Julianne Moore

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    Julianne Moore




    Julie Ann Smith, nota come Julianne Moore (Fayetteville, 3 dicembre 1960), è un'attrice statunitense.

    Biografia


    Cresciuta in una famiglia di tradizione militare, con padre giudice e madre psichiatra. Da adolescente si trasferisce con la famiglia in oltre 23 città diverse, per le regole di vita militare imposte dal lavoro del padre. Terminati gli studi al College, per le insistenze della famiglia prima si laurea con il massimo dei voti alla Boston University e solo successivamente decide di seguire la passione per il teatro iscrivendosi alla University's School of the Performing Art, dove in meno di due anni ottiene l'attestato di recitazione drammatica. A 24 anni si trasferisce a Manhattan, e viene scritturata in alcune produzioni teatrali, con contratti firmati fino alla fine degli anni '80. Con il successo ottenuto a Broadway, grazie alla rappresentazione teatrale "Serious Money", riesce a superare alcuni provini per le produzioni televisive, e nel 1985 entra nel cast della soap "The Edge of the Nigt". Dal 1986 al 1988 recita nella serie televisiva "As the World Turns", e nel 1989 è una delle protagoniste del Tv movie di successo "Money, Power, Murder". Nel 1992 arriva il debutto cinematografico con il film "Tales from the Darkside: The Movie", ma è nel 1993 che Julianne Moore conquista la popolarità e il consenso dei critici, recitando con Harrison Ford e Tommy Lee Jones nel blockbuster "Il fuggitivo". Sempre lo stesso anno recita in un altro successo di pubblico, il film thriller "Body of Evidence" e due anni dopo è la partner di Hugh Grant nella commedia brillante "Nove mesi". Notata da Spielberg, nel 1997 viene scritturata per il seguito di Jurassic Park. Entrata nella classifica delle attrici più pagate di Hollywood - sopra Sandra Bullock - Julianne Moore in tre anni ottiene parti da protagonista in film di grande successo al box office come: "Boogie Nights" e "Magnolia" (rispettivamente del '97 e del '99 diretti da Paul Thomas Anderson), "Il grande Lebowsky" ('98, dei fratelli Coen), il remake di "Psycho" a cura di Gus Van Sant ('98,), "La fortuna di Cookie" ('99, di Robert Altman), "Un marito ideale" ('99, di Oliver Parker), e "Fine di una storia" ('99, di Neil Jordan). Apprezzata da pubblico e critica, ha ricevuto la nomination all'Oscar nel 1998 per "Boogie Nights" (miglior attrice non protagonista), nel 2000 per "Fine di una storia" (miglior protagonista) e nel 2003 in entrambe le categorie con "Lontano dal paradiso" di Todd Haynes (che le vale anche la Coppa Volpi come migliore attrice alla 59ma Mostra del Cinema di Venezia) e con "The Hours" di Stephen Daldry (che le vale anche l'Orso d'oro al Festival di Berlino, condiviso con le altre protagoniste del film Nicole Kidman e Meryl Streep). E' stata sposata circa dieci anni con l'attore John Gould Rubin, da cui si è separata nel 1995. Dal suo attuale compagno, il regista Bart Freundlich, ha avuto due figli, Cal, nato nel dicembre 1997, e Liv Helen, nata nell'aprile 2002.




    Chioma rossa, sguardo intenso e corpo sinuoso tutto lentiggini. Julianne Moore si presenta così nel mondo magico della settima arte. Una fisicità particolare che è il primo approccio alla grandezza interiore di un'attrice eclettica che ha saputo scavare nell'animo femminile. Si è messa in gioco con corpo e spirito, regalando ottime interpretazioni che l'hanno resa una delle attrici più apprezzate della sua generazione.

    Il sipario si apre con il cinema d'autore
    Alcune esperienze televisive precedono l'esordio cinematografico del 1990 con I delitti del gatto nero di John Harrison. In poco tempo impone il suo fascino elegante, la sua recitazione nervosa e potente in titoli di grande valore: da America oggi (1993) di Robert Altman a Vanja sulla 42ª strada (1994) di Louis Malle, dal toccante Safe (1995) di Todd Haynes a Il grande Lebowski (1998) di Joel Coen. Intervalla le grandi produzioni d'autore a pellicole minori ma sempre scelte con grande intuito e sensibilità. La troviamo nella commedia originale Benny & Joon al fianco di un esilarante Johnny Depp, in quella drammatica e poco valorizzata Un adorabile testardo e nel remake Nine Months – Imprevisti d'amore dove interpreta l'adorabile fidanzata incinta di un preoccupatissimo Hugh Grant.

    La consacrazione grazie a Paul Thomas Anderson
    Dopo la mega produzione Il mondo perduto – Jurassic Park di Steven Spielberg, affronta due memorabili interpretazioni in Boogie Nights – L'altra Hollywood (1997) e Magnolia (1999), entrambi firmati dall'indipendente Paul Thomas Anderson, e quella dell'agente Clarice Sterling nel meno importante Hannibal (2001) di Ridley Scott. Personaggi ben caratterizzati che la consacrano come una delle migliori attrici di Hollywood. Passa facilmente dal comico al drammatico: è nel thriller Psycho di Gus Van Sant che rifà il capolavoro omonimo di Hitchcock, occhieggia ad Oscar Wilde nel divertente intreccio ad equivoci Un marito ideale, vive il dramma della Fine di una storia di Neil Jordan e s'imbatte nelle controversie di una famiglia della provincia americana ne La fortuna di Cookie del maestro Robert Altman.

    Icona di femminilità
    Nel 2001 è una vedova in The Shipping News – Ombre dal profondo di Lasse Hallström e si trasforma in eroina armata di shampoo antiforfora in Evolution. Nel 2002 vince la coppa Volpi a Venezia per la sua eccezionale interpretazione in Lontano dal Paradiso, diretto da Haynes, dove indossa i panni di un'elegante casalinga americana degli anni Cinquanta, emarginata dal suo ambiente perché attratta da un giardiniere di colore, in un dichiarato omaggio ai toni e alle atmosfere del mélo di Douglas Sirk. Ma l'anno si rivela fortunato anche per la magistrale performance in The Hours, dov'è Laura, un'altra donna frustrata che non accetta la vita conformista che le offre il marito. Due ruoli, quest'ultimi, che la fanno diventare una vera icona di femminilità, audace controparte di un mondo maschile troppo conformista.

    Fantascienza d'autore, commedia e biopic
    In una carriera così perfetta non può mancare la distrazione plateale di un film sbagliato: è il caso dell'inguardabile The Forgotten, dove la bravura di Julianne è l'unico punto positivo dell'intera pellicola. Si riscatta subito dopo con la commedia newyorchese Uomini & Donne – Tutti dovrebbero venire…almeno una volta! (terribile il titolo italiano!), un piccolo film indipendente che si regge su una sceneggiatura avvincente. Ottima ne I figli degli uomini di Alfonso Cuaròn, prosegue con Il colore del crimine a fianco di Samuel L. Jackson per poi avere un piccolo ruolo delicato nel corale Io non sono qui, omaggio straordinario di Todd Haynes al cantautore Bob Dylan. Cambia totalmente registro in Next, film fantascientifico tratto da un racconto di Philip K. Dick che segna il ritorno del regista Lee Tamahori, dopo qualche scivolone cinematografico. Nel 2008 è in Savage Grace, biopic che racconta il rapporto incestuoso tra Barbara Daly, la donna che, dopo aver scoperto l'omosessualità del figlio, tenta di sedurlo.



    filmografia


    * Così gira il mondo - soap opera (1985-1988)
    * sLaughterhouse II, regia di Michael Welton (1988)
    * I delitti del gatto nero (Tales from the Darkside: The Movie), regia di John Harrison (1990)
    * La mano sulla culla (The Hand That Rocks the Cradle), regia di Curtis Hanson (1992)
    * The Gun in Betty Lou's Handbag, regia di Allan Moyle (1992)
    * Body of evidence - Corpo del reato (Body of Evidence), regia di Uli Edel (1993)
    * Benny & Joon (Benny & Joon), regia di Jeremiah Chechick (1993)
    * Il fuggitivo (The Fugitive), regia di Andrew Davis (1993)
    * America oggi (Short Cuts), regia di Robert Altman (1993)
    * Vanya sulla 42ma strada (Vanya on 42nd Street), regia di Louis Malle (1994)
    * Insieme verso la notte (Roommates), regia di Alan Metzger (1995)
    * Safe (Safe), regia di Todd Haynes (1995)
    * Nine Months - Imprevisti d'amore (Nine Months), regia di Chris Columbus (1995)
    * Assassins (Assassins), regia di Richard Donner (1995)
    * Surviving Picasso - Sopravvivere a Picasso (Surviving Picasso), regia di James Ivory (1996)
    * Il mondo perduto (The Lost World ), regia di Steven Spielberg (1997)
    * I segreti del cuore (The Myth of Fingerprints), regia di Bart Freundlich (1997)
    * Boogie Nights - L'altra Hollywood (Boogie Nights), regia di Paul Thomas Anderson (1997)
    * Il grande Lebowski (The Big Lebowski), regia di Ethan Coen e Joel Coen (1998)
    * Chicago Cab (Chicago Cab), regia di Mary Cybulski e John Tintori (1998)
    * Psycho (Psycho), regia di Gus Van Sant (1998)
    * La fortuna di Cookie (Cookie's Fortune), regia di Robert Altman (1999)
    * Un marito ideale (An Ideal Husband), regia di Oliver Parker (1999)
    * La mappa del mondo (A Map of the World), regia di Scott Elliott (1999)
    * Fine di una storia (The End of the Affair), regia di Neil Jordan (1999)
    * Magnolia (Magnolia), regia di Paul Thomas Anderson (1999)
    * The ladies man (The Ladies Man), regia di Reginald Hudlin (2000)
    * Hannibal (Hannibal), regia di Ridley Scott (2001)
    * Evolution (Evolution), regia di Ivan Reitman (2001)
    * World Traveler, regia di Bart Freundlich (2001)
    * The Shipping News (The Shipping News), regia di Lasse Hallstrom (2001)
    * Lontano dal Paradiso (Far from Heaven), regia di Todd Haynes (2002)
    * The hours (The Hours), regia di Stephen Daldry (2002)
    * Marie and Bruce, regia di Tom Cairns (2004)
    * Laws of attraction - Matrimonio in appello (Laws of Attraction), regia di Peter Howitt (2004)
    * The forgotten (The Forgotten), regia di Joseph Ruben (2004)
    * Uomini & Donne - Tutti dovrebbero venire... almeno una volta! (Trust the Man), regia di Bart Freundlich (2005)
    * The prize winner of Defiance, Ohio (The Prize Winner of Defiance, Ohio), regia di Jane Anderson (2005)
    * Il colore del crimine (Freedomland), regia di Joe Roth (2006)
    * I figli degli uomini (Children of Men), regia di Alfonso Cuarón (2006)
    * Next, regia di Lee Tamahori (2007)
    * Io non sono qui (I'm Not There), regia di Todd Haynes (2007)
    * Savage Grace, regia di Tom Kalin (2007)
    * Blindess - Cecità (Blindness), regia di Fernando Meirelles
    * The Private Lives of Pippa Lee, regia di Rebecca Miller (2009)

     
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  2. gheagabry
     
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    Still Alice




    imCOT54


    Un film di Richard Glatzer, Wash Westmoreland. Con Julianne Moore, Kristen Stewart, Alec Baldwin, Kate Bosworth, Hunter Parrish


    La storia di una deriva che elude qualsiasi forma di patetismo o di esibizionismo, interrogandosi e misurandosi col dolore muto e ingrato dell'Alzheimer.
    Marzia Gandolfi


    Alice Howland è moglie, madre e professoressa di linguistica alla Columbia University di New York. Alice ha una bella vita e tanti ricordi, che una forma rara e precoce di Alzheimer le sta portando via. Confermata la diagnosi dopo una serie di episodi allarmanti, che l'hanno smarrita letteralmente in città, Alice confessa al marito malattia e angoscia. La difficoltà nel linguaggio e la perdita della memoria non le impediranno comunque di lottare, trattenendo ancora un po' la donna meravigliosa che è e che ha costruito tutta la vita.
    Si sente spesso dire che il cinema è terapeutico, che cura il 'male di vivere', la malattia, la sua insensatezza. Ci sono film che effettivamente favoriscono l'anamnesi e l'autoanalisi, emergendo i fantasmi o i passeggeri oscuri che ci portiamo dentro. Non sconfiggono malattie e nemmeno combattono le patologie, eppure questi film curano, raccontando storie di cura anche quando non è proprio possibile curare, guarire. Still Alice, scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, compagni nell'arte e nella vita, appartiene al 'genere terapeutico' e fornisce allo spettatore una spiegazione e un'argomentazione emozionale del morbo di Alzheimer, una malattia che comporta il progressivo declino delle facoltà cognitive. Trasposizione del romanzo omonimo di Lisa Genova, Still Alice è la storia di una deriva, la vicenda di una donna intelligente e speciale che perde giorno dopo giorno le tracce di sé, del tempo, di quando c'era, era, esisteva e conosceva il suo nome, quello della sua primogenita, quello delle persone care, delle emozioni e delle cose che comprendono il miracolo Alice Howland. A interpretarla è Julianne Moore, misurata ed essenziale, corpo fragile che annaspa, provando a risalire la china e a resistere alla malattia che disattiva la sua anima segreta. Il dramma della protagonista germoglia e progredisce sul volto della Moore, a cui i registi consegnano il film senza contraddirla mai. Perché l'attrice produce un dosaggio perfetto di segni espressivi, che conferma il suo stile recitativo introverso e privo di manierismi. E il pubblico in sala non può che elaborare quello che l'interprete fa e dice.
    Se il cinema è un territorio inevitabilmente relazionale, Julianne Moore è il punto più intenso della relazione, una luce di evidenza e di chiarezza, che narra e fa conoscere allo spettatore una patologia crudele. Una crepa intima che spezza vene e cuore nella sequenza in cui Alice, riprodotta (sul computer) e 'accesa', parla al suo sé alterato e spento. La malattia al cinema è materia che richiede di connotare le proprie storie di uno spessore nuovo (quello dell'etica) e di una nuova articolazione narrativa. Glatzer e Westmoreland si prendono il rischio e realizzano un film che elude qualsiasi forma di patetismo o di esibizionismo, interrogandosi e misurandosi col dolore muto e ingrato dell'Alzheimer.
    E la loro esposizione artistica finisce per proteggere la nostra fragilità, riconnettendo in una storia dotata di senso, i frammenti sconnessi di esperienza contro cui ci fa sbattere duro la vita. Proprio come fa Lydia (la figlia di Kristen Stewart) con la madre, 'curandola' con la letteratura drammatica. Perché la memoria del bello agisce sui circuiti emozionali, che irriducibili e sbalorditivi sopravvivono a quelli cognitivi. Probabilmente l'amore non impara mai a dimenticare.



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  3. gheagabry
     
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    Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II




    locandina


    Un film di Francis Lawrence. Con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Julianne Moore, Wes Chatham, Elden Henson.



    Si conclude la saga più importante dei nostri anni, capace di ribaltare il rapporto tra sessi e rappresentare le contraddizioni moderne: il miglior romanzo di formazione per le ragazze contemporanee.
    Gabriele Niola


    La resistenza si sta facendo sotto. I distretti ribelli sono ormai tutti riuniti sotto un'unica bandiera, quella dei ribelli, e sta per iniziare la marcia verso Panem, prenderla equivale a destituire il regime. Katniss è l'arma numero uno della resistenza, non per le sue doti di stratega o per la sua abilità sul campo, ma per la sua immagine. Prima sfruttata come volto simbolo dell'intrattenimento e della distrazione di massa, ora è invece diventata il corpo della ribellione, l'unica a cui la massa dia ascolto, l'unica a cui tutti credano anche se la sua immagine è stata continuamente manipolata. Per questo motivo decide di abbandonare i ribelli (che non sono meglio del regime) e di cercare di trovare la sua vendetta e uccidere il presidente Snow da sola. Ora tutti la vogliono morta però: la vuole morta Peeta, che ha subito il lavaggio del cervello; la vuole morta il presidente Snow; la vuole morta la resistenza, perché diventerebbe un martire e unirebbe ancora di più le truppe.
    Dopo quattro film si chiude la saga di Hunger Games e la chiusa è, una volta tanto, una conclusione impeccabile e rispettosa delle domande e dei problemi che tutta la saga ha sollevato rispetto alla realtà che vivono i suoi spettatori (in linea di massima compresi tra i 13 e i 30 anni). La storia di Katniss Everdeen rispecchia il miglior romanzo di formazione possibile per le ragazze contemporanee, un romanzo che le mette in guardia e le prepara al vero terreno di negoziazione dell'età contemporanea, quello dell'immagine.
    Che tutta la saga sia un ribaltamento dell'action movie di fantascienza classico è evidente fin dall'inizio, dalla maniera in cui la protagonista non combatte sul terreno degli uomini ma anzi sposta il conflitto su dinamiche, idee e strumenti propri dell'universo delle ragazze. Il suo miglior aiutante è uno stilista; sono i suoi abiti a determinarne il successo; è la treccia che porta sempre il dettaglio che prima di tutti si diffonde tra il pubblico e la fa individuare come un nemico del potere. Infine qui sono i vestiti a salvarla anche fisicamente. Katniss combatte prima di tutto con la propria immagine e poi con le frecce, perché, dice Hunger Games, il corpo della donna è l'arma più potente e pericolosa, l'oggetto desiderato da tutti, a cui tutti vogliono dare un significato proprio. Katniss lotta per salvare il suo amore (Peeta, di fatto sempre in pericolo, sempre bisognoso di essere protetto o salvato da qualcosa) e per essere autonoma; che quest'autonomia passi per un percorso di liberazione dai "partiti", dalle "fazioni" e da qualsiasi aggregato ideologico è solo un segno dei tempi. In Il canto della rivolta - Parte II la resistenza non si rivela migliore del regime e non c'è alcun valore per il quale si batta la protagonista, se non per difendere il diritto di non essere usata.
    Diretto con molta più concretezza rispetto ai precedenti due capitoli, quest'ultimo film rifiuta qualsiasi idea di eroe predestinato o di gloria: non ci sarà nessun finale epico per Katniss, anche questo in controtendenza con qualsiasi narrazione adolescenziale. Nella grande chiusa la protagonista si dimostrerà più nichilista che mai.
    È qui decisamente evidente come dietro questa saga ci sia molto più di quel che siamo abituati ad aspettarci dal cinema hollywoodiano di immenso incasso, dalle grandi saghe e dai film di intrattenimento. Nonostante le più consuete trovate finalizzate ad un'azione molto semplice e basilare (un filo di simil-morti viventi, un po' di scene grandiose ed esplosioni clamorose non si negano a nessuno con quei budget), in Il canto della rivolta - Parte II finalmente tornano a battere una testardaggine ed un'ostinazione arrogante nel portare avanti le proprie idee che non vedevamo dal primo film. La forza con cui si batte contro tutte le persone che vogliono impadronirsi della potenza dell'immagine del suo corpo è esemplare di un universo in cui l'immagine fissata (foto come video) diventa centrale nella costruzione dell'identità individuale. E in Hunger Games qualsiasi ripresa mente: non c'è video di repertorio o immagine filmata che i protagonisti guardano che non dica il contrario di quel che è accaduto realmente.
    A contribuire a rendere questa saga un perfetto manuale di umanità di questi anni ovviamente è Jennifer Lawrence, molto più determinante di attori decisamente più navigati (Julianne Moore, Woody Harrelson o Philip Seymour-Hoffman). Il suo è un personaggio spinoso perché costantemente antipatico, brusco, scontroso e depresso, non ha gioia nè vuole piacere (ma piace, piace a tutti nel film e fuori dal film), eppure la Lawrence ha un'intima onestà sentimentale che colpisce. Quest'attrice in grado di mettere in mostra capacità impressionanti anche su testi molto semplici come quelli di Hunger Games rende complessa qualsiasi cosa. Si guardi solo la prima scena, in cui le viene controllata la gola dopo che la persona a cui più tiene ha tentato di strangolarla: senza parlare, con un'espressione sola e unicamente ritraendosi riesce a trasmettere una concreta impressione di paura indotta da un trauma in maniera personale, come se fosse la prima a farlo nella storia del cinema. Questo genere di complessità, spalmata per tutti i 4 film, fa sì che la saga possa compiere il salto definitivo e riesca a rendere umane e concrete tutte le sue idee.



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