato, piccoli fazzoletti di terra dai quali comunque si cavavano insalate, cavoli, zucche, legumi, agli, cipolle, porri e qualche frutto), il formaggio, le uova ed anche la carne, piatto non certo quotidiano per tutti ma neanche agognata rarità per buona parte della popolazione.
    Per ciascun cittadino di Prato, tra il 1321 e il 1322 c'era una disponibilità annua di carne di 19,7 chilogrammi. La classifica per genere della carne più consumata vede al primo posto l'ovo caprina, e in particolare quella di castrone, seguita a poca distanza da quella suina (in realtà è probabile che le sopravanzasse, se si tiene conto che l'allevamento del porco per l'autoconsumo domestico - sfuggente alla gabella - era pratica diffusa) e poi da quella bovina. La classifica del pregio poneva ovviamente al primo posto la vitella, e poi il castrone, l'arista, e quindi la carne di bue adulto. Al tempo della grande fiera di settembre, si consumava carne di ovini adulti e di vitelli, dicembre e gennaio erano caratterizzati da un notevole afflusso sul mercato di carne suina e anche bovina. "A cagione che gli è di quaresima ti scriverò pocho e di rado" faceva sapere al marito Margherita Datini "ch'i'ò pocho ciervelo fuori di quaresima, perciò abimi per ischusareta"; e ancora "mi sono morta di fame in questa quaresima e il medicho dice che io òne più male di debolezze che d'altro". A questa temporanea austerità dettata dall'osservanza religiosa e all'altra ben più triste imposta ogni giorno dalle ristrettezze economiche, pratesi ricchi e poveri cercavano di ovviare con un notevole consumo di vino; diffuso in tutti gli strati della popolazione esso costituiva "il modo di procurarsi calorie ad un prezzo spesso più conveniente rispetto ad altri generi" particolarmente per i meno abbienti. I quali si accontentavano del vino locale, di bassa gradazione e bevuto spesso annacquato. Abbastanza rinomata era invece la campagna pratese per la produzione di frutta (fichi, prugne, noci, pere e mele, ciliege, pesche, poponi e cocomeri): anch'essa doveva avere un'importanza rilevante nell'alimentazione del tempo.Cibi dei ricchi e cibi dei poveri si differenziavano insomma in maniera notevole, non solo per quantità ma anche per qualità e per elaborazione, e l'arco della differenza dovette tendere a divenire più ampio nel corso del tardo Medioevo; pasti da "lavoratori": di pane, di vino, carne (presumibilmente "salata") era composto il desinare consueto di un maestro muratore e dei suoi manovali; insalata, cipolle e cacio costituivano il pasto offerto ai battitori del grano; cavolo e aringhe fece preparare Lapo Mazzei per due uomini venuti da Firenze a compiere certi lavori nel suo podere di Grignano. Che i "lavoratori" dovessero starsene per conto loro e mangiare non piu` del "giusto" si vede anche da questa storiella: pare che Luca del Sere si fosse scandalizzato quando seppe che Margherita Datini, vedova, aveva ospitato alla sua stessa tavola i pittori che affrescavano la sua casa con le storie di Francesco: ciò non era " nè bene nè onesto", e per quanto riguardava i loro pasti "e' non ànno a stare a noze nè a morir di fame: abino del pane e vino quello che bisognia loro, l'altre chose sechondo chome vi pare", come se fosse ovvio non avessero diritto a pretendere alcunchè di più. Come nel resto del mondo medievale, anche a Prato - dunque - a una ristretta categoria di ricchi molto ben nutriti, si contrappone la massa della gente che consumava soprattutto cibi vegetali (pane, ortaggi, zuppe) e poca carne di bassa qualita`, pur spendendo buona parte del suo poco denaro proprio per il cibo: "sbirciare" i banchetti dei potenti faceva nascere i sogni nelle menti del popolo e l'acquolina nelle loro bocche...



    Restrizioni nella caccia, riserve venatorie, protezione di alcune specie, esistevano anche nel Medioevo e dimostrano fino a che punto gli uomini riuscissero a minacciare l'equilibrio ambientale. Queste restrizioni riguardavano solo i paesi densamente abitati con vaste coltivazioni come L'Inghilterra, mentre nei paesi come la Spagna e nell' Europa orientale non esistevano. Nell' Europa settentrionale, oltre alle zone coltivate, si trovavano molte foreste ampie che costituivano una fonte di risorse quasi inesauribile, prima fra tutte la legna. Anche i contadini sfruttavano le risorse della foresta raccogliendo bacche, miele, erbe, da cui estraevano sostanze chimiche a loro utili (ad esempio per conciare le pelli o fabbricare il sapone). La foresta era anche piena di animali veloci che venivano cacciati come selvaggina più o meno pregiata, d'altronde l' approvvigionamento di carne era ottenuto soprattutto dalla caccia. A poco a poco le grandi riserve incominciarono pero` a impoverirsi. La diminuzione della selvaggina indusse all' allevamento di animali da macello e a fissare prezzi per licenze di caccia. Così la caccia si trasformò progressivamente in uno sport per pochi riservato a quanti potevano affrontarne le spese, quindi cessò di rappresentare il naturale sistema di procurarsi il cibo da parte degli abitanti delle campagne.

    Anche la pesca era molto importante per la popolazione medioevale: in particolare nei mari settentrionali la pesca e la preparazione di altri pesci salati e affumicati costituivano un ottimo guadagno per pescatori e commercianti. Spingendosi verso nord i marinai cacciavano pesci di grande taglia (balene, capodogli e trichechi) per la loro pelle, il loro grasso, le loro zanne. Sulla terra ferma si pescava in fiumi e vivai appositamente realizzati. Il pesce è sempre stato una sorpresa perchè, anche se le città facevano molti sforzi per organizzare il mercato, la pesca restava pur sempre incerta, la freschezza precaria e i trasporti difficili. Alla chiusura del mercato del Venerdì, i poveri recuperavano i pesci invenduti che gli venivano lanciati dai proprietari dei banchi che per legge glielo dovevano dare per evitare che al prossimo mercato potesse essere rivenduto il pesce avanzato al mercato precedente. Probabilmente in campagna (quelle lontane dalla riva del mare) non si conosceva il pesce di acqua salata. Dunque il pesce, benche` sinonimo di penitenza, era anche gola, perché l'incertezza di poterselo procurare rinfocolava il desiderio di averlo.



    La differenza fra giorni quotidiani e festivi era molto grande soprattuto dal punto di vista alimentare (e soprattutto nelle case dei ricchi): nei giorni festivi gli acquisti aumentavano in modo sproporzionato: si comprava molta più carne, soprattutto pregiata (vitello, capretto, pollame, capponi). Gli uomini piu` agiati cominciavano ad andare a caccia gia` molti giorni prima; entrano nelle cucine dei signori molti prodotti: uova, farina, formaggi, spezie, indispensabili per la preparazione di alcune ricette. Per alcune feste religiose il consumo era ritualizzato: lasagne a Natale, farro a Carnevale, uova e formaggio per Ascensione, oca per Ognissanti, agnello a Pasqua; questa lista fu proposta da Simone Prudenziali, poeta orvietano di fine 200.



    Una delle testimonianze più interessanti dell' epoca medievale è rappresentata dagli " erbari ". Qesti codici, riccamente miniati, raffiguravano le varie erbe e le piante allora conosciute, elencandone anche i vantaggi che se ne potevano trarre per la salute. Citiamo dal Tacuinum Sanitatis alcuni dei consigli terapeutici:


    Frumento: indicato per guarire le ulcere.
    Segale: indicato come calmante e sedativo.
    Uovo: nutre, depura e ingrassa.
    Miglio: per coloro che desiderano rinfrescarsi.
    Bietole: il loro succo toglie la forfora.
    Zucche: mitigano la sete e fanno bene ai collerici.
    Cocomeri e cetrioli: abbassano la febbre.
    Finocchio: giova alla vista.

    Cosa erano e a che cosa servivano le spezie che l'occidente importava dall'oriente a carissimo prezzo? Le spezie (o droghe) sono in realtà bacche, gemme o semi di piante. Le più conosciute sono: cannella, noce moscata, zénzero, zafferano, cumino, ... Oltre a rendere più stuzzicanti i cibi contribuivano a conservarli meglio. Ma non solo, le spezie erano anche gli essenziali componenti di molte medicine: con il ginepro, il cumino e l'anice ci si facevano liquori, tonici ed elisir. Il pepe era invece un ottimo disinfettante intestinale. Esse erano fonte di grandi guadagni per i mercanti perchè erano poco ingombranti, perciò costava poco caricarne e trasportarne qualche migliaio di chili ed i compratori erano disposti a pagarle care. Le spezie tennero il primo posto nel commercio sul Mediterraneo fino al XVII secolo. Anche il sale era usato nella cucina e nelle farmacie. Oggi è un prodotto comune e poco costoso, ma nel medioevo era molto raro e caro, tanto che i governi ne tassavano spietatamente il consumo. Venezia si arricchì con le spezie ed il sale fino dall'alto medioevo, quando la principale attività dei veneziani era lo sfruttamento delle saline e il sale era usato come moneta e come mezzo di scambio.

    Il sale esaltava il sapore degli alimenti e permetteva di conservare la carne ed il pesce essiccandoli. Era inoltre considerato un ottimo disinfettante, un ricostituente del sangue energetico e corroborante, una sostanza capace di rassodare pelle e muscoli. Ed era utilizzato nella concia delle pelli.

    Il valore del sale era legato anche ad antiche tradizioni magiche e religiose, tanto che il carattere sacro e magico del sale è all'origine di molte credenze popolari vive ancora oggi, come quella di considerare un segno di sventura spargere e sprecare il sale.

     
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    Storia della cucina






    La primitiva forma di cucina fu la semplice cottura del cibo, praticata fin dai tempi dell'uomo di Neandertal, già mezzo milione di anni fa: essa poteva rendere commestibili numerosi alimenti altrimenti indigeribili accrescendone il valore nutritivo (anche se di questo, quasi certamente, l'uomo neandertaliano non era consapevole).

    Dapprima, quindi, si arrostì la carne sulla fiamma viva, poi sulla brace (che garantiva una cottura più uniforme e una minore perdita di peso degli alimenti), infine si scoprì la cottura in buche, dove la carne e le radici, avvolte in foglie, subivano una specie di cottura a vapore.

    I cibi lessati in pietre concave, grosse conchiglie e stomaci di animali sono molto più recenti; i recipienti di ceramica furono introdotti non prima del VI millennio a.C. Le polente di cereali tostati e macinati grossolanamente, il pane non lievitato e i primi stufati di cereali e carne risalgono al Neolitico inferiore.[senza fonte]

    Nel corso di questa età si scoprì anche il fenomeno della fermentazione, che permetterà sia la produzione di pane lievitato (originario dell'Egitto) che quella delle bevande alcoliche (la birra, originaria della Mesopotamia, il vino e l'idromele).

    Se gli archivi sumerici e babilonesi consentono di farci un quadro di massima dell'alimentazione delle popolazioni mesopotamiche, non molto sappiamo, invece, dei loro gusti e delle loro tecniche di cucina. È nota la loro avversione per la carne suina (condivisa dagli Egizi) e la loro predilezione per la carne ovina: l'una e l'altra saranno ereditate dagli Ebrei e dagli Arabi. Una varietà di pecora di cui, a detta di Erodoto, andavano particolarmente ghiotte era quella «dalla coda grassa», un'appendice, pregiatissima, che poteva toccare i cinque chilogrammi di peso.

    La lievitazione del pane fu scoperta in Egitto. Anche se si continuò a lungo a far uso di pane azimo, le caste superiori potevano scegliere fra un quarantina di tipi di pane lievitato e di dolci a base di uova, latte e miele. Erodoto ci informa che le medesime caste prediligevano i volatili (anatre, piccioni, quaglie, coturnici, gazze).

    Gli uccelli più piccoli, oltre che stufati, si gustavano crudi in salamoia. I canali e le paludi del Nilo erano ricchi di anguille, carpe, muggini e pesci persici, che si consumavano anche salati ed essiccati.

    La cucina greca è sufficientemente documentata. Le carni preferite erano quelle del maiale, della lepre e degli uccelli. La selvaggina da pelo veniva prima lessata, poi arrostita allo spiedo e infine accompagnata da salse «dolci e grasse». Erano molto apprezzati anche le frattaglie e i sanguinacci (ne era attribuita la creazione al cuoco Aftonita).

    Si faceva largo consumo di pesce: fritto, arrostito sulla brace, cotto al forno e in zuppa; Archestrato di Gela (IV secolo a.C.) ha tramandato succinte ricette di piatti di pesce: triglie condite con olio, formaggio e cumino, saraghi all'aceto e cacio, anguille cotte in foglia di bietola. La considerazione in cui era tenuta in Grecia l'arte della cucina è testimoniata dai numerosi nomi di cuochi che ci sono giunti: Egi di Rodi per le fritture di pesce, Nereo di Chio per le minestre, Eutimio per le lenticchie, Lampria per il suo celebrato ragù nero, eccetera.

    In contrasto con la frugale e rudimentale cucina dell'età repubblicana, la cucina romana dell'età imperiale mostrò una singolare e quasi morbosa attrazione per il raro, l'esotico e lo stravagante: l'imperatore Vitellio (narra Svetonio) arrivò a spendere 25.000 scudi per un piatto a base di fegati di scaro, lattigini di murena, cervella di fagiano e di pavone e lingue di fenicottero.

    Quand'anche si trascurino tali eccessi, su cui pure le testimonianze abbondano, l'impressione che si trae dal De re coquinaria, la raccolta di ricette attribuita ad Apicio, e dalle altre fonti storiche e letterarie, è quella di una cucina votata all'esuberanza e all'artificio. Manzo e agnello, maiale e cinghiale, cervo e lepre, tonno e sgombro, uova e lenticchie sono trattati tutti allo stesso modo: sommersi di miele, mosto, vino speziato e aceto; imbottiti di esuberanti miscele di spezie ed erbe odorose; sopraffatti, infine, dal garum (o liquamen), l'onnipresente e violenta salsa di pesce fermentato.

    L'arte del cuoco sta proprio nel contraffare e nel travestire gli alimenti: nel «cavare un pesce da una vulva, un piccione da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto e una gallina da un culatello» come scrive Petronio Arbitro nel Satyricon.

    Tra la cucina medievale e quella romana, grazie anche alla mediazione di Bisanzio, erede gastronomica di Roma, le affinità appaiono più forti delle differenze. Queste ultime dipesero soprattutto da un impoverimento delle tecniche di cottura: la cottura al forno e quella a fuoco moderato furono abbandonate; sopravvisse la cottura sulla fiamma viva: allo spiedo o in marmitta.

    La dieta e la cucina delle élites, sia a nord che a sud delle Alpi, furono prevalentemente ed elettivamente carnee. Non si abbandonò l'uso di lessare le carni prima di arrostirle e di subissare i cibi di spezie orientali, erbe odorose, miele, garum (importato verosimilmente da Bisanzio) e altre salse.

    Alla fine del XIII secolo la cucina raggiunse il livello tecnico dell'età romana, riscoprendo la cottura al forno (in genere quello da pane) e gli umidi. Gli anonimi ricettari trecenteschi italiani e quelli francesi coevi (primo fra tutti il Viandier di Taillevent) documentano una cucina che, pur non rinunciando al primato delle carni, alle cotture multiple, al gusto dolce-salato e dolce-forte e alle miscele di erbe e spezie, valorizzò le verdure, accolse preparazioni di probabile origine popolare (minestre, torte senza sfoglia, frittelle, eccetera), fece uso di salse non ingombranti e, più in generale, optò per una relativa linearità e sobrietà.

    Gli ambienti umanistici sposeranno questa tendenza e la sosterranno con motivazioni dietetiche, mediche ed etiche (si vedano il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como e, soprattutto, il fortunatissimo De honesta voluptate del suo dotto allievo Bartolomeo Platina).

    In età rinascimentale si tornò a una cucina radicalmente artificiosa e dissimulatoria, consacrata all'occultamento programmatico dei sapori naturali. Assoggettati (se carni) a frollature interminabili e a cotture ripetute, intrisi di agresto e acqua di rose, rimpinzati di spezie, zuccherati senza risparmio, ricoperti di salse complicate e invadenti, sottoposti, infine, a complicate operazioni di chirurgia plastica (le «montature»), tutti i cibi finirono per assomigliarsi; tutti furono ricondotti a viva forza a un modello unico: a una sorta di idea platonica.

    Avviata nella Francia dell'epoca dei Lumi nei primi decenni del Settecento e fiancheggiata da un vivace dibattito scientifico e filosofico, la riforma della cucina produsse, nel giro di un cinquantennio scarso, l'estinzione della civiltà gastronomica dell'antico regime e la nascita della cuisine moderne (o nouvelle cuisine, o cucina borghese). Ciò che si verificò fu un mutamento radicale non tanto della dieta e delle tecniche di cottura, quanto più propriamente del gusto: la cucina delle carni, delle spezie, dei sapori forti, ibridi e artificiosi fu spazzata via da una cucina che scoprì gli alimenti freschi;"...la zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, quella di cipolla deve sapere di cipolla..." le verdure, le erbe aromatiche, i confini netti dei sapori, le salse delicate.

    Cambiò, conseguentemente, anche la struttura del pranzo: il «servizio alla francese», erede dei servizi rinascimentali, che prevedeva la presentazione di tutti piatti contemporaneamente, fu soppiantato dal «servizio alla russa», in cui i piatti vengono portati uno dopo l'altro, secondo un preciso ordine gerarchico.








    La cucina Rinascimentale











    Sulla tavola rinascimentale c'erano cose preziose e di vario genere. Per quanto riguarda la bontà delle pietanze era superiore rispetto a quella del passato, dato anche dalla varietà dei cibi.

    I banchetti venivano rallegrati da danze, musiche, giochi e sulla tavola imbandita sontuosamente, abbondavano i "plattigi"( piatti) di tortellini in brodo, ravioli e lasagne.

    Grandi quantità di carne di maiale e , soprattutto di selvaggina, oltre che animale da cortile ( pavoni, faggiani, lepri, colombacce e piccioni) venivano servite dagli ufficiali della mensa.

    Le carni venivano insaporite con abbondanti spezie( coriandolo, pepe, zenzero, chiodi di garofano..). Sulle tavole rinascimentali , quelle dei grandi signori, spesso faceva sfoggio un grande "pavone" con tutte le penne e la coda a ventaglio oppure un grosso " cinghiale" che nascondeva sotto la pelle ogni sorta di selvaggina sapientemente preparata dai cuochi.

    I menù erano molto ben articolati comprendevano:
    - " un primo servizio di
    credenza " gli attuali antipasti, che arrivavano fino a 16 pietanze (es. Biscotti e vino rosso passito delle colline umbre, Crostini di purea di fichi secchi e noci) - " servizio di cucina" i primi comprendenti dalle 10 alle 12 pietanze ( es. Lombrichetti umbri al sugo di fegatini e faraona, Nastroni con sugo salvagiume..) - "terzo servizio di credenza" i secondi( es. Plattigio di oca arrosto farcita con prugne e contorno di insalatina campagnola) - " ultimo servizio di credenza" il dolce e la frutta ( es. Composta si frutta fresca e sorbetto di agrumi ).

    Il banchetto veniva organizzato dallo "scalco" che aveva il compito di presentare i cibi ai commensali prima del pranzo. Accanto a questa figura c'era quella del "trinciante "la persona addetta al taglio delle carni, arte ambitissima a quei tempi.




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    utensili e pentolame rinascimentale






    I "coppieri" erano gli addetti alla mescita del vino e dell'acqua, oltre ai " valletti" addetti al servizio della tavola. Il loro compito era non solo quello di presentare le singole pietanze ai commensali, ma anche di porgere l'acqua profumata ai convitati, prima del pranzo, in bacini e caraffe d'argento.

    I valletti sfoggiavano sfarzosi costumi soprattutto nelle grandi cerimonie ( es. elezioni di Papi, feste di famiglie aristocratiche , e cosi via..). Sulla tavola rinascimentale si faceva grande sfoggio di eleganza di disegni e di piegatura.

    Accanto alle " salviette" venivano posti mazzetti di fiori, che d'inverno erano di seta, inoltre, vi erano posate d' argento, forchette, coppe, bicchieri di vetro di Murano, saliere di argento e " stecchi" di avorio.

    La tavola era addobbata con tovaglie di lino o di altri tessuti finemente ricamati, oggetti d'argento e d'oro.



    Alcune ricette tipiche:



    "Crostini di pane con fichi e secchi e formaggio fresco"
    "Bocconcini di cinghiale"
    "Lepre con insalatina campagnola"
    "Fagiano in ciantelloni"



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48 replies since 14/10/2010, 01:07   8606 views
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