OLIO

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    L'OLIO D'OLIVA



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    L'olio d’oliva è un condimento liquido, ricavato dalla spremitura dei frutti dell'ulivo (Olea europaea): esso è di colore verde intenso ed ha un sapore variabile a seconda della qualità delle olive con cui viene prodotto. L'olio d’oliva po' essere utilizzato anche per produrre sapone o in cosmetica e anticamente per alimentare lampade ad olio o come medicinale.
    Il maggior produttore mondiale di olio di oliva è la Spagna (un milione di tonnellate l'anno), seguita dall'Italia (Puglia, Calabria, Sicilia) e dalla Grecia.


    L'olio di oliva si sviluppò ampiamente a Roma nel periodo di massimo splendore della sua civiltà, così che già intorno al 100 a.C., le olive divennero un prodotto di fondamentale rilevanza sul piano agricolo. Per ottenere l'olio d’oliva, le olive venivano spremute in contenitori di pietra e pestate con bastoni robusti.

    In questo periodo il commercio di olio d'oliva iniziò a diffondersi a tal punto che i commercianti di “oro verde” iniziarono a riunirsi in collegi di importatori; essi si ritrovavano nell' “arca olearia” per trattare e discutere, inoltre, per vendere l'olio di oliva, bisognava avere una licenza specifica.
    Gli insegnamenti che i romani ricavarono dalle loro esperienze, furono accuratamente narrati da autori come Plinio e Columella che svelarono i segreti dei coltivatori romani: scrissero su quali fossero le varietà di ulivi migliori, spiegarono tecniche di potatura, di raccolta di frangitura.

    In quest'epoca, l'olio di oliva era diviso in cinque categorie diverse:

    - "Ex albis ulivis", ottenuto da olive verdi, era ritenuto il migliore;
    - "Viride”, ottenuto da olive colte tardi, che stanno annerendo;
    - "Maturum”, un olio ricavato da olive mature;
    - "Caducum", per cui venivano utilizzate olive raccolte dal terreno;
    - "Cibarium", fatto con gli scarti di olive, spesso bacate, destinato agli schiavi.

    L' “oleaster” (com'era chiamato l'olio a Roma) era però difficile da conservarsi, poiché poco raffinato e poco trattato: a quei tempi, si preferiva avere in casa le olive, così, in caso di necessità, sarebbe stato possibile farlo al momento; in alternativa, per mantenere l'olio fresco più a lungo, era necessario salarlo.

    L'olio era comunque un condimento raffinato e non meno costoso: Giulio Cesare impose al suo popolo di consegnargli ogni anno parecchi litri d'olio, come tributo. Inoltre, coloro che si dedicavano alla coltivazione di questo frutto, erano dispensati dalla leva militare, sebbene a Roma le imprese belliche non fossero affatto rare.
    Nel III secolo Roma conobbe un lungo periodo di crisi che interruppe la coltivazione di olive: da allora (fino ai giorni nostri) l'Italia iniziò ad acquistare l'olio dagli Spagnoli o dagli Africani, mentre prima ne era la principale produttrice. Nel corso del Medioevo gli ulivi vennero coltivati molto in Toscana e nelle altre città della penisola, dove la borghesia commerciale acquistò rilevanza.
    All'olio erano però preferiti condimenti di origine animale, come lo strutto, il lardo e la sugna, perché più comuni e meno costosi.
    Intorno al '700 la coltivazione di olive si diffuse notevolmente: l'olio era necessario non tanto come condimento, quanto per alimentare le lampade ad olio e dare energia all'industria fiorente. Si svilupparono quindi oliveti in Umbria, Toscana, Liguria e Puglia: fu una fortuna che durò poco però, infatti, verso la metà del secolo, malattie e condizioni climatiche avverse distrussero gli ulivi che vennero abbattuti e utilizzati come legna da ardere. Fino al secolo scorso, la produzione di olive venne interrotta: fu ripresa solo nel corso degli anni '30, quando vennero emanate numerose leggi a favore dell'olivicoltura; subito dopo però, nella seconda metà dal '900, la cucina italiana iniziò ad essere considerata rozza e povera, svalutando così anche condimenti come l'olio e preferendone altri, tipici dei Paesi nordici e oltreoceano: burro, margarina, sugna.
    Ma negli anni '80 arrivò la svolta: venne rivalutato non solo l'olio di oliva, ma tutta la cucina italiana, con i suoi sapori semplici e genuini.

    ■ Varieta'


    L'olio di oliva può essere distinto in quattro categorie, a seconda di quanto acido oleico libero contiene:

    - olio extravergine, ne contiene fino all'1% (l'UE ha anche stabilito che la denominazione extra-vergine, potrà essere data solo agli oli che subiscono trattamenti diversi dal lavaggio, la sedimentazione e la filtrazione);
    - olio vergine sopraffino, ne contiene fino al 1,5%;
    - olio vergine fino, ne contiene tra l'1,5% e il 3%;
    - olio vergine, ne contiene più del 3%.

    Sia l'olio extravergine di oliva che quello vergine, sono ottenuti attraverso la spremitura meccanica e vengono lavorati a una temperatura bassa. Invece l'olio di oliva ad alta acidità o con altri difetti è detto lampadate.

    ■ Al momento dell'acquisto


    L'etichetta dell'olio di oliva deve informare l'acquirente sul luogo di provenienza delle olive e deve specificare in quale frantoio è stato estratto l'olio.
    Per capire se un olio è ben conservato, basta osservare il suo colore: con il passare del tempo infatti l'olio perde la pigmentazione, diventando di una trasparenza e di una brillantezza innaturale; anche il profumo, se l'olio è vecchio, si fa più duro e acidulo, diventando sgradevole.
    Al momento dell'acquisto, controllate anche che la bottiglia sia ben sigillata e che il vetro sia integro.

    ■ Conservazione


    Una volta estratto, l'olio di oliva è torbido; dopo qualche tempo tenderà a chiarificarsi in modo naturale, decantando.
    Inizialmente l’olio viene posto in contenitori metallici ad una temperatura che si aggira intorno ai 20°C; trascorsa una settimana, il fondo viene separato dal resto dell'olio, il quale viene sottoposto ad un processo di filtrazione: questo chiarificherà ulteriormente l'olio, rendendolo anche più brillante. Ciò causerà però anche la perdita di alcuni nutrienti importanti, come i fofìatidi.

    Una volta lavorato, l'olio può essere conservato in bottiglie di vetro sigillate, lattine a banda stagnata o cartone plastificato; in questo modo l'olio potrà essere conservato fino ad un anno, dopo perderà sapore e proprietà nutritive: se però lo si conserva bene, con il tappo ben sigillato, potrà invecchiare due anni, grazie agli antiossidanti che contiene. È però necessario che la bottiglia venga tenuta lontana da fonti di luce e di calore; una volta aperta, l'olio andrà consumato il prima possibile, e tenuto preferibilmente in contenitori non di metallo che non lo proteggerebbero da agenti ossidanti.

    ■ Uso in cucina


    L'olio viene utilizzato in cucina a crudo per condire insalate, per insaporire alimenti anche già cotti o per conservare le verdure. Per le cotture, l'olio di oliva è utilizzato per soffriggere e per cuocere carne, pesce o verdure. L'olio ha un elevato punto di fumo, che lo rende idoneo anche alle fritture.
    Nella frittura però può essere pericoloso se utilizzato in modo errato : la frittura è infatti un'operazione che richiede qualche accorgimento, come ad esempio la temperatura dell'olio, che deve essere caldo ma non deve superare il livello di fumo, poiché vorrebbe dire che l'olio sta bruciando. Quindi, è meglio non avere fretta e mantenere la fiamma media.

    Le fritture sono spesso causa anche di ipertensione, soprattutto se l'olio viene riutilizzato più volte (come spesso accade in ristoranti e fast food). In questo ultimo caso, l'olio aumenta le sostanze nocive che contiene, che si legano ai cibi e poi vengono ingerite.

    L'olio di oliva oltre che condire, muta il sapore del cibo, infatti questo alimento va abbinato ai cibi che condisce, come ha studiato il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna : per la bresaola ad esempio, sembra sia più adatto un olio amaro e piccante, di intensità media, mentre la patata lessata si abbina meglio ad un olio un poco fruttato, di piccantezza e amarezza media. Il sapore della mozzarella viene invece esaltata con un olio dall'aroma erbaceo.


    L'olio di oliva è una delle migliori fonti lipidiche: è formato principalmente da trigliceridi (grassi alimentari); come grassi saturi, è composto per il 73% da acido oleico, per il 9% da acido linoleico e per lo 0,3% da acido linolenico (sostanza contenuta in grandi quantità anche nel latte materno).
    L'olio è ricco anche di grassi polinsaturi, detti essenziali poiché il nostro corpo non ne produce ed è quindi necessario assumerli attraverso l'alimentazione.
    L'olio di oliva è indicato per le diete di sportivi, anziani, infanti, ipertesi e diabetici. Infatti la tradizione popolare, ma anche la scienza, assicurano che l'olio di oliva ha un ruolo fondamentale nello sviluppo di un bambino, è un buon antidoto contro l'invecchiamento, previene malattie cardiovascolari e neoplasie. Infatti studi antropologici hanno dimostrato che i popoli che utilizzavano grassi saturi, erano colpiti più frequentemente da malattie coronarie ed avevano il colesterolo molto alto. Invece nell'olio di oliva sono contenuti oltre ai grassi polinsaturi, soprattutto i grassi monosaturi che influiscono meno nelle malattie cardiache.

    L’olio di oliva invece di aumentare il colesterolo cattivo, incrementa l'HDL, cioè quello buono. Sembra sia in grado anche di prevenire l'osteoporosi, poiché ha una composizione simile a quella del latte materno: assunto in età avanzata favorisce quindi l'assimilazione di calcio e minerali, rafforzando così le ossa ed i denti.
    Gli antiossidanti che contiene, come le vitamine A, D, E, e K , bloccano i radicali liberi, risultando così utili all'organismo per prevenire tumori. L'olio di oliva è quello più digeribile tra i suoi simili: infatti gli oli di semi, burro e margarina sono più difficili da assorbire per l'organismo.
    Non c'è da dimenticare però che l'abuso dell'olio risulterebbe nocivo al nostro corpo: le virtù dell'olio di oliva finora descritte si hanno consumando la dose consigliata dai nutrizionisti, cioè non più di uno o due cucchiai al giorno. Ha un apporto calorico molto elevato: per 100 grammi di olio, si hanno 900 Kcal.

    ■ Curiosita'


    Gli Egizi ringraziavano Iside, dea della maternità, per aver donato loro le olive; i Greci attribuivano ad Atena, dea della sapienza, il merito di aver piantato il primo ulivo, mentre ad inventare l'olio sarebbe stato Aristeo, figlio di Apollo.
    L'olio era anche utilizzato come cosmetico nell'antichità: a testimonianza di ciò, nell'Odissea, Atena dona a Zeus una fiala di olio, che gli avrebbe ridato vigore e bellezza.
    Il primo pasto dei Greci detto “acrotinos”, era costituito da pane e olio, intinti nel vino.
    In Toscana, soprattutto in Maremma, fino alla metà degli anno '90 (quando furono introdotti i pesticidi) era tradizione fare, subito dopo Pasqua, la “processione dei bruchi”: un prete guidava gli abitanti tra gli oliveti, benedicendone le piante e pregando. Il clima era festoso, carico di energia; l'obiettivo era quello di allontanare i bruchi, che si nutrono dei fiori delle olive, distruggendo così il raccolto.

    La sansa è l'avanzo che resta dalla spremitura delle olive; è composto dai noccioli, da bucce e parti di polpa. È formato da olio solo per il 5-6%, per il resto è composto da acqua (20-30%) e residui solidi tra cui i noccioli (30%). La sansa viene lavorata nei sanseifici, dove subisce dapprima un processo di essiccazione, poi l viene “disoleata” e poi venduta come combustibile.




    Edited by gheagabry1 - 1/9/2019, 13:56
     
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    L'OLIO DI SEMI






    L’ olio vegetale è un condimento liquido, tendente al trasparente, di colore ambrato, con un odore lievemente grasso. Viene chiamato anche olio di semi, poiché il più delle volte viene ottenuto dalla spremitura di diversi semi: girasole, arachidi, mais, senape, zucca, carcamo, senape, soia.


    L'olio di semi arrivò tardi nel nostro continente, ma era già ampiamente diffuso da secoli in America: in Brasile, già dall'800 a.C., i popoli peruviani producevano l'olio spremendo i semi di arachide. Queste piante furono poi importate dagli Spagnoli in Europa: oggi l'India, la Cina e gli USA sono i maggior produttori mondiali di arachidi.

    Invece l'olio di mais risale al 3000 a.C., ai tempi dei Maya, e fu introdotto in Europa da Cristoforo Colombo. Il suo inserimento nella nostra cucina fu però molto lento; il mais era chiamato granturco, ad indicare le sue origini esotiche.

    L'olio di soia è invece originaria dell'Asia, dove costituisce la base alimentare da 5000 anni, e fu importato in Europa intorno al 1700.
    Gli oli tropicali invece provengono dalla Polinesia, furono scoperti da spagnoli e portoghesi e successivamente esportati e coltivati intorno al '500.

    ■ Varieta'

    Ecco le principali varietà di oli di semi:

    - Olio di semi di arachide, ottenuto dai semi della pianta dell'Arachis hypogaea. Adatto a friggere perché ha un livello di fumo alto e mantiene bene le alte temperatura;
    - olio di semi di girasole, estratto dai semi della pianta del girasole (Helianthus annuus); tipico dell'Europa dell'Est, si è ora diffusa anche nel resto del vecchio continente. è difficile da conservare: andrebbe, una volta aperto, conservato in frigorifero in confezioni opache. Poco indicato per friggere: vi sono varietà di olio di girasole geneticamente modificate che resistono maggiormente alle alte temperature, che viene utilizzato per friggere (diffuso molto negli USA).
    - olio di semi di soia, estratto dai semi della soia gialla; prodotto in America, ma anche in Italia (..); ricco di acido linoleico.
    - olio di semi di mais, è l'olio di semi che meglio sopporta la frittura: raggiunge il livello di fumo solo intorno ai 170°C.
    - olio di semi vari, ottenuto dalla spremitura di diversi semi (arachide, mais, girasole); la sua qualità è generalmente scarsa.
    - oli tropicali, ad esempio l'olio di cocco e quello di palma. Poco diffusi in commercio, vengono molto utilizzati però dalle industrie perché economici e in grado di conservarsi a lungo; vengono molto utilizzati anche per le fritture nei ristoranti al posto degli altri oli vegetali, tutti molto ricchi di grassi monoinsaturi e polinsaturi.
    Questi oli tropicali sono ricchissimi in grassi saturi, caratteristica peculiare dei grassi di origine animale, e sono più dannosi per il corpo, poichè aumentano il colesterolo e si accumulano nelle arterie, causando problemi cardiovascolari;

    ■ Al momento dell'acquisto


    L'olio di semi migliore in commercio è quello “naturale”, ottenuto cioè da spremiture a freddo. Esso però è molto costoso, più di un buon oliva">olio di oliva extravergine: se l'olio di semi è ottenuto dalla spremitura a freddo, mantiene intatti vitamine A, B, D ed E, sali minerali, lecitine che vengono invece perse se l'olio è lavorato chimicamente.

    In commercio si possono trovare anche oli particolari, come:

    - l'olio di vinaccioli, molto aromatico, perfetto per condire formaggi freschi;
    - l'olio di noci, dal gusto deciso;
    - l'olio di avocado, usato per condire pesce crudo e granchio;
    - l’olio di mandorle, utilizzato come cosmetico o lassativo, ma ottimo anche per condire lattughe o cavoli.

    ■ Conservazione


    Per esere prodotto, l'olio viene dapprima estratto dai semi, tramite solventi o operazioni meccaniche, successivamente viene sottoposto a un processo di rettificazione; l'olio di semi può poi essere conservato in confezioni di latta, di vetro (ben sigillate), di cartone plastificato.
    Evitate di esporre la confezione dell'olio di semi sotto i raggi solari: per prevenire questo problema infatti, il suo involucro è spesso scuro, opaco. Alcuni oli di semi sono molto delicati e andrebbero conservati in frigorifero una volta aperti.

    ■ Uso in cucina


    L'olio di semi è più adatto ad essere consumato crudo, dato che a temperature elevate subisce trasformazioni chimiche che liberano sostanze nocive: la sensazione di leggerezza che dà l'olio di semi alle fritture è solo apparente, poiché in realtà è molto più difficile da assorbire dal nostro organismo rispetto a una frittura fatta con l'olio di oliva.
    Nonostante ciò, è spesso utilizzato per le fritture, poiché è più economico. L’olio di semi è indicato per condire carni, insalate, pesce lesso, ed è indispensabile per la realizzazione di molte salse, una per tutte, la maionese.


    A differenza dell'olio di oliva, l'olio di semi è composto principalmente da acidi polinsaturi.
    Gli oli vegetali sono ricchi di nutrienti essenziali, indispensabili per la nostra dieta: contengono infatti molte vitamine, soprattutto l'olio di girasole che contiene una percentuale elevata di vitamina E; questo nel caso in cui non vengano trattati chimicamente e che non siano raffinati.
    L'olio di semi potrebbe essere sostituito a quello di oliva nelle diete ipocaloriche, poiché l'olio di semi contiene pochi acidi linoleici, necessari all'organismo, mentre l'olio di oliva ne contiene in maggior quantità.

    Ogni olio di semi, ha poi caratteristiche particolari, ad esempio:

    - l'olio di girasole è una fonte rilevante di calcio, potassio, di grassi polisaturi e vitamine;
    - l'olio di soia ha contiene oligoelementi, lecitine e vitamine A ed E (un antiossidante naturale, previene malattie cardiovascolari);
    - l'olio di arachide contiene, a differenza degli altri oli di semi, molti grassi acidi monoinsaturi e meno polinsaturi.

    L'olio di semi contiene 900 kcal per 100g di prodotto.

     
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  4. gheagabry
     
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    Olio dei Romani e suo splendore






    All'apogeo della civiltà romana l'olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell'agricoltura. Per spremere le olive erano utilizzati dei contenitori di pietra, sui quali i frutti deposti venivano pestati con mazze, bastoni o appositi utensili.
    I "negotiatores oleari", riuniti in collegi di importatori, erano i soli commercianti abilitati a trattare l'"oro verde" Le contrattazioni delle partite avvenivano nella "arca olearia", una vera e propria borsa specializzata.
    Gli autori latini che trattano l'agricoltura sono prodighi di consigli su come produrre l'olio. Nulla è lascito al caso: dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura. Plinio e Columella, per citare solo alcune fonti, censiscono dieci varietà diverse di olivi, e l'olio viene classificato in cinque categorie:
    -"Ex albis ulivis" l'olio più pregiato ottenuto da olive verde chiaro;
    -"Viride" generato da frutti che stanno annerendosi;
    -"Maturum" frutto di olive mature;
    -"Caducum" prodotto da frutti raccolti per terra;
    -"Cibarium" spremuto da olive bacate e destinato agli schiavi.
    Erano particolarmente rinomati l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
    Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
    Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
    In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
    Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico. Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
    L'olio di qualità era costoso: Plinio ricorda che il cavolo non era un piatto economico perché doveva essere condito con olio. Virgilio, dal canto suo, suggerendo una ricetta di agliata, consigliava l'uso di tanto aglio, tanto aceto, ma solo "poche gocce di olio".
    Questo liquido assunse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell'epoca imperiale, tanto che Giulio Cesare costrinse le province vicine dell'impero a consegnare alla città molti litri di olio come tributo annuale. Il frutto dell'ulivo godeva di una tale considerazione che, in una civiltà basata su una rigida struttura militare e sul reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva.
    I primi sintomi della crisi di tanto splendore oleario si avvertirono nel III sec. Il progressivo abbandono delle campagne alla cura degli schiavi, e le continue elargizioni degli imperatori, svuotarono le riserve di olio italico; la produzione nella nostra penisola diminuì e Roma anche per il suo consumo interno inizio ad attingere alle sue province spagnole e africane.
    La caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche interruppero i contatti commerciali, facendo decadere l'olio da pianta sacra a specie rustica poco significativa.
     
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  5. gheagabry
     
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    L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato. I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.
    La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.



    La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Schlieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
    In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.



    L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.
    Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.
    L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.
    Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.
    In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.



    La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove venivano trattate le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.
    Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco "amurca" che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.
    Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
    Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.
    L’olivo per gli etruschi era pianta sacra, tanto che le sacerdotesse ne esibivano i rami durante le processioni. L’oliva dal gusto amarognolo, venne “addolcita” con tecniche che variavano dalla salamoia, all’immersione nell’acqua profumata con finocchio secco e frutti del lentisco.
    L'olio d'oliva, decretato prodotto “nazionale” ed esportato come il vino in tutto il Tirreno, aveva vari impieghi. Di eccellente qualità ideale come condimento per ogni cibo. Di grande quantità utile per accendere il fuoco, per alimentare le lucerne e per massaggiare i muscoli di militari ed atleti.
     
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  6. tappi
     
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    grazie gabry
     
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  7. gheagabry
     
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    Olio nel Medioevo e suoi riti

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    Durante l'alto medioevo la distruzione delle campagne portò anche all'impoverimento degli oliveti. Fu dal XII sec., grazie soprattutto agli ordini monastici (olio rituale), che venne dato nuovo impulso all'estrazione del succo d'oliva. Gli uliveti aumentarano in tutta la Penisola, soprattutto in Toscana, dove anche la borghesia commerciale scoprì nella produzione e nel commercio dell'olio una fonte importante di guadagno. Il valore del liquido verde era elevato, veniva utilizzato per tenere accese le luci sugli altari, per cerimonie come la cresima o l'ordinazione dei cavalieri, e per l'estrema unzione.
    Se nella cucina antico romana l'olio era uno dei condimenti principali, nella quotidianità della tavola medievale che posto aveva?
    Non certo di primo piano: se ne faceva un uso molto parsimonioso, mentre erano indispensabili in cucina: il lardo, lo strutto, la sugna. Il maiale viveva il suo momento d'oro, soprattutto nell'Italia settentrionale il lardo era il "fondo di cucina" per eccellenza, e il “tempus de laride” (tempo del lardo) rappresentava una delle scansioni del calendario contadino pastorale.
    Alcune eccezioni a questi usi si rintracciavano:
    -al Sud e al Centro fra i ceti alti, dove l’olio veniva consumato come condimento dei cibi a crudo, o come grasso alternativo nei giorni di magro e di quaresima (dal XII sec. fu ammesso anche il burro per le focacce e i dolci, mai per cuocere);
    -sulle navi che solcavano il Mediterraneo, dove l’olio assieme alle spezie serviva per condire i cibi dei marinai, come il pesce seccato, la carne salata e le gallette.



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    Edited by gheagabry1 - 1/9/2019, 13:57
     
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  8. gheagabry
     
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    L'olio di oliva nell'antichità



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    L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.

    I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.

    La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.

    Non solo, anche nei libri dell’Antico Testamento l’olivo e l’olio di oliva sono spesso nominati : basti pensare che la colomba dell’arca porta a Noè un ramo d’olivo colto sul monte Ararat, montagna dell’Armenia.

    La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Schlieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.

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    In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.

    L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.

    Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.


    L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.

    Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.

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    In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.

    La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove venivano trattate le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.

    Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco amurca che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.

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    Il vero problema, dunque, non è stabilire a quando risalga la presenza dei primi olivi in Italia, dato che certamente si trattava di piante che esistevano da molto tempo, almeno in forme selvatiche, quanto piuttosto definire il periodo in cui è cominciata la loro coltivazione in età storica, momento importante che segna l’inizio dello sfruttamento razionale delle campagne, tipico della civiltà urbana.

    Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.

    Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.

    Non è facile ricostruire il paesaggio agrario dell’Etruria antica: le trasformazioni subite nel corso del tempo, e soprattutto l’impoverimento e l’abbandono delle campagne, iniziato in età romana, impediscono di cogliere, in tutti i suoi dettagli, una situazione che doveva essere comunque piuttosto fiorente. Anche il panorama offerto dalle fonti antiche va letto con prudenza, tenendo conto del contesto storiografico di appartenenza in cui dominavano la memoria di un passato felice e i riscontri di un realtà contemporanea, quella della prima età imperiale, in cui i caratteri del paesaggio etrusco e i metodi di conduzione agricola erano senz’altro strutturati in modo diverso.

    Per quanto riguarda i riscontri forniti dall’archeologia, le ricerche condotte in questi ultimi anni sui vasi-contenitori hanno permesso di analizzare, negli aspetti complementari di produzione, consumo e smercio, tipi di agricoltura intensiva quali le coltivazioni dell’olivo e della vite.

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    Dopo una prima fase in cui i contenitori di olio deposti nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria risultano essere in massima parte di importazione, nel corso del terzo quarto del VII sec. a.C. inizia una produzione in loco di questi vasi, destinata nel tempo ad intensificarsi: si tratta non solo di contenitori di essenze odorose a base di olio, ma anche di recipienti destinati a contenere olio alimentare. E’ il momento in cui l’olio e il vino da beni preziosi di marca esotica, inclusi nel commercio di beni di lusso, diventano in Etruria prodotti di largo uso come attestano appunto i loro contenitori che diventano frequentissimi nei corredi tombali in età alto e medio-arcaica: particolarmente diffusi sono i piccoli balsamari in bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.

    Per quanto riguarda l’ambito alimentare l’olio è sempre stato uno dei prodotti principali dell’antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l’olio migliore: particolarmente rinomati erano l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.

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    Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.

    Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.

    In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.

    Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico.Con le olive verdi si facevano le colymbadas (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.

    Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l’olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l’impasto così ottenuto in un vaso lo ricopriva d’olio.

    Vi erano poi le conserve di olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi, una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa defrutum.

    Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.

    Catone, Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell’olivo e sulla produzione dell’olio.

    E noto, ad esempio, che l’olio che si otteneva dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per farlo diventare più fluido, occorreva riscaldare l’ambiente in cui veniva preparato per evitare che si rapprendesse: è per questo che l’olio aveva spesso odore di fumo. In qualche occasione, e naturalmente a seconda della temperatura esterna, era sufficiente che il locale dei torchi (torcular) fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole, anzi, gli esperti ritenevano che questa fosse la soluzione migliore per garantire la buona qualità del prodotto. E infatti, nella villa della Pisanella a Poggioreale, dove è venuto alla luce un interessante esemplare di torchio da olio, la cella olearia era intiepidita naturalmente, in virtù della sua esposizione al sole.

    Gli autori antichi descrivono minuziosamente le macchine impiegate dai Greci e dai Romani per la torchiatura delle olive; le scoperte archeologiche hanno poi permesso di controllare e di completare le loro testimonianze.

    La prima fase della preparazione dell’olio d’oliva consisteva nello schiacciamento dei frutti. La mola olearia assomigliava a quella granaria, essendo anch’essa costituita da due pietre cilindriche, una fissa, il bacino o sottomola, l’altra mobile, la mola verticale: l’operazione di schiacciamento era seguita in modo assai semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un contenitore.

    Il “frantoio” romano, puntualmente descritto da Columella (I sec. d.C.) era di un tipo assai simile a quelli usati anche in età moderna.

    Sulla base dei dati disponibili è possibile proporne una ricostruzione più che plausibile. In dettaglio, gli elementi componenti la macchina dovevano essere i seguenti:

    Base in muratura, superiormente concava, per meglio alloggiare la sottomola

    Sottomola

    Sostegno verticale in legno dove è infilata la stanga. L’inserzione di questa nel sostegno doveva prevedere la possibilità di regolare l’altezza della mola per non schiacciare i noccioli delle olive

    Disco della mola, costituito da una pietra cilindrica che l’uso deforma leggermente in senso troncoconico. Il disco è inserito nella stanga in modo da poter girare sia intorno al sostegno centrale, sia attorno al proprio asse. Il disco della mola era mantenuto nella posizione corretta per mezzo di cunei in legno (clavi)

    Stanga, la cui estremità è collegata ai finimenti che imbrigliano l’asino sottoposto alla mola.

    Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente che conteneva le olive era così possibile separare la polpa senza schiacciare i noccioli

    Dopo la frangitura, le olive venivano pressate. Per questo secondo passaggio in antico venivano usate presse a trave, simili a quelle usate per il vino. Sembra che la pressa a trave abbia avuto origine e si sia sviluppata nella civiltà egea, dove la coltivazione delle olive era già diffusa agli inizi dell’età del bronzo, ma non si sa con certezza a quale epoca risalga.

    I resti più antichi conosciuti di una pressa e di un bacino per schiacciare le olive sono quelli rinvenuti a Creta che appartengono al periodo minoico (1880-1500 a.C. ca.): sono però insufficienti per una ricostruzione dettagliata dello strumento. Un’altra pressa a trave per olive, risalente al tardo periodo elladico (1600-1250 a.C. ca.) fu trovata in una delle isole Cicladi. Dopo il 1000 a.C. circa, le presse di questo tipo divennero più frequenti e ne esistono alcune rappresentazioni, in particolare su vasi attici a figure nere del VI sec. a.C.

    La pressa a trave applica il principio della leva: un’estremità della trave era appoggiata in un incavo del muro, o fra due pilastri di pietra, l’altra veniva tirata giù o spesso caricata con pesi (uomini e pietre). Le olive, sistemate in sacchi o tra tavole di legno, venivano schiacciate sotto la parte centrale della trave e il succo era raccolto in un recipiente sistemato sotto il piano della pressa.

    Plinio descrive con molta chiarezza quattro tipi di presse. La prima è la vecchia pressa trave di cui parla anche Catone (234-149 a.C.) il cui funzionamento è stato però nel frattempo alquanto meccanizzato. Un’estremità della trave, spesso lunga fino a 15 metri, era fissata sotto una sbarra trasversale posta tra due pali di legno. Le olive schiacciate erano ammucchiate sotto questa pesante trave e la pressione veniva esercitata facendo abbassare l’altra estremità della trave che era tirata in basso da una fune arrotolata intorno ad un tamburo del diametro di 40-50 centimetri. Un secondo miglioramento che permetteva una pressione regolare e prolungata, era attuato nella pressa descritta da Erone (I sec. d.C.), ma gia nota da molto tempo e probabilmente inventata in Grecia. Tale pressa era costituita da un peso di pietra, una trave e un tamburo girevole, Partendo dalla base, una corda passava sotto una puleggia collocata sul peso e sopra un’altra puleggia situata sulla trave, raggiungendo il tamburo. Quando la corda era avvolta al tamburo la trave riceveva l’intero peso della pietra.

    La massa da pressare era racchiusa in vari modi: dentro fiscoli di corda, giunchi intrecciati, o cesti. Oppure: “le olive venivano schiacciate dentro cesti di vimini o mettendo la pasta tra due asticelle” (Plinio).

    Le presse a trave erano particolarmente adatte per operazioni su larga scala, quando invece si trattava di quantità limitate, come anche nel caso di semi oleosi, si preferivano altri metodi come la pressa a vite. Di quest’ultima Plinio dice che sembra sia stata introdotta a Roma verso la fine del I secolo a.C., ma che era stata probabilmente inventata in Grecia nel II o I secolo a.C.

    In una versione perfezionata di questo tipo di pressa, descritta sia da Erone sia da Plinio, la vite solleva un peso di pietra. Questo tipo, chiamato anche “pressa greca”, era senz’altro in uso a Roma ai tempi di Vetruvio (I sec. a.C.).

    Quindi l’olio veniva messo a decantare in vasche che precedevano il lacus destinato alla raccolta finale del prodotto.

    G. Carlotta Cianferoni
     
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