LOMBARDIA parte 2

il sud ..e Pavia

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  1. gheagabry
     
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    BUONGIORNO...FELICE RISVEGLIO A TUTTI


    “... Mercoledì ... la Lombardia si distende sotto la nostra mongolfiera immensa, variegata con i suoi colori e l’alternanza di paesaggi ... voliamo verso sud, attraverso questa meravigliosa regione, per raggiungere le sue province più meridionali ... è meraviglioso questo viaggio, l’Italia si mostra in tutta la sua bellezza e i racconti dei nostri amici la rendono ancora più speciale...osservo ogni giorno questo naturale donare carezze e condividere emozioni e ne sono felice ed emozionato a mia volta ... un fiume che condivide le sue acque con altri e corre fino al mare a fondersi in una immensità di acque ... pensieri liberi nella mia mente, il vento carezza i miei capelli mentre la mongolfiera vola libera verso la meta del nostro viaggio di oggi ... eccole Pavia e Cremona ... le province che oggi visiteremo ... Buon risveglio amici miei ... il viaggio riprende anche oggi ..."

    (Claudio)


    TERRE FERTILI..COLTURE DI RISO..BOSHI DI PIOPPI E LA PIANURA PADANA..IL SUD DELLA LOMBARDIA..PAVIA E CREMONA..



    “Pavia è una città ricca di monumenti quale ricordo del suo importante passato……Numerose sono le chiese e le basiliche, come San Michele Maggiore (particolarissima la facciata, realizzata in fragile pietra arenaria e scandita da un finto loggiato nella parte alta) o come il Duomo, completato solamente sul finire dell’800 secondo l’originario progetto cinquecentesco. A croce greca, la sua cupola ottagonale è la terza più grande d’Italia (la prima è San Pietro in Vaticano e la seconda quella di Santa Maria del Fiore a Firenze) e conserva le spoglie mortali di San Siro, patrono e primo vescovo della città…..San Pietro in Ciel d’Oro (qui la facciata è in maiolica). Al suo interno si conserva la tomba del re longobardo Liutprando e le reliquie di sant’Agostino…Il castello Visconteo, costruito nel 1350 circa da Gian Galeazzo Visconti, ospita al suo interno le raccolte civiche, mentre il suo immenso parco giungeva anticamente fino alla Certosa di Pavia.”

    "La Certosa di Pavia è un bellissimo monastero costruito sul finire del 1300, distante solo pochi chilometri da Pavia …i lavori per la costruzione della Certosa di Pavia si avviarono nel 1396, per volere del Duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, che scelse questo luogo al limite del parco visconteo…doveva divenire il mausoleo dei Duchi di Milano, per cui si voleva costruire un’opera imponente e maestosa, da affidare alle cure dell’ordine dei Certosini….La visita alla Certosa comincia immettendosi in una piazzetta con un bel vialetto e delle aiuole molto curate; in breve si giunge alla Chiesa che appare con la facciata in stile gotico, con magnifici pinnacoli. Intorno alla chiesa sorge…. un piccolo edificio dove all’interno è esposto un gigantesco torchio utilizzato fino agli inizi del 1900 e ricavato da un unico tronco di quercia…..La visita alla chiesa lascia estasiati, dando l’idea di scorgere una porzione di paradiso, tra l’azzurro e l’oro, tanto amati dai certosini. Solo una parte della chiesa si può visitare da soli in quanto ad un certo punto c’è un cancello dove bisogna attendere un monaco che accompagnerà per tutto il percorso, narrando le vicende del monastero e la vita che qui si conduceva…….il refettorio, che fu la prima ala utilizzata quando il monastero non era ancora completo, fungendo così anche da chiesa…..e le celle usate dai monaci nei secoli passati, chiamate anche villette, visto che trascorrevano gran parte del tempo in solitudine, quindi erano dotate di stanza da letto, dispensa, uno studio per svolgere il lavoro di amanuensi ed un piccolo giardino…..nel cortile antistante la chiesa, è possibile visitare il Giardino dei Semplici e il negozietto che presenta vari tipi di tisane benefiche e altri prodotti dei cappuccini ..liquori, marmellate, miele.”

    “..l’ambiente tipico di un sottobosco in Lomellina…..è un bosco naturale di pioppi , dove la vegetazione si sviluppa spontaneamente senza l’ordine prestabilito che vediamo oggi nelle coltivazioni della zona…l’habitat essenziale per molte specie animali stanziali e migratorie che qui sostano per riprodursi: un esempio tipico è dato dalle garzaie, luoghi di nidificazione e riproduzione degli aironi. Molte altre sono le specie ospitate: dai mammiferi (volpi, tassi, lepri, ecc.) ai volatili (aironi, picchi, gufi, allocchi, ecc.).. “

    “Il riso viene da lontano: dall’Asia, dove era già conosciuto nella sua varietà selvatica dal 3.500 a.C. Ma in Europa arrivò solo secoli e secoli dopo e non subito questo cereale venne riconosciuto per il suo valore nutritivo. Solo dopo le pestilenze e le carestie del XIV secolo, si iniziò a considerarlo come fonte di sostentamento. Di conseguenza, il riso è approdato nel Pavese, presumibilmente tra il 1427 e il 1493, portando grandi cambiamenti sia nello stile di vita che nel paesaggio…..”
    “La piana pavese è dominata dalla coltura del riso. Chilometri e chilometri di risaie fanno di questo vasto territorio un ambiente affascinante e suggestivo, grazie a quella sensazione di equilibrio tra natura e attività dell’uomo e allo scorrere delle stagioni che, in risaia, si traduce in un sorprendente sfumare di colori. L’inverno è dominato dal silenzio e dal colore bruno della terra a riposo, nei mesi più freddi spesso striato dal bianco della brina o della neve e avvolto dal grigio argenteo della nebbia. In primavera, il risveglio delle risaie è brillante e cristallino, come l’acqua che le sommerge e le trasforma in un’immensa scacchiera di specchi che riflettono l’intero ambiente circostante, dalle nuvole, ai monti, agli alberi, al più piccolo filo d’erba. D’estate il riso che cresce è di un verde carico e acceso che dà forza ed energia al panorama e ben si sposa con l’azzurro del cielo e le vaporose nubi estive. In autunno, il riso ormai maturo si trasforma in oro e, prima di essere raccolto, dona al panorama tonalità calde e magiche.”

    “... Vigevano….La città è situata a trentacinque chilometri da Milano e Pavia, e sia per la sua posizione strategica ( guado sul fiume Ticino ) che per il fertile territorio fu sin dalle sue antichissime origini, antecedenti all’anno mille, al centro di contese e guerre che la vedrà nel bene e nel male protagonista del proprio destino. Durante le scorrerie dei Barbari fu rifugio delle popolazioni vicine, con i comuni per oltre 150 anni subì guerre e distruzioni…Nel periodo “Visconteo“, la città si espanse, le fortificazioni ed il castello furono ampliati; Luchino Visconti fece costruire la strada coperta (1347) che scavalcando le abitazioni del borgo collegava il castello alla Rocca….Circondata dai boschi del Parco del Ticino…..Vigevano accoglie il visitatore con l'armonia della celebre Piazza Ducale: "una sinfonia su quattro lati" secondo la definizione del grande maestro Arturo Toscanini….Ideata dal Bramante è l'ingresso d'onore all'imponente Castello, per estensione uno dei più grandi d'Europa ….Città d'arte ma anche città d'acque, Vigevano è attraversata da canali e dal fiume Ticino che offre scorci e oasi naturali di indubbio fascino…Da Ludovico il Moro a Eleonora Duse, allo scrittore Lucio Mastronardi, sono tanti i personaggi che hanno visto la luce in una città…”

    “Si dice che il destino dell'Oltrepò come terra di grandi vini fosse già insito nella sua forma "a grappolo". Ma in questo vasto triangolo di terra stretto tra le province di Alessandria e Piacenza, che partendo dal Po s'insinua fino all'Appennino ligure-emiliano, non esistono soltanto le vigne note per le uve dalle quali nascono, tra gli altri, il Barbera, la Bonarda e il Buttafuoco. Si tratta, infatti, di una terra dal paesaggio incredibilmente vario e interessante: dai campi a perdita d'occhio che ricoprono la pianura a sud del Po alle dolci colline ricoperte di vigne, fino alle alture del sud, coronate da fitti boschi di querce e di acacie. Una terra attraversata da sentieri cicloturistici ed escursionistici, da una Strada del Vino e dei Sapori e, come se non bastasse, arricchita dal potere curativo delle sorgenti termali che sgorgano a Salice Terme e Rivanazzano.”

    “Nel cuore della Pianura Padana, la provincia di Cremona è un'alchimia di acqua e terra….Lo scorrere dei fiumi Po, Oglio, Serio e Adda assicurano alla campagna cremonese un fascino unico, una bellezza regolare delineata dai filari di pioppi…..A fare da grande strada della natura è il Po con il suo lento scorrere ricco di fascino e di storia. Proprio grazie al fiume, sfruttato come via commerciale sin dai tempi dei Romani, Cremona diviene punto nevralgico per i commerci fino al tardo Medioevo….Le mura venete di Crema, il castello visconteo di Pandino, la rocca sforzesca di Soncino, le mura di Pizzighettone, importante presidio militare sull’ Adda… rappresentano un prezioso patrimonio artistico e sono testimonianza delle complesse vicende storiche del territorio...”

    “Se le fortificazioni del Cremasco hanno mantenuto la loro conformazione difensiva, dalla parte opposta della provincia è possibile compiere un viaggio all’interno di lussuose residenze patrizie, in origine castelli: Villa Medici del Vascello a San Giovanni in Croce, Villa Mina della Scala a Casteldidone e di Villa Sommi Picenardi a Torre De’ Picenardi…“Si è sempre considerata Cremona come la patria della liuteria e dei suoi più insigni maestri, ma sarebbe più corretto considerare Cremona città della musica dove la realtà liutaria antica e moderna si affianca alla realtà teatrale e alla formazione musicale….”

    “Cremona è una città che conserva intatte le antiche tracce del folclore contadino. Molte sono infatti le manifestazioni che nel corso dell'intero anno ripropongono i rituali del passato….Fondata da Romani nel 218 a.C., retta dai vescovi nel periodo carolingio, è una delle prime città italiane a costituirsi come libero Comune…. Una grande fioritura economica e artistica la contraddistingue nel periodo comunale e poi in quello del dominio dei Visconti…. Decade sotto il dominio spagnolo, per riprendersi nel '700…….. La piazza del Comune è splendida e vi sono raccolti straordinari monumenti: il Torrazzo, il portico della Bertazzola, il Palazzo del Comune, la Loggia dei Militi, il Battistero e il Duomo…..Tra gli edifici.. il cinquecentesco Palazzo Affaitati, che ospita il Museo civico Ala Ponzone, con raccolte archeologiche, marmi e terrecotte romaniche e rinascimentali e il Museo Stradivari, dedicato alla liuteria. Cremona ha avuto una celebre scuola di liutai, con Stradivari e Guarneri come maestri insuperabili…”

    "Alba sul Po ..È un chiarore che conserva il buio…I pioppeti in golena appena freschi di boccioli sono ancora ombre….La nebbia risale con la luce che accende il sole che s'arrampica per il cielo sempre più grande..sempre più rosso…sempre più impregnato delle acque del fiume arrossato…I contorni dei pioppi..nella nebbia..rilanciano i colori tenui della primavera…È la natura della vallata che canta al giorno che viene...E nel frattempo il sole è diventato argento."

    Bruno Cobianchi










    Le province lombarde ....






    da augusto


    FRANCIACORTA - Prov Brscia


    "E dobbiamo girare, guardare avere cura del patrimonio di questa nostra terra, perché se non avremo cura noi della nostra terra, chi mai ne avrà in vece nostra? E chi avrà mai cura di noi che siamo incuranti delle stesse nostre cose?".
    (Loris Jacopo Bonomi)



    E' proprio dalle parole di Loris Jacopo Bonomi che abbiamo tratto le motivazioni per raccontarvi in breve e senza presunzione di completezza la gloriosa storia della terra di Franciacorta e delle sue genti.
    Innanzitutto è necessario individuare i confini geografici di quella che ai giorni nostri è conosciuta come "la terra del bollicine".


    Nella gergo locale, infatti, viene indicata come Franciacorta "quella parte della provincia di Brescia che si estende ad Occidente della città ed è compresa tra: il fiume Oglio ad Ovest, le colline alla destra del Fiume Mella ad Est, il Lago d'Iseo e le ultime propaggini delle Alpi Retiche a Nord e la pianura sud collinare a Sud", comprendendo nella parte centrale quel territorio che costituisce dal lato morfologico l'Anfiteatro morenico sebino o della Franciacorta.
    L'Anfiteatro sebino ha un paesaggio pacato, di tono tenue, ma acuto e ondulato, ancora quasi intatto. In esso è presente un patrimonio storico-ambientale costituito da ville e palazzi del '600-700, da chiese e castelli da conoscere, da conservare e proteggere e che certamente costituiscono importanti itinerari culturali.


    Oltrepo Pavese


    Per dare una età all'Oltrepò dovremmo partire da 43 milioni di anni fa, età delle rocce più antiche, a 1 milione di anni per quelle più recenti. Di 3000 anni fa è il tralcio di vite fossile trovato a Casteggio , testimonianza dell'antichità di questa produzione tipica locale. A tale data si fanno risalire i primi insediamenti . In epoca relativamente più recente sono certificati insediamenti di :liguri che venivano dal golfo del Tigullio e dall'entroterra, di Celti, nel IV secolo a.C., con le loro avanzate conoscenze agricole e l'uso del sapone e di Romani che solo nel 222 con la battaglia di Casteggio riescono a sconfiggere le popolazioni locali, con le loro frecce avvelenate e il loro capo, Britomarto.
    I Liguri Iriati, furono così i primi popoli ad insediarsi nell'Oltrepò pavese, rimanendovi sino al IV secolo a.C., quando sopraggiunsero i Celti. Due secoli più tardi dovettero poi subire poi l'invasione romana. Gli Iriati fondarono sulle rive del torrente Iria (l'attuale Staffora), non lontano dalla confluenza nel Po, un villaggio che prese il nome dal torrente stesso. Iria, (l'attuale Voghera).
    Le strade costruite dai romani favoriscono la fondazione e lo sviluppo di nuove città, dove erano magari prima gli accampamenti militari, come ad esempio Romagnese, fondato dai soldati romani scampati alla battaglia del Trebbia contro Annibale.
    Dopo l'impero romano, Longobardi e Franchi si avventurarono nella conquista del territorio e dal 900 famiglie locali si accaparrano colli e vallate, investiti dagli Otoni, poi appoggiati dal Barbarossa per un'alleanza contro i Comuni della lega lombarda fino alla sconfitta di Legnano.

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    L'Oltrepò Pavese nacque ufficialmente nel 1164, quando l'Imperatore Federico I concesse alla città di Pavia il diritto di nominare i consoli nelle località che costituiscono, grosso modo, l'attuale Provincia di Pavia. Questo atto seguì peraltro ad un periodo in cui l'ingerenza pavese nelle terre a sud del Po si era andata intensificando per via dei contrasti con Tortona e Piacenza (guelfe) con Pavia (ghibellina).
    Prima di allora l'Oltrepò Pavese non esisteva nè come entità politica nè come entità amministrativa.
    In epoca romana gli unici due centri di una certa rilevanza erano Iria (l'attuale Voghera) e Clastidium (l'attuale Casteggio).
    Ancora all'inizio dell'800 l'Oltrepò era diviso ecclesiasticamente tra le diocesi di Tortona e Piacenza, con poche sparse parrocchie dipendenti invece da Pavia.
    Nel 1359 cadde insieme a Pavia sotto la dominazione dei Visconti di Milano e successivamente degli Sforza.
    Nel 1499 il territorio pavese, comprendente l'Oltrepò, ebbe la qualifica di Principato di Pavia.

    Sotto gli Sforza l'Oltrepò era governato da un Capitano con sede a Casteggio.
    Agli antichi signori locali che la città di Pavia aveva confermato nei loro possessi si erano affiancati nuovi feudatari pavesi, e infine quelli nominati dai duchi di Milano. Dalla metà del XV secolo e sino al XVIII secolo l'Oltrepò rimase diviso in feudi.
    C'erano i piccoli feudi (detti camerali) dell'Oltrepò propriamente detto (l'originario dominio pavese), feudi dotati di scarsa autonomia fiscale e giurisdizionale, e i grandi feudi dell'alta collina e della montagna, assoggettati dai duchi di Milano , ma ancora dotati di larga autonomia. Questi ultimi erano detti terre diverse; avevano ognuno una sorta di statuto speciale e vari privilegi. I principali erano i marchesati di Fortunago, Godiasco, Varzi e Pregola, nati (salvo il primo) dalla disgregazione del marchesato dei Malaspina, cui in gran parte ancora appartenevano; molto importante anche il feudo di Bobbio, appartenente ai Dal Verme.

    l'Oltrepò passò nel 1535 alla Spagna e nel 1713 all'Austria; nel 1743, col trattato di Worms tra l'Austria e i Savoia, fu separato dal Principato di Pavia e unito al Piemonte. Sotto i Savoia l'Oltrepò conobbe una grande fioritura: divenne una provincia con capoluogo Voghera, il centro che era divenuto ormai il principale della zona, e che in precedenza aveva a lungo, e inutilmente, cercato di affrancarsi dal dominio pavese.

    Nel 1770 Voghera fu elevata a Città regia.
    Con l'arrivo di Napoleone l'Oltrepò venne diviso in due circondari : Voghera e Bobbio. L'oltrepò fu unito prima al dipartimento di Marengo e poi a quello di Genova, appartenente all'Impero Francese.
    Nel 1814 ritornò ai Savoia insieme con Bobbio e vennero costituite due province : Voghera e Bobbio; nel 1859, dopo l'annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, le due piccole province ritornarono a Pavia, ricostituendo così il principato da cui era nata.

    L'800 è per l'Oltrepò un periodo di splendore e di relativa tranquillità, perché dopo secoli di scorribande si costruisce, si investe in vie selciate, ferrovie, i primi stabilimenti per la lavorazione del vino, la prima fabbrica di fisarmoniche a Stradella, invenzione di un artigiano trentino, Mariano Dallapè, fabbriche, ospedali, il cinema muto...
    Nel 1923 il territorio di Bobbio fu staccato da Pavia e unito a Piacenza e in piccola parte a Genova.
    Se si riesce a cogliere, solamente però percorrendo l'oltrepò, l'essenza del suo paesaggio, si può intuire come il territorio sia diventato punto di incrocio e di incontro, di separazioni e di unioni, di arrivi e di partenze. Solo così si può capire il perchè della sua storia passata e del suo presente, le sue tradizioni e le sue aspettative future.




    PAVIA

    Distesa sulle rive dell'azzurro Ticino (vedi Parco del Ticino ), limitata a sud dalle anse del Po e dai primi rilievi collinari e ad est dalle risaie della Lomellina, Pavia (o "Ticinum" come era chiamata anticamente) è città di millenaria tradizione storica e culturale.
    D'impianto romano, poi centro della civiltà dei Goti, divenne capitale del Regno Longobardo e si dotò di straordinarie testimonianze monumentali, in parte tuttora conservate in cripte, testi epigrafici, corredi decorativi scultorei.
    La splendida fioritura romanica tra l'XI e il XIII secolo viene espressa in cattedrali, palazzi e nelle svettanti Torri in laterizio che hanno reso celebre Pavia.
    L'età visconteo-sforzesca lascia la sua più suggestiva immagine nel Castello Visconteo, ora sede dei Musei Civici, residenza di diporto dei duchi, che nel retrostante Parco Visconteo esercitavano la caccia e che nel collegato monastero della Certosa praticavano la loro devozione.
    Oltre che luogo di svago e di soggiorno, Pavia è sede di antichissimo "studium" universitario ( Università degli Studi ), potenziato nel XVIII secolo da Maria Teresa d'Austria e oggi centro all'avanguardia, che richiama studenti da ogni parte d'Europa. Qui, nella quiete e nel silenzio dei vicoli tortuosi della città medievale, all'ombra dei giardini nascosti, nei silenziosi porticati degli storici Collegi di Carlo Borromeo e di Pio Ghisleri , essi possono ritrovare il sereno rapporto tra uomo e città.






    Certosa di Pavia

    è un monastero, situato nell'omonimo comune distante circa 8 km a Nord di Pavia, risalente al XIV secolo. Rappresenta uno dei più importanti monumenti tardo-gotici italiani. La posizione originale del monastero era al margine del parco visconteo a nord del castello di Pavia; del parco sono oggi rimaste soltanto alcune parti (il Parco della Vernavola, a nord di Pavia) non più collegate al castello e alla Certosa.


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    L'interno della Certosa




    Un dettaglio della facciata



    L'interno e il coro




    Il chiostro









    Pavia è una cittadina molto bella.......si respira la pianura padana.....è abitata da persone tranquille .... si muovono al ritmo delle stagioni.....perchè a Pavia secondo me le stagioni ..si esprimono letteralmente...non ci sono grandi sbalzi ...caldo o freddo.... sembrano scivolare .... pacatamente una dietro l'altra...senza tanto rumore...l'affascinante nebbia....dell'autunno ....si inchina all'inverno.......gli alberi ..grandi braccia .... contornano le risaie...ed in primavera timide foglie nascono dai rami.....e come per incanto arriva l'estate calda...un po' affannata.......
    il susseguirsi delle risaie.....grandi specchi d'acqua....che riflettono il cielo ...di colpo sembrano esistere due mondi ......uno dritto verso il cielo.. l'altro sottosopra... non dimenticherò mai l'incontro con un gracile airone cenerino ..ero bimba...in auto ...al finestrino affascinata da quel paesaggio...e d'improvviso lui era li...incurante delle auto che sfrecciavano....camminava con le sue esili gambe ...in mezzo all'acqua....non ci crederete la sua immagine è rimasta indelebile...negli anni ..e quando ritorno da quelle parti mi sembra di vederlo ancora....




    è buonissima

    • Polenta e Bruscitti

    Dolce specialità della Pasticceria Campi di Busto Arsizio. Ricorda il piatto tipico bustocco: la polenta e bruscitti appunto

    In pratica è un pandispagna farcito di crema al cioccolato e panna e bagnato con strega con sopra una crema gialla particolare, che risulta molto gommosa che dovrebbe ricordare una polenta, ed intorno delle nocciole tritate intrisi nel miele che dovrebbero ricordare la carne macinata, i bruscitti.




    da augusto

    LA TORTIONATA O TORTA DI LODI

    La Tortionata è un dolce tipico lombardo, precisamente lodigiano. E' una torta a base di mandorle e si presume che risalga al tardo Medioevo per alcuni fattori, quali la forma, le mandorle, l'altezza e la morbidezza nonostante sia una torta secca. Probabilmente dato che è scarsa di uova, anticamente gli ingredienti venivano legati con il miele.

    Questa ricetta l'ho presa dal mio librone delle Ricette Regionali.
    Io ho sostituito g. 150 di mandorle spellate con 100 g. di mandorle spellate e 50 g. pelose.





    "Biografia

    Anna Maria Mazzini, in arte Mina, è nata a Busto Arsizio il 25 Marzo 1940; il padre, Giacomo, è un industriale chimico, e la famiglia è completata dalla madre Regina e dal fratello minore Alfredo. Nel 1943 si trasferiscono a Cremona, e qui Anna Maria studia ragioneria, che però abbandona al quarto anno, perchè nel frattempo ha iniziato a dedicarsi alla musica, soprattutto ai dischi di rock'n'roll che in Italia arrivano dagli U.S.A. proprio in quegli anni, ed ha formato anche un complesso, gli "Happy Boys".




    • Le Copete


    altro dolce tipico di busto..



    Le Copete si presentano come due ostie dal diametro di 10 cm circa, ripiene di noci e/o nocciole e/o mandorle tostate e caramellate nel miele o nello zucchero.

    Lo spessore finale del pasticcino è di circa 1 cm.

    Le Coppette di S. Antonio sono, invece, dei pasticcini formati da due cialde (tipo wafer) di 8 cm di lato circa, ripiene di noci caramellate nel miele



     
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  2. tomiva57
     
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    Ordine Certosino

    L'Ordine Certosino (in latino Ordo Cartusiensis, sigla O.Cart.) è uno dei più rigorosi ordini monastici della Chiesa cattolica. L'istituto è stato fondato da San Bruno nel 1084 nella Savoia, Francia, con la creazione del primo monastero, la Grande Chartreuse.

    Prende il nome dal massicio della Certosa (Massif de la Chartreuse), dove san Bruno e sei compagni cercarono la solitudine per dedicarsi alla vita contemplativa. Fin dai primi tempi, si trova delineata la caratteristica della vita certosina: unione di uomini solitari che vivono in una piccola comunità.

    Questa caratteristica si è conservata attraverso i secoli. I certosini sono dei solitari riuniti come fratelli; la comunità che formano è piccola a causa della loro scelta eremitica; tanto che si parla di famiglia certosina. Questa si esprime in momenti particolari, soprattutto nella liturgia celebrata in comune, ma anche in occasione di incontri come le ricreazioni.

    Al 31 gennaio 1996, l'ordine contava 18 monasteri detti Certose e 366 tra monaci, 177 dei quali sacerdoti.

    La vita dei padri

    Durante la settimana i padri si riuniscono tre volte al giorno in chiesa: per il Mattutino, per la messa conventuale e per i Vespri. Le domeniche, e i giorni di festa di una certa importanza, cantano in coro tutto l'ufficio, eccetto l'ora Prima e la Compieta, pranzano in refettorio e hanno una ricreazione nel pomeriggio. Infine escono in "spaziamento" una volta la settimana.

    Lo spaziamento è la passeggiata settimanale durante la quale si può parlare liberamente. Si svolge il primo giorno libero della settimana, di solito il lunedì. Dura tre o quattro ore. Si cammina normalmente in coppia, per favorire il confronto personale. Periodicamente ci si ferma per cambiare i gruppi.

    In refettorio non si parla mai. Durante il pasto uno dei monaci legge dal pulpito. Si legge, soprattutto, la Sacra Scrittura oppure gli Statuti, opere relative alla festività del giorno o altre opere scelte dal priore.

    Nell’Ordine certosino lo studio ha sempre avuto importanza, ma non è l’occupazione primaria per i monaci. I certosini si dedicano, soprattutto, allo studio della Sacra Scrittura e della teologia.

    Il lavoro manuale procura ai padri la distensione fisica necessaria alla salute. È, però, anche un modo per partecipare umilmente alla condizione umana, come Cristo a Nazaret. I monaci lavorano da soli nella cella. Il loro lavoro, che deve essere veramente utile, consiste in occupazioni diverse, ma tutti si occupano di tenere in ordine la cella, il giardino e di tagliare la legna per l’inverno. Alcuni padri, come il sacrista o il bibliotecario, hanno mansioni specifiche. Gli altri, invece, svolgono lavori di artigianato:

    * preparazione dei pasti,
    * rilegatura,
    * falegnameria,
    * scultura in legno,
    * smalti,
    * miniature,
    * pittura d’icone,
    * riparazioni varie.

    Secondo la tradizione certosina, il "monaco del chiostro" ricerca la solitudine della cella per cercarvi Dio. La cella è un porto sicuro dove regnano la pace, il silenzio e la gioia. Se sono diversi i compiti ai quali il monaco si dedica durante la giornata, tutta la sua esistenza deve essere una preghiera continua.

    La giornata del "monaco del chiostro"

    La giornata del monaco è uguale per tutto l’anno. Il monaco impara così a vivere al ritmo lento delle stagioni e dei tempi liturgici.

    * 19.45 riposo per 4 ore
    * 23.45 in cella Mattutino della Madonna e preghiere
    * 0.30 in chiesa Mattutino e Lodi
    * 2.30 o 3.30 in cella Lodi della Madonna e riposo
    * 6.45 risveglio
    * 7 Ora Prima – preghiere
    * 8.15 in chiesa - Messa conventuale
    * 9.15 in cella, Ora Terza – preghiere
    * 10 Studio o lavoro manuale
    * 11.45 Ora Sesta - preghiere
    * 12 Pasto – tempo libero
    * 14.30 Nona - preghiere
    * 14.45 Studio o lavoro manuale
    * 16.45 Vespri della Madonna
    * 17 in chiesa, Vespri
    * 17.45 in cella, cena - lettura – preghiera
    * 19 Compieta riposo

    All'interno dell'orario settimanale la vita del monaco certosino può assumere forme assai differenti, soprattutto grazie ai diversi modi di preghiera e di contemplazione ai quali si può dedicare.



    le produzioni del loro lavoro
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  3. tomiva57
     
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    Pavia, città d'arte

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    Pavia, Ponte Coperto

    Adagiata sulla riva sinistra del fiume Ticino, dove fu fondata oltre duemila anni fa, Pavia può contare su di un ricco patrimonio storico, artistico e naturale con il quale presentarsi agli occhi di turisti e visitatori.

    La città si presta in modo particolare ad un percorso di visita, che può prendere avvio dal suo centro storico per essere poi completato spostandosi poco oltre i suoi limiti.

    Come punto di partenza, il Castello Visconteo, situato a nord della città, fondato da Galeazzo II Visconti nella seconda metà del XIV sec., attualmente sede dei Musei Civici, e la vicina chiesa di S. Pietro in Ciel d' Oro, del XII sec., notevole esempio di romanico pavese, ospitante le spoglie di S. Agostino, di Severino Boezio e del re longobardo Liutprando.

    Lungo Strada Nuova (ex-cardo) si noti la facciata del Teatro Civico Fraschini, già Teatro dei Quattro Cavalieri, costruito tra il 1771 ed il 1773 su progetto di Antonio Galli Bibbiena ed intitolato al tenore pavese Gaetano Fraschini, poco oltre la sede centrale dell' Università (lo studio generale fu ufficialmente fondato dai Visconti nel 1361), a cui si aggiungono numerosi istituti e collegi. Tra questi ultimi si possono ricordare il Collegio Ghislieri ed il Collegio Borromeo del XVI sec., entrambi progettati da Pellegrino Tibaldi e rispettivamente fondati da Papa Pio V e da S. Carlo Borromeo.

    Recandosi in Piazza Leonardo da Vinci, attigua all'Università, si noti l'Aula Magna (1850) e, di fronte a questa, l'Ex-Ospedale San Matteo (l'odierna Aula del ‘400), sulla cui parete ha trovato collocazione copia della Pietà attribuita ad Antonio Mantegazza, conservata nella Sala XIV dei Musei Civici; poco oltre si possono ammirare tre Torri Medievali, un tempo così numerose da conferire a Pavia la denominazione di "Città dalle Cento Torri". Nella medesima piazza si può notare, sovrastata da moderna struttura, la Cripta di S. Eusebio, del sec. XI, connessa con un'antica cattedrale ariana già esistente nel VII sec. ( il santo titolare, vescovo cristiano di Vercelli, fu persecutore degli ariani ).

    In Corso Mazzini (ex-decumano) è situato Palazzo Mezzabarba, sede municipale dal 1875, progettato da Giovanni Antonio Veneroni nel sec. precedente. All'incrocio con Strada Nuova Corso Mazzini prosegue come Corso Cavour (ex-decumano) e conduce in Piazza della Vittoria, dove si distinguono il Broletto, risalente al XII-XIII sec., sede municipale fino al 1875, Palazzo de' Diversi (XIV sec.), noto anche come Domus Rubea, la "Casa Rossa", per l'inconfondibile colore dell'intonaco di rivestimento, S. Maria Gualtieri, del sec. XI, non più officiata, ma interessante esempio di recupero monumentale, il complesso absidale del Duomo, fondato nella seconda metà del XV sec. dal Cardinale Ascanio Sforza, con il campanile (XVIII sec.) e la cupola (per dimensioni, la terza in Italia ), risalente al sec. scorso, su progetto di Carlo Maciachini.

    Via Omodeo, che dal Broletto costeggia il lato nord del Duomo, conduce ai resti della Torre Civica, manufatto romanico collassato il 17 marzo 1989 e alla Piazza del Duomo, dominata dalla particolare facciata della chiesa, che avrebbe dovuto ricevere una copertura in marmi policromi. Davanti al Palazzo Vescovile (XVI sec.) suscita curiosità il Regisole (1937), monumento equestre per anni simbolo e sigillo della città: l'opera, una delle migliori di Francesco Messina, autore anche della statua della Minerva nell'omonima piazza, raffigura un imperatore romano ed è il rifacimento di un'antica statua in bronzo distrutta durante i moti giacobini.

    Procedendo nell'itinerario meritano una visita le chiese di S. Maria del Carmine, notevole esempio di architettura gotica e S. Teodoro, tardo-romanica, con due interessanti vedute affrescate di Pavia cinquecentesca. Nei pressi del lungofiume sorge la basilica di S. Michele, del XII sec., che per storia ed arte si inserisce in un circuito culturale di respiro europeo. Il lato nord della chiesa dà su Piazzetta Azzani, prospiciente Corso Garibaldi, che percorso verso est conduce alla chiesa dei SS. Primo e Feliciano, romanica, ma di forme settecentesche al suo interno.

    Non lontano da questa il Ponte Coperto, rifacimento del preesistente ponte trecentesco, distrutto durante la seconda guerra mondiale, conduce al quartiere Borgo Ticino, dove si può visitare la chiesa tardo-romanica di S. Maria in Betlem, così denominata per la sua posizione su Via dei Mille, un tempo direttrice per la Terra Santa.

    Appena al di fuori del centro storico completano la panoramica le chiese di S. Lanfranco e di S. Lazzaro, entrambe romaniche. La prima, situata ad ovest della città, custodisce una pregevole arca (1498), opera di Giovanni Antonio Amadeo, dedicata al santo titolare. La chiesa si trova nelle immediate vicinanze del Ticino, in una zona, dunque, ricca della tipica vegetazione del fiume. S. Lazzaro, a cui si accede da Viale Cremona, è inceve situata ad est del tracciato urbano. Essa risale al XIII sec. e rivela uno stile di transizione tra romanico e gotico.


    Arte e Cultura nella provincia di Lodi

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    Piazza della Vittoria


    Il territorio lodigiano si presenta ricco di testimonianze di storia, arte e cultura. Il suo patrimonio artistico è visibile in tutto il suo splendore in ogni angolo della città di Lodi come nei paesi che le fanno da corollario.

    Il Lodigiano anticamente era una terra paludosa, resa poi fertile dall’instancabile opera delle comunità monastiche di cui rimane un suggestivo esempio nell’edificio chiesastico, benché rimaneggiato nel corso dei secoli, nell’abbazia cistercense dei ss. Pietro e Paolo ad Abbadia Cerreto. A pochi chilometri da Lodi, immersa in uno scenario suggestivo della campagna lodigiana, emerge anche la mole della Basilica dei XII apostoli (detta di s. Bassiano a partire dal X secolo d.c.) di Lodi Vecchio.

    La città capoluogo, nacque per volontà di Federico I di Svevia detto “Il Barbarossa” nel 1158 dopo la distruzione della romana Laus Pompeia, l’odierna Lodi Vecchio. I suoi monumenti più rappresentativi risalgono all’età romanica, all’età romanico-gotica, a quella rinascimentale e barocca e tra questi spiccano la Cattedrale, la chiesa di san Lorenzo, la chiesa di sant’Agnese, la chiesa di san Francesco, il Santuario dell’Incoronata (capolavoro del Rinascimento lombardo))e la chiesa di san Filippo.

    Nel lodigiano tutti da scoprire sono anche i castelli, le ville e i palazzi ricchi di testimonianze del passato, edificati durante il periodo medievale a difesa del territorio, costruiti da nobili famiglie o da grandi proprietari terrieri, nel Settecento come dimore signorili e in epoche più recenti, in stile liberty eclettico, come per esempio Villa Biancardi a Zorlesco di Casalpusterlengo.

    Raccolte d’arte e musei custodiscono infine lo straordinario patrimonio artistico composto da opere di pittura, scultura e manufatti della ceramica artistica lodigiana conosciuta per il suo caratteristico decoro floreale.



    CASALPUSTERLENGO
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    Villa Biancardi venne fatta costruire da Serafino Biancardi, sull'area occupata da un preesistente castello ed é per questo conosciuta anche col nome di "castello di Zorlesco". I lavori di costruzione ebbero inizio nel 1911 ed il progetto fu molto probabilmente affidato a Gino Coppedè. Villa Biancardi é in stile Liberty Eclettico ed é caratterizzata, come molte costruzioni coeve, dalla presenza di un'alta ed elegante torre terminante con un elegante belvedere.
    Le pareti esterne della villa sono intonacate e, nella parte corrispondente al piano terra, la decorazione pittorica a graffiti riprende il motivo del bugnato, presente nella torre d'angolo, mentre la fascia sottotetto é dipinta con riquadri in finto marmo.
    Le grandi finestre sono incorniciate da raffinate decorazioni a formelle in cotto, prodotte dalla locale fornace.
    La facciata principale della villa é caratterizzata da un ampio portico a sette arcate a tutto sesto.
    All'interno gli spazi sono razionalmente distribuiti e l'ambito privato, rappresentativo e di servizio sono ben separati fra loro.
    Il motivo conduttore della decorazione interna della casa, che cambia da stanza a stanza, é dato dalla fascia dipinta sulla parte superiore della parete: un invito ad ammirare i soffitti a cassettoni.
    La sala della caccia in origine era la sala da pranzo ed é una delle stanze meglio conservate della villa. Deve il suo nome all'importante fascia dipinta con scene di caccia, opera attribuita ad Angelo Prada, pittore di Casalpusterlengo.
    La sala del biliardo, era quasi interamente occupata dal tavolo da gioco. Sulla parete a sinistra si é conservata la rastrelliera per le stecche, completa della tabella segnapunti.
    Uno degli ambienti più suggestivi della villa é quello che comprende la grande scala d'onore, a tre rampe in legno di rovere, interamente realizzato senza sostegni.
    Le formelle in ferro battuto della ringhiera presentano opulenti mazzi di fiori tutti diversi fra loro, legati da nastri svolazzanti. La leggerezza della fattura e l'accuratezza dell'esecuzione fanno pensare che siano opera del grande battiferro lodigiano Alessandro Mazzucotelli.
    La stanza del primo piano con la decorazione più importante é quella della camera da letto del signor Biancardi: un grande tondo racchiude un affresco, anch'esso attribuito ad Angelo Prada, che raffigura una maternità, quasi una natività laica.
     
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  4. tomiva57
     
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    Trivolzio


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    Trivolzio (Trivòlz in dialetto pavese) è un comune italiano di 1.900 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Si trova nel Pavese nordoccidentale, a breve distanza dalla riva sinistra del Ticino.

    Il Nome
    Il nome di Trivolzio deriva molto probabilmente dal latino Trifurcium, ossia "trivio', punto d'incontro di tre strade. E` un nome che ricorre piuttosto frequentemente, in diverse varianti, come testimoniano, per fare solo qualche esempio vicino a noi, Triulzo (frazione di San Donato Milanese, non lontana dall'Abbazia di Chiaravalle), Triulza presso Codogno e l'attributo di Locate Triulzi, strettamente legato anche al cognome della famiglia Trivulzio.
    La posizione di Trivolzio avvalora quest'ipotesi. Non possiamo identificare con assoluta certezza le tre antiche strade del trivio. Chi veniva da Pavia, una volta arrivato a Trivolzio, poteva proseguire dritto verso Casorate, o girare a sinistra in direzione del Ticino, o a destra verso Villarasca ed altre piccole località della campagna pavese settentrionale.
    La strada diretta al Ticino correva per intero nel territorio di Trivolzio. Quella rivolta a nord est puo` forse essere identificata con l'antichissima via ad Cerrum, citata da alcuni autori. Oltre ad un possibile riferimento all'attuale cascina Cerro, in comune di Battuda, ricordiamo che la campagna abbondava ovunque di cerri e di querce.

    Le origini
    Non abbiamo alcun indizio dell'esistenza di Trivolzio durante l'alto medioevo. Il piu` antico documento che citi il nome del paese e` un diploma del Vescovo di Pavia Rainaldo, il quale nel 1045 concesse alla Canonica di San Giovanni Domnarum di Pavia, fra vari altri beni, un terreno incolto posto fra la scomparsa localita` di Agello, Marcignago e Trivolzio.
    Il secondo documento conosciuto riguarda un altro Vescovo di Pavia, Bernardo, il quale acquisto` nel dicembre 1129 la meta` d'una torre nel castello di Tregocio. Nel 1170 un documento del monastero pavese di San Pietro in Ciel d'Oro cita Bonzo di Trivolzio fra le coerenze di un terreno di proprieta` del monastero stesso (a meridie terra Bonzi de Tragozo).
    Negli archivi di San Pietro in Ciel d'Oro un altro documento si riferisce alla strada che conduceva al paese. In un'investitura fatta da quell'Abate nel 1179, fra le coerenze di due mansi di terra nella campagna pavese, compaiono da una parte la strada di Trivolzio (strada Tregocii), dall'altra la strada di Quinto. La strada di Trivolzio appare fra le carte di San Pietro in Ciel d'Oro altre due volte. Nel 1210, in un'investitura in cui forse appare la localita` destinata a diventare Torre d'Isola, dove la strada stessa e` presa come indicazione di confine: a strata Tregotii versus Papiam.
    Nel 1233, per definire due mansi di terra che sono identificabili con quelli del 1179 oppure sono nelle loro vicinanze: super Calvenciam in via de Trigocio. Gli stessi beni del 1179 appaiono, sempre a proposito del monastero pavese, in un'investitura del 1256 (sono posti a levante della strada Tregoltii). Questi accenni, cosi scarsi, dicono di una strada che conduceva a Trivolzio.
    Nel 1181 l'elenco dei pagamenti delle tasse di fodro e giogatico contiene anche la menzione di Trivolzio, che compare ancora, a proposito del suo confine verso il territorio della scomparsa localita` di Torago, in un atto del 1229.

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    Le grandi famiglie
    Nel 1562 fu eseguita una misura del territorio di Trivolzio, dal pubblico agrimensore pavese Bernardino di Locadello. Il documento elenca i nomi dei proprietari presenti allora a Trivolzio. Si trattava per il 66% delel terre, di famiglie nobili e signorili, per il 30% di possidenti locali e solo per il restante 4% di proprietari "minuti".
    Le famiglie delle prime due categorie erano: Giussano, Abbiati, Gringhelli, Ferre`, Re, Landini (Campari Landini), Sangregorio, De Mano, Vecchi, Sacchi, Gambarana, Visconti, Repossi. Una parte di terreni apparteneva anche all'arcipretura di Trivolzio. Sono scomparse dall'elenco dei possidenti l'antica famiglia Astolfi, d'origine longobarda, che possedeva terre a Trivolzio tra il sec. XIV e i primi decenni del XVI, i Del Pozzo, i Maestri, i Moracavalli, i Tonsi, i Giochi e i Bellocchi, possidenti di terre nella zona durante il sec. XV.
    Nel 1616 non risultano piu` presenti i Gringhelli, Ferre`, Re e Vecchi, mentre si aggiungono i seguenti nomi di possidenti: Gazzaniga, Ferrari, Belbello, Del Mangano.
    Nel corso del sec. XVII si registra l'arrivo delle famiglie Crivelli e Grugni, mentre i Rusca appaiono solo nel sec. XVIII.
    Diversi enti religiosi possedevano terre in Trivolzio.
    Il Monastero pavese di Monte Oliveto, di monache vallombrosane, che sorgeva lungo l'attuale via Frank, possedeva terreni a Torradello sin dal sec. XIII. Il Monastero di Sant'Agostino e` citato verso la fine del sec. XIV, il Monastero del Santo Sepolcro (San Lanfranco) ai primi del sec. XV. Il Monastero pavese di Santa Maria di Nazareth, sito in Borgo Ticino, compare in un atto del 1438. Sono citati in documenti il Monastero pavese di San Martino in Pietra Lata, che sorgeva lungo l'attuale via Mentana (sec.XV), San Dalmazio (sec. XVI) e Santa Mostiola, che sorgevano lungo l'attuale via Porta (sec. XVI), San Martino del Leano, poi inglobato nell'attuale edificio dell'Universita` (sec. XVII), il Monastero pavese del Carmine e quello milanese di Santa Maria Maddalena al Cerchio (sec. XVIII).
    Troviamo inoltrela chiesa pavese di Snta Cristina (che sorgeva presso l'attuale piazza della Vittoria) e quella di San Pantaleone (che ha lasciato il nome a un vicolo della citta`, prosso il Carmine), nonche` San Michele, Santa Maria in Pertica, Santa Maria delle mille virtu` (sita nell'attuale piazza Berengario), la Cattedrale, Santa Maria Perone (piazza del Lino), Sant'Invenzio e altre chiese o fondazioni religiose.

    Il tesoretto
    Nel giugno 1940, durante i lavori di campagna, venne alla luce il "tesoretto" di Trivolzio, in prossimita` del paese, nel campo chiamato "dei Santi', facente parte del fondo " Maggiore" di proprieta` Ronaldi. Consegnato dai proprietari alla Sopraintendenza archeologica della Lombardia, esso e` custodito in deposito presso i Musei Civici di Pavia.
    Il ritrovamento archeologico non dimostra che gia` in epoca remota esistesse l'abitato di Trivolzio. I gioielli potrebbero infatti essere stati sepolti ben lontani da un qualsiasi insediamento, per meglio sottrarli al pericolo di cadere in mani estranee. E` l'ipotesi piu` probabile se supponiamo che fossero frutto di rapina. Al contrario, se immaginiamo il loro legittimo proprietario nell'atto di seppellirli dovendo lasciare la propria casa per un periodo imminente riesce agevole pensare alla realta` di un luogo non troppo lontano da essa. Certo, va tenuto presente il fatto che esso sia stato rinvenuto vicino all'abitato e non in aperta campagna.



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    Si tratta di un gruppo di gioielli (4 collane e 3 anelli) che, per le caratteristiche tecnico-stilistiche si attribuiscono a varie fasi dell'età tardoantica e barbarica: accanto alle collane con catene a maglie fitte o intrecciate, con fermagli lavorati a filigrana o con pendagli, che meno risentono delle nuove tendenze dell'oreficeria, vediamo invece le tipologie degli anelli che rappresentano le produzione del V secolo, ..... caratterizzati dalla diffusione di motivi stilizzati (uccelli, busti) incisi sul castone piatto e sporgente, completamente in oro, applicato a verghette lavorate in modo più o meno elaborato. La datazione proposta per l'intero complesso e` la prima metà del V sec. d.C.
    Forse nascosti a causa dell'invasione ostrogota del 488 d.C.


    Palazzi e monumenti importanti

    I Palazzi

    Trivolzio non conta oggi molti edifici antichi, ma i documenti permettono di ricostruire la consistenza di diverse case nobiliari, costruite nei secoli passati.
    I Giussano, che forse possedettero estesi beni in questa zona sin dalla seconda meta` del sec. XIV, ebbero piu` di una casa padronale e divisero la loro residenza fra qui e Pavia. Il notaio Alberto abitava verso la fine del sec. XV in una casa a corte comune con la chiesa. Un secolo piu` tardi Ludovico di Giussana abitava probabilmente alla Torrazza allorche` stava in paese. Nel 1662, nella vendita di alcuni beni di famiglia comparira`, oltre alla Torrazza, una seconda casa padronale con giardino e cortile. La famiglia Sangregorio, altra antica casata con possedimenti in Trivolzio, nella seconda meta` del sec. XV aveva una casa padronale, che probabilmente fu venduta con altre proprieta` ai Giussano. Nel testamento dettato da Ludivico di Giussano nel 1590 e` citato un ceseggiato con dipendenze, abitato da massari, chiamato "il cortile Sangregorio".
    Nella seconda meta` del sec. XV, contemporanea a quelle del notaio Alberto di Giussano e dei Sangregorio, sorgeva la casa dei Moracavalli, nobili pavesi. Gli Abbiati furono piu` affezionati alla residenza in Trivolzio delle due precedenti famiglie, perlomeno dalla fine del sec. XVI.
    Ricordiamo anche la casa padronale del nobile Giovanni Gringhelli, venduta con tutti i suio beni ai Belbello nel 1566. Esistono anche cenni, nel 1587, sull'abitazione in paese del nobile Giovanni Tesseri.
    La maggior parte delle case aveva un giardino, edifici di servizio e rustici. Le vere e proprie residenze potevano contare pochi locali, ma i complessi edilizi erano spesso imponenti. A Trivolzio e` rimasto poco, dell'edilizia del sec. XV. All'angolo fra la vecchia strada di Pavia e la via Perotti un edificio conserva tracce dell'antico decoro sulla facciata verso il cortile, dov'erano due finestroni con riquadri affrescati, e sopratutto negl'interni, con soffitti a cassettoni originali sia al pianterreno sia al piano superiore e pregevoli mensole di legno scolpito, che reggono le travi maestre. Era forse una delle case dei Giussano. Un secondo esempio di casa signorile dei sec. XV-XVI si trova a pochi metri di distanza, andando a sinistra dall'incrocio in direzione della piazza. Si conservano ancora in Trivolzio una finestrella ad arco ribassato, probabilmente del sec. XVI, su una facciata in fregio nord della strada principale, e un tratto di muratura del sec. XV, sotto un portichetto. Il monumento piu` noto del paese e` il palazzo Rusca. Il nome ricorda gli ultimi proprietari nobili. Esso e` il risultato finale di ampliamenti successivi. Il nucleo piu` antico era la casa padronale che il sigor Giorgio Belbello, nobile pavese, possedeva in Trivolzio, citata in un documento del 1590. La casa primitiva, a pianta rettangolare, fu costruita dallo stesso Giorgio Belbello o forse dallo zio Giovanni Matteo, morto senza figli nel 1580. Passo` in seguito ai Maestri e poi ai Grugni.
    Cristoforo Grugni divenne feudatario di Trivolzio, Trovo, Torrino con Barera, Molino Vecchio, Divisa e Montebello. Il figlio Francesco Grugni acquisto` anche il titolo di marchese. Ebbe dalla moglie, contessa Maria Anna Vecchi, un`anica figlia Clara, che sposo` il conte Carlo Gerolamo Rusca ed eredito` tutti i beni, compresa la casa di Trivolzio col gran giardino. Alla sua morte, nel 1758, li trasmise ai figli Giannantonio e Bernardo.
    Nel 1763 il Vescovo di Pavia concesse ai fratelli conti Giannantonio, Franchino, Bernardo ed Antonia Rusca del fu Carlo Gerolamo, milanesi, di far celebrare Messe negli oratori privati delle loro casa d'abitazione in Pavia e Diocesi. La facolta` era stata richiesta a favore dell'oratorio posto nel loro palazzo di Trivolzio. Il Vescovo diede incarico ai primi di dicembre del 1762 al curato di Trivolzio di visitare quell'oratorio onde verificarne la conformita`. L'ancona dell'altare raffigurava San Gerolamo. (relazione del curato di Trivolzio Carlo Benedetto Giovanolla in data 17 febbraio 1763.)
    La casa rimase ai Rusca per quasi due secoli. Ultima della famiglia fu la signora Carolina, che succedette alla propria madre nel 1906 (l'usufrutto era riservato al padre, cavaglier Carlo Rosenek, morto nel 1913). Carolina Rusca mori nel 1944 lasciando erede testamentario Carlo Enrico Sironi. Questi vendette la proprieta` nel 1959 ad Anna Maria Farina. Il resto e` storia dell'ultimo decennio.
    Il palazzo Rusca, grazie all'ampia area verde che ha potuto conservare e al fatto d'essere stato ininterrottamente residenza signorile, e` rimasto il piu` rappresentativo monumento di architettura civile di Trivolzio.Verso la strada principale, esso offre sul muro esterno una bella meridiana, ad ore italiche, che pero` richiederebbe un nuovo gnomone, al posto del vecchio ormai distrutto.
    I quadranti degli orologi solari possono infatti essere predisposti per indicare le ore italiche o le cosiddette ore francesi, con madalita` nella computazione del tempo decisamente differenti. Premesso che in entrambi i quadranti il giorno e` diviso in 24 ore uguali, con le ore italiche il giorno termina al tramonto (ora ventiquattresima) e il giorno successivo inizia subito dopo. L'orologio solare ad ore italiche, quasi esclusivamente usato in Italia sin dal sec. XIII, fu "perseguitato" nella seconda meta` del sec. XVIII dalle autorita` locali e quindi piu` decisamente da Napoleone a favore dell'orologio ad ore francesi.
    L'orologio ad ore italiche ripropone la sinonimia del giorno col lavoro e della notte col riposo e quindi non indica le ore trascorse, ma quelle che mancano per arrivare al tramento. Un tempo lo si collocava alto sulle pareti, per dare modo a chi lo osservava da fuori le mura della citta`, o fuori del villaggio, di ricavare l'informazione diretta di quanto tempo aveva a disposizione prima che il sole tramontasse e che le porte venissero sbarrate. Era consuetudine infatti che al crepuscolo (mezz'ora dopo il tramonto) non fosse piu` possibile accedere all'interno dell'abitato. L'orologio italico e` di lettura piutosto complessa, specie ai giorni nostri, tuttavia dal punto di vista speculativo e` uno strumento concepito in modo molto intelligente: al variare delle stagioni si adegua automaticamente, senza bisogno di correzioni, alla durata variabile del giorno.
    Nel quadrante ad ore italiche le tracce orarie non convergono in un punto, ma sono tangenti ad una particolare curva. Lo gnomone esce perpendicolarmente dalla parete, da un punto che si trova sull'orizzontale dell'ora XXIV. La lettura dell'ora e` indicata dall'ombra della sola punta dell'asta, che si chiama stilo o gnomone.
    Sono pochi nel pavese gli esemplari noti, fra i quali uno all'Universita`, di recente restaurato, e uno alla Certosa, fatto rivivere una decina d'anni or sono.
    Gli orologi solari ad ore francesi sono invece quelli che comunemente vediamo affrescati su pareti di chiese, ville, cascinali o palazzi. Le ore sono computate dalla mezzanotte e le tracce convergono usualmente nel punto da cui si stacca lo stilo, che esce dalla parete con un'inclinazione pari a quella dell'asse terrestre (45^ alla nostra latitudine), in modo da puntare al Nord celeste. L'ombra dello stilo si adagia in tal caso per intero sulle tracce orarie e la lettura e` facile, purche` si tenga conto del fatto che l'ora locale, identificata dall'ombra solare, fluttua nel corso dell'anno in avanti e indietro di alcuni minuti (sino a una decina) rispetto a quella rigidamente cronometrata da un orologio moderno.
    Un orologio solare "ad ore francesi", di epoca piu` recente di quello di Palazzo Rusca, e` conservato sul fianco sud della chiesa parrocchiale di Trivolzio.
    E` opportuno infine ricordare che col termine di meridiana (comunemente usato per indicare tutti gli orologi solari) si dovrebbe chiamare solo un particolare orologio solare, che segna il mezzogiorno (meridies) mediante una sola traccia, generalmente segnata su un pavimento su cui si posa un raggio di sole che filtra attraverso un foro (gnomonico) ricavato in un disco mettallico e praticato del muro a notevole, altezza, come nelle chiese.Un altro palazzo, presso la chiesa, in fregio sud alla via Perotti, ha una facciata lunga quasi cinquanta metri, dall'andamento irregolare. Fu costruito agl'inizi del sec. XVIII dal Regio Questore Pietro Bonenzio, Francesca, sposo` un Sormani. L'ultimo proprietario della famiglia fu il conte Alessandro Sormani Andreani, cui subentro` nel 1863 il signor Francesco Balli.
    Agl'inizi del nostro secolo risultavano proprietari i cugini Balli, figli dei defunti fratelli Attilio, Valentino-Alessandro e Giacomo. Nel 1920 la proprieta` fu acquistata dal cav. uff. Giuseppe Beltramini e dalla moglie. Tre anni dopo fu trasferita ai fratelli Giuseppe-Amilcare ed Arturo Rolandi. Dalla famiglia Rolandi fu venduta nel 1962 ad una societa` immobiliare di Milano.
    Nel sec. XVIII gli "Stati d'anime" della parrocchia ricordano "la casa dell'Illustrissima Contessa Bonenzia Sormani". In occasione della Visita pastorale dell'ottobre 1773 il Vescovo, dopo avere pranzato e cenato nel Convento di Trivolzio, pernotto` con parte del proprio seguito nella casa dela Contessa. L'edificio conserva all'interno tracce dell'antico splendore. Su tre pareti d'una saletta a pianterreno, verso il giardino, si conservano altrettante vedute del paese, dipinte a tempera. Sulla parete di levante e` dipinta la chiesa parrocchiale con la piazza e gli edifici vicini, sull'opposta la stessa casa Bonenzio-Sormani col prospetto della via, e sulla parete lunga appare l'intera contrada principale del paese, dalla piazza con la stele di San Cornelio sino alla Crocetta all'estremita` opposta (la veduta e` rivolta a settentrione e pone in rilievo il palazzo Rusca). I dipinti sono della fine del sec. XVIII. La datazione e` confermata dalla circostanza che in quello sulla parete est, raffigurante la chiesa, si vede la casa parrocchiale dopo la demolizione del vecchio Convento (sostanzialmente nella situazione attuale): tale demolizione risale al 1784. Lo spazio appare come dilatato e ricco di particolari puntigliosi. La chiesa spicca quasi come una cattedrale, le vie appaiono ampie come piazze, ma l'ambiente tutto e` deserto di presenze umane.



    Particolari di Palazzo Rusca

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    ...statua di Nettuno
    situata nel immenso parco, sullo sfondo parte della facciata del palazzo Rusca. Foto scattata durante l’esondazione del 1993


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    Pozzo d’acqua
    Questo pozzo e` posto centralmente al cortile interno del Palazzo Rusca, detto anche il castello.

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    ...portone (via Pampuri)
    d'accesso al cortile interno del palazzo Rusca. E' stato restaurato alla fine degli anni '80.
    E' formato da due grosse ante di legno massiccio con formelle decorate a sbalzo. Due piccole ante ne permettono il passaggio a piedi in modo più agevole e rapido.


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    ...meridiana
    posta sulla facciata del palazzo Rusca di via Pampuri al di sopra di un bellissimo balcone in ferro battuto..


    I monumenti


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    ... San Cornelio

    Questa statua sormonta una colonna di granito alta circa 5 metri nell'omonima piazza. Ai piedi della colonna vi e` un basamento massiccio di forma quadrata a più scalini. Sullo scalino più alto si legge scolpita la data 1739.
    L'obelisco circondato da piazzola e` posta al centro dell'incrocio in cui convergono le tre direttrici viarie che hanno poi dato origine al nome del paese.

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    Il Campanile
    Dell'antica Chiesa demolita dal Malosso, rimane il maestoso campanile quattrocentesco a guglia conica: artistica torre in stile gotico, somigliante a quella del Carmine in Pavia e piu` ancora a quella di Sant'Eustorgio in Milano.
    E` senza dibbio uno dei piu` antichi e piu` bei campanili dei dintorni: e` anche monumento nazionale.
    La sua costruzione, vero trionfo del mattone nudo, e` a cinque piani, con finestre rettangolari strettissime. L'ultimo piano e` diviso in due parti: la parte superiore forma la cella per le campane. Ogni lato di questa cella ci presenta la balaustra composta di otto colonnette di sasso sostenenti il davanzale pure di sasso.
    Al di sopra della cella campanaria si alza superbo il cono della guglia, terminante con sfera di ferro su cui trionfa la croce.
    Il campanile di Trivolzio, dalla base alla croce, misura 40,50 m.


    Le Campane
    Anche le campane hanno una storia.
    Il ricordo piu` antico risale al 26 marzo 1584, della quale data esiste nell'archivio parrocchiale uno scritto del parroco Fra Ilario Portaluppi, che da` notizia dell'avvenuto rifacimento di una nuova campana, alla quale fu imposto il nome di Cipriano.
    Sul campanile prima di allora vi era una sola campana di nome Cornelio.
    Una terza campana fu collocata al tempo della costruzione della nuova Chiesa.
    Nel 1774 la Ditta Innocente Bonavilla di Milano fuse un nuovo concerto di quattro campane del peso di 30 quintali di bronzo.
    Il prevosto Merli fece rifondere le quattro campane per la costruzione dell'attuale maestoso concerto di otto campane in do maggiore.
    E` il primo concerto della Diocesi. Eseguito nel 1896-1897 dalla premiata Fonderia Angelo Banchi e Figli di Varese, fu incastellato nel mese di maggio sul campanile.
    Una curiosita`: il nuovo concerto di otto campane fu suonato per la prima volta in occasione del Battesimo di Erminio Pampuri, avvenuto il 3 agosto 1897. Quasi una profezia: le campane diedero l'annuncio della nascita di colui che sarebbe divenuto San Riccardo.


    dal libro
    Storia locale
    TRIVOLZIO
    1997



    Corriere della Sera


    La «piccola Lourdes» del frate medico




    L' ultimo miracolo di san Riccardo: portare migliaia di pellegrini aTrivolzio, nel Pavese. Fu respinto da Francescani e Gesuiti. “Aiutami tu” e i malati guarirono

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    TRIVOLZIO (Pavia) - Un paesino fra le risaie e i campi di grano. Poco più di mille anime in due file di case che iniziano con la chiesa e finiscono col cimitero. Anime sempre più vecchie, l' ultima volta il vescovo ha cresimato solo tre bambini. Anime spaventate e trincerate dietro porte sbarrate che si riaprono dopo il tramonto, quando ciò che è rimasto della gioventù di Trivolzio torna da Milano e Pavia, dove è andato a lavorare. Il municipio, la posta, la scuola elementare, la chiesa, l' oratorio, un bar, un fornaio, un negozio di alimentari; ma neanche una banca o una trattoria.
    Collegamenti, disordinati e sparuti: «Se abbiamo bisogno di spostarci, andiamo tutti in macchina»; e per beccare un pullman, un chilometro a piedi fino al bivio della provinciale Bereguardo-Milano. Come sfondo, l' ininterrotto rombo dell' autostrada per Genova; e quella sempiterna foschia che lascia intuire la presenza del Ticino, al di là delle barriere di pioppi di un verde scuro e compatto. A metà della via principale, fra l' insegna «Eleonora e Laura acconciature unisex» e una casa con due piani di tapparelle sbarrate, sopra il negozio di abiti «Gazebo», una targa di marmo ricorda che il 2 agosto 1897 qui venne al mondo Erminio Filippo Pampuri: medico, frate dell' ordine ospedaliero Fatebenefratelli col nome di fra Riccardo, dal 1989 diventato santo. «Il Pampuri che a Trivolzio non ha mai fatto miracoli, però ci fa tanti favori», racconta l' accorata insegnante elementare in pensione che vive al «bivio» per Bereguardo dove, dopo la morte del fratello, fin quando ha potuto ha fatto anche la benzinaia. E per «favori» intende la soluzione degli inevitabili e quotidiani inconvenienti che possono sconvolgere e avvelenare la vita: problemi di salute, malintesi familiari, dissidi coniugali, figli ingrati.
    E intanto, quasi di malumore, Trivolzio vive l' invasione dei pullman e delle auto che di sabato e domenica accorrono alla chiesa parrocchiale dei santi Cornelio e Cipriano per pregare e chieder grazie davanti all' urna contenente il corpo mummificato del fraticello in sandali e saio di cui, neanche a scavare con tutta la buona volontà, a parte i miracoli, si troverebbe alcunché di clamoroso: «Una vita qualunque, una vita come tante altre» dice il parroco don Angelo Beretta. «La mia mamma l' ha tenuto tante volte sulle ginocchia, era un bambino come tutti gli altri» afferma anche la maestra in pensione.
    Anche un po' birichino, a guardare le pagelle di quando frequentava il ginnasio Manzoni a Milano: rimandato a ottobre con 5 in latino e italiano, 4 in geografia e matematica a causa, secondo le testimonianze, delle distrazioni che incontrava lungo la strada. Chi se lo sarebbe aspettato.
    Invece, «io devo seguire la chiamata di Dio, io devo farmi santo», aveva detto alla zia Maria Campari, che lo supplicava di rinunciare a farsi frate: «Un così bravo dottore nella condotta di Morimondo, e di salute così fragile». Infatti, il medico frate muore di tisi a 33 anni, in una stanzetta dell' ospedale san Giuseppe di Milano: una mano stretta intorno al crocefisso; l' altra fra quelle della zia che, dopo la morte della madre, lo aveva cresciuto come un figlio nella sua ricca casa nella campagna di Torrino.
    Sono le dieci e mezzo di sera del 29 aprile 1930, e nonostante la «santa morte» i confratelli lo seppelliscono di corsa nel cimitero di Trivolzio: «Avevano paura che infettasse l' ospedale, gli hanno bruciato persino i vestiti» racconta don Angelo. Il medico condotto che si era fatto frate in età già adulta rimane sepolto nel suo paese fino al 1951.
    Intanto, il custode del cimitero va a lamentarsi col parroco don Mario Gandolfi perché la gente si porta a casa la terra della sua tomba: spalmata su una piaga o una parte dolente del corpo, quando non guarisce, almeno lenisce; in una donna, svanisce come per incanto la sterilità; il neonato, dato per moribondo, torna alla vita; la moglie si riappacifica col marito; il ragazzo timido trova la morosa che diventerà sua sposa.
    Basta questo per fare, del caritatevole frate, un santo ufficiale? «I primi a muovere le acque sono stati “i Fatebenefratelli” - racconta don Angelo -: dopo Giovanni di Dio, non avevano un santo». Nel 1949, l' arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster, avvia il processo di canonizzazione.
    Nel 1981, Pampuri entra nella schiera dei Beati. Il primo giorno di novembre del 1989, Papa Giovanni Paolo II lo proclama santo.
    Trivolzio è in festa. È andata in massa in Piazza San Pietro e accende candele alle spoglie di fra Riccardo, trasportato nella chiesa del paese dopo che, per testardaggine dell' allora arciprete don Mario Gandolfi, è stato sottratto ai Fatebenefratelli, che vorrebbero portarselo a Milano.
    Fra i parrocchiani, una devozione saltuaria, discreta, ma niente di più. Poi, all' improvviso, cominciano ad arrivare i pellegrinaggi organizzati; dalla provincia, dalla Lombardia, da ogni parte d' Italia; e poi dalla Spagna, persino dall' America. Arrivano sempre più numerosi. In pullman, in auto.
    Il sabato e la domenica, assistono alla messa solenne, fanno la comunione, ricevono la benedizione con la reliquia (un frammento osseo), chiedendo di toccarla e baciarla. Prima di ripartire lasciano, ai piedi dell' urna, un loro pensiero, la richiesta della grazia che sperano di ottenere, il ringraziamento per averla ricevuta. Dice il parroco: «Se, fino a poco fa, un registro mi durava un anno, ora ne riempio anche 30 o 40».
    I pellegrini chiedono al santo Pampuri il suo intervento per malattie gravi, affidano la famiglia alla sua protezione, lo implorano perché illumini soprattutto i figli. E poi ringraziano, per infiniti motivi: «Grazie perché adesso ho una casa», è una delle testimonianze di ottobre. «L' arrivo sempre più numeroso dei pellegrini in un paesello sperduto, privo di un qualsiasi posto dove rifocillarsi dopo un viaggio a digiuno e sterminate preghiere, è il “terzo miracolo”» dice il parroco tutto contento. Nella trasmissione televisiva «Miracoli», un giornalista racconta alcuni prodigi compiuti da san Riccardo. Don Giussani, padre fondatore di Comunione e liberazione, arriva qui con un gruppo di giovani.
    Sono affascinati da questa breve vita condotta nella preghiera, nella carità, nella dedizione al prossimo. Ne parlano e ne scrivono, al meeting di Rimini raccontano le loro esperienze, lo scelgono perché protegga i loro studi e li aiuti a trovare la sposa e lo sposo «giusti».
    Molti vengono a sposarsi qui. Portandosi dietro vagonate di giovani, parenti, insegnanti. «Quasi tutte le domeniche arrivano i pullman di quelli di Comunione e liberazione», racconta infastidita la maestra elementare in pensione. Non le va bene che Cl si sia praticamente appropriata del loro santo: «Frate Riccardo è di tutti, ma soprattutto di quelli che ne hanno più bisogno». «Neanch' io sono di Cl - afferma con un mezzo sorriso don Beretta -: ma non posso dimenticare che sono stati loro a passare la parola; è grazie a loro che Trivolzio è diventata “la piccola Lourdes”». Intanto, con le offerte, ha comprato la grande e malandata cascina di fianco alla chiesa per farne un luogo d' accoglienza per i pellegrini e un negozio per i ricordi: «Per il momento, non vendo niente. In chiesa ci sono candele, alcuni piccoli oggetti, i libri delle biografie e dei miracoli, i santini: non c' è scritto il prezzo, i devoti possono dare ciò che possono. Ieri, è venuta una donna per ringraziare fra Riccardo di averle tirato fuori di prigione il marito, aveva solo un euro».
    I meridionali si portano via per ricordo soprattutto un piccolo busto del santo in gesso o metallo brunito. Quelli del Nord preferiscono un rosario con l' effigie incisa su una medaglietta accanto a quella della Madonna. In tempo di messa, sabato e domenica, i pellegrini sono tanti che occorre un altoparlante sul sagrato.
    Almeno per il momento, Trivolzio non specula, non fa mercato, non ha aperto neanche un' osteria. Nella terra del riso, non ha ancora pensato a confezionarne sacchetti col ritratto del medico santo, come è stato fatto sulle candele. Solo da poco è arrivato un contadino che, la domenica, si mette di fianco al sagrato e vende il miele. Il parroco: fino a poco tempo fa un registro mi durava un anno, ora ne riempio anche 30 o 40

    Morto nel 1930 a soli 33 anni, è stato santificato da Giovanni Paolo II nel 1989
    Nato nel 1897 a Trivolzio (nella foto, la chiesa), decimo di 11 fratelli, figlio di un oste, orfano di madre, Erminio Filippo Pampuri è allevato dalla zia materna e da suo marito Carlo Campari, medico condotto di Trivolzio. Pessimo studente a Milano, frequenta invece con profitto il liceo Foscolo di Pavia. Iscritto alla facoltà di Medicina, nel 1917 parte per la guerra. Al ritorno, diventa punto di riferimento per gli studenti cattolici. Il 6 luglio 1921 si laurea col massimo dei voti e diventa terziario francescano, poi medico condotto a Morimondo. Amato per la dedizione ai malati, in pieno regime fascista fonda il circolo di Azione cattolica Pio X, sottraendo i giovani del paese ai circoli mussoliniani che, per non lasciarlo dormire, aprono una sala da ballo sopra la sua casa.
    Dopo sei anni di lavoro, la vocazione lo porta a farsi frate. Respinto da Francescani e Gesuiti per la sua fragile salute, entra nell' ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli con il nome di frate Riccardo. «Aiutami tu», e i malati guariron.
    Nel 1959, l' architetto milanese Ferdinando Michelini, reduce dal lager di Ravensbruck e da allora sofferente di gravi disturbi gastrici, è colpito da occlusione intestinale. Ricoverato all' ospedale San Giuseppe, dove aveva dipinto alcuni quadri raffiguranti frate Riccardo, è operato d' urgenza e dato per spacciato. Il moribondo si affida al frate. La mattina dopo si sveglia gridando: «Ho fame».

    Da quel momento, per grazia ricevuta, si trasferisce in Africa, dove si dedica al bene degli altri.

    Il 4 gennaio 1982 Manolo Cifuentes Rodenas, 10 anni, mentre sposta il ramo di un mandorlo ad Alcadozo, in Spagna, si ferisce all' occhio sinistro. In ospedale la ferita è giudicata gravissima. Il padre applica sull' occhio una placchetta di metallo con la scritta «dai vestiti di fra Riccardo Pampuri, servo di Dio». Padre e figlio pregano lo sconosciuto italiano: lo credono già santo. Il mattino dopo, Manolo si sveglia guarito (nella foto, il santino che ricorda il miracolo).
     
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    ZAVATTARELLO


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    Il nome


    Deriva dal latino volgare savattarellum, letteralmente "luogo dove si confezionano le savatte o ciabatte", per indicare l'attività prevalente nell'antico borgo, dove esistevano numerose botteghe di ciabattini.


    La Storia

    • 971-72, documenti di Ottone I testimoniano l'infeudazione di Zavattarellum al monastero di Bobbio, importante centro di vita religiosa e culturale, dotato di uno dei più cospicui patrimoni immobiliari del tempo.
    • 1169, dopo quasi due secoli di appartenenza al convento di S. Colombano di Bobbio, il feudo, lungamente conteso dalla città di Piacenza, cade in mano a quest'ultima.
    • 1264, il vescovo di Bobbio infeuda Zavattarello al nobile piacentino Ubertino de' Landi, che elegge il castello a sua dimora rendendolo inespugnabile. Signore della guerra, nei 15 anni successivi diventa il terrore della regione a causa delle continue razzie nei paesi e castelli vicini. Intorno alla rocca fortificatissima, comincia a svilupparsi il borgo.
    • 1327, l'imperatore Lodovico il Bavaro concede Zavattarello a Manfredo Landi.
    • 1358, Gian Galeazzo Visconti convoca nel castello di Zavattarello le famiglie Beccaria e Landi, con cui forma la Lega di Voghera contro i Pavesi. Si consolida così il dominio dei Landi sull'Oltrepò pavese.
    • 1385, il vescovo di Bobbio cede la rocca a Jacopo Dal Verme, famoso capitano di ventura. Nel 1390 la donazione è ratificata dal papa Bonifacio IX. Da questa data il feudo è tenuto quasi ininterrottamente dalla famiglia Dal Verme, che nel 1975 dona al Comune di Zavattarello il castello, gravemente danneggiato da un incendio nel 1944.
    • 1987, l'amministrazione comunale inizia il restauro conservativo della rocca, ora quasi ultimato.

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    Zavattarello è forse il paese più storico della provincia di Pavia per antichi fatti d'arme, dicono gli studiosi. Ma non è solo per il castello - da poco recuperato - del celebre capitano di ventura Jacopo Dal Verme, che merita una visita.
    Innanzitutto, le pietre millenarie sono incastonate in un ambiente tra i più suggestivi dell'Oltrepò pavese montano, che richiama alla memoria le amene visioni dei colli umbri o toscani. Siamo nella val Tidone - anticamente abitata dai Liguri, come rivela il toponimo (da tid, tempo, e on, abbreviativo di avon, acqua, cioè "acqua di ore", torrente) - dove l'Appennino ligure digrada verso il Po. Siamo in una vallata sospesa nel tempo, i cui segni sono ovunque, nel paesaggio agrario modellato dall'uomo come nei castelli, nelle antiche pievi ed abbazie.
    Le mura e le torri del borgo testimoniano la strenua difesa di un luogo strategicamente importante per la salvaguardia dello Stato Vermesco.
    Il percorso di visita può iniziare dalla piazza coronata di edifici in pietra, le antiche case di "su di dentro", com'è chiamato il nucleo medievale che, benché bisognoso di restauro, conserva la struttura urbanistica originaria.
    Il borgo, in parte ancora circondato da mura, è attraversato da una via stretta e sinuosa e da numerosi passaggi costruiti a raggera verso la Rocca sovrastante. Tutta in pietra, con uno spessore murario di oltre 4 metri, la rocca titanica con il ricetto fortificato, le scuderie, gli spalti, la chiesa e le sue 40 stanze costituisce un complesso architettonico tra i più interessanti della zona. Dai suoi terrazzi e dalla torre si gode un panorama mozzafiato sul territorio circostante.
    Nel castello è visitabile un museo d'arte contemporanea mentre, tornando nella piazza, è l'arte antica a farsi ammirare nell'oratorio trecentesco di San Rocco, dove si segnala uno stupendo altare ligneo del Quattrocento.
    Contrapposta alla rocca, all'altro lato del paese, si trova la pieve parrocchiale di San Paolo. La struttura è romanica; purtroppo nel Settecento alla facciata originaria ne è stata sovrapposta una barocca. All'interno, oltre ad un notevole altare ligneo con ancona, si notano pale e tele antiche sia nella navata centrale sia nelle cappelle laterali, una delle quali espone reliquie di santi in cofanetti pregiati.

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    Passando nel retro della pieve, il Cimitero ottagonale, fatto costruire all'inizio dell'Ottocento da Carlo Alberto di Savoia, è un'opera pregevole per l'armonia delle proporzioni, visibile negli archi e nelle volte: al suo interno accoglie la cappella di famiglia dei Dal Verme.

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    Il prodotto del borgo

    Salame crudo e pancetta di maiale stagionati con antiche ricette lombarde.

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    Il piatto del borgo

    Risotto con funghi porcini, ravioli di brasato, polenta e selvaggina salmistrata.

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    Castello di Zavattarello



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    Il castello di Zavattarello, detto anche Castello Dal Verme, è un fortilizio che domina il paese di Zavattarello in provincia di Pavia

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    Storia

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    * 971-2: diplomi imperiali di Ottone I testimoniano per la prima volta l'esistenza del castello di Zavattarello come possedimento del vicino monastero di Bobbio (Pc).

    * 1169 Il castello di Zavattarello cade nelle mani della città di Piacenza. Iniziano le lotte per il possesso del maniero tra i ghibellini Landi e i guelfi Scotti.

    * 1264 Il vescovo di Bobbio infeuda Zavattarello a Ubertino Landi, signore della guerra pluriscomunicato, che fortifica la rocca rendendola inespugnabile. Grande razziatore, negli anni successivi egli diventa il terrore della regione, ma grazie alla sua potente influenza inizia lo
    sviluppo del borgo.

    * 1327 Manfredo Landi è signore del castello, grazie a Lodovico il Bavaro.

    * 1358 Gian Galeazzo Visconti convoca nella rocca di Zavattarello le famiglie Beccaria e Landi, con cui forma la lega di Voghera contro i Pavesi. Si consolida il dominio dei Landi sull'Oltrepò Pavese.

    * 1385 Il vescovo di Bobbio cede il castello al capitano di ventura Jacopo Dal Verme, donazione che nel 1390 viene ratificata da papa Bonifacio IX. Inizia il pressoché ininterrotto dominio dei Dal Verme, che durerà fino al 1975, anno della donazione al comune del castello e dei terreni circostanti.

    * 1987 L'amministrazione comunale inizia il restauro della rocca, gravemente danneggiata da un incendio nel 1944. Il castello è ora stato interamente restituito al pubblico.

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    Struttura


    Il castello, edificato in pietra, ha una struttura compatta i cui muri hanno uno spessore di 4 m. Costruito su un rilievo a nord dell'abitato permette di spaziare, dall'alto della torre sull'Oltrepò pavese e la val Tidone fino alla pianura Padana. Dotato di ricetto fortificato, cappella, scuderie, è composto da una quarantina di stanze divise in un sistema con vari livelli separati, unico nel suo genere, collegati da varie scale interne secondarie. Le prigioni sono scavate nella roccia.

    Dalla terrazza e dalla torre si gode un panorama mozzafiato del territorio circostante: le verdi campagne, i freschi boschi, le colline con gli altri castelli della zona - Valverde, Montalto Pavese, Torre degli Alberi, Pietragavina. Una miglior visuale era assicurata, a scopo difensivo, da altre torri d'avvistamento, purtroppo per noi perdute.

    L'imponente rocca sovrasta il borgo antico abbarbicato sulla collina, che una volta era completamente priva di vegetazione per consentire ai difensori del maniero di avvistare ogni malintenzionato. Oggi invece il verde che attornia il castello è un'area protetta, un Parco Locale di Interesse Sovracomunale di circa 79 ettari, di grande rilevanza paesaggistica, geografica, orografica, oltre che storica e ambientale.

    Il ricetto fortificato era sede di una delle principali scuole di guerra di tutta l'Europa, fondata da Jacopo Dal Verme in quello che poi sarebbe divenuto il cardine dello Stato Vermesco.

    Ospita nelle sue sale un museo di Arte contemporanea.

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    Descrizione: Nelle sale restaurate di fresco del Castello Dal Verme di Zavattarello dal 2003 ha sede una collezione di arte contemporanea in continua crescita ed evoluzione, che costituisce solo una delle attrattive offerte ai visitatori che a migliaia ogni anno salgono a visitare la rocca medievale. Questa raccolta è il più recente atto di uno sviluppo dei servizi offerti al turista, che grazie all'appassionata attività di chi se ne occupa cresce e rifiorisce di giorno in giorno. Ognuna delle oltre 40 sale del castello è intrisa di antico e di moderno, di secoli e secoli di vicende che si rincorrono e si intersecano, donando al visitatore la sensazione di essere perfettamente immerso nella Storia, diffondendo il sentore della compenetrabilità del tempo e dello spazio, dell'età antica e di quella più moderna nell'unica indivisibile matassa che è la vita di uomini e cose che animarono e animano i luoghi di più profonda memoria. Ecco uno dei motivi dell'allestimento del Museo d'Arte Contemporanea all'ultimo piano della rocca: dare un senso di profonda continuità al tempo trascorso e alle vite vissute nei corridoi e nelle stanze del millenario edificio. Per mostrare che il tempo non si è fermato, che il castello non si è ridotto a semplice contenitore di reliquie, ma che si è aperto al tempo presente come è rimasto proiettato verso il glorioso passato che sembra rivivere in ogni pietra e in ogni anfratto.
     
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    MONTALTO



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    Montalto Pavese (Muntald in dialetto oltrepadano) è un comune italiano di 964 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Per la sua posizione dominante le prime colline sopra Casteggio, il bel castello con il giardino all'italiana e per la sua produzione di vino, è chiamata la "regina dell'Oltrepò Pavese".

    Le prime notizie su Montalto risalgono al X secolo, allorché vi aveva estesi beni il monastero pavese di Santa Maria delle Cacce. Nel 1164 passò con l'Oltrepò sotto il dominio di Pavia, che l'infeudò alla famiglia Belcredi. La podesteria o squadra di Montalto, soggetta ai Belcredi (che nominavano il Podestà, prerogativa che nelle altre squadre spettava alla città di Pavia), comprendeva anche Oliva Gessi, Mornico Losana, Torricella Verzate, Lirio e Montù Berchielli (nel comune di Rocca de' Giorgi); tra le ville del feudo sono citate anche le attuali frazioni Finigeto e Villa Illibardi. Sotto gli Sforza, nel 1477, Montalto è infeudato come contea agli Strozzi di Mantova (ramo della nobile famiglia fiorentina), sotto i quali comunque i Belcredi rimangono la famiglia più ricca e mantengono la proprietà del castello. Nel 1617 il feudo è venduto ai Taverna, conti di Landriano, ma nel 1658 i Belcredi lo riacquistano, mantenendolo fino alla fine del feudalesimo nel 1797. Il feudo è nel frattempo elevato a Marchesato. Nel XIX secolo Montalto è sede di mandamento nella provincia di Voghera (dal 1859 circondario di Voghera nella provincia di Pavia). Con l'unità d'Italia riceve il nuovo nome di Montalto Pavese. Nel 1939, soppresso il comune di Montù Berchielli (CC F702), parte di esso, compresa la ex sede comunale Cà del Fosso, è aggregata a Montalto.

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    Monumenti e luoghi di interesse

    Meta di numerosi turisti e appassionati di aeromodellismo è la località Belvedere, sita sulla cresta di una collina e soggetta a forti venti, a causa della sua posizione: a separazione della strettissima Valle Scuropasso e della Valle del Ghiaie. I forti movimenti d'aria rendono divertente il volo di aeromodelli, deltaplani e parapendii. Il paese è inoltre conosciuto per il suo "Maniero" (Castello) che, data la quota a cui è posto, e data la sua posizione, dominante la valle del torrente Verzate, è visibile da gran parte della Lombardia, anche da lunghe distanze.


    IL CASTELLO DI MONTALTO PAVESE.

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    Nel 1219 a Montalto c'erano due castelli: una rocca vera e propria , cinta di mura, baluardi, cortina, fossati e posti di vedetta ed una seconda casaforte munita di torre. Con molta probabilità la prima si trovava sulla spianata del colle dove è l'attuale maniero, l'altra andò distrutta nei secoli successivi. I lavori di costruzione dell'attuale Castello cominciarono per iniziativa di Filippo Belcredi nel 1593, come si legge in un'epigrafe posta all'ingresso. E' munito di quattro torrioni tozzi e quadrati, trai quali spicca per altezza quello di levante. La mole dell'edificio, con il suo piazzale volto a mezzogiorno, si profila sul fondale di un bel loggiato, in una splendida visione arricchita da una statua di Diana, una fontana monumentale, pergolati, chioschi, scale e terrazze. Due giardini circondano la costruzione: uno all'italiana rigorosamente simmetrico, l'altro all'inglese, con boschi di larici e roveri. L'ingresso dalla strada che giunge da Calvignano ha una stupenda cancellata, con pilastrata settecentesca ornata di vasi e terracotte. L'intero palazzo e riccamente decorato. Si susseguono ampi saloni e salotti con ricchezza di mobilio e suppelletti. Nel Piazzale antistante si erge l'armoniosa Cappella Gentilizia di San Francesco in mattoni a vista con due campanili muniti di bifore alla sommità. La facciata, con lesene aggettanti è coronata da un piccolo timpano. Il fianco destro della costruzione è decorato con stemmi, lapidi e capitelli di vari stili classici

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    Voghera



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    Voghera, anticamente detta Iria (in dialetto oltrepadano Vugheera), è un comune di 39.797 abitanti della provincia di Pavia, il terzo per popolazione dopo Pavia e Vigevano.

    Geografia

    È il centro principale dell'Oltrepò Pavese e rappresenta un importante nodo ferroviario e stradario ed un rinomato centro vinicolo e industriale. Sorge sulle rive del torrente Staffora, al suo affacciarsi al piano dopo aver solcato l'Appennino con una lunga valle.

    La città si trova all'altezza del 45º parallelo che è segnalato, sull'autostrada A21 Torino-Piacenza, nei pressi di Voghera da un cartellone che sovrasta le due carreggiate autostradali.




    Storia


    I primi insediamenti sul territorio ora occupato da Voghera risalgono al Neolitico e sono dovuti, probabilmente, al clima mite e alla presenza di corsi d'acqua.

    L'antica Voghera viene riconosciuta nella romana Iria, erede di un precedente villaggio abitato da popolazioni iberiche, celtiche e da Liguri Iriati (da cui ebbe origine il toponimo).

    Nel corso degli anni è probabile che l'insediamento venne ripetutamente devastato dal passaggio di vari eserciti, tra i quali quelli di Massimo Magno Clemente (387 d.C.), di Attila (452), dei Borgognoni e dei Rugi (fine IV secolo), e più volte ricostruito.

    Alla fine del VI secolo Iria ritorna ad essere un villaggio, un “vicus” per l'appunto, ed è in questo periodo che il nome si modifica, dando origine a quello attuale: “Vicus Iriae” poi volgarizzato in “Vicus Eira” e quindi “Viqueria”. Il borgo medioevale viene edificato sui resti dell'antica colonia romana.

    Durante il VII e l'VIII secolo il nucleo urbano, a causa dei benefici della vicinanza della capitale longobarda (Pavia), si sviluppa sul vecchio “castrum” e vede sorgere le prime opere di fortificazione. La sua principale fonte di irrigazione è data dal torrente Staffora (da “stat foras”, così denominato per il suo continuo straripare) e dalla sua deviazione, il canale Lagozzo che serve ad alimentare i nove mulini presenti nel borgo.

    Nel 774, con la sottomissione del Regno Longobardo a Carlo Magno ed in base alla nuova suddivisione in contee, il borgo di Viqueria viene annesso alla diocesi di Tortona.

    È in questo periodo che Voghera, oltre a divenire un centro di intensi scambi commerciali, sede di mercati settimanali e di almeno due fiere annuali, vede accrescere la sua importanza come luogo di transito e di sosta per i pellegrini diretti in Terra Santa e a Roma. Ne sono prova la presenza di molti ospedali, di ricoveri per viandanti e la morte di San Bovo, avvenuta nel 986 di ritorno da un pellegrinaggio a Roma.

    Per Voghera transitava la via del sale lombarda controllata dai Malaspina, percorsa da colonne di muli che partendo da Pavia percorrendo la valle Staffora raggiungevano Genova attraverso il passo del Giovà e il monte Antola.

    Sotto il regno di Arrigo VI (figlio del Barbarossa) il borgo si emancipa dal potere vescovile, aumentando così la sua autonomia. Comprova una ulteriore possibilità di autonomia il documento pergamenaceo dato in Pavia il 26 giugno 1271 (conservato presso l'Archivio storico del comune di Voghera), dal quale risulta che il comune di Pavia ha venduto alla comunità di Voghera il diritto di eleggersi il podestà (ed i consoli di giustizia), con decorrenza dal 1 gennaio 1272, con riserva di riscattare tale diritto.

    Dal 1358 Voghera passa sotto il dominio dei Visconti;, fa eccezione il periodo maggio 1363 – luglio 1364, nel quale viene occupata dal marchese di Monferrato. Nel 1361 i Visconti fortificano il borgo, circondandolo di mura e fossato e dando inizio alla costruzione del castello, con imposizione ai comuni di Casteggio, Broni, Casei, Montebello, Rovescala, Nazzano, Oliva, Pietra, Fortunago, Montalto, Mondondone, Santa Giuletta, Gerola e Sale di contribuire all'esecuzione di quelle opere.

    Infeudata nel 1436 da Filippo Maria Visconti alla famiglia Dal Verme conti di Bobbio e di Voghera, e poi dal 1516 marchesato di Bobbio; essa rimane terra del Ducato di Milano anche con gli Sforza e con Filippo II re di Spagna (1598). Con il decadere della sovranità spagnola passa sotto quella austriaca fino al 1743 quando, in forza del trattato di Worms, entra a far parte del Regno di Sardegna, sotto Carlo Emanuele III, che eleva nel 1748 Voghera a capoluogo della provincia vogherese comprendente parte dell'Oltrepò e il Siccomario, provincia che resterà tale dal 1748 fino al 1859.

    L'8 giugno 1770, con Patente Reale 112 – reg.43 –, il Re di Sardegna, riordinando amministrativamente lo Stato, eleva Voghera da borgo a città.

    Con l'occupazione francese (1796) Voghera, come capoluogo di circondario, appartiene prima al dipartimento di Marengo e poi a quello di Genova. Il 22 giugno 1815, a seguito della restaurazione sabauda, ritorna al Piemonte (nuovamente come Provincia)dopo l'annessione della Lombardia al Piemonte (1859), la Provincia di Voghera, insieme alle vicine province di Lomellina e di Bobbio, entra a far parte (come circondario) dei territori con i quali viene costituita la provincia di Pavia.

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    il municipio



    Il XIX secolo, anche a seguito del grande aumento demografico, vede necessaria ed urgente la stesura di un piano regolatore (1835), la progettazione di opere di abbellimento e di ornato che permettono l'ampliamento, il rinnovamento e l'ammodernamento della città. Pertanto vengono abbattute la mura (1821 – 1830) e sul loro tracciato si sviluppa l'attuale circonvallazione interna. Durante il secolo appena trascorso tale sviluppo architettonico e demografico si è intensificato, così come la modernizzazione della città, corredata da grandi opere strutturali e viarie.

    Venne duramente colpita dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione "strategica" all'incrocio tra le direttrici Milano-Genova e Torino-Bologna.
    Fu teatro, il 31 maggio 1962, di un grave incidente ferroviario (vedi Incidente ferroviario di Voghera) nel quale perirono 63 persone.

    Lo stemma

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    Per mostrare fedeltà a Federico Barbarossa il Comune di Voghera utilizzò come stemma, sovrastato da una corona, su sfondo rosso e posato su sbarre bianche e nere, il capo dell'impero arma del S.R.I: l'aquila. Tuttavia, negli anni Trenta del '900 vi furono apportate delle modifiche: sottostante il capo dell'Impero fu riprodotto, come prevista da una legge il capo del Littorio;

    * Le sbarre bianche furono sostituite da quelle color argento;
    * Sotto di esse fu posizionata una zona di colore rosso che termina a punta;
    * È presente una scritta bianca su sfondo blu nella zona sottostante il disegno con scritto: "Signo Sacrati Imperii Durabit Viqueria tempore longo si sciet vivere cauta" (spesso abbreviata in "Signo Sacrati Imperii Durabit Viqueria")
    * Un ramo di alloro legato con uno di quercia tramite un nastro tricolore.

    Monumenti e luoghi d'interesse

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    Importanti monumenti della città sono il Duomo di Voghera (XVII secolo), dedicato a S. Lorenzo Martire; la chiesa di S. Giuseppe, dotata di una pregevole facciata barocca; la chiesa del Carmine, che rappresenta una transizione tra il rinascimentale ed il barocco; Piazza Duomo, con la cà d' Nava ed il palazzo Gounela, sede del Municipio, il cui nome è ispirato ad un omonimo usciere del '700, personaggio storico vogherese [senza fonte]; l'imponente castello visconteo, eretto tra il 1335 e il 1372 e adibito a carcere fino al secolo scorso, affiancato dalla storica locomotiva Gruppo 940 (locomotiva a vapore); il Teatro Sociale di Voghera, in fase di ristrutturazione, il monumento ai Caduti; il Tempio Sacrario della Cavalleria (Chiesa di Sant'Ilario o Chiesa Rossa, risalente all'VIII secolo; la Chiesa di San Colombano di Torremenapace, fondato in epoca longobarda; i resti del ponte romano, ricostruito poi come Ponte Rosso; la caserma Vittorio Emanuele II (che ospita, tra l' altro, la Civica Biblioteca Ricottiana, il Museo di Scienze Naturali e l'adiacente Museo Storico che conserva, tra i vari cimeli, la vettura "A 112" del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e un'arma che una leggenda vuole sia quella che abbia ucciso Mussolini).

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    chiesa del crocefisso



    Personalità legate a Voghera

    * San Bovo, (Provenza, X secolo – Voghera, 22 maggio 986), santo francese.
    * San Rocco, de la Croix (Montpellier, tra il 1348 ed il 1350 – Voghera, notte tra il 15 e il 16 agosto tra il 1376 ed il 1379), santo francese.
    * Mauro Nespoli, arciere della Nazionale Italiana di Tiro con l'Arco.
    * Alessandro Calvi, nuotatore
    * Valentino Garavani, stilista
    * Gianfranco Accio Radiocronista al seguito della Juve dal 1980 al 2000
    * Ugoberto Alfassio Grimaldi (1915-1986), storico, educatore e giornalista, nato ad Baldichieri d'Asti, vissuto a Milano e Voghera
    * Alberto Arbasino, scrittore
    * Mario Baratta, geografo e sismologo
    * Sandro Bolchi, regista televisivo
    * Pino Calvi, musicista
    * Ambrogio Casati, pittore
    * Aldo Giorgini, artista, pioniere della computer-grafica
    * Mass Giorgini, produttore e musicista
    * Carolina Invernizio, scrittrice
    * Alessandro Maragliano, poeta dialettale
    * Alfieri Maserati, fondatore dell'omonima casa automobilistica
    * Giovanni Parisi, pugile, nato a Vibo Valentia, deceduto nel 2009
    * Luigi Pietracqua, scrittore di testi e commedie in lingua piemontese
    * Giovanni Plana, scienziato, astronomo e senatore del Regno d'Italia
    * Massimo Polidoro, giornalista e scrittore
    * Claudio Puglisi, guardalinee internazionale
    * Ercole Ricotti, storico e senatore del Regno d'Italia
    * Carlo Pavesi, campione olimpico e mondiale di scherma
    * Pierino Codevilla, musicista indimenticato e "Re del tango"
    * La fantomatica "Casalinga di Voghera" è paradossalmente il vogherese più illustre, almeno a livello di notorietà mediatica.
    * Carlo Bandirola, campione di motociclismo su pista.
    * Luisa Beccaria . stilista di moda
    * Carlo Alberto Sacchi, professore di Fisica al Politecnico di Milano, fisico dei laser e pioniere nello studio delle applicazioni mediche del laser.
    * Giuseppe Turani, economista e giornalista
    * Marietta Gazzaniga, soprano lirico drammatico.
    * Luigi Montagna, wrestler e attore.

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    Trasporti

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    Voghera, grazie alla sua favorevole posizione geografica, è facilmente raggiungibile sia via strada sia via ferrovia. La città è attraversata dalla Strada Statale 10 Padana Inferiore, dalla Strada Statale 35 dei Giovi ed è origine della Strada Statale 461 del Passo del Penice.
    Nel territorio comunale si trova il casello autostradale di Voghera, sull'Autostrada A21 Torino-Piacenza-Brescia; nel limitrofo comune di Casei Gerola si trova l'omonimo casello sull'Autostrada A7 Milano-Genova. La stazione ferroviaria di Voghera collega la città principalmente con Milano, Genova, Torino, Piacenza, Bologna (e località intermedie) ma vede giornalmente partire convogli con destinazione altre città italiane o europee.

    Esiste un servizio di trasporto pubblico urbano composto da due linee automobilistiche (curiosamente numerate diversamente per i percorsi di andata e ritorno), gestito dalla ditta SAPO (Società Autolinee Pubbliche Oltrepò). La stessa SAPO gestisce buona parte dei collegamenti automobilistici extraurbani, principalmente per le località minori dell'Oltrepò Pavese. Esistono altri collegamenti extraurbani gestiti da altre società.

    Dispone anche di un piccolo aeroporto situato a 5 km a sud della città principalmente usato per voli turistici nella zona.

    Dal 1931 al 1966 a Voghera faceva capolinea la Ferrovia Voghera-Varzi.

    Il 19 maggio del 1924 venne fondata a Milano la "Società per la Ferrovia Voghera Varzi" (F.V.V.) con lo scopo di soddisfare l'esigenza di rinnovare il collegamento, alle vie ferroviarie esercite dalle Ferrovie dello Stato, delle località dei comuni interni della Valle Staffora. La ferrovia Voghera Varzi a trazione elettrica fu attivata nel gennaio del 1932 in sostituzione della tramvia a vapore Voghera-Salice che era costruita sulla esistente strada provinciale fin dal 1891 (raggiunse Salice nell'anno 1909). La ferrovia quindi si dipanava da Voghera alla volta di Varzi con uno sviluppo complessivo di 32 km, che tramite una pendenza massima del 18 per mille copriva un dislivello di circa 304 metri.

    I lavori di costruzione della ferrovia iniziano nel febbraio del 1926 e terminarono poco prima della inaugurazione che avvenne nel giorno di Natale del 1931. Nel febbraio dell'anno 1940 la Società per la Ferrovia Voghera Varzi, mediante fusione, venne accorpata nella "Società Ferrovie Adriatico Appennino" (F.A.A.), società che ancora gestisce la Ferrovia Adriatico Sangritana ed è titolare dei rotabili ex FVV perlopiù accantonati e cannibalizzati per i pezzi di ricambio.

    La ferrovia Voghera Varzi, a scartamento ordinario, fu completamente elettrificata nei suoi 32 km di sviluppo e furono elettrificati anche i raccordi con le FS e le aziende private. La tensione di esercizio di 3000 Volt la rendeva elettricamente compatibile. La catenaria della FVV era di tipo leggero, non contrappesato, sostanzialmente a semplice filo di tipo tramviario.

    La stazione di partenza di Voghera si trovava ad una quota s.l.m. di 92m invece Varzi (stazione terminale) si trovava ad una quota s.l.m. di 397m. La linea, con una pendenza massima del 18 per mille collegava le due località. La velocità massima ammessa era di 70 km/h fino a Godiasco e di poco meno proseguendo fino a Varzi. Lungo la linea si trovavano 5 ponti e 99 passaggi a livello, di cui solo alcuni provvisti di sbarre di protezione.

    Il parco rotabili, costruito da T.I.B.B. e Carminati & Toselli era consistente in due “piccole” locomotive elettriche, classificate FVV 51 e FVV 52, tre elettromotrici, classificate dal numero 21 al 23 e da numero 5 carrozze pilota munite di telecomando.

    Riguardo i rotabili passeggeri nell'anno 1957 fu fornita, dalla Breda, una nuova elettromotrice numerata 22, il rotabile era visibilmente moderno e tutt'oggi è accantonato ("sopravvissuto ad un'incendio) sulla rete FAS. A completamento del parco rotabili di prima dotazione la Carminati & Toselli fornì 32 carri merci a 2 assi di vario tipo.

    La Ferrovia Voghera Varzi fu oggetto di studi di ammodernamento che non vennero applicati nella realtà a favore dello sviluppo del trasporto su gomma. Il 31 luglio del 1966 la Voghera-Varzi veniva soppressa e sostituita dal servizio sostitutivo.

    A causa dell'aumento del traffico automobilistico, ed in particolare dell'aumento del numero di pendolari, si è provveduto alla costruzione di un autoporto, entrato in funzione nel 1986, dove una volta passava la ferrovia Voghera-Varzi. L'autoporto può contenere fino a 700 macchine, di cui 100 nel piazzale situato ai lati dell'entrata-uscita ed altre 109 auto sul terrazzo, al 6°piano. Inoltre, al piano seminterrato, è presente un parcheggio per autobus, di cui 13 posteggi all'esterno.

    Sport

    A Voghera, oltre a svariati monumenti ed un centro socio-culturale, troviamo anche strutture dedicate allo sport: la piscina comunale, con due vasche interne e tre esterne per l'estate, palestre di arti marziali, lo stadio comunale (dal 12 luglio 2009 intitolato a Giovanni Parisi), dove si allena la squadra cittadina, diverse associazioni sportive, principalmente di calcetto e tennis, un palazzetto dello sport da 1000 posti, il Centro Adolescere e, nel cortile d'ingresso della piscina, l' Auser e il "campo Giovani", sede della società Atletica Iriense. Particolarmente importante, la palestra dell'Asssociazione Pugilistica Voghera, situata nell'ex caserma Vittorio Emanuele II, in cui si allenò il campione olimpico e campione del mondo Giovanni Parisi.

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    Nell'ottobre del 2009, alcuni cittadini vogheresi hanno lanciato l'idea di candidare la città ai Giochi Olimpici del 2020. L'idea è finora allo stato embrionale, ma è stata già ripresa dal quotidiano La Provincia Pavese
     
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    Castello di Oramala



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    Il CASTELLO DI ORAMALA è una delle più suggestive mete turistiche dell’Oltrepò pavese. Fu la prima dimora della famiglia dei MALASPINA,che vi insediò uno dei più potenti marchesati dell’ITALIA SETTENTRIONALE. Il castello ospitò molti personaggi famosi della storia, tra cui FEDERICO BARBAROSSA, durante il suo viaggio verso la GERMANIA. ORAMALA, celebrata nell’ottavo canto del PURGATORIO da DANTE ALIGHIERI, è la dimora feudale in cui si fondono e si intuiscono nel migliore dei modi le due anime contraddittorie del MEDIOEVO: la guerra e l’amore, le armi e le donne, la ferocia e la dolcezza. La poderosa rocca rimase alla famiglia Malaspina fino alla fine del XVIII secolo, dopo di che fu abbandonata; di conseguenza incominciò il progressivo sgretolarsi di tutta la struttura.
    Nel 1985, i fratelli PANIGAZZI, attuali proprietari, iniziarono la ricostruzione delle parti crollate, che è tuttora in corso, allo scopo di conservare un’opera che per novecento anni ha conosciuto ed in parte ha fatto la storia delle valli dell’Oltrepò pavese. All’interno, il castello è arredato in stile medievale e caratterizzato dalle presenza dell’ albero genealogico della famiglia MALASPINA, discendente dal PAPA BONIFACIO All’esterno, è stata edificata una piccola chiesa dedicata a S. EUFEMIA, nella quale si celebrano matrimoni.


    Luogo Val di Nizza - frazione Oramala

    Accessibilità Da Milano e da Genova: uscita al casello di Casei Gerola; da Torino:uscita al casello di Voghera; da Piacenza: uscita al casello di Casteggio. Si prosegue per Voghera, si imbocca la SS 461 del Passo Penice in direzione di Varzi. A Ponte Nizza e/o a Varzi, seguire le indicazioni stradali.

    Anno di realizzazione XI secolo. Nel 1986 sono iniziati i lavori di restauro, da poco conclusi.
    Storia Costruito prima del 1000, appartenne quasi ininterrottamente ai marchesi Malaspina fino alla fine del XVIII secolo, e fu legato ad avvenimenti assai importanti. Il castello fece inoltre da sfondo agli scontri che videro i marchesi schierati a favore o contro i Visconti e gli Sforza di Milano. Distrutto da Niccolò Piccinino nel 1396, l’edificio venne ricostruito nel 1474 da Manfredi Malaspina con il permesso di Ludovico il Moro.

    Leggende Pare che ospitò anche Dante Alighieri, invitato alla corte di Marullo Malaspina, a Bobbio, tra il 1306 e il 1307 circa. Alla fine del XIII secolo Oramala accolse famosi trovatori, come Gerardo di Borboneilh, Uc de Saint Circ, Albert de Sisteron, che composero canzoni sull’avvenenza delle donne del casato.


    Descrizione Ciò che viene identificato come Castello di Oramala in realtà corrisponde solo a una parte di esso, vale a dire alla rocca. Il resto del complesso è andato perduto a causa delle numerose spogliazioni di materiale, utilizzato per costruire le abitazioni di alcune frazioni circostanti. La rocca è strutturata come un recinto quadrilatero, organizzata su due teste rafforzate, collocate a sud e nord. La prima consiste nell’enorme torre in pietra che domina su tutto; l’altra consiste in un gran corpo di fabbrica. Le corti murarie, di spessore minore, formano i fianchi del recinto, e si sviluppano fra torre e corpo di fabbrica. Nella muratura in pietra locale vi sono feritoie e aperture strombate, tipiche dei baluardi difensivi. La base delle pareti perimetrali è scarpata e delineata da una cordonatura sporgente. Alla sommità delle mura vi sono dei mensoloni in granito, che facevano parte degli originari piombatoi. Il portale d’ingresso al ricetto della rocca è ad arco ribassato ed è stato dotato di saracinesca, inserita nella sua sede originaria ancora presente nella muratura. I lavori di restauro hanno portato al rifacimento della volta caduta del locale destinato al corpo di guardia, situato sulla sinistra dell’ingresso. Immediatamente sopra questo locale troviamo la cappella gentilizia dedicata a Sant’Eufemia, già esistente nel XIII secolo. A fianco della cappella vi è il camminamento di ronda, che corre lungo i muri perimetrali. Sotto il cortile è presente un vano quadrato con pozzo centrale in pietra: da qui è possibile accedere alla torre attraverso un cunicolo collegato con il pozzo nella sala al piano terra della torre, utilizzato come riserva idrica. La torre, collocata a cavaliere del lato sud della rocca, ha una pianta particolare: una figura a semicerchio appoggiata ad un rettangolo; è databile alla prima metà del Quattrocento. Al piano terra vi è il pozzo. Nell’ala settentrionale si trova un locale sotterraneo con volte a botte in pietre a vista, identificabile come prigione: lì è anche visibile un antico sanitario.
    La torre si suddivide in quattro piani con volte a botte realizzate in conci di travertino a vista. I piani sono collegati da una stretta scala in pietra, illuminata da feritoie a strombatura; interessante il rudimentale gabinetto di decenza a dispersione, con caditoia di scolo verso il bosco sottostante. Il terzo piano è caratterizzato da un grande camino: due porte fanno accedere agli spalti. La sommità della torre permette una visione scenografica ad anfiteatro sulle colline circostanti.

    Attuale destinazione d’uso Abitazione privata. Le visite al Castello si possono effettuare su prenotazione.

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    VAL DI NIZZA. Il castello di Oramala è infestato da spettri e fantasmi e a confermare la presenza di spiriti è proprio il proprietario del castello Luigi Panigazzi. “Ogni 25 dicembre, a mezzanotte, si accende la luce della terza sala della torre - spiega il proprietario della rocca, ex senatore Luigi Panigazzi - la luce rimane accesa per alcune ore e poi si spegne. In quella sala abbiamo un camino e un tavolone in legno. Questo fenomeno sarebbe provocato da strane presenze, e più precisamente dagli spiriti del grande imperatore Federico Barbarossa e dei marchesi Malaspina che nel XII secolo erano i proprietari del castello. Proprio i Malaspina ospitarono il Barbarossa nella rocca per una notte e aiutarono l’imperatore a fuggire dall’Italia, inseguito dalle truppe del Carroccio. Alcuni anni fa mi era giunta una lettera anonima, firmata proprio da Federico Barbarossa e dal marchese Malaspina. Nel contenuto della lettera i due chiedevano di poter utilizzare proprio quella sala del camino che tutti gli anni si accende a mezzanotte. Sono fatti davvero strani e sorprendenti. Un altro evento straordinario si è verificato proprio qualche anno fa in una delle sale del castello. Un giorno in una delle stanze ho trovato la tavola piena di piatti sporchi. Qualcuno ha cenato all’interno del castello. Purtroppo ne io ne mio fratello avevamo organizzato quella cena. Le chiavi per entrare le possediamo solo noi. Durante alcune giornate passate da solo nel castello mi è capitato più volte di sentire strane voci e strani rumori”. Ma il proprietario del castello non è l’unico ad aver avvertito strane presenze all’interno del castello. Infatti il pensionato Mario Botti, che abita da molti anni ai piedi del castello più di una volta ha sentito strane voci. “Soprattutto, nei mesi invernali ed autunnali -racconta Mario Botti - si sentono delle strane voci e si avverte il rumore di cavalli lanciati al galoppo. Sono davvero fatti molto strani. Io vivo qui da molti anni e attorno al castello di Oramala sono successe sempre strane cose”. Le prime fonti che trattano del castello di Oramala risalgono al 976, anno in cui Ugo d'Este donò il fortilizio al vescovo di Pavia. Nel 1164 il castello viene dato in possesso al marchese Obizzo Malaspina. Nel 1167, alla fine dell’estate Federico Barbarossa giunto a Pontremoli con l’intenzione di arrivare a Pavia attraverso l’Appennino deviò verso Villabranco sul Magra e con la guida del marchese Obizzo discese la Valle Staffora e sostò al castello di Oramala. Fu proprio durante questo tragitto cavalcando accanto all’imperatore che Obizzo rivelò l’attività prevalente dei Malaspina:” Cosa volete, in sifatti paesi che nulla producono, bisogna pur vivere di rapine”. Gli spiriti di Obizzo Malaspina e Federico Barbarossa continuano a frequentare l’antica rocca. Se non credete a queste leggende, trovatevi il 25 dicembre a mezzanotte ai piedi del castello, e fissate lo sguardo verso la terza sala. Se siete fortunati forse una luce si accenderà.

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    VALVERDE



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    Lo stesso nome Valverde richiama la caratteristica principale del territorio, ricco di boschi, che ornano le alture della suggestiva vallata del torrente Morcione, affluente di sinistra del Tidone. Si tratta dei castagneti che riempiono l'altipiano miocenico posto tra le valli Staffora e Nizza, nei quali si pratica una buona raccolta delle Castagne, dei funghi e dei tartufi.
    Nella Valverde esposta prevalentemente ad Est, il clima più fresco consente alla vegetazione di acquisire quel verde brillante che la contraddistingue e da cui forse deriva il toponimo.
    Le radici di Valverde affondano molto lontano nel tempo, come testimoniano i recenti ritrovamenti archeologia. I primi abitanti appartenevano ai "protoliguri", popolazioni di origine nordafricana ben differenziata dal ceppo indoeuropeo. I protoliguri vengono poi quasi completamente assorbiti dall'avvento della civiltà romana. Valverde risulta citata per la prima volta nell'Adbreviatio dell'anno 862 come corte dipendente dal monastero di San Colombano di Bobbio. Nel 1014 passò ai vescovi di Bobbio, unicamente ai territori dipendenti dai castelli di Monfalcone e Verde, attualmente inseriti nel suo territorio comunale. la Diocesi diede quindi il feudo ai Malaspina di Oramala. Nel 1655 i Malaspina lo vendettero agli Spinola; la transazione risultò però difettosa poiché non aveva ricevuto l'assenso reale e Valverde tornò così ai Malaspina. Nel 1929, in seguito ad una ristrutturazione amministrativa, Valverde fu aggregato al comune di Zavattarello; riacquistò l'indipendenza municipale nel 1956. La sede municipale di Valverde è Casa Mombelli (567 m./slm.)


    LA VEGETAZIONE
    Ostryo-Querceto


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    E' la formazione più ricorrente dai 300 agli 800 m. di quota in tutto il territorio della Comunità Montana Oltrepò Pavese. Il Carpino nero e La Roverella (spesso ibridata con la Rovere) si alternano alla dominanza di questi boschi. Dove il bosco è sempre stato presente e il taglio non è stato troppo frequente la Roverella tende a dominare il popolamento mentre il Carpino nero e l'Orniello riescono a prevalere sulla Roverella grazie alla loro più rapida crescita iniziale ed alla loro maggiore rusticità. Si tratta quasi sempre di formazioni cedue, talvolta abbandonati ed in fase di conversione naturale verso l'altofusto. Unico assortimento ritraibile da queste formazioni è la legna da ardere.

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    I castagneti
    Significativa nel comune di Valverde è la presenza del castagno che occupa una estesa superficie a partire da Monte Bruno e Monte di Marroni fino all'abitato di Pietragravina. Si tratta prevalentemente di boschi cedui originatesi dalla trasformazione dei vecchi castagneti da frutto in seguito agli attacchi del cancro corticale del castagno.
    Il Castagno è una pianta mesofila per quanto riguarda temperatura ed umidità: necessita di una temperatura media annua compresa fra i 10 e i 15°C. e di precipitazioni annue di 600 - 800 ml.. Dal punto di vista edafico predilige i terreni a reazione da acida a neutra (pH 4.5-7) con una netta preferenza per i terreni di natura silicea e vulcanica. In Italia ed in particolare sull'Appennino mostra tuttavia di tollerare i terreni calcarei. La ottima facoltà pollonifera è una dette peculiarità del Castagno e si conserva fino a 150-200 anni.
    Nel territorio dell'Oltrepò Pavese le formazioni castanili hanno origine dalla sostituzione antropica dell'Ostrio-querceto dell'Appennino calcareo-marnoso come viene confermato dalla frequente ed abbondante colonizzazione da parte del Carpino nero, Orniello e Roverella. Trattandosi di formazioni che hanno origine dalla sostituzione dei popolamenti originari, si assiste in seguito all'abbandono selvicolturale ad un processo di. ricolonizzazione della stazione da parte delle specie originarie.

    Le pinete
    Si tratta di popolamenti artificiali di Pino nero (cui risulta consociato in modo marginale anche il pino silvestre) realizzata negli anni '60. Gli impianti sono stati effettuati su pascoli abbandonati con una densità iniziale molto alta.
    Obiettivo primario di questi imboschimenti è stato quello di assicurare in modo rapido ed uniforme la copertura forestale ai fini di ridurre i processi di dissesto idrogeologico.
    I soprassuoli sono stati oggetto di interventi selvicolturali solo occasionalmente e pertanto presentano oggi una densità eccessiva.
    Il non intervento ha determinato un progressivo degrado della struttura e dello stato fitosanitario del bosco (fusti filati, chiome di ridotto spessore a causa della compressione laterale, individui morti in piedi, aduggiati e schiantati).

    Le siepi campestri
    La siepe riproduce l'ambiente del margine del bosco (ambiente ecotonale) che è il più ricco di specie animali e vegetali. Queste formazioni vegetali svolgono innumerevoli funzioni alcune de.le quali a diretto vantaggio della produzione agricola.
    - Aumentano la complessità ambientale offrendo rifugio ad un numero elevatissimo di animali vertebrati ed invertebrati che viceversa scomparirebbero dalle campagne;
    - Riducono la forza del vento anche dei 60% a tutto vantaggio della produttività delle superfici agricole.
    - Favoriscono una ricca presenza di fauna invertebrata fra cui numerose specie utili perché predatori o parassiti di insetti dannosi alle coltivazioni;
    - Incrementano la presenza di fauna vertebrata e in particolare degli uccelli insettivori.

    I Boschi del Castello di Valverde
    Il bosco intorno al Castello di Verde è da ricondursi alla tipologia forestale dei Querco-ostryeti tipici delle zone collinari dell'Oltrepò Pavese la cui attuale composizione specifica è legata principalmente alle condizioni orografiche ed al tipo di trattamento cui sono state sottoposte. Le specie dominanti sono la Rovere (spesso ibridata con la Roverella tanto da essere difficilmente distinguibili) ed il Carpino nero, ma è relativamente abbondante anche il Prunus avium. In qualità di specie accessorie compaiono l'Acero campestre, il Maggiociondolo, il Nocciolo e soprattutto l'Orniello che va a costituire il piano dominato.
    La componente arbustiva risulta diffusa e relativamente abbondante ed è costituita da Corniolo (Cornus mas), Berretta da prete (Euonimus europeus), Biancospino (Crataegus monogyna), nelle aree più xeriche fanno la loro comparsa il Ginepro (Juniperus communis) e la Coronilla (Coronilla emerus).
    La parte esposta a Nord risulta più fresca ed in parte a morfologia sub-pianeggiante. Le condizioni stazionali risultano nel complesso più favorevoli allo sviluppo della componente forestale mesofila. Il popolamento arboreo è caratterizzato dalla presenza di imponenti soggetti di Prunus avium insieme alla Rovere, in qualità di specie accompagnatrici compaiono l'Orniello, l'Acero campestre, il Maggiociondolo, e tra gli arbusti sono frequenti il Nocciolo, il Biancospino, il Corniolo ed il Viburno.
    La parte con esposizione Sud-Est presenta invece condizioni microclimatiche più marcatamente xeriche, le pendenze sono decisamente più elevate (40- 70%) ed il suolo molto più superficiale.
    Tali condizioni stazionali si ripercuotono in particolare sull'accrescimento della componente arborea e sulla composizione specifica del popolamento.
    Tra le specie presenti si riduce drasticamente la presenza del Ciliegio, mentre nel piano arbustivo compaiono il Ginepro e La Coronilla.

    IL CASTELLO

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    Gli abitati sono sovrastati dal Castello di Verde, di cui rimane oggi solo la rocca in parte ristrutturata. Ai mestieri attinenti le forniture ai signori e ai dipendenti del castello vanno senz'altro attribuiti i toponimi di alcuni abitati: Calghera (scarpa), Casa Panattieri (pane), Casa Balestrieri (balestre),... Nei toponimi si tramanda la memoria di queste occupazioni; sovviene pure l'appellativo di 'guelfi" attribuito ai valverdesi, perché il loro castello, nel medioevo, fu sede e rifugio del partito guelfo.
    A Valverde l'agricoltura rappresenta la risorsa economica più significativa, con abbondanza di frumento e foraggio e presenza in diversi appezzamenti di frutteti, anche se gli occupati nel settore sono in costante diminuzione.

    Il Castello di Valverde

    Il castello, tuttora denominato "Castello di Verde", sorge sulla cima di un cocuzzolo in posizione suggestiva e panoramica, permettendo di spaziare dalle dolci ondulazioni dei rilievi pavesi fino alla pianura padana. Risalente all'XI sec., fu proprietà inizialmente del monastero di Bobbio, quindi del Vescovo di Bobbio, poi del Comune di Piacenza, in seguito del Barbarossa, dei Landi, dei Malaspina, dei Dal Verme e poi nuovamente dei Malaspina.
    Nel medioevo il castello fu sede e rifugio del partito guelfo.
    Del castello originario rimangono il basamento della torre, in pietra arenaria, ed una stanza forse utilizzata come deposito di viveri in occasione degli assedi. Il particolare torrione rotondo, tipico dell'architettura fortilizia degli Sforza, fa ritenere che almeno questa parte del castello sia di epoca malaspiniana, il nucleo originario risulta invece molto più antico.

    Il Castello di Monfalcone
    Il castello di Monfalcone, di cui oggi non rimane che il ricordo, si erigeva su un poggio a mezza costa tra il Monte Bruno e Villa Narigazzi. Ancora oggi quel luogo viene chiamato Castello Vecchio.
    Il castello di Monfalcone, di probabile origine longobarda, raggiunse la notorietà poiché per un lungo periodo divenne rifugio di banditi di ogni specie.
    Già appartenuto ai vescovi di Bobbio, il castello fu assegnato nel 1233 a Guglielmo Lavagna, per passare poi a esponenti delle famiglie locali. Nel 1480, le truppe dei Malaspina presero possesso del castello, che rimase della famiglia fino a che Filippo Maria Visconti, duca di Milano, non lo distrusse e assegnò il suo territorio al conte di Carmagnola.

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    La Chiesa di Valverde
    La chiesa parrocchiale, dedicata alla Beata Vergine del Rosario e a S. Stefano patrono del Comune, si erge su un piccolo spazio pianeggiante, a breve distanza dalla frazione Mombelli sulla provinciale che collega La Val Tidone con la Val di Nizza. L'antico edificio, opera di maestri locali del XIII secolo, malgrado ampliamenti e rifacimenti, conserva ancora importanti elementi architettonici originari che permettono di riconoscere lo stile lombardo (romanico). La facciata è divisa in tre scomparti; L'elegante portate romanico è decorato secondo moduli che si rifanno allo stile corinzio. Il fianco sinistro della chiesa presenta una pregevole cornice di archetti a semicerchio su mensole. All'interno si conserva una _balaustra in marmo rosso dell'altare maggiore, datata XVIII secolo. La fonte battesimale è del 1581. Merita di essere citato l'interessante campanile munito di un particolare "cono cestile", struttura tipica di molte chiese di Milano e del pavese dello stesso periodo.

    L'Oratorio
    In Prossimità del castello si trova l'Oratorio, un tempo officiante, eretto dai Malaspina nel 1608. in realtà pare che una struttura architettonica risalente all'epoca di fondazione del fortilizio, ancorché diroccata, già esistesse e che il Marchese Gerolamo Malaspina procedette solo al restauro. Questo oratorio di ridotte dimensioni, costruito con conci di arenaria locale, può essere considerato un modello di architettura religiosa minore (povera).


    LA FAUNA

    L'abbandono che in epoca recente ha caratterizzato il territorio montano, ha favorito la riconquista da parte della fauna selvatica di quegli spazi che le erano stati sottratti. In prossimità delle macchie boscate è facile osservare le ghiandaie e le gazze; nei pressi delle cascine le tortore, le cinciallegre, i pettirossi e lo scricciolo. In primavera non è difficile osservare il frenetico volteggiare della ballerina bianca ma anche il più minaccioso volo del falco, dello sparviere e della poiana. A notte fonda si possono ascoltare i richiami della civetta, dei barbagianni, dei gufi e degli allocchi.
    Diversi mammiferi piccoli e grandi popolano i campi e i boschi; non è sempre facile scorgerli anche se si possono leggere sul terreno le loro tracce. Pigne rosicchiate sono il segnale inequivocabile della presenza dello scoiattolo, mentre piccole impronte di buffe manine sul terreno indicano il passaggio del riccio. Anche tassi, cinghiali, volpi, caprioli e daini arricchiscono il territorio con la loro presenza.

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    PRODOTTI TIPICI

    Ottimi salumi, formaggi, mele fra cui le tradizionali "Frascona, Rostaiola, Renetta"; pere locali "Cavigiona e Giassola". la ricerca e raccolta di tartufi è sempre stata attività praticata nel territorio comunale, favorita dall'altitudine, dal clima, dalla tipologia del terreno e dalla presenza di roveri e noccioli. Il tartufo di Valverde evidenzia caratteristiche organolettiche di prima qualità.

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    Castello Verde

    Luogo Valverde - frazione Casa Andrini

    Accessibilità I ruderi del castello sono raggiungibili seguendo un ripido sentiero che sale dall’ultimo edificio della frazione Casa Andrini. Attiguo al castello si trova un bosco ricco di vegetazione e circondato da una balaustra, da cui è possibile osservare il suggestivo panorama che abbraccia le Valli del Tidone, del Nizza e dell’Ardivestra; sempre da là è possibile scorgere i castelli di Zavattarello, a destra, e quelli di Montaldo, Torre degli Alberi e Rocca de' Giorgi, verso nord-ovest.

    Anno di realizzazione Anteriore al XIV secolo.

    Storia Il castello di Valverde, tuttora denominato Castello Verde, fece parte per lungo tempo del feudo di Oramala. Nel Medioevo il luogo fu rifugio del partito guelfo ed è per questo che ancora oggi gli abitanti del comune vengono indicati con il soprannome di “Guelfi”. Il “Castrum de Virdis” appartenne, nei primi anni del 1300, alla famiglia Landi. Passò poi ai Malaspina, signori della vicina Oramala, per essere successivamente donato a Federico del Verme, unitamente ai diritti feudali sul castello di Monfalcone.


    Descrizione I ruderi del castello sono ora ridotti a una torre cilindrica incompleta che presenta un basamento scarpale terminante, superiormente con una cordonatura ad anello, sormontata da un pianetto in cotto. Le torri e le rimanenti vestigia sono in arenaria. Nel suo interno c’è un locale seminterrato cui si accedeva tramite una botola, ora murata. Probabilmente tale ambiente venne utilizzato come magazzino viveri; i feudatari vi conservavano le scorte di viveri in caso di lunghi assedi.

    Attuale destinazione d’uso I resti del castello costituiscono da tempo un suggestivo punto panoramico.



    Bibliografia essenziale “THESAURUS MONTANUS”, 2003 - Sito Internet www.ersaf.lombardia.it/
    Elaborazione della scheda a cura del “Laboratorio Partecipativo di Sviluppo Locale” – Università degli Studi di Pavia
     
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    Cecima


    Da Wikipedia

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    Cecima (Sezma in dialetto oltrepadano) è un comune italiano di 242 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Si trova nella valle Staffora, nell'alta collina dell'Oltrepò Pavese, su un poggio alla sinistra del torrente.

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    Storia

    Cécima fu donato dai re Ugo e Lotario al vescovo di Pavia nel 943. Nel 1164 l'imperatore Federico I inserì Cecima tra le località poste sotto la dominazione di Pavia (risultando isolata tra le terre dei marchesi Malaspina), ma non cessò la signoria feudale del vescovo, che anzi continuò ininterrotta fino all'abolizione del feudalesimo nel 1797.

    Nel 1419 il vescovo Pietro Grassi emanò gli Statuti del comune di Cecima, che furono il modello cui si ispirarono per i loro statuti molti comuni circostanti. Nel 1544 il feudo di Cecima, che comprendeva anche il comune di San Ponzo (Ponte Nizza), fu subinfeudato agli Sforza di Santa Fiora, feudatari di Varzi. Questo feudo costituiva una delle giurisdizioni separate, cioè dei grandi feudi della collina e montagna dell'Oltrepò dotati di ampia autonomia giuridica e fiscale.

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    Unito con il Bobbiese al Regno di Sardegna nel 1743, in base al Trattato di Worms, entrò a far parte poi della Provincia di Bobbio. Nel 1801 il territorio è annesso alla Francia napoleonica fino al 1814. Nel 1818 passa alla provincia di Voghera e nel 1859 alla provincia di Pavia.

    Nel 1928 costituisce con Pizzocorno, Trebbiano Nizza e San Ponzo Semola il nuovo comune di Ponte Nizza, ma nel 1956 ottenne nuovamente l'autonomia.

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    mulino


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    parrocchiale di cecima, pv

    dedicata a S. Martino Vescovo, conserva una facciata di notevole pregio con il magnifico rosone in cotto risalente all'anno 1000. All'interno vi sono affreschi risalenti al '400



    Cultura

    Questo paese fa parte del territorio culturalmente omogeneo delle Quattro province (Alessandria, Genova, Pavia, Piacenza), caratterizzato da usi e costumi comuni e da un importante repertorio di musiche e balli molto antichi. Strumento principe di questa zona è il piffero appenninico che accompagnato dalla fisarmonica, e un tempo dalla müsa (cornamusa appenninica), guida le danze e anima le feste.

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    Nel territorio del Comune di Cecima sorge il nuovo Planetario e Osservatorio di Cà del Monte, struttura aperta nel 2009 con lo scopo di avvicinare alla conoscenza del cielo.

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    OSSERVATORIO CA' DEL MONTE - PRESENTAZIONE. Osservare significa raccogliere dati grazie a strumenti che consentano un esame approfondito degli eventi in una successione ordinata di tempo. La struttura di un osservatorio è concepita come forma funzionale alla conoscenza della realtà attraverso l’ottica specifica dell’attività osservativa (del cielo, in questo caso) e delle altre attività che da essa dipendono direttamente: la ricerca, la divulgazione e la didattica dell’astronomia. La struttura ad arco dell’Osservatorio di Cà del Monte, armonicamente inserita nel fianco della collina a costituire un intervento umano il meno invasivo possibile, è concepita infatti per costruire un dialogo continuo e integrato tra le attività di ricerca, didattica e divulgazione. Per questo i diversi ambienti (la cupola centrale del planetario e le due laterali, il teatro) sono interconnessi nello svolgimento dell’attività di osservazione (dalla raccolta ed elaborazione dei dati alla loro comunicazione a diversi utenti), per giungere a uno sguardo plurale sulla realtà.

    La cupola centrale (del diametro di 7,5 m) accoglie 50 posti a sedere e ospita il planetario digitale, un ottimo strumento per la conoscenza del cielo e per sperimentare in prima persona distanze e fenomeni astronomici grazie alle simulazioni che vi vengono proiettate. Inoltre, grazie allo schermo a parete, la sala è utilizzabile anche come sala conferenze. Mentre le postazioni fisse, collocate nelle cupole laterali Est e Ovest (entrambe del diametro di 4 m), sono principalmente dedicate alla ricerca, l’attività osservativa guidata aperta al pubblico e alle scuole sfrutta la strumentazione mobile (binocoli giganti e telescopi) nello spazio aperto del teatro, sito nella zona posteriore al corpo centrale. Nel teatro, che ospita oltre 200 posti a sedere per eventi astronomici e culturali ad ampio respiro (rappresentazioni teatrali, conferenze, concerti), è presente anche un maxischermo per la proiezione, tra le altre, di riprese dal vivo di oggetti celesti.

    L’inaugurazione dell’Osservatorio “G. Giacomotti”, realizzato con il contributo di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia e di proprietà della Comunità Montana Oltrepò pavese, è avvenuta il 20 settembre 2008. La gestione didattico-scientifica della struttura è stata affidata all’Associazione Astrofili Tethys, promotrice del progetto nel 1997.


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    Castello di Cecima




    Luogo Cecima

    Accessibilità Da Torino e da Piacenza: uscita al casello di Voghera; Da Milano e da Genova:uscita al casello di Casei Gerola; Da Voghera seguire per 15 Km circa la SS 461 in direzione Varzi.

    Anno di realizzazione Cecima fa la sua prima apparizione nella storia molto più tardi rispetto alla sua antichissima fondazione che risale all'alto medioevo e forse prima, è citata in uno scritto del 943; si hanno conferme di alcuni scritti del 987 e del 1014.

    Storia All’estremità sud occidentale, su un poggio di arenaria spianato a terrazza che sovrasta di alcuni metri le quote dell’abitato, sorgeva il Castello. Grazie alla sua presenza, ed alla posizione dominante nella valle, il paese godette a lungo di una posizione di preminenza. Citato a partire dalla metà del X secolo, rimase a lungo tempo possesso dei Vescovi di Pavia. Il borgo murato si allungava degradando dal Castello verso la chiesa. Dell’antica cinta muraria si conserva ben poco. Lo smantellamento delle strutture e del materiale hanno fatto quasi scomparire ogni resto delle mura. Solo sul lato orientale ne rimangono rade tracce, servite come base d’appoggio delle costruzioni successive. L’interesse è centrato oggi sulla sopravvivenza di due torrette, una medievale e una cinquecentesca.


    Leggende La leggenda parla di una giovane dama, proveniente da Venezia, la cui vita fu segnata dalla gelosia del nobile marito milanese. Proprio il sospetto, la gelosia e la rabbia dell’uomo presero il sopravvento nei confronti della bella moglie, che si dice morì nel fondo della torre del castello.

    Descrizione Attualmente sono presenti solo alcuni resi del castello: una torre e alcune parti di mura.

    Potenzialità Eventuale interesse di storici ed appassionati nel voler ricostruire gli antichi percorsi che delimitavano l’intero borgo e il castello, vero e proprio simbolo degli antichi fasti del paese.



    Bibliografia essenziale Sito internet www.comunitamontanaoltrepo.it/
    Elaborazione della scheda a cura del “Laboratorio Partecipativo di Sviluppo Locale” – Università degli Studi di Pavia

    Edited by tomiva57 - 19/12/2010, 21:17
     
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    La valle staffora



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    La valle Staffora è una vallata lombarda formata dal torrente Staffora situata nell'Oltrepò Pavese.
    Questa valle appenninica si incunea tra la val Curone (provincia di Alessandria) ad ovest, l'oltrepo' di Santa Maria della Versa, la val Tidone e la val Trebbia (provincia di Piacenza) ad est e la val Boreca, sempre in provincia di Piacenza, a nord. Inizia alle pendici del passo del Giovà e si estende per una prima parte impervia circondata dai monti: Penice (1460 m s.l.m.), Cima della Colletta (1494 m), Lesima (1724 m), Tartago (1688 m), Chiappo (1700 m), Garave (1549 m), Bogleglio (1492 m). All'altezza di Varzi attraversa una zona collinare e giunge fino alla pianura dove il torrente omonimo confluisce nel Po.
    Quattro valichi la mettono in comunicazione con la val Trebbia: il passo del Penice con la Strada Statale 461 del Passo del Penice, il passo della Scaparina, il passo del Brallo e il passo del Giovà attraverso la val Boreca. La comunicazione con la val Borbera vede un passaggio di un paio di chilometri, dopo il passo del Giovà, in provincia di Piacenza, per scendere poi attraverso le Capanne di Cosola.


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    La via del sale

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    Attraverso la vallata transitava la via del sale lombarda, percorsa da colonne di muli che trasportavano sacchi di sale, percorrendo il fondo valle raggiungevano Genova risalendo il monte Bogleglio e percorrendo il crinale fino al monte Antola per scendere a torriglia.
    Oggi la via del sale, perso il suo valore commerciale, è divenuta meta di escursioni e trekking, snodandosi in un ambiente di particolare interesse naturalistico.

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    L’Antica Via del Sale


    Con la definizione “Via del Sale” si indicano le antiche strade, le tante mulattiere, che in passato scendevano, attraverso l’Appennino, dalla pianura padana e dalle zone collinari dell’Italia settentrionale fino al litorale ligure. Queste antiche vie di comunicazione testimoniano l’importanza dell’Appennino nella vita delle antiche civiltà: attraversato dapprima dai Liguri Iriati, che circa tremila anni fa salirono verso la pianura per colonizzare nuove terre, divenne infatti nel XII secolo raccordo importantissimo con il porto di Genova. La città ligure infatti, superata Venezia nello smercio di prodotti provenienti dall’Oriente, rappresentò il centro commerciale più importante durante tutto il Medioevo.
    Il nome di queste importanti vie di comunicazione e di scambio è legato a un minerale, il sale, di grande valore nel passato; questo elemento infatti era indispensabile nell’alimentazione e nella conservazione dei cibi. Il sale non era facilmente reperibile nelle regioni settentrionali ed era l’unico “strumento” a disposizione per stoccare, conservare e mantenere in buono stato molti cibi che altrimenti si sarebbero deperiti. Per questo a partire dal Medioevo fino al XV secolo la rete di percorsi e di sentieri dalla pianura al mare divenne tanto fitta ed importante.
    Non esisteva un’unica Via del Sale, perché tutti i popoli delle diverse regioni delle Terre Alte percorrevano i sentieri presenti sul loro territorio per raggiungere il mare e per recuperare i tanti prodotti utili alla sopravvivenza vendendo i propri elementi di scambio, rappresentati soprattutto da lana e da armi.
    La Via del Sale “lombarda”, considerando nel particolare il territorio dell’Oltrepo pavese, si addentrava nella Valle Staffora all’altezza di Voghera e raggiungeva agevolmente l’abitato di Varzi. Di qui in poi i sentieri e le mulattiere portavano verso Sud e, attraversando il Monte Bogleglio e il Monte Chiappo, giungevano prima al Monte Antola e poi a Torriglia. Da questo centro, punto di raccordo delle Vie del Sale emiliane, lombarde e piemontesi, il cammino continuava facilmente fino a Genova.
    A partire dal Medioevo sino al XIV secolo il territorio appenninico pavese fu interessato dalle potenti famiglie feudatarie, prime fra tutte quella dei Malaspina; questi Signori, in accordo con la città di Pavia, intensificarono gli scambi commerciali, garantirono il flusso delle merci e imposero un sistema di tasse e di gabelle per il passaggio lungo in loro territorio: le tasse venivano richieste ai viandanti in cambio di sicurezza e di protezione.
    Proprio con l’apertura ufficiale di questa via verso il mare, Varzi diventò centro commerciale di grande rilevanza: da piccolo centro abitato divenne paese di grande importanza, arricchito di nuove costruzioni, dotato di castello e cinto da mura per offrire un sicuro albergo ai commercianti. Si moltiplicarono così i negozi, i magazzini e i depositi per le merci in transito, aumentarono i gabellieri per la riscossione dei tributi. Il sale rappresentò l’elemento di rilancio per il commercio di tutta la zona.

    Monte Chiappo

    E’ la cima più alta dell’itinerario della Via del Sale, dove convergono i confini di Piemonte, Lombardia e Emilia Romagna.
    Incantevole la vista dalle Alpi al Mar Ligure.

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    UN PO' DI STORIA...

    Concluso il risorgimento con la liberazione di Roma, l'Italia attraversò un lungo periodo di pace durante il quale ci fu un miglioramento delle classi lavoratrici.
    Nell'Alta Valle Staffora i visitatori erano sempre alquanto rari ed erano solo quelli disposti a marciare a piedi o a dorso di mulo. Nel 1877 il geologo vogherese Negri fece escursioni scientifiche nell'Alta Val Staffora.
    Nell'aprile del 1878 lo studioso tornò nell'Alta valle lasciandoci notizie circa la vita dei suoi abitanti, la presenza di monasteri e altre varie notizie circa l'ambiente.
    La descrizione è molto utile anche perchè ci fornisce in'idea circa i tempi di percorrenza tra i vari paesi a dorso di mulo, infatti, nella descrizione vengono indicati i vari orari di arrivo.
    Da Negri ci pervengono anche notizie quali l'economia dei nostri paesi i cui abitanti coltivavano molto orzo che era la materia prima del loro principale nutrimento: il pane.
    I terreni montani, erano spesso soggetti a frane ed erosioni dalle quali i montanari si difendevano deviando l'acqua sotterranea tramite fosse larghe e profonde che riempivano di pietre in seguito ricoperte con uno strato di terra sufficiente a rimetterle in coltura.
    Fino alla Seconda Guerra Mondiale l'alimentazione dei montanari non era molto varia e neanche tanto abbondante, le principali componenti erano la polenta ,la minestra di riso, le patate e il pane fatto in casa; la carne solo nelle grandi occasioni, che erano poche. Insomma per i montanari era una vita di lavoro e di fatica. Uno dei maggiori ostacoli per il miglioramento della vita fra i monti era costituito dalla totale mancanza di moderne vie di comunicazione . Il mulo e la gamba dell'uomo erano e rimasero gli unici mezzi di locomozione.
    Questa situazione viaria non favoriva certo il turismo che negli anni fra 800 e 900 cominciava ad affermarsi nei nostri monti.
    Il conte Antonio Cavagna, dottissimo cultore di studi storici ci ha lasciato moltissimi volumi e pubblicazioni sul nostro Oltrepò nel quale faceva lunghe escursioni.


    Rocce e fossili in valle Staffora


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    Impronte fossili di elmintoidi






    Girovagando per l'alta valle Staffora, anche ad un osservatore distratto, quello che appare subito evidente è l'imponenza delle rocce che affiorano: grandi pareti disposte, talvolta, in strati regolari, talvolta in masse informi. Ciò che colpisce è la durezza di queste rocce: non banchi di terriccio friabile, ma grandi blocchi di marne, calcare o rocce vulcaniche. Percorrendo la valle Staffora dalla Pianura Padana fino alla zona di Santa Margherita di Staffora appare chiaro questo cambiamento mentre si passa dalla parte bassa a quella alta della valle; dove le rocce più "morbide" affioranti qua e là lungo i lati della valle, lasciano spazio a pareti intere brulle e ripide. Anche il paesaggio cambia, proprio a causa della modificazione del terreno; la bassa valle è molto più dolce e aperta; nella parte alta è molto più chiusa e le pareti dei colli sono disposte, in alcuni punti, quasi verticalmente.

    Ma perché questa brusca modificazione del terreno e quindi del paesaggio? Semplice, perché attraversando la valle Staffora si compie un vero e proprio salto indietro nel tempo: dalla Pianura Padana, ricoperta da terreni molto recenti, si attraversa la zona pedecollinare e collinare, costituita da depositi marini risalenti a epoche diverse dell'Era terziaria (Pliocene, Miocene, Oligocene, Eocene e Paleocene) per arrivare, nella parte alta della valle, ad attraversare depositi antichi anche più di cento milioni di anni.

    Anche quest'ultimi sedimenti si formarono in ambiente marino, ma in condizioni molto particolari. Si deve pensare, infatti, che circa 150 milioni di anni fa la placca africana (sostanzialmente quella che ora forma il continente africano) era in deriva verso quella europea (sostanzialmente quella che ora forma il continente europeo), che invece era stabile. L'oceano Ligure-Piemontese che separava queste due zolle risentì molto di questi movimenti. In un primo momento, infatti, si allargò e il suo fondale si "dilatò" al punto tale da lacerarsi; si formarono così vulcani sottomarini che eruttavano lave basiche che col tempo solidificarono formando i depositi basaltici e serpentinitici tipici dell'Appennino.

    All'inizio del periodo Cretacico questo oceano diventò sempre più grande proprio a causa dell'allontanamento delle due placche, quella africana e quella europea e, sopra ai depositi vulcanici, iniziarono a depositarsi sedimenti di mare molto profondo. A partire dal Cretacico superiore, invece, la placca africana iniziò a muoversi verso quella europea, facendo chiudere il bacino Ligure-Piemontese. Durante questo momento di convergenza sono svariati i depositi che si formarono nel fondo di questo paleo-oceano; così come si formarono i primi corrugamenti del terreno.

    Nel momento in cui l'Oceano si chiuse avvennero eventi tettonici di grande importanza; le Alpi e gli Appennini iniziarono ad alzarsi fino a raggiungere, nel corso dei milioni di anni il loro aspetto attuale. Anche durante epoche più recenti, per esempio l'Eocene, l'Oligocene o il Miocene le zolle continuarono a muoversi, scivolando una sopra l'altra; e ancor oggi continuano a farlo. La maggior parte dei depositi marini risalenti a quei periodi si originarono a causa di terremoti o frane sottomarine; depositi che andarono via via a ricoprire quelli di mare molto profondo che si erano depositati in precedenza e che ora affiorano.

    Le rocce che affiorano appartengono a diverse formazioni, ognuna con caratteristiche litologiche e deposizionali diverse. Si pensi ad esempio alle Argille a palombini di Barberino, costituite da un'alternanza di depositi argillosi e di calcari silicei chiari. All'interno di questi depositi, datati come Cretacico inferiore (Aptiano-Albiano, ovvero 114-95 milioni di anni fa), sono inglobati altri tipi di rocce derivanti da grandi frane sottomarine, dovute alle grandi forze originate dalle placche in movimento; si tratta di brecce a matrice argillosa, ofioliti, serpentiniti e addirittura graniti che possono presentare grana media o grossolana e includere, al loro interno, grossi cristalli di feldspato roseo.

    L'inglobamento di questi litotipi è dovuto verosimilmente all'arrivo nel bacino di sedimentazione di materiali derivanti dallo smantellamento di rughe ofiolitiche e della loro copertura. Questi depositi, infatti, proprio a causa della tettonizzazione subita, non si presentano sempre a strati alternati, ma assumono un aspetto caotico, dovuto proprio alle frane verificatesi durante la convergenza delle due placche tettoniche, ovvero durante l'orogenesi appenninica. Essendosi formate a grandi profondità, nel fondo dell'antico oceano, queste rocce non contengono macrofossili, ma solo piccoli fossili visibili al microscopio, come resti di piccole alghe, frammenti di aptici, radiolari... Questi sedimenti sono visibili ad esempio nell'area compresa tra gli abitati di Casanova Staffora e Santa Margherita Staffora.

    Altre formazioni sono rappresentate dalle Arenarie di Scabiazza; depositi costituiti da fitte alternanze di marne, arenarie e argille marnose. Anche se in alta valle Staffora non sono stati segnalati ritrovamenti di macrofossili in questi sedimenti, è noto che nelle aree circostanti (val Curone e val Trebbia) sono stati trovati resti di ammoniti. Tale ritrovamento, oltre a permettere una più certa datazione del deposito, ne conferma l'origine: si tratta infatti di sedimenti marini, originatisi come deposito torbiditico; questo dato è supportato dal fatto che a resti di animali che vivevano in mare aperto, quali le ammoniti per l'appunto, si associano resti vegetali, chiaro apporto di depositi continentali.

    Impronte fossili di tipo fucoides Questo tipo di sedimento affiora nella parte dell'alta valle Staffora più vicina al torrente, sia sulla sinistra, ma soprattutto sulla destra orografica dello stesso e nella zona comprendente cima di Vallescura, monte Scaparina e Massinigo. Tali depositi sono datati come Cretacico superiore (Cenomaniano-Turoniano, ovvero 95-88 milioni di anni fa). Alcuni autori, per la zona in questione, attribuiscono una dubbia interpretazione a quei depositi che si presentano come alternanze di strati calcareo-marnosi e arenacei; dove al loro interno sono comuni impronte fossili, ma anche resti di molluschi inoceramidi. Talvolta, infatti, vengono attribuiti ai Calcari di monte Cassio, talvolta ai Calcari del monte Antola; non è ancora del tutto chiara l'attribuzione all'una o all'altra formazione dei depositi affioranti in zona e presentanti simili caratteristiche. In particolare questo tipo di depositi è visibile nella zona di Cegni, sulla sinistra orografica del torrente Staffora e una piccola area prossima all'abitato di Santa Margherita Staffora. In ogni caso queste rocce si formarono anch'esse in epoche remote, a partire da circa 85 milioni di anni fa, a causa di grandi frane sottomarine.

    Come sopra accennato, i fossili in esse presenti possono essere di due tipi: o resti di gusci di molluschi bivalvi del tipo Inoceramus o impronte lasciate da animali che strisciavano sul fondo dell'oceano. Nel primo caso il fossile è rappresentato da un resto del guscio del mollusco e si presenterà come un'escrescenza della roccia in cui è inglobato. Sarà visibile solo all'occhio più attento, soprattutto se si tratta di un frammento del guscio e non del nicchio (cioè il guscio) intero, sia per la rarità dei ritrovamenti che si possono effettuare sia perché, come nel nostro caso, si presenterà dello stesso colore della roccia che lo ingloba.

    Nel secondo caso l'osservazione sarà più facile perché questi fossili, dove presenti, si ritrovano in grande quantità. Questo tipo di impronte è rappresentato dalle piste lasciate da organismi invertebrati che strisciando sul fondo dell'antico oceano lasciarono traccia del loro passaggio. Le impronte più comuni sono sicuramente quelle definite come elmintoidi. Si tratta di piste meandriformi semplici costituite per lo più da numerose anse regolari, parallele e strettamente ravvicinate; i meandri sono larghi da 1 a 3 mm, ma possono arrivare a 1 cm ed essere lunghi fino a 10 cm. Sono tracce di pascolo, cioè lasciate dagli organismi che si spostavano sulla superficie del substrato in cerca di nutrimento. Altre piste che si possono osservare sono caratterizzate da strutture di nutrizione: si tratta di gallerie o edifici creati da animali poco mobili prevalentemente detritivori (soprattutto vermi). In questo caso gli organismi scavavano in tutte le direzioni per cercare i livelli più ricchi di nutrimento e quindi lasciavano delle piste tridimensionali che apparentemente possono sembrare dei resti di vegetali per quanto sono ramificate. Sulla superficie dei depositi che affiorano nella zona in studio si possono trovare altri tipi di piste, lasciate da altri organismi o dagli stessi mentre svolgevano altre attività (riposo, fuga, ...); queste tracce però sono molto più rare.

    Simona Guioli

    pubblicato anche in: Alla scoperta di Santa Margherita Staffora /
    "Museo civico di Scienze naturali di Voghera" : cura -- Voghera : 2005


    FORNACE ROMANA

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    Risalente al III secolo a.c. e rinvenuta nel 1957, in occasione dei lavori di costruzione della scuola elementare, la fornace romana di Massinigo è una delle meglio conservate in Lombardia e l'unica per ora attestata nell'Oltrepò Pavese. La struttura ha pianta circolare, con fondazioni in pietra locale e alzato in laterizi. Dell'impianto rimane il piano di cottura in argilla, del diametro di 4,10 metri, forato e di notevole spessore, sostenuto da un corridoio a volte che collegava i muretti di sostegno della camera di combustione. Parzialmente conservato il praefurnium, l'imboccatura attraverso la quale veniva immesso il legname. La fornace è di un tipo ben noto nel mondo romano: a pianta circolare e a tiraggio verticale. Il calore usciva attraverso i fori del piano di cottura, riscaldava la camera nella quale si trovavano gli oggetti da cuocere e usciva dal camino. La struttura doveva servire principalmente alla cottura di mattoni e tegole, come è dimostrato dal notevole spessore del piano di cottura e dal rinvenimento di un gran numero di laterizi tra l'argilla che occludeva l'interno del forno. Analisi di tipo archeomagnetico, condotte sui resti dell'impianto, hanno permesso di collocare l'ultimo momento di utilizzo entro la prima metà del I secolo dopo Cristo.

    Una recente risistemazione della recinzione e dell'edificio ex scuola da parte del comune di anta Margherita di Staffora ha posto le basi per fare della fornace di Massinigo un punto di attrazione per il turismo scolastico (e non) nella valle. La collaborazione tra Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia e il Sistema Bibliotecario Integrato dell'Oltrepò Pavese, grazie a un finanziamento della Regione Lombardia, ha permesso di realizzare un nuovo apparato didattico all'interno dell'area attrezzata per fornire al visitatore le indispensabili informazioni.



    IL CONVENTO DI SAN GIACOMO

    Sorgeva sotto il Monte Chiappo. Il convento non si sa da chi sia stato fondato e perchè.
    La tradizione orale radicata e diffusa in Casale Staffora ha sempre tramandato l'esistenza del convento. Di questo convento ne restano due preziosi cimeliconservati nella Chiesa parrocchiale di Casale Staffora. Sulla sparizione del convento una causa potrebbero essere i lupi che infestavano i nostri monti i quali misero in fuga i frati ma una teoria più accreditata è la decadenza della strada fra la Lombardia e Genova che comportava la difficoltà di vita in un ambiente così solitario ed inospitale.


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    OLTREPO'-FRUTTA & DOLCI OLTREPADANI-



    Frutta e verdure
    Pelosin
    i, o pesche selvatiche, maturano appena prima della vendemmia e sono di dimensioni ridotte e dal sapore amaro. I pelosini, che devono il loro nome alla peluria che ne riveste la buccia, sono ottimi per preparare confetture e da sciroppare.
    Castagne. Se ne trovano molte nell'Oltrepò Pavese montano. Un alimento da sempre presente nella tradizione gastronomica oltrepadana (vedi anche boiocche): vengono usate nella preparazione dei dolci (la patona, una sorta di castagnaccio), ma anche nelle paste ripiene.
    Frutta. Non solo vigneti in Oltrepò Pavese ma anche alberi da frutta: tra i prodotti più tipici le mele di Soriasco (renette ma anche di antiche varietà) e le pesche di Volpedo, gialle, nella tradizione cotte al forno.

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    Mostarda di Voghera. Ricetta di provenienza ligure, viene fatta risalire alla necessità di mantenere la frutta per lunghi periodi sulle navi. Il procedimento di preparazione deriva dagli spagnoli; approdato a Voghera e subito adottato, il suo uso verrà consolidato, verso la metà di questo secolo, da alcuni industriali di Cremona.
    Peperone di Voghera. Carnoso, saporito, il peperone di Voghera, rosso, verde o giallo, viene usato nella preparazione di risotti e di salsine che accompagano le carni bollite (bagnet di peperoni). Vengono utilizzati anche per la peverada, una sorta di peperonata.

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    Oltre ai tipici formaggi di alta collina, che discendono dalle tome piemontesi, si segnala il furmag cui saltarei, formaggio vaccino stagionato con i vermi: si racconta che, durante i mercati, le forme esposte sui banchi camminassero! Nonostante non esista una vera e propria tradizione locale, vanno segnalati anche alcuni emergenti allevamenti caprini che propongono formaggi di grande qualità.

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    Siras. Ricotta di pecora, avvolta in tele che ne conferivano la classica forma a cono, un tempo veniva venduta in giornata dai figli dei pastori che stanziavano in zona. Il Nisso di Menconico, formaggio di lunga stagionatura, chiamato anche il "formaggio che salta o che brucia" dal sapore piccante, composto di latte di vacca e pecora, e gli squisiti formaggi di pecora.

    Dolci

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    Ciambelle.
    Dette anche brasadè, costituiscono il dolce tipico della zona; ogni comune ne vanta l'invenzione e l'originalità della ricetta. Le più conosciute sono le ciambelle di Staghiglione - Borgo Priolo -, ottenute con impasto per dolci non lievitato, e quelle di Broni, preparate con un impasto di pane leggermente dolcificato e, una volta ben cotte, chiuse ad anello. Si conservano diversi giorni. Un tempo le bambine le portavano come collane.Torta di mandorle. Torta di mandorle specialità dell'Oltrepo Pavese, in particolare famosa quella di Varzi. Torta San Contardo. Specialità tipica del paese di Broni, creata in onore del Santo Patrono del paese, San Contardo, pellegrino padovano morto poi nel paese locale.

    Inoltre, nel bosco, tra castagni, larici, querce e pini si trovano porcini, ovuli e poi tartufi bianchi e neri. Da notare inoltre che i tartufi bianchi più profumati e pregiati vengono trovati dai tartufai in pianura, addirittura fin contro agli argini del fiume Po.

    In questi ultimi anni anche il miele può essere considerato a pieno titolo un prodotto tipico. Un prodotto locale naturale che non subisce trattamenti termici, estratto mediante la sola centrifugazione. Il miele prima di essere riposto in vasetti, viene immagazzinato nelle cellette dei favi e lasciato decantare in appositi contenitori. E' altamente energetico con elevate caratteristiche qualitative. Fonte di zuccheri semplici, è ricco di enzimi, vitamine, sali minerali e oligominerali.



    OLTREPO'-- GASTRONOMIA--


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    SALUMI
    Salame di Varzi.
    Uno degli insaccati più tipici di carne cruda di suino lavorato nel nord Italia è il salame di Varzi. E'ottenuto dalla macinazione a pasta grossa di carne e grasso suino, con l'aggiunta di sale,pepe nero in grani,noce moscata e aromatizzato con un infuso di aglio e vino rosso . Viene insaccato in budello legato stretto. Il peso non è inferiore ai 700 g. Durante Il periodo di stagionatura, minimo 6-7 mesi, le muffe ricoprono il budello. Al taglio si presenta di un colore rosso vivo inframmezzato dal bianco del grasso. E' un tipico insaccato della Valle Staffora.

    Salame tradizionale. E' uno tra i salami più conosciuti, deriva da un impasto di carne suina e bovina macinato fine "a grana di riso". E' insaccato in crespone suino o anche, data la sua produzione su larga scala, su tutto il territorio nazionale, in budello sintetico.E' un prodotto di dimensioni notevoli,che pesa 3-4 kg. La stagionatura è tra le più lunghe nel settore dei salumi e prevede uno sviluppo di muffe sul budello.
    Cacciatorino dell'Oltrepo Pavese. Salamini di piccolo formato lunghi da 15 a 20 cm con un diametro di 3-4 cm e un peso di circa 70-90 g ciascuno. La composizione dell'impasto è variabile a seconda delle zone; la stagionatura è breve (15-20 giorni). L'impasto è insaccato nel torto di manzo e la legatura è fatta utilizzando spago piccolo, in modo da dividere un cacciatorino dall'altro e formare file da 6- 12 pezzi.
    Cotechino. È il classico piatto di recupero delle parti del maiale meno nobili, che era difficile riuscire a vendere. Viene bollito e servito caldo.
    Zampone .Stesso concetto del cotechino, cioè un ghiotto modo per recuperare le parti del maiale meno nobili: lo zampone è uno dei piatti beneaugurali che non può mancare al Cenone di San Silvestro.
    Lardo. Il Lardo e la schiena del suino. Il migliore deve superare i 5 cm di spessore al taglio fresco. Si conserva sino all'anno, ricoperto di sale, al fresco e in luoghi asciutti. La pestata di lardo era il condimento principe. Molto simile per composizione e preparazione al pesto modenese, viene usato oggi per insaporire le minestre di verdura; spalmato sul miccone fresco è l'aperitivo storico dei raduni paesani.
    Coppa dell'Oltrepo Pavese insaccato ottenuto con la coppa di suini di razze idonee ingrassati con prodotti locali. Per l'assoluta assenza di conservanti chimici è essenziale la stagionatura nelle tipiche cantine del territorio. Nel valutare il livello qualitativo di una coppa, grande attenzione va prestata al grado di umidità del budello naturale in cui è insaccato il salume Se la stagionatura si è svolta in un ambiente troppo umido si potrà notare sul budello una patina superficiale. Viceversa, se è avvenuta in un ambiente troppo secco, si può riscontrare al taglio, sulla fetta, una differenza di tonalità di colore e quindi un effetto di chiaroscuro. In alcuni casi si possono riscontrare anche fenditure all'interno oppure ossidazione delle parti grasse, a scapito del profumo e del sapore.
    Non bisogna dimenticare infatti che il sapore della coppa è determinato in particolare dalla gradualità e dalla durata della stagionatura (meglio se lenta, comunque compresa tra i due e i quattro mesi, a seconda delle tipologie).

    Maiale. Anche nella tradizione dell'Oltrepò del maiale non si butta via nulla: finisce in salumi e le parti meno nobili in altre preparazioni. È il caso dei marubè, frittelle di sanguinaccio, e della frittura di carnevale dove venivano consumati tutti i "resti" dell'animali
    Pancetta. Salume tipico dell'area piacentina, prodotto nella zona di confine con l'Oltrepò, la pancetta viene fatta stagionare in cantine adatte (dalle caratteristiche ben precise) anche per due o tre anni. Nel caso della pancetta, la caratteristica qualitativa da tenere più sotto controllo è costituita dalla morbidezza. Inoltre, va valutato con attenzione l'aspetto del grasso: come già nei prosciutti, più il grasso è bianco, migliore risulta la qualità complessiva della pancetta. Un altro elemento da considerare è quello della maggiore o minore presenza di sale: se risulta in eccesso, rischia seriamente di rovinare il sapore del salume. Il difetto più frequente da controllare (soprattutto nella pancetta coppata) è quello delle fessurazioni, determinate da una scarsa coesione tra grasso e magro e presente soprattutto nella testa e nella coda della pancetta.

    Bollito Misto
    altro piatto di origine piemontese, generalmente servito il giovedì. È composto dal gerretto di bue, biancostato di bue, codino di vitello e, a volte, il ginocchietto e la testina di vitello. Viene solitamente accompagnato con la mostarda di Voghera, un bagnetto di peperoni (sempre di Voghera) o cosparso di sale grosso. Dolcebrusco, salsina che insaporiva le carni fredde bollite, in particolare quelle degli animali da cortile. La ricetta tradizionale è a base di zucchero, aceto rosso d'uovo, fegatini e, quando c'erano, aringhe e capperi. Gallina Ripiena, tipico piatto natalizio della cucina oltrepadana. Il ricco ripieno – un impasto di pane grattugiato, uova, prosciutto, grana – costituiva la ricchezza del piatto. Miccone, pane stradellino di origine, da sempre adottato dall'Oltrepò come simbolo dei fornai. È un pane di circa 1 kg, ben cotto all'esterno e soffice all'interno; l'impasto viene preparato 48 ore prima, utilizzando il "crescente", parte di impasto accantonata per far da base ai lieviti. La micca non è un pane condito. Conservato in luogo sano e fresco, si mantiene per più giorni, tanto che nelle cascine era tradizione panificare soltanto un giorno alla settimana. Consumato fresco è di grande piacevolezza e scarsissima resa, da qui il proverbio "pane fresco e legna verde conducono alla povertà. Risumata, dolce altamente energetico ottenuto montando i tuorli con lo zucchero e aggiungendo vino bianco aromatico fino a ottenere una consistenza bevibile. Schita, acqua, farina, strutto e latte: è la ricetta della schita, frittella che accompagnava i salumi locali.

     
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    grazie tomiva'.pusaaaa
     
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