FIABE DI GUIDO GOZZANO

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  1. gheagabry
     
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    C'era una volta un Principe che ritornando dalla caccia vide nella polvere, sul margine della via, un bimbo di forse otto anni che dormiva tranquillo. Scese da cavallo, lo svegliò:
    - Che fai qui piccolino?
    - Non so - rispose quegli, fissandolo senza timidezza.
    - E tuo padre?
    - Non so.
    - E tua madre?
    - Non so.
    - Di dove sei?
    - Non so.
    Quel è il tuo nome?
    - Non so.
    Preso il bimbo in groppa, il Principe lo portò al suo castello e lo consegnò alla servitù, perché ne avesse cura.
    E gli fu dato il nome Nonsò.
    Quando ebbe vent'anni, il Principe lo prese per suo scudiero. Un giorno passando in città gli disse:
    - Sono contento di te e voglio regalarti un cavallo, per tuo uso particolare.
    Andarono alla fiera. Nonsò esaminava gli splendidi cavalli, ma nessuno gli piaceva e se ne andarono senza aver nulla comperato. Passando dinanzi ad un mulino videro una vecchia giumenta quasi cieca, che girava la macina. Nonsò guardò attentamente la bestia e disse:
    - Signore, quello è il destriero che mi abbisogna!
    - Tu scherzi!
    - Signore, compratemelo e ne sarò felice.
    Il Principe si sdegnò quasi, poi vedendo Nonsò supplicante, cedette alle sue preghiere e comperò la giumenta. Il mugnaio, consegnando la bestia a Nonsò, gli disse all'orecchio:
    - Vedete questi nodi nella criniera della cavalla? Ogni volta che ne sfarete uno, essa vi porterà sull'istante a cinquecento leghe lontano.
    Ritornarono a casa.
    Pochi giorni dopo il Principe venne invitato dal Re, e Nonsò fu ospite col suo signore nel palazzo reale. Una notte di plenilunio passeggiava nel parco e vide appesa ad un albero una collana di diamanti che scintillava alla luna.
    - Prendiamola, dunque... - disse ad alta voce.
    - Guardati bene o te ne pentirai! - fece una voce ignota e vicina.
    Si guardò intorno. Chi aveva parlato era il suo cavallo. Esitò un poco, ma poi si lasciò vincere dal desiderio e prese la collana.
    Il Re aveva affidato a Nonsò la cura di alcuni suoi cavalli e di notte egli illuminava la sua scuderia con la collana sfavillante. Gli altri stallieri, gelosi di lui, cominciarono ad insinuare che nella scuderia di Nonsò splendeva una luce sospetta, che egli si dava a stregonerie misteriose. Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fermaglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la principessa più sdegnosa del mondo.
    - Bisogna che tu mi conduca la principessa dalle Chiome Verdi - disse il Sovrano - o non c'è che la morte per te.
    Nonsò era disperato.
    Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra criniera.
    - Conosco la causa del tuo dolore - gli disse la bestia fedele, - è venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa' cuore ed ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio.
    Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe.
    - Libera quel poveretto! - gli consigliò la cavalla.
    Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa sull'acqua, disse:
    - Tu mi hai salvata la vita e il tuo benefizio non sarà dimenticato. Se tu abbisognassi di me, chiamami e verrò.
    Poco dopo videro un uccello preso alla pania.
    - Libera quel poveretto! - gli consigliò la giumenta.
    Nonsò ubbidì e l'uccello disse:
    - Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi.
    Giunsero dinanzi al castello della principessa.
    - Entra - disse la giumenta - e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose.
    Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, ch'egli prese per la principessa in persona.
    - Principessa...
    - Non son io la principessa.
    E l'accompagnò in un'altra sala dove l'attendeva una fanciulla più bella ancora.
    E questa a sua volta l'accompagnò in una sala attigua da una compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all'altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi.
    Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice.
    - Saltatele in groppa, principessa, ed essa danzerà con voi danze meravigliose.
    La Bella, un poco esitante, ubbidì.
    Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re.
    - M'avete ingannata - gridava la principessa, - ma non mi do per vinta, e prima d'essere la sposa del Re vi farò piangere più d'una volta...
    Nonsò sorrideva soddisfatto.
    - Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi!
    Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all'istante.
    Ma la principessa chiese che le si portasse prima una forcella d'oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello.
    E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato.
    - Ti ricordi - disse questa - d'aver salvata la vita all'uccello impaniato? Chiamalo e t'aiuterà.
    Nonsò chiamò e l'uccello comparve.
    - Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata.
    E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla principessa.
    - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze.
    - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai.
    - Parlate, principessa, e ciò che vorrete sarà fatto.
    - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui...
    Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve.
    - Ritroveremo l'anello, fatti cuore!
    E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo.
    La principessa dovette acconsentire alle nozze.
    Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia.
    Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti.
    Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano:
    - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio padre e sarò la tua sposa.
    Nonsò e la principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.
     
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  2. gheagabry
     
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    Piumadoro era orfana e viveva col nonno nella capanna del bosco. Il nonno era carbonaio ed essa lo aiutava nel raccattar fascine e nel far carbone. La bimba cresceva buona, amata dalle amiche e dalle vecchiette degli altri casolari, e bella, bella come una regina.
    Un giorno di primavera vide sui garofani della sua finestra una farfalla candida e la chiuse tra le dita.
    - Lasciami andare, per pietà!...
    Piumadoro la lasciò andare.
    - Grazie, bella bambina; come ti chiami?
    - Piumadoro.
    - Io mi chiamo Pieride del Biancospino. Vado a disporre i miei bruchi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
    E la farfalla volò via.
    Un altro giorno Piumadoro ghermì, a mezzo il sentiero, un bel soffione niveo trasportato dal vento, e già stava lacerandone la seta leggera.
    - Lasciami andare, per pietà!...
    Piumadoro lo lasciò andare.
    - Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
    - Piumadoro.
    - Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Achenio del Cardo. Vado a deporre i miei semi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
    E il soffione volò via.
    Un altro giorno Piumadoro ghermì nel cuore d'una rosa uno scarabeo di smeraldo.
    - Lasciami andare, per pietà!
    Piumadoro lo lasciò andare.
    - Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
    - Piumadoro.
    - Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Cetonia Dorata. Cerco le rose di terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
    E la cetonia volò via.

    II

    Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso.
    Restava pur sempre la bella bimba bionda e fiorente, ma s'alleggeriva ogni giorno di più.
    Sulle prime non se ne dette pensiero. La divertiva, anzi, l'abbandonarsi dai rami degli alberi altissimi e scender giù, lenta, lenta, lenta, come un foglio di carta. E cantava:

    Non altre adoro - che Piumadoro...
    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    Ma col tempo divenne così leggera che il nonno dovette appenderle alla gonna quattro pietre perché il vento non se la portasse via. Poi nemmeno le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa.
    - Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!
    E il vecchio sospirava. E Piumadoro s'annoiava, così rinchiusa.
    - Soffiami, nonno!
    E il vecchio, per divertirla, la soffiava in alto per la stanza. Piumadoro saliva e scendeva, lenta come una piuma.

    Non altre adoro - che Piumadoro...
    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    - Soffiami, nonno!
    E il vecchio soffiava forte e Piumadoro saliva leggera fino alle travi del soffitto.

    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    - Piumadoro, che cosa canti?
    - Non son io. È una voce che canta in me.
    Piumadoro sentiva, infatti, ripetere le parole da una voce dolce e lontanissima.
    E il vecchio soffiava e sospirava:
    - Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!...

    III

    Un mattino Piumadoro si svegliò più leggera e più annoiata del consueto.
    Ma il vecchietto non rispondeva.
    - Soffiami, nonno!
    Piumadoro s'avvicinò al letto del nonno. Il nonno era morto.
    Piumadoro pianse.
    Pianse tre giorni e tre notti. All'alba del quarto giorno volle chiamar gente. Ma socchiuse appena l'uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, come una bolla di sapone...
    Piumadoro gettò un grido e chiuse gli occhi.
    Osò riaprirli a poco a poco, e guardare in giù, attraverso la sua gran capigliatura disciolta. Volava ad un'altezza vertiginosa.
    Sotto di lei passavano le campagne verdi, i fiumi d'argento, le foreste cupe, le città, le torri, le abazie minuscole come giocattoli...
    Piumadoro richiuse gli occhi per lo spavento, si avvolse, si adagiò nei suoi capelli immensi come nella coltre del suo letto e si lasciò trasportare.
    - Piumadoro, coraggio!
    Aprì gli occhi. Erano la farfalla, la cetonia ed il soffione.
    - Il vento ci porta con te, Piumadoro. Ti seguiremo e ti aiuteremo nel tuo destino.
    Piumadoro si sentì rinascere.
    - Grazie, amici miei.

    Non altre adoro - che Piumadoro...
    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    - Chi è che mi canta all'orecchio, da tanto tempo?
    - Lo saprai verso sera, Piumadoro, quando giungeremo dalla Fata dell'Adolescenza.
    Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, trasportati dal vento.

    IV

    Verso sera giunsero dalla Fata dell'Adolescenza. Entrarono per la finestra aperta.
    La buona Fata li accolse benevolmente. Prese Piumadoro per mano, attraversarono stanze immense e corridoi senza fine, poi la Fata tolse da un cofano d'oro uno specchio rotondo.
    - Guarda qui dentro.
    Piumadoro guardò. Vide un giardino meraviglioso, palmizi e alberi tropicali e fiori mai più visti.
    E nel giardino un giovinetto stava su di un carro d'oro che cinquecento coppie di buoi trascinavano a fatica. E cantava:

    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    - Quegli che vedi è Piombofino, il Reuccio delle Isole Fortunate, ed è quegli che ti chiama da tanto tempo con la sua canzone. È vittima d'una malìa opposta alla tua. Cinquecento coppie di buoi lo trascinano a stento. Diventa sempre più pesante. Il malefizio sarà rotto nell'istante che vi darete il primo bacio.
    La visione disparve e la buona Fata diede a Piumadoro tre chicchi di grano.
    - Prima di giungere alle Isole Fortunate il vento ti farà passare sopra tre castelli. In ogni castello ti apparirà una fata maligna che cercherà di attirarti con la minaccia o con la lusinga. Tu lascerai cadere ogni volta uno di questi chicchi.
    Piumadoro ringraziò la Fata, uscì dalla finestra coi suoi compagni e riprese il viaggio, trasportata dal vento.

    V

    Giunsero verso sera in vista del primo castello. Sulle torri apparve la Fata Variopinta e fece un cenno con le mani. Piumadoro si sentì attrarre da una forza misteriosa e cominciò a discendere lentamente. Le parve distinguere nei giardini volti di persone conosciute e sorridenti: le compagne e le vecchiette del bosco natìo, il nonno che la salutava.
    Ma la cetonia le ricordò l'avvertimento della Fata dell'Adolescenza e Piumadoro lasciò cadere un chicco di grano. Le persone sorridenti si cangiarono subitamente in demoni e in fattucchiere coronate di serpi sibilanti.
    Piumadoro si risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza.
    Viaggiarono due altri giorni. Giunsero verso sera in vista del secondo castello.
    Era un castello color di fiele, striato di sanguigno. Sulle torri la Fata Verde si agitava furibonda. Una turba di persone livide accennava tra i merli e dai cortili, minacciosamente.
    Piumadoro cominciò a discendere, attratta dalla forza misteriosa. Terrorizzata lasciò cadere il secondo chicco. Appena il grano toccò terra il castello si fece d'oro, la Fata e gli ospiti apparvero benigni e sorridenti, salutando Piumadoro con le mani protese. Questa si risollevò e riprese il cammino trasportata dal vento; e capì che quello era il grano della Bontà.
    Viaggia, viaggia, giunsero due giorni dopo al terzo castello. Era un castello meraviglioso, fatto d'oro e di pietre preziose.
    La Fata Azzurra apparve sulle torri, accennando benevolmente verso Piumadoro.
    Piumadoro si sentì attrarre dalla forza invisibile. Avvicinandosi a terra udiva un confuso clamore di risa, di canti, di musiche; distingueva nei giardini immensi gruppi di dame e di cavalieri scintillanti, intesi a banchetti, a balli, a giostre, a teatri.
    Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l'ammonimento della Fata dell'Adolescenza, ed ella lasciò cadere, a malincuore, il terzo chicco di grano. Appena questo toccò terra, il castello si cangiò in una spelonca, la Fata Azzurra in una megera spaventosa e le dame e i cavalieri in poveri cenciosi e disperati che correvano piangendo tra sassi e roveti. Piumadoro, sollevandosi d'un balzo nell'aria, capì che quello era il Castello dei Desideri e che il chicco gettato era il grano della Saggezza.
    Proseguì la via, trasportata dal vento.
    La pieride, la cetonia ed il soffione la seguivano fedeli, chiamando a raccolta tutti i compagni che incontravano per via. Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine.
    Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare.
    Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali.
    Viaggiarono così sette giorni.
    All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.

    VI

    Nella Reggia si era disperati.
    Il Reuccio Piombofino aveva sfondato col suo peso la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. Biondo, con gli occhi azzurri, tutto vestito di velluto rosso, Piombofino era bello come un dio, ma la malìa si faceva ogni giorno più perversa.
    Ormai il peso del giovinetto era tale che tutti i buoi del Regno non bastavano a smuoverlo d'un dito.
    Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiamati inutilmente intorno all'erede incantato.

    Non altre adoro - che Piumadoro...
    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    E Piombofino affondava sempre più, come un mortaio di bronzo nella sabbia del mare.
    Un mago aveva predetto che tutto era inutile, se l'aiuto non veniva dall'incrociarsi di certe stelle benigne.
    La Regina correva ogni momento alla finestra e consultava a voce alta gli astrologhi delle torri.
    - Mastro Simone! Che vedi, che vedi all'orizzonte?
    - Nulla, Maestà... La Flotta Cristianissima che torna di Terra Santa.
    E Piombofino affondava sempre.
    - Mastro Simone, che vedi?...
    - Nulla, Maestà... Uno stormo d'aironi migratori...
    - Mastro Simone, che vedi?...
    - Nulla, Maestà... Una galea veneziana carica d'avorio.
    Il Re, la Regina, i ministri, le dame erano disperati.
    Piombofino emergeva ormai con la testa soltanto; e affondava cantando:

    Oh! Piumadoro,
    bella bambina - sarai Regina.

    S'udì, a un tratto, la voce di mastro Simone:
    - Maestà!... Una stella cometa all'orizzonte! Una stella che splende in pieno meriggio!
    Tutti accorsero alla finestra, ma prima ancora la gran vetrata di fondo s'aprì per incanto e Piumadoro apparve col suo seguito alla Corte sbigottita,
    I soffioni le avevano tessuta una veste di velo, le farfalle l'avevano colorata di gemme. Le diecimila cetonie, cambiate in diecimila paggetti vestiti di smeraldo, fecero ala alla giovinetta che entrò sorridendo, bella e maestosa come una dea.
    Piombofino, ricevuto il primo bacio di lei, si riebbe come da un sogno, e balzò in piedi libero e sfatato, tra le grida di gioia della Corte esultante.
    Furono imbandite feste mai più viste. E otto giorni dopo Piumadoro la carbonaia sposava il Reuccio delle Isole Fortunate.
     
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  3. sognatrice09
     
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    La danza degli gnomi di Guido GOzzano
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    Quando l'alba si levava,
    si levava in sulla sera,
    quando il passero parlava
    c'era, allora, c'era... c'era...

    ... una vedova maritata ad un vedovo. E il vedovo aveva una figlia della sua prima moglie e la vedova aveva una figlia del suo primo marito. La figlia del vedovo si chiamava Serena, la figlia della vedova si chiamava Gordiana. la matrigna odiava Serena ch'era bella e buona e concedeva ogni cosa a Gordiana, brutta e perversa.
    La famiglia abitava un castello principesco, a tre miglia dal villaggio, e la strada attraversava un crocevia, tra i faggi millenari di un bosco; nelle notti di plenilunio i piccoli gnomi vi danzavano in tondo e facevano beffe terribili ai viaggiatori notturni.
    La matrigna che sapeva questo, una domenica sera, dopo cena, disse alla figlia:
    - Serena, ho dimenticato il mio libro di preghiere nella chiesa del villaggio: vammelo a cercare.
    - Mamma, perdonate... è notte.
    - C'è la luna più chiara del sole!
    - Mamma, ho paura! Andrò domattina all'alba...
    - Ti ripeto d'andare! - replicò la matrigna.
    - Mamma, lasciate venire Gordiana con me...
    - Gordiana resta qui a tenermi compagnia. E tu va'!
    Serena tacque rassegnata e si pose in cammino. Giunse nel bosco e rallentò il passo, premendosi lo scapolare sul petto, con le due mani.
    Ed ecco apparire fra gli alberi il crocevia spazioso, illuminato dalla luna piena.
    E gli gnomi danzavano in mezzo alla strada.
    Serena li osservò fra i tronchi, trattenendo il respiro. Erano gobbi e sciancati come vecchietti, piccoli come fanciulli, avevano barbe lunghe e rossigne, giubbini buffi, rossi e verdi, e cappucci fantastici. Danzavano in tondo, con una cantilena stridula accompagnata dal grido degli uccelli notturni. Serena allibiva al pensiero di passare fra loro; eppure non c'era altra via e non poteva ritornare indietro senza il libro della matrigna. Fece violenza al tremito che la scuoteva, e s'avanzò con passo tranquillo.
    Appena la videro, gli gnomi verdi si separarono da quelli rossi e fecero ala ai lati della strada, come per darle il passo. E quando la bimba si trovò fra loro la chiusero in cerchio, danzando. E uno gnomo le porse un fungo e una felce.
    - Bella bimba, danza con noi!
    - Volentieri, se questo può farvi piacere...
    E Serena danzò al chiaro della luna, con tanta grazia soave che gli gnomi si fermarono in cerchio, estatici ad ammirarla.
    - Oh! Che bella graziosa bambina! - disse uno gnomo.
    Un secondo disse: - Ch'ella divenga della metà più bella e più graziosa ancora.
    Disse un terzo:
    - Oh! Che bimba soave e buona!
    Un quarto disse: - Ch'ella divenga della metà più ancora bella e soave!
    Disse un quinto: - E che una perla le cada dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.
    Un sesto disse: - E che si converta in oro ogni cosa ch'ella vorrà.
    - Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce lieta e crepitante.
    Ripresero la danza vertiginosa, tenendosi per mano, poi spezzarono il cerchio e disparvero. Serena proseguì il cammino, giunse al villaggio e fece alzare il sacrestano perché la chiesa era chiusa.
    Ed ecco che ad ogni parola una perla le usciva dall'orecchio sinistro, le rimbalzava sulla spalla e cadeva per terra. Il sagrestano si mise a raccoglierle nella palma della mano. Serena ebbe il libro e ritornò al castello paterno. La matrigna la guardò stupita. Serena splendeva di una bellezza mai veduta:
    - Non t'è occorso nessun guaio, per via?
    - Nessuno, mamma.
    - E raccontò esattamente ogni cosa. E ad ogni parola una perla le cadeva dall'orecchio sinistro.
    La matrigna si rodeva d'invidia.
    - E il mio libro di preghiere?
    - Eccolo, mamma.
    La logora rilegatura di cuoio e di rame s'era convertita in oro tempestato di brillanti.
    La matrigna trasecolava.
    Poi decise di tentare la stessa sorte per la figlia Gordiana. La domenica dopo, alla stessa ora, disse alla figlia di recarsi a prendere il libro nella chiesa del villaggio.
    - Così sola? Di notte? Mamma, siete pazza?
    E Gordiana scrollò le spalle.
    - Devi ubbidire, cara, e sarò un gran bene per te, te lo prometto.
    - Andateci voi!
    Gordiana, non avvezza ad ubbidire, smaniò furibonda e la madre fu costretta a cacciarla con le busse, per deciderla a partire.
    Quando giunse al crocevia, inargentato dalla luna, i piccoli gnomi che danzavano in tondo si divisero in due schiere ai lati della strada, poi la chiusero in cerchio; e uno si avanzò porgendole il fungo e la felce e invitandola garbatamente a danzare.
    - Io danzo con principi e con baroni: non danzo con brutti rospi come voi.
    E gettò la felce e il fungo e tentò di aprire la catena dei piccoli ballerini con pugni e con calci.
    - Che bimba brutta e deforme! - disse uno gnomo.
    Un secondo disse: - Ch'ella diventi della metà più ancora cattiva e villana.
    - E che sia gobba!
    - E che sia zoppa!
    - E che uno scorpione le esca dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.
    - E che si copra di bava ogni cosa ch'ella toccherà.
    - Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce irosa e crepitante.
    Ripresero la danza prendendosi per mano, poi spezzarono la catena e disparvero.
    Gordiana scrollò le spalle, giunse alla chiesa, prese il libro e ritornò al castello.
    Quando la madre la vide dié un urlo:
    - Gordiana, figlia mia! Chi t'ha conciata così?
    - Voi, madre snaturata, che mi esponete alla mala ventura.
    E ad ogni parola, uno scorpione dalla coda forcuta le scendeva lungo la persona.
    Trasse il libro di tasca e lo diede alla madre; ma questa lo lasciò cadere con un grido d'orrore.
    - Che schifezza! È tutto lordo di bava!
    La madre era disperata di quella figlia zoppa e gobba, più brutta e più perversa di prima. E la condusse nelle sue stanze, affidandola alle cure di medici che s'adoprarono inutilmente per risanarla.
    Si era intanto sparsa pel mondo la fama della bellezza sfolgorante e della bontà di serena, e da tutte le parti giungevano richieste di principi e di baroni; ma la matrigna perversa si opponeva ad ogni partito.
    Il Re di Persegonia non si fidò degli ambasciatori, e volle recarsi in persona al castello della bellezza famosa. Fu così rapito dal fascino soave di Serena che fece all'istante richiesta della sua mano.
    La matrigna soffocava dalla bile; ma si mostrò ossequiosa al re e lieta di quella fortuna. E già macchinava in mente di sostituire a Serena la figlia Gordiana.
    Furono fissate le nozze per la settimana seguente. Il giorno dopo il Re mandò alla fidanzata orecchini, smaniglie, monili di valore inestimabile.
    Giunse il corteo reale per prendere la fidanzata. La matrigna coprì dei gioielli la figlia Gordiana e rinchiuse Serena in un cofano di cedro.
    Il Re scese dalla carrozza dorata e aprì lo sportello per farvi salire la fidanzata. Gordiana aveva il volto coperto d'un velo fitto e restava muta alle dolci parole dello sposo.
    - Signora mia suocera, perché la sposa non mi risponde?
    - È timida, Maestà.
    - Eppure l'altro giorno fu così garbata con me...
    - La solennità di questo giorno la rende muta...
    Il Re guardava con affetto la sposa.
    - Serena, scopritevi il volto, ch'io vi veda un solo istante!
    - Non è possibile, Maestà - interruppe la matrigna - il fresco della carrozza la sciuperebbe! Dopo le nozze si scoprirà.
    il Re cominciava ad inquietarsi.
    Proseguirono verso la chiesa e già la madre si rallegrava di veder giungere a compimento la sua frode perversa.
    Ma passando vicino ad un ruscello, Gordiana, smemorata ed impaziente, si protese dicendo:
    - Mamma, ho sete!
    Non aveva detto tre parole che tre scorpioni neri scesero correndo sulla veste di seta candida.
    Il Re e il suocero balzarono in piedi, inorriditi, e strapparono il velo alla sposa. Apparve il volto orribile e feroce di Gordiana.
    - Maestà, queste due perfide volevano ingannarci.
    Il suocero e il Re fecero arrestare il corteo a mezza strada. Il Re salì a cavallo e volle ritornare, solo, di gran galoppo, al castello della fidanzata.
    Salì le scale e prese ad aggirarsi per le sale chiamando ad alta voce.
    - Serena! Serena! Dove siete?
    - Qui, Maestà!
    - Dove?
    - Nel cofano di cedro!
    Il Re forzò il cofano con la punta della spada e sollevò il coperchio. Serena balzò in piedi, pallida e bella. Il re la sollevò fra le braccia, la pose sul suo cavallo e ritornò dove il corteo l'aspettava. Serena prese posto nella berlina reale, tra il padre e il fidanzato.
    Furono celebrate le nozze regali.
    Della matrigna e della figlia perversa, fuggite attraverso i boschi, non si ebbe più alcuna novella.


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  4. gheagabry
     
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    ... una principessa chiamata Nevina che viveva sola col padre Gennaio.
    Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte dagli astri e dagli edelweiss, poi, quando la cornucopia era piena, la vuotava secondo il comando del padre ai quattro punti dell'orizzonte. E la neve si diffondeva sul mondo.
    Nevina era pallida e diafana, bella come le dee che non sono più: le sue chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come l'azzurro dei ghiacciai.
    Nevina era triste.
    Nelle ore di tregua, quando la notte era serena e stellata e il padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava l'orizzonte lontano, sognando.
    Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che avevano tentato invano di confortarla; nei brividi dell'agonia la rondine aveva delirato, sospirando il mare, i fiori, i palmizi, la primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste.
    Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta, interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami, fissandola con occhi curiosi e ridarelli.
    - Nevina!
    - Nevina! Dove vai?
    - Nevina, danza con noi!
    - Nevina, non ci lasciare!
    E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro rami d'edera e di felce morta.
    Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le dee che non sono più.
    Giunse a valle, fu sulla grande strada.
    L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro nell'aria fatta gelida subitamente.
    Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi.
    Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro.
    Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio.
    Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo:
    - Chi sei?
    - Nevina sono. Figlia di Gennaio.
    - Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio!
    Nevina fissava il principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso.
    - Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare!
    Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo:
    - Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno.
    Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno...
    - Nevina, ti voglio sposare!
    - I tuoi sudditi non vorranno una regina che diffonde il gelo.
    - Non importa. La mia volontà sarà fatta.
    Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s 'arrestò coprendosi di un pallore più diafano.
    - Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve!
    E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia.
    - Fiordaprile! ... Mi sento morire! .. . Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!...
    Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle.
    - Nevina! Nevina!
    Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare.
    - Nevina! Rispondi!
    Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana.
    Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa in un addio sorridente.
    Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso il ghiaccio eterno, verso il regno inaccessibile del padre Gennaio.

     
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  5. tappi
     
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    GRAZIE
     
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  6. gheagabry
     
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    da ARCA


    Conoscete questa favola???


    la-cicala-e-la-formica-e-altre-favole-libro-puzzle-2970125


    C’era una volta una Formichina e una Cicala che erano molte amiche…….

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    Durante tutto l’autunno la Formichina vorò senza riposo, raccogliendo cibo per l’inverno…..

    Non si gustò il sole, né la dolce brezza della sera, né le chiacchiere con gli amici davanti a una birretta dopo un giorno di lavoro….


    Nel frattempo, la Cicala cantava con gli amici nei bar della città, non sprecando nemmeno un minuto.
    Cantò tutto l’autunno, ballo, si godette il sole, senza preoccuparsi del maltempo che stava arrivando…


    Dopo alcuni giorni arrivò il freddo, e la Formichina, esausta di tanto lavorare, si mise nella sua tana, povera ma piena fino al tetto di cibo…..

    cicala-formica

    Ma qualcuno la chiamò per nome da fuori, e quando aprì la porta ebbe una grossa sorpresa, vedendo la sua amica Cicala in una Ferrari nuova fiammante, con una bellissima pelliccia indosso…





    La cicala le disse:

    - Ciao amica! Vado a passare l’inverno a parigi! Potresti dare un’occhiata alla
    mia casetta?


    - La Formichina rispose:

    - Certo senza problemi!

    Ma che ti è successo? Dove hai trovato i soldi per andare a Parigi, comprare una Ferrari e una pelliccia così bella e cara?


    E la Cicala rispose:

    Guarda stavo cantando in un bar la settimana passata, è ad un produttore è piaciuta la mia voce….Ho firmato un contratto per degli show a Parigi.

    A proposito ti serve qualcosa di là??



    Si disse la Formichina…..

    Se incontri La Fontaine (autore della favola originale),

    MANDALO A............ DA PARTE MIA.






    Piccola morale


    Approfitta della vita, dosa bene il lavoro e il divertimento, perché lavorare troppo porta benefici solo nelle favole di La Fontaine.
    Lavora, ma usa bene la vita, è unica.
    Se non trovi mezza arancia, non perderti d’animo:
    prendi mezzo limone, mettici zucchero, rum e ghiaccio e sia felice!
    E ricorda: vivere solo per lavorare fa molto bene….al patrimonio del Padrone!!!!



    Buona giornata!!!!!!!!!
     
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  7. gheagabry
     
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    Favole Dal Web

    La cavallina del Negromante

    C'era una volta un pover'uomo rimasto vedovo, con un figlio chiamato Candido; egli possedeva per tutta fortuna un campicello e tre buoi. Candido, che era un bimbo sveglio e intelligente, giunti agli otto anni disse al padre:
    - Vorrei andare a scuola...
    - Non ho danaro sufficiente, figlio mio!
    - Vendete uno dei buoi.
    Il padre restò pensoso, poi si decise. Alla fiera seguente vendette uno dei buoi e col danaro ricavato mandò Candido alla scuola.
    Candido imparava rapidamente e i maestri erano sbigottiti della sua intelligenza.
    Quando seppe leggere e scrivere, decise di mettersi pel mondo alla ventura. Si vestì d'un abito nero da un lato, bianco dall'altro e si mise in cammino. Per via incontrò un signore a cavallo:
    - Dove vai, ragazzo mio?
    - A cercar lavoro.
    - Sai leggere?
    - Leggere e scrivere.
    - Allora non fai per me. -e il signore proseguì la via.
    Candido restò sbigottito, poi si tolse l'abito, lo vestì a rovescio, corse attraverso i campi fino a trovarsi una seconda volta sulla strada dello sconosciuto; questi non lo riconobbe:
    - Dove vai, ragazzo mio?
    - A cercar lavoro.
    - Sai leggere?
    - Né leggere né scrivere.
    - Sta bene. Sali in groppa, dietro di me.
    Candido salì sul cavallo dello sconosciuto e dopo molti giorni di cammino giunsero ad un castello circondato da mura altissime.
    Nessuno venne a riceverli; discesero nel cortile deserto e il signore condusse egli stesso il suo cavallo alla scuderia; poi disse a Candido:
    - Non vedrai qui dentro persona viva; ma non t'inquietare; avrai ogni cosa che ti talenta e un lauto stipendio.
    - Quali sono le mie incombenze, signoria?
    - Dovrai aver cura dei cavalli che ho nelle mie scuderie, non altro. Oggi devo partire per un viaggio lunghissimo, e non ritornerò che fra un anno e un giorno: il mio castello è nelle tue mani. Addio!
    Il barone partì.


    Candido, rimasto solo, curava diligentemente i cavalli. Quattro volte al giorno trovava la mensa imbandita nella vasta sala da pranzo, senza mai vedere anima viva né udir voce umana; mangiava, beveva, passeggiava per le sale e pel parco.
    Un giorno vide tra gli alberi trasparire una veste azzurra: era una fanciulla bellissima che fuggiva verso le scuderie.
    Candido la raggiunse e la principessa si rivolse a lui con volto supplichevole.
    - Sono uno dei cavalli che voi avete in custodia: un pomellato bianco, il terzo a destra di chi entra. Sono figlia del Re di Corelandia e il barone negromante m'ha cangiata in cavallo perché non lo volli per marito... Se il barone, al suo ritorno, sarà contento dei vostri servigi, per ricompensarvi vi dirà di scegliere uno dei cavalli; e voi scegliete me, non avrete a pentirvene.
    Candido promise e si diede a leggere i libri del barone e apprese i segreti della negromanzia. Dopo un anno il barone era di ritorno al castello.
    - Sono soddisfatto dei tuoi servigi, e poiché l'anno è passato, eccoti una borsa di monete d'oro. Vieni nelle scuderie, dove potrai sceglierti un cavallo pel tuo ritorno al paese.
    Scesero nelle scuderie e Candido, dopo aver finto qualche esitazione, indicò il pomellato bianco.
    - Scelgo quello.
    - Come? Quella rozza? Non sei veramente buon intenditore; guarda i magnifici cavalli che le son vicini!
    - Mi piace quella e non ne voglio altri.
    - Sia pure disse il barone; e pensò: «Servo scaltro! Deve conoscere il mio segreto; ma lo saprò raggiungere a mezza via!».
    Candido prese la cavallina pomellata e partì. Appena fuori del castello, essa riapparve nelle forme della principessa.
    - Grazie, amico mio. Ritorna presso tuo padre, ed io ritorno alla Corte di Corelandia, dove tu dovrai trovarti fra un anno e un giorno.
    E disparve.
    Candido si diresse al paese natìo.
    Giunse dopo molti giorni alla capanna e si gettò nelle braccia del padre, che stentava a riconoscerlo.
    - Siamo ricchi, padre mio, e bisogna goderci il nostro danaro!
    E gli presentò la borsa e incominciarono pei due giorni di felicità ed agiatezza. Ma, poiché tutto ha una fine, anche il gruzzolo giunse all'ultimo scudo.
    - Figlio mio, siamo ritornati alla miseria di prima!
    Non inquietatevi! Domattina andremo alla fiera per vendere un magnifico cavallo.
    - Un cavallo? Dove lo posso prendere?
    - Poco importa: domattina l'avrete e ne riceverete trecento scudi; ma badate di non cedere la briglia al compratore.
    - La briglia si cede con la bestia - osservò il vecchio .
    - Non lasciate la briglia, vi ripeto, o mi esporrete ad un pericolo irreparabile.
    - Sta bene, la riporterò a casa, benché non sia costume.
    All'indomani il vecchio udì nitrire alla porta e vi trovò un magnifico cavallo; ma cercò invano suo figlio perché l'accompagnasse:
    «Mi avrà forse già preceduto al mercato». E si mise in cammino.
    Giunto in paese non trovò suo figlio e fu circondato subito dai compratori.
    - Bello il vostro cavallo. Quanto volete?
    - Trecento scudi e la briglia per me.
    - Facciamo duecentocinquanta.
    - Non cedo d'un soldo!
    S'avanzò un mercante sconosciuto dai capelli rossi e dagli occhi di brace (era il barone travestito) che fece l'offerta:
    - È caro. Ma la bestia mi piace e non mercanteggio. Datemi la briglia ch'io lo possa condurre.
    - La briglia non la cedo a nessun patto.
    - Allora non ne facciamo nulla.
    E lo sconosciuto s'allontanò minaccioso.
    Il cavallo fu venduto a un carrettiere che non pretese la briglia; condusse la bestia per la criniera e la chiuse con altri cavalli nella sua scuderia.
    Ma all'alba il cavallo non c'era più.
    Era Candido che, grazie ai segreti appresi nei libri magici, s'era trasformato in cavallo, poi in uomo ancora, per ritornarsene dal padre.
    Padre e figlio godettero i trecento scudi e vissero lieti per molti giorni.
    Giunti all'ultima moneta, Candido disse:
    - Non c'è più danaro. L'altra volta mi trasformai in cavallo nero, domattina mi trasformerò in cavallo bianco e mi porterete al mercato; ma badate bene di non cedere la briglia, o tutto è finito per me.
    All'alba il vecchio sentì nitrire nel cortile, e vide un cavallo bellissimo, candido come la neve. Lo prese per la briglia e si diresse al mercato.
    I compratori circondarono la bestia; s'avanzò il mercante sconosciuto, dai capelli rossi e dagli occhi fiammeggianti.
    - Bella bestia, la vostra; quanto volete?
    - Cinquecento scudi.
    - Sono troppi. Ma ve li do. Lasciatemela prima provare.
    E lo sconosciuto salì in sella, cacciò gli speroni nei fianchi della bestia che fuggì di galoppo, lasciando il povero vecchio senza cavallo e senza briglia.
    Giunto dinanzi a un maniscalco lo sconosciuto scese di groppa, entrò nella fucina:
    - Maniscalco, il mio cavallo non è ferrato. Fategli all'istante quattro ferri di quattrocento libbre ciascuno.
    - Quattrocento libbre? Voi scherzate, signore!
    - Non scherzo, eseguite senza commenti e sarete ben pagato.
    Mentre il barone e l'uomo parlavano, il cavallo era stato legato ad un anello del muro. Alcuni bimbi gli furono intorno e presero a tormentarlo.
    - Staccatemi, bambini belli!
    - Un cavallo che parla! e i piccoli esultarono di gioia.
    - Che dice dunque?
    - Dice di staccarlo.
    - Sì, staccatemi, bambini, e vi divertirò con un bel giuoco.
    Il più alto e il più audace staccò il cavallo, che si convertì subito in lepre e disparve nei campi. Il barone uscì dalla fucina col maniscalco.
    - Dov'è il mio cavallo?
    - S'è mutato in lepre ed è fuggito attraverso i campi.
    Il barone negromante si mutò in cane e si precipitò sulle sue tracce.
    Candido, incalzato da presso, si mutò in airone e il negromante lo seguì nell'aria sotto forma d'uno sparviero, e giunsero così nella capitale della Corelandia; lo sparviero stava per ghermire l'airone quando questo si mutò in un anello e infilò il dito della principessa che sospirava alla finestra del castello.
    Il negromante riprese la sua forma umana e si presentò a palazzo per offrire le sue cure al Re, che era sofferente d'un morbo insanabile.
    - Prometto di guarirvi, Sire; ma ad un patto.
    - Domandate e qualsiasi pretesa vostra sarà appagata.
    - Voglio l'anello d'oro che porta in dito vostra figlia.
    - Questo soltanto, volete? Io son disposto a ben altro!
    - Non domando altro, Maestà.
    Intanto la principessa aveva chiuse le finestre e stava togliendosi gli anelli; quando si tolse quello d'oro le apparve Candido sorridente.
    - Oh Candido! Come siete qui?
    Candido narrò i casi suoi:
    - Il negromante è nel castello ed ha promesso a vostro padre di guarirlo a patto gli sia dato il vostro anello; voi acconsentite, ma nell'atto di passarlo al dito del negromante, lasciatelo cadere in terra e tutto andrà per il meglio.
    La principessa promise.
    All'indomani il vecchio Re fece chiamare la figlia nella sala del trono e le presentò il negromante travestito da medico.
    - Figlia mia, questo medico famoso non domanda, per rendermi la salute, che il tuo anello d'oro.
    - Acconsento - disse la principessa, e fece atto di passare l'anello al dito del negromante, ma lo lasciò cadere ad arte sul pavimento.
    L'anello si cangiò in fava e il negromante in gallo, per inghiottirla, ma la fava si cangiò in volpe e divorò il gallo.
    Candido riprese la sua forma di prima, dinanzi a tutta la Corte sbigottita del prodigio.
    La principessa presentò al padre il suo liberatore e quel giorno stesso furono celebrate le nozze.

    (Guido Gozzano)
     
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6 replies since 5/8/2010, 00:00   1069 views
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