LE FIABE DI ITALO CALVINO

9 luglio 2010

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  1. gheagabry
     
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    C'era una volta un re che aveva perduto un anello prezioso. Cerca qua, cerca là, non si trova. Mise fuori un bando che se un astrologo gli sa dire dov'è, lo fa ricco per tutta la vita.
    C'era un contadino senza un soldo, che non sapeva né leggere né scrivere, e si chiamava Gambara.
    - Sarà tanto difficile fare l'astrologo? - si disse. - Mi ci voglio provare. E andò dal Re.
    Il Re lo prese in parola, e lo chiuse a studiare in una stanza. Nella stanza c'era solo un letto e un tavolo con un gran libraccio d'astrologia, e penna carta e calamaio. Gambara si sedette al tavolo e cominciò a scartabellare il libro senza capirci niente e a farci dei segni con la penna. Siccome non sapeva scrivere, venivano fuori dei segni ben strani, e i servi che entravano due volte al giorno a portargli da mangiare, si fecero l'idea che fosse un astrologo molto sapiente.
    Questi servi erano stati loro a rubare l'anello, e con la coscienza sporca che avevano, quelle occhiatacce che loro rivolgeva Gambara ogni volta che entravano, per darsi aria d'uomo d'autorità, parevano loro occhiate di sospetto. Cominciarono ad aver paura d'essere scoperti e, non la finivano più con le riverenze, le attenzioni: - Si, signor astrologo! Comandi, signor astrologo!
    Gambara, che astrologo non era, ma contadino, e perciò malizioso, subito aveva pensato che i servi dovessero saperne qualcosa dell'anello. E pensò di farli cascare in un inganno.
    Un giorno, all'ora in cui gli portavano il pranzo, si nascose sotto il letto. Entrò il primo dei servi e non vide nessuno.
    Di sotto il letto Gambara disse forte: - E uno!- il servo lasciò il piatto e si ritirò spaventato.
    Entrò il secondo servo, e sentì quella voce che pareva venisse di sotto terra: - E due! - e scappò via anche lui. Entrò il terzo, - E tre!
    I servi si consultarono: - Ormai siamo scoperti, se l'astrologo ci accusa al Re, siamo spacciati. Cosi decisero d'andare dall'astrologo e confessargli il furto.
    - Noi siamo povera gente, - gli fecero, - e se dite al Re quello che avete scoperto, siamo perduti. Eccovi questa borsa d'oro: vi preghiamo di non tradirci.
    Gambara prese la borsa e disse: - lo non vi tradirò, però voi fate quel che vi dico. Prendete l'anello e fatelo inghiottire a quel tacchino che c'è laggiù in cortile. Poi lasciate fare a me.
    Il giorno dopo Gambara si presentò al Re e gli disse che dopo lunghi studi era riuscito a sapere dov'era l'anello.
    - E dov'è? –
    - L'ha inghiottito un tacchino. -
    Fu sventrato il tacchino e si trovò l'anello. Il Re colmò di ricchezze l'astrologo e diede un pranzo in suo onore, con tutti i Conti, i Marchesi, i Baroni e Grandi del Regno.
    Fra le tante pietanze fu portato in tavola un piatto di gamberi. Bisogna sapere che in quel paese non si conoscevano i gamberi e quella era la prima volta che se ne vedevano, regalo di un re d'altro paese.
    - Tu che sei astrologo, - disse il Re al contadino, - dovresti sapermi dire come si chiamano questi che sono qui nel piatto.
    Il poveretto di bestie così non ne aveva mai viste né sentite nominare. E disse tra sé, a mezza voce: - Ah, Gambara, Gambara… sei finito male!
    - Bravo! - disse il Re che non sapeva il vero nome del contadino. - Hai indovinato: quello è il nome: gamberi! Sei il più grande astrologo dei mondo.


    Italo Calvino
     
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  2. tomiva57
     
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    Il principe granchio

    Una volta c'era un pescatore che non riusciva mai a pescare abbastanza da comprare la polenta per la sua famigliola.

    Un giorno, tirando le reti, sentì un peso da non poterlo sollevare, tira e tira ed era un granchio così grosso che non bastavano due occhi per vederlo tutto.

    - Oh, che pesca ho fatto, stavolta! Potessi comprarmici la polenta per i miei bambini!

    Tornò a casa col granchio in spalla, e disse alla moglie di mettere la pentola al fuoco che sarebbe tornato con la polenta. E andò a portare il granchio al palazzo del Re.

    - Sacra Maestà, - disse al Re, - sono venuto a vedere se mi fa la grazia di comprarmi questo granchio. Mia moglie ha messo la pentola al fuoco ma non ho i soldi per comprare la polenta.

    Rispose il Re: - Ma cosa vuoi che me ne faccia di un granchio? Non puoi andarlo a vendere a qualcun altro?

    In quel momento entrò la figlia del Re : - Oh che bel granchio, che bel granchio! Papà mio, compramelo, compramelo, ti prego. Lo metteremo nella peschiera insieme con i cefali e le orate.

    Questa figlia del Re aveva la passione dei pesci e se ne stava delle ore seduta sull' orlo della peschiera in giardino, a guardare i cefali e le orate che nuotavano. Il padre non vedeva che per i suoi occhi e la contentò. Il pescatore mise il granchio nella peschiera e ricevette una borsa di monete d' oro che bastava a dar polenta per un mese ai suoi figlioli.

    La Principessa non si stancava mai di guardare quel granchio e non s'allontanava mai dalla peschiera. Aveva imparato tutto di lui, delle abitudini che aveva, e sapeva anche che da mezzogiorno alle tre spariva e non si sapeva dove andasse. Un giorno la figlia del Re era lì a contemplare il suo granchio, quando sentì suonare la campanella.

    S'affacciò al balcone e c'era un povero vagabondo che chiedeva la carità. Gli buttò una borsa di monete d' oro, ma il vagabondo non fu lesto a prenderla al volo e gli cadde in un fosso. Il vagabondo scese nel fosso per cercarla, si cacciò sott' acqua e si mise a nuotare. Il fosso comunicava con la peschiera del Re attraverso un canale sotterraneo che continuava fino a chissà dove. Seguitando a nuotare sott'acqua, il vagabondo si trovò in una bella vasca, in mezzo a una gran sala sotterranea tappezzata di tendaggi, e con una tavola imbandita. Il vagabondo uscì dalla vasca e si nascose dietro i tendaggi. A mezzogiorno in punto, nel mezzo della vasca spuntò fuori dall' acqua una Fata seduta sulla schiena d' un granchio. La Fata e il granchio saltarono nella sala, la Fata toccò il granchio con la sua bacchetta, e dalla scorza del granchio uscì fuori un bel giovane. Il giovane si sedette a tavola, la Fata batte la bacchetta, e nei piatti comparvero le vivande e nelle bottiglie il vino. Quando il giovane ebbe mangiato e bevuto, tornò nella scorza di granchio, la Fata lo toccò con la bacchetta e il granchio la riprese in groppa, s'immerse nella vasca e scomparve con lei sott'acqua.

    Allora il vagabondo uscì da dietro ai tendaggi, si tuffò anche lui nella vasca e nuotando sott'acqua andò a sbucare nella peschiera del Re. La figlia del Re che era lì a guardare i suoi pesci, vide affiorare la testa del vagabondo e disse: - Oh: cosa fate voi qui? - Taccia, padroncina, - le disse il vagabondo, - ho da raccontarle una cosa meravigliosa -. Uscì fuori e le raccontò tutto.

    - Adesso capisco dove va il granchio da mezzogiorno alle tre! - disse la figlia del Re. - Bene, domani a mezzogiorno andremo insieme a vedere.

    Così l'indomani, nuotando per il canale sotterraneo, dalla peschiera arrivarono alla sala e si nascosero tutti e due dietro i tendaggi. Ed ecco che a mezzogiorno spunta fuori la Fata in groppa al granchio. La Fata batte la bacchetta e dalla scorza del granchio esce fuori il bel giovane e va a mangiare. Alla Principessa, se il granchio già le piaceva, il giovane uscito dal granchio le piaceva ancora di più, e subito se ne sentì innamorata.

    E vedendo che vicino a lei giaceva la scorza del granchio vuota, ci si cacciò dentro, senza farsi vedere da nessuno.

    Quando il giovane rientrò nella scorza di granchio ci trovò dentro quella bella ragazza. - Cos'hai fatto? - le disse, sottovoce, - se la Fata se n'accorge ci fa morire tutt'e due.

    - Ma io voglio liberarti dall'incantesimo! - gli disse, anche lei pianissimo, la figlia del Re. - Insegnami cosa devo fare.

    - Non è possibile, - disse il giovane. - Per liberarmi ci vorrebbe una ragazza che m' amasse e fosse pronta a morire per me.

    La Principessa disse: - Sono io quella ragazza! Intanto che si svolgeva questo dialogo dentro la scorza di granchio, la Fata si era seduta in groppa, e il giovane manovrando le zampe del granchio come al solito, la trasportava per le vie sotterranee verso il mare aperto, senza che essa sospettasse che insieme a lui era nascosta la figlia del Re. Lasciata la Fata e tornando a nuotare verso la peschiera, il Principe - perché era un Principe spiegava alla sua innamorata, stretti insieme dentro la scorza di granchio, cosa doveva fare per liberarlo: - Devi andare su uno scoglio in riva al mare e metterti a suonare e cantare. La Fata va matta per la musica e uscirà dal mare a ascoltarti e ti dirà: «Suoni, bella giovane, mi piace tanto>>. E tu risponderai: « Sì che suono, basta che lei mi dia quel fiore che ha in testa". Quando avrai quel fiore in mano, sarò libero, perché quel fiore è la mia vita.

    Intanto il granchio era tornato alla peschiera e lasciò uscire dalla scorza la figlia del Re.

    Il vagabondo era rinuotato via per conto suo e, non trovando più la Principessa, pensava d'essersi messo in un bel guaio, ma la giovane ricomparve fuori dalla peschiera, e lo ringraziò e compensò lautamente. Poi andò dal padre e gli disse che voleva imparare la musica e il canto. Il Re, che la contentava in tutto, mandò a chiamare i più gran musici e cantanti a darle lezioni.

    Appena ebbe imparato, la figlia disse al Re: - Papà, ho voglia d'andare a suonare il violino su uno scoglio in riva al mare.

    - Su uno scoglio in riva al mare? Sei matta? - ma come al solito la accontentò, e la mandò con le sue otto damigelle vestite di bianco. Per prevenire qualsiasi pericolo, la fece seguire da lontano da un po' di truppa armata.

    Seduta su uno scoglio, con le otto damigelle vestite di bianco, su otto scogli intorno, la figlia del Re suonava il violino. E dalle onde venne su la Fata. - Come suona bene! - le disse. - Suoni, suoni che mi piace tanto! La figlia del Re le disse: - Sì che suono, basta che lei mi regali quel fiore che porta in testa, perché io vado matta per i fiori.

    - Glielo darò se lei è capace d' andarlo a prendere dove lo butto.

    - E io ci andrò, - e si mise a suonare e cantare. Quando ebbe finito, disse: - Adesso mi dia il fiore.

    - Eccolo, - disse la Fata e lo buttò in mare, più lontano che poteva.

    La Principessa lo vide galleggiare tra le onde, si tuffò e si mise a nuotare. - Padroncina, padroncina! Aiuto, aiuto! - gridarono le otto damigelle ritte sugli scogli coi veli bianchi al vento. Ma la Principessa nuotava, nuotava, scompariva tra le onde e tornava a galla, e già dubitava di poter raggiungere il fiore quando un'ondata glielo portò proprio in mano.

    In quel momento sentì una voce sotto di lei che diceva: - Mi hai ridato la vita e sarai la mia sposa. Ora non aver paura: sono sotto di te e ti trasporterò io a riva. Ma non dire niente a nessuno, neanche a tuo padre. Io devo andare ad avvertire i miei genitori ed entro ventiquattr'ore verrò a chiedere la tua mano.

    - Sì, sì, ho capito, - lei gli rispose, soltanto, perché non aveva più fiato, mentre il granchio sott' acqua la trasportava verso riva.

    Così, tornata a casa, la Principessa disse al Re che s' era tanto divertita, e nient' altro.

    L'indomani alle tre, si sente un rullo di tamburi, uno squillo di trombe, uno scalpitìo di cavalli: si presenta un maggiordomo a dire che il figlio del suo Re domanda udienza.

    Il Principe fece al Re regolare domanda della mano della Principessa e poi raccontò tutta la storia. Il Re ci restò un po' male perché era all' oscuro di tutto; chiamò la figlia e questa arrivò correndo e si buttò nelle braccia del Principe: - Questo è il mio sposo, questo è il mio sposo! - e il Re capì che non c' era altro da fare che combinare le nozze al più presto.
     
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  3. gheagabry
     
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    Il principe che sposò una rana

    C'era una volta un Re che aveva tre figli in età da prender moglie. Perché non sorgessero rivalità sulla scelta delle tre spose, disse:
    - Tirate con la fionda più lontano che potete: dove cadrà la pietra là prenderete moglie.
    I tre figli presero le fionde e tirarono. Il più grande tirò e la pietra arrivo sul tetto di un Forno ed egli ebbe la fornaia.
    Il secondo tirò e la pietra arrivò alla casa di una tessitrice. Al più piccino la pietra cascò in un fosso.
    Appena tirato ognuno correva a portare l'anello alla fidanzata.
    Il più grande trovò una giovinotta bella soffice come una focaccia, il mezzano una pallidina, fina come un filo, e il più piccino, guarda guarda in quel fosso, non ci trovò che una rana.
    Tornarono dal Re a dire delle loro fidanzate.
    - Ora - disse il Re - chi ha la sposa migliore erediterà il regno. Facciamo le prove - e diede a ognuno della canapa perché gliela riportassero di lì a tre giorni filata dalle fidanzate, per vedere chi filava meglio.
    I figli andarono delle fidanzate e si raccomandarono che filassero a puntino; e il più piccolo tutto mortificato, con quella canapa in mano, se ne andò sul ciglio del fosso e si mise a chiamare:
    - Rana, rana!
    - Chi mi chiama?
    - L'amor tuo che poco t'ama.
    - Se non m'ama , m'amerà quando bella mi vedrà.
    E la rana salto fuori dall'acqua su una foglia.
    Il figlio del Re le diede la canapa e disse che sarebbe ripassato a prenderla filata dopo tre giorni.
    Dopo tre giorni i fratelli maggiori corsero tutti ansiosi dalla fornaia e dalla tessitrice a ritirare la canapa.
    La fornaia aveva fatto un bel lavoro, ma la tessitrice - era il suo mestiere - l'aveva filata che pareva seta.
    E il più piccino? Andò al fosso:
    - Rana, rana!
    - Chi mi chiama?
    - L'amor tuo che poco t'ama.
    - Se non m'ama , m'amerà quando bella mi vedrà.
    Saltò su una foglia e aveva in bocca una noce.
    Lui si vergognava un po' di andare dal padre con una noce mentre i fratelli avevano portato la canapa filata; ma si fecero coraggio e andò.
    Il Re che aveva già guardato per dritto e per traverso il lavoro della fornaia e della tessitrice, aperse la noce del più piccino, e intanto i fratelli sghignazzavano.
    Aperta la noce ne venne fuori una tela così fina che pareva tela di ragno, e tira tira, spiega spiega, non finiva mai , e tutta la sala del trono ne era invasa.
    "Ma questa tela non finisce mai!" disse il Re, e appena dette queste parole la tela finì.
    Il padre, a quest'idea che una rana diventasse regina, non voleva rassegnarsi.
    Erano nati tre cuccioli alla sua cagna da caccia preferita, e li diede ai tre figli: - Portateli alle vostre fidanzate e tornerete a prenderli tra un mese: chi l'avrà allevato meglio sarà regina.
    Dopo un mese si vide che il cane della fornaia era diventato un molosso grande e grosso, perché il pane non gli era mancato; quella della tessitrice, tenuto più a stecchetto, era venuto un famelico mastino. Il più piccino arrivò con una cassettina, il Re aperse la cassettina e ne uscì un barboncino infiocchettato, pettinato, profumato, che stava ritto sulle zampe di dietro e sapeva fare gli esercizi militari e far di conto.
    E il Re disse: - Non c'è dubbio; sarà re mio figlio minore e la rana sarà regina.
    Furono stabilite le nozze, tutti e tre i fratelli lo stesso giorno.
    I fratelli maggiori andarono a prendere le spose con carrozze infiorate tirate da quattro cavalli, e le spose salirono tutte cariche di piume e di gioielli.
    Il più piccino andò al fosso, e la rana l'aspettava in una carrozza fatta d'una foglia di fico tirata da quattro lumache.
    Presero ad andare: lui andava avanti, e le lumache lo seguivano tirando la foglia con la rana. Ogni tanto si fermava ad aspettare, e una volta si addormentò.
    Quando si svegliò, gli s'era fermata davanti una carrozza d'oro, imbottita di velluto, con due cavalli bianchi e dentro c'era una ragazza bella come il sole con un abito verde smeraldo.
    - Chi siete? - disse il figlio minore.
    - Sono la rana -, e siccome lui non ci voleva credere, la ragazza aperse uno scrigno dove c'era la foglia di fico, la pelle della rana e quattro gusci di lumaca.
    - Ero una Principessa trasformata in rana, solo se un figlio di Re acconsentiva a sposarmi senza sapere che ero bella avrei ripreso la forma umana.
    Il Re fu tutto contento e ai figli maggiori che si rodevano d'invidia disse che chi non era neanche capace di scegliere la moglie non meritava la Corona.
    Re e regina diventarono il più piccino e la sua sposa.
     
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  4. gheagabry
     
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    IL RE IN ASCOLTO

    Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
    Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
    L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
    Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce. Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange. Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
    La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
    Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
    Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona. Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo. Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
    Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra? Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui! Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
    Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
    C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente. Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
    Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
    Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
    Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare. E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
    L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.
     
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  5. gheagabry
     
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    "Io credo questo: le fiabe sono vere.

    Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza ed al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste…"

    (Italo Calvino, Introduzione a "Fiabe Italiane", 1956, vol.I, p.XVIII).
     
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  6. tomiva57
     
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    Favola: La figlia del re sole di Italo Calvino


    Un re e una regina, dopo averlo tanto atteso, stavano per avere un bambino.
    Il re chiamò gli astrologhi per sapere se sarebbe stato maschio o femmina e quale destino avrebbe avuto.
    Gli astrologhi guardarono il cielo e dissero che sarebbe nata una bimba, e che a venti anni avrebbe fatto innamorare il sole e avrebbe avuto da lui una figlia.

    Il re e la regina ci rimasero male di questo marito che sarebbe stato sempre in cielo, e fecero costruire una torre con finestre tanto alte che il sole non potesse entrare fino in fondo e vi rinchiusero la bambina con la balia.
    La balia aveva una figlia della stessa età di quella del re, le due bambine crebbero insieme nella torre.
    Avevano quasi venti anni quando, parlando di ciò che poteva esserci fuori, nel mondo, ebbero il desiderio di affacciarsi alla finestra. Fecero una catasta di sedie, salirono fino alla finestra e guardarono fuori.
    Il sole vide la figlia del re, se ne innamorò e le mandò un raggio, e da quel momento la ragazza attese una figlia dal sole.
    Quando la bambina nacque la balia, che temeva la collera del re, l'avvolse ben bene con fasce d'oro da regina e l'abbandonò in un campo di fave.
    Di lì a poco la figlia del re compì vent'anni e il padre la fece uscire dalla torre pensando che il pericolo fosse passato e non poteva immaginare che in quel momento la figlia di sua figlia e del sole stava piangendo in un campo di fave.
    Da quel campo passò un altro re che andava a caccia, sentì i vagiti e si impietosì di quella bella e piccola creatura abbandonata.
    La prese con sé e la portò al suo castello dove la fece crescere con suo figlio, un po’ più grande di lei, ma di poco.
    I due , divenuti grandi, si innamorarono e il figlio del re voleva sposare la ragazza, ma il padre, che era contrario a questo matrimonio, con una trovatella, la confinò in una casa solitaria senza sapere che essa era in grado di fare cose meravigliose, e cercò per il figlio una sposa di sangue reale.
    Si prepararono le nozze, e furono mandati degli ambasciatori a portare confetti a tutti, anche alla figlia del sole.
    Gli ambasciatori bussarono, la figlia del sole aprì la porta, ma era senza testa:
    - Oh! Scusate- disse - Mi pettinavo e ho dimenticato la testa sulla toeletta, vado a prenderla.
    Tornò con la testa sul collo e sorrise:
    - Cosa vi do per regalo di nozze?-.
    Portò gli ambasciatori in cucina e disse:
    - Forno, apriti; legna, va' nel forno; fuoco, accenditi; forno, quando sei caldo chiamami -.
    Gli ambasciatori, con i capelli dritti sulla testa, rimasero senza parole.
    Quando il forno gridò:
    - Sora padrona, sono caldo!-
    la figlia del sole vi si gettò con tutto il corpo, vi si rivoltò dentro e quando ne uscì aveva in mano un bel pasticcio dorato, che mandò al re come regalo di nozze.
    Quando gli ambasciatori tornarono al palazzo e raccontarono quello che era successo, la sposa, ingelosita, disse che anche lei avrebbe saputo fare la stessa cosa e, messa subito alla prova dal figlio del re, fu costretta a saltare dentro un forno rovente e in un attimo era già morta bruciata.
    Dopo un po' di tempo, il figlio del re si lasciò convincere a prendere un'altra moglie e il giorno delle nozze gli ambasciatori tornarono dalla figlia del sole a portarle i confetti; bussarono e la figlia del sole usci fuori passando attraverso il muro.
    Come aveva fatto la prima volta, volle preparare un dono di nozze; ordinò al forno di accendersi e all'olio di andare nella padella. Quando l'olio fu caldo e la chiamò, la figlia del sole vi tuffo le dentro le dita che si trasformarono in dieci bei pesci fritti che mandò al re.
    Gli ambasciatori tornarono al palazzo e raccontarono quello che avevano veduto, e la sposa, ingelosita, disse che anche lei era in grado di fare la stessa cosa.
    Il principe la prese in parola, fece preparare una padella d'olio bollente, la poveretta ci tuffò le dita e si scottò così forte che le venne male e morì.
    Trovarono una terza sposa per il principe e gli ambasciatori tornarono dalla figlia del sole a darle i confetti e la trovarono in aria che scivolava lungo una tela di ragno.
    Anche questa volta volle preparare un dono di nozze: si tagliò un orecchio e ne uscì una trina così bella che, quando la portarono a corte, tutti vollero sapere da dove fosse uscita.
    Quando la sposa ebbe ascoltato il racconto degli ambasciatori scioccamente si vantò di aver guarnito tutti i suoi abiti con una trina che aveva fatto allo stesso modo e quando il principe le dette un coltello dicendole:
    - Prova un po'!-
    La scriteriata si tagliò un orecchio e ne uscì tanto sangue che morì.
    Il principe, che era sempre più innamorato della figlia del sole, si ammalò di malinconia e nessuno riusciva a guarirlo.
    Chiamarono infine una vecchia maga che disse che sarebbe guarito solo se avesse mangiato una pappa fatta di un orzo che in un'ora fosse seminato, nascesse, fosse raccolto e cucinato.
    Il re era disperato, ma, ricordandosi di quella ragazza che faceva cose tanto meravigliose, la mandò a chiamare.
    La ragazza andò a corte, preparò la pappa e lei stessa volle darla al principe che stava a letto con gli occhi chiusi.
    La pappa era così cattiva che il figlio del re la sputò e un po' fini in un occhio della ragazza.
    La figlia del sole si adirò e cominciò a dire:
    - Come osi sputare in un occhio a me, figlia del sole, nipote di re?
    Il re che era vicino le chiese se veramente fosse nipote di re e alla sua risposta affermativa acconsentì alle nozze.
    Il principe guarì, sposò la figlia del sole che da quel giorno non fece più cose strane.


     
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  7. gheagabry
     
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    LA FIABA DEI GATTI



    Una donna aveva una figlia e una figliastra, e questa figliastra la teneva come un ciuco da fatica, e un giorno la mandò a cogliere cicorie.
    La ragazza va e va, e invece di cicoria trova un cavolfiore: un bel cavolfiore grosso grosso. Tira il cavolfiore, tira, tira, e quando lo sradicò, in terra s'aperse come un pozzo. C'era una scaletta e lei discese.
    Trovò una casa piena di gatti, tutti affaccendati. C'era un gatto che faceva il bucato, un gatto che tirava acqua da un pozzo, uno che cuciva, un gatto che rigovernava, un gatto che faceva il pane. La ragazza si fece dare la scopa da un gatto e l'aiutò a spazzare, a un altro prese in mano i panni sporchi e l'aiutò a lavare, all'altro ancora tirò la corda del pozzo, e a uno infornò le pagnotte. A mezzogiorno venne fuori una gran gatta, che era la mamma di tutti i gatti, e suonò la campanella:
    - Dalin, dalon! Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!
    Dissero i gatti: - Mamma, abbiamo lavorato tutti, ma questa ragazza ha lavorato piú di noi.
    -Brava, - disse la gatta, - vieni e mangia con noi -.
    Si misero a tavola, la ragazza in mezzo ai gatti e Mamma Gatta le diede carne, maccheroni e un galletto arrosto; ai suoi figli invece diede solo fagioli. Ma alla ragazza dispiaceva di mangiare da sola e vedendo che i gatti avevano fame, spartí con loro tutto quello che Mamma Gatta le dava. Quando si alzarono, la ragazza sparecchiò tavola, sciacquò i piatti dei gatti, scopò la stanza e mise in ordine.
    Poi disse alla Mamma Gatta: - Gatta mia, ora bisogna che me ne vada, se no mia mamma mi sgrida.
    Disse la gatta: - Aspetta, figlia mia, che voglio darti una cosa -.
    Là sotto c'era un grande ripostiglio, da una parte era pieno di roba di seta, dalle vesti agli scarpini, dall'altra pieno di roba fatta in casa, gonnelle, giubbetti, grembiuli, fazzoletti di bambace, scarpe di vacchetta.
    Disse la gatta: - Scegli quel che vuoi.
    La povera ragazza che andava scalza e stracciata, disse: - Datemi un vestito fatto in casa, un paio di scarpe di vacchetta e un fazzoletto da mettere al collo.
    -No, - disse la gatta, - sei stata buona coi miei gattini e io ti voglio fare un bel regalo -.
    Prese il piú bell'abito di seta, un bel fazzoletto grande, un paio di scarpini di raso, la vesti e disse:
    - Ora che esci, nel muro ci sono certi pertugi; tu ficcaci le dita, e poi alza la testa in aria. La ragazza, quandò uscí, ficcò le dita dentro quei buchi e tirò fuori la mano tutta inanellata, un anello piú bello dell'altro in ogni dito. Alzò il capo, e le cadde una stella in fronte. Tornò a casa ornata come una sposa.
    Disse la matrigna: - E chi te le ha date tutte queste bellezze?
    - Mamma mia, ho trovato certi gattini, li ho aiutati a lavorare e m'hanno fatto dei regali, - e le raccontò com'era andata.
    La madre, l'indomani, non vedeva l'ora di mandarci quella mangiapane di sua figlia.
    Le disse: - Va' figlia mia, cosí avrai anche tu tutto come tua sorella.
    -Io non ne ho voglia, - diceva lei, da quella malallevata che era, - non ho voglia di camminare, fa freddo, voglio stare vicino al camino.
    Ma la madre la fece uscire a suon di bastonate. Quella ciondolona cammina cammina, trova il cavolfiore, lo tira, e scende dai gatti.
    Al primo che vide gli tirò la coda, al secondo le orecchie, al terzo strappò i batti, a quello che cuciva sfilò l'ago, a quello che tirava l'acqua buttò il secchio nel pozzo: insomma non fece altro che dispetti per tutta la mattina, e loro miagolavano, miagolavano.
    A mezzogiorno, venne Mamma Gatta con la campanella: - Dalin, dalon! Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!
    -Mamma, - dissero i gatti, - noi volevamo lavorare, ma questa ragazza ci ha tirato la coda, ci ha fatto un sacco di dispetti e non ci ha lasciato far niente!
    -Bene, - disse Mamma Gatta, - andiamo a tavola -.
    Alla ragazza diede una galletta d'orzo bagnata nell'aceto, e ai suoi gattini maccheroni e carne. Ma la ragazza non faceva altro che rubare il mangiare dei gatti.
    Quando s'alzarono da tavola, senza badare a sparecchiare né niente, disse a Mamma Gatta: - Be', adesso dammi la roba che hai dato a mia sorella.
    Mamma Gatta allora la fece entrare nel ripostiglio e le chiese cosa voleva.
    - Quella veste là che è la piú bella! Quegli scarpini, che hanno i tacchi píú alti!
    - Allora, - disse la gatta, - spogliati e mettití questa roba di lana unta e bisunta e queste scarpe chiodate di vacchetta tutte scalcagnate -.
    Le annodò un cencio di fazzoletto al collo e la congedò dicendo: - Adesso vattene, e mentre esci, ficca le dita nei buchi e poi alza la testa in aria.
    La ragazza uscí, ficcò le dita nei buchi e le si attorcigliarono tanti lombrichi, e piú faceva per staccarseli, piú s'attorcigliavano. Alzò il capo in aria e le cadde un sanguinaccio che le pendeva in bocca e lei doveva dargli sempre un morso perché s'accorciasse. Quando arrivò a casa cosí conciata, piú brutta di una scoppiettata, la mamma ne ebbe tanta rabbia che morí. E la ragazza a furia di mangiar sanguinaccío, morí lei pure. Mentre la sorellastra buona e laboriosa, se la sposò un bel giovane.



    di Italo Calvino

    Edited by gheagabry1 - 13/4/2020, 17:02
     
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    Il cavaliere inesistente

    di Italo Calvino

    A Parigi, Carlo Magno stava passando in rassegna le sue truppe ed era finalmente giunto al serrafila, un certo cavaliere di nome Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, che si rifiutò però di mostrare il suo viso, sostenendo che lui non esisteva; dopo alcune sollecitazioni, però, il misterioso cavaliere sollevò la celata e… l’armatura era veramente vuota! Ma come era possibile tutto questo?

    Questo cavaliere aveva la capacità di fare tutte le cose che gli venivano assegnate in modo perfetto, senza mai trasgredire le regole, e per questo suo modo di fare, era antipatico a tutti. Inoltre, non aveva bisogno né di mangiare né di bere, né di respirare e né di dormire, ed era un instancabile guerriero. Di notte, amava passeggiare meditando e, proprio durante una sua passeggiata notturna, conobbe un cavaliere mai visto prima, di nome Rambaldo, giunto fin lì per vendicare la morte del padre, il marchese Gherardo di Rossiglione, ucciso dall’Argalif Isoarre. Solo l’indomani però, Rambaldo scoprì che in realtà Agilulfo non esisteva e che era solo un ammasso di inutile e scocciatrice ferraglia. Giunse un altro giorno e i cavalieri decisero di cominciare a muoversi, per raggiungere gli Infedeli. Dopo numerose ed estenuanti ore di galoppo, si accamparono in una radura, dove udirono degli strani versi, emessi da un certo Gurdulù, un pazzo in cerca della sua personalità, che a volte addirittura credeva di essere un animale o un oggetto. Il Re, colpito da questo strano uomo, decise di farlo diventare scudiero di un altro bizzarro individuo: Agilulfo, fornito di personalità ma sprovvisto di un corpo.

    La mattina dopo, mentre tutti i cavalieri, agghindati nelle loro cigolanti e pesanti armature, con le lance e gli scudi in mano, erano pronti a combattere contro gli Infedeli, Rambaldo aveva un solo scopo: uccidere l’Argalif Isoarre. Dopo averlo cercato ovunque si trovò di fronte al suo scudiero che aveva il compito di portare sempre con sé un paio di occhiali, perché l’Argalif Isoarre era miope. Quando quest’uomo stava per porgere gli occhiali all’Argalif Isoarre, Rambaldo li frantumò con la lancia, proprio mentre un suo compagno lo trapassava da parte a parte. Rambaldo corse via ma, rifugiatosi in un uno spiazzo a prima vista deserto, fu improvvisamente attaccato da due mori. Ma, proprio mentre stava per soccombere sotto i potenti colpi dei due, intervenne un altro cavaliere, dalla guarnacca color pervinca, grazie al quale riuscì a sconfiggere i due mori. Una volta vinta la battaglia, il misterioso cavaliere pervinca scappò via, e a Rambaldo non rimase altra soluzione che rincorrerlo tra il fitto boschetto ai lati della radura. Lo perse di vista ma poi, quando stava cercando un ruscello per abbeverarsi, lo trovò, nudo e immerso nell’acqua. Allora capì che il “cavaliere” pervinca…in realtà era una donna!

    Da qui il racconto prosegue narrato da Suor Teodera, che inizia a descrivere la situazione nel campo. Era l’ora del rancio, e Rambaldo raggiunse Agilulfo e gli spiegò che voleva diventare anch’egli un paladino, per coprirsi di gloria e difendere la fede cristiana. Ma Agilulfo smentì subito questa falsa illusione, facendo capire a Rambaldo le responsabilità di un’eventuale nomina al grado di paladino.

    L’indomani Rambaldo ritrovò il cavaliere pervinca, di nome Bradamante e la sfidò a tiro con l’arco. Agilulfo, che passava di lì per caso, fu notato dalla bella Bradamante, che si innamorò perdutamente di lui: egli, infatti, non era uno sciattone come gli altri cavalieri, ma era preciso e metodico, infallibile e severo, proprio come Bradamante sognava; lo invitò a tirare con l’arco, e Bradamante se ne innamorò ancora di più, colpita dalla sua precisione. Rambaldo, rassegnandosi all’amore che ormai legava Agilulfo e la bella Bradamante, seguì gli altri cavalieri, ed incontrò Torrismondo, un giovane guerriero convinto che la guerra per la santa fede fosse inutile e che solo i Cavalieri del San Gral si sarebbero salvati.

    L’indomani ancora, Agilufo andò al banchetto imperiale e, poiché tutti i cavalieri si vantavano inutilmente delle loro imprese raccontando solo un mucchio di fandonie, lui seguiva meticolosamente il filo del discorso correggendoli e smentendoli, citando anche i documenti in cui si poteva costatare tutto ciò che affermava.

    A questo punto, si alzò Torrismondo, il quale affermò che in realtà anche Agilurfo aveva una piccola macchia in quanto la donna che aveva tratto in salvo dai briganti non era una vergine come lui sosteneva, ma in realtà era Sofronia, sua madre, che lo aveva dato alla luce vent’anni fa, ancora tredicenne, e, temendo le ire dei genitori, era scappata nei boschi. Questo significava che Agilulfo non poteva essere riconosciuto cavaliere poiché non aveva mai salvato una donna vergine come invece lui credeva; così decise di partire in cerca di Sofronia, che si era fatta monaca, seguito da Gurdulù. Quando Bradamante vide Agilulfo partire, piena di amore volle seguirlo in tutta fretta, e, appena Rambaldo vide che Bradamante partiva, per lo stesso motivo, volle seguirla.

    Dal canto suo Torrismondo, non poteva più essere cavaliere, poiché avendo confessato di essere figlio di Sofronia, non era di nobile stirpe; anch’egli allora partì, cercando l’Ordine del San Gral, che aveva messo incinta Sofronia, e tentando di farsi riconoscere come figlio dall’Ordine in generale.

    Per facilitare la comprensione del racconto, divido il viaggio di Agilulfo da quello di Torrismondo.

    Durante il viaggio Agilulfo incontra Priscilla, una dama che si innamora di lui e con cui trascorre una notte bellissima, elogiando e vezzeggiando la dama. Poi Agilulfo approda finalmente in Inghilterra, dove risiede il convento di Sofronia: purtroppo però il convento era stato raso al suolo da un gruppo di pirati Mori, che avevano deportato le monache in Marocco, come schiave. Allora Agilulfo e gli altri si imbarcarono per il Marocco, in cerca della bella Sofronia. Giunti in Marocco chiesero notizie ad un gruppo di pescatori di perle per il sovrano marocchino, e scoprirono che Sofronia era stata destinata in sposa al sultano: giunto all’interno della stanza in cui alloggiava Sofronia, la prese e fuggì con lei inseguito dalle guardie saracene.

    Torrismondo, invece, cavalcando per foreste e per boschi, raggiunse la terra di Curvaldia, dove apprese che i Cavalieri dell’Ordine erano in una foresta. Finalmente incontrò l’Ordine dei Cavalieri del San Gral, che purtroppo non poterono riconoscerlo loro figlio. I Cavalieri gli proposero però di rimanere con loro e di entrare a far parte dell’Ordine. Per molti giorni si concentrò, pensando solamente alla natura e alla fede. Ma quando giunse il giorno della riscossione dei tributi e i cavalieri si accanirono senza motivo sui contadini che non avevano nulla da dare loro, Torrismondo si schierò dalla parte dei contadini, difendendoli con accanimento. Lasciò allora i Cavalieri dell’Ordine e fuggì a cavallo. Scorse una grotta e si recò al suo interno, per riflettere. Proprio lì si nascondeva Sofronia con la quale si intrattenne piacevolmente. Ma ecco che, all’improvviso, giunse Carlo Magno e i due vennero scoperti. Scoprendo dunque che Sofronia non era una vergine, Agilulfo vide svanire il suo titolo paladino, nonché la sua intera personalità. Rambaldo cercò Agilulfo ma al suo posto trovò soltanto la sua armatura, che si apprestò ad indossare in ricordo di colui che gli era stato amico.

    Sofronia e Torrismondo, celebrate le nozze al cospetto di Carlo Magno, si recarono in Curvaldia, di cui erano diventarono i conti, e che nel frattempo era rifiorita.

    Nel frattempo Bradamante ritornò al suo convento, poiché essa in verità era una suora: si faceva chiamare Suor Teodora. Aveva dunque due personalità: Bradamante, era la donna che si innamorava sempre di uomini diversi e collezionava delusioni su delusioni, Suor Teodora era invece la religiosa che si rifugiava nel convento dopo ogni sofferenza d’amore.

    Riflettendo però, questa volta scoprì di amare veramente il giovane Rambaldo. Egli, intanto, l’aveva cercata per mari e per monti, ma adesso era lì, proprio sotto il portico del convento che la chiamava innamorato. Bradamante uscì dal convento sperando che questo suo amore fosse durato per sempre in modo da non doverci più tornare!




    Personaggi

    Il protagonista del romanzo è Agilulfo, un valoroso cavaliere di Carlo Magno, sempre pronto a combattere "per la santa causa", cioè per cristianizzare tutto il mondo attraverso le Crociate. Indossa una lucida armatura bianca, è incline alla perfezione e alla nobiltà d'animo, sempre pronto a risanare i torti, pieno di spirito e razionalità che però ha un unico difetto: non esiste! Ha una voce metallica e meccanica, è molto freddo, pignolo e perciò spesso abbastanza impaziente; è molto sincero, dice sempre la verità poiché è incapace di dire il falso. Inizialmente è molto razionale e calcolatore, pian piano riesce però a “umanizzarsi”, scoprendo di avere anch'egli dei sentimenti.
    Invaghita di Agilulfo è l'intrepida guerriera amazzone Bradamante, innamoratasi dello spirito di perfezione del cavaliere e stanca della monotonia degli altri uomini. Bradamante ha un’armatura splendente, un mantello color pervinca e una sottoveste color topazio, è molto fiera di sé ed è anche molto bella e leggiadra: solo alla fine è amata da Agilulfo, il quale contraccambia i suoi sentimenti verso di lei quando oramai è però troppo tardi: Agilulfo scompare infatti nell'aria. Troviamo poi Gurdulù, lo scudiero di Agilulfo che è praticamente matto, anche se Agilulfo cerca di “mettergli a posto la testa”. Come personalità, egli può essere definito “complementare” ad Agilulfo poiché è tutto corpo, carnalità e natura, senza un briciolo di coscienza. Insieme i due girano l'Europa, vivendo varie avventure. Inoltre è presente Rambaldo, un giovane amico di Agilulfo e innamorato di Bradamante che vuole vendicare il padre, il defunto marchese Gherardo di Rossiglione, ucciso dagli infedeli; inizialmente un po' incapace e impacciato, con l’aiuto di Agilulfo riesce a diventare abile nel combattimento e animato da una grande voglia di lottare. Torrismondo, invece, è un cavaliere cupo e fosco, che arriva all'accampamento insieme a Rambaldo, pur non conoscendolo. Andrà poi alla ricerca del santo Gral per far valere il suo onore e dichiarerà di esser figlio di Sofronia, la vergine salvata dai Briganti da Agilulfo.
    Tra i personaggi minori figurano Re Carlo Magno e molti altri cavalieri, come Orlando, Rinaldo di Montalbano, Astolfo, Angiolino di Baiona, Riccardo di Normandia e molti altri, tutti arroganti e fieri delle proprie imprese. Verso la fine del romanzo, viene introdotta una giovane nobildonna di nome Priscilla, con cui Agilulfo passerà una notte nel suo castello.
    L'antagonista non è presente in questo racconto anche se per certi versi può riconoscersi in Torrismondo, poiché egli è la causa di gravi conflitti interiori di Agilulfo e della sua scomparsa.



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    LA SPOSA SIRENA



    C’era una volta una bella donna sposa e suo marito faceva il marinaio.
    Questo marinaio stava lontano anni e anni e mentr’era via, il re di quel paese si innamorò della sposa e tanto disse e tanto fece che la sposa scappò via con lui.
    Il marinaio, quando sbarcò, trovò la casa vuota. Passò un po’ di tempo e… quel Re si stancò della donna e la cacciò via.
    Lei, pentita, tornò dal marito, s’inginocchiò davanti a lui a chiedergli perdono. Il marinaio, nonostante tutto l’amore che aveva avuto per lei e che ancora aveva, era così impermalito del suo tradimento, che voltò le spalle, dicendo:
    - No, non ti perdono né ti perdonerò mai! Avrai la punizione che meriti. Preparati a morire.
    La donna strappandosi i capelli lo pregò, lo supplicò, ma fu inutile. Il marinaio fece caricare sulla nave la sposa infedele come fosse un sacco, sciolse le vele e partì. Quando fu in alto mare:
    - Ecco, è giunta la tua ora! - disse alla moglie. La prese per i capelli, l’alzò e la buttò tra le onde.
    - Ora sono vendicato - disse.
    Girò il timone e tornò in porto. La sposa scese giù sott’acqua e si trovò in mezzo al mare, nel posto dove si davano convegno le Sirene.
    - Guarda che bella giovane hanno buttato in mare- dissero le Sirene - Una donna così bella, morire mangiata dai pesci! Salviamola, prendiamola con noi!
    Così presero la sposa per mano, la condussero nel loro palazzo sotto il mare, tutto illuminato e splendente. Una Sirena le pettinò i capelli neri, un’altra le profumò le braccia e il petto, una terza le mise al collo un vezzo di corallo, un’altra ancora le infilò alle dita degli anelli di smeraldo. La sposa non capiva più niente dalla meraviglia.
    - Schiuma! Vieni con noi, Schiuma! - si sentì chiamare e capì che quello era il suo nome tra le Sirene.
    Passò nella sala del palazzo: era pieno di donne e bei giovani che danzavano e anche lei si mise a danzare. Tra tante ricchezze e tante feste, i giorni della sposa trascorrevano in letizia, ma il ricordo del marito la riprendeva sovente e gettava un’ombra sul suo viso.
    - Non sei felice con noi, Schiuma?- le dicevano le Sirene. - Perché hai il viso così triste? Perchè te ne stai taciturna?
    - No, nulla, non ho nulla- rispondeva lei, ma non riusciva a sorridere.
    - Vieni, t’insegneremo a cantare - continuavano.
    Schiuma apprese le loro canzoni, quelle che quando i marinai le sentono si buttano in mare a capofitto, ed entrò a far parte del coro delle sirene. Insieme alle Sirene veniva a galla a cantare nelle notti di luna.
    Una notte le Sirene videro venir avanti un bastimento con le vele spiegate.
    - Vieni con noi, Schiuma, vieni con noi a cantare!- dissero le Sirene e intonarono la loro canzone.

    " E questo è il canto della luna piena, E questo è il canto della luna tonda,
    Se vuoi vedere la bella Sirena, O marinaio buttati nell’onda!

    Allora, dal parapetto del bastimento si vide un uomo sporgersi, sporgersi incantato da quella musica e poi lanciarsi tra le onde. Alla luce della luna, Schiuma l’aveva riconosciuto: era suo marito.
    - Lo trasformeremo in corallo!- dicevano già le Sirene. - O in cristallo bianco! O in conchiglia!
    - Aspettate! Aspettate, vi prego!- esclamò Schiuma - Non uccidetelo! Non fategli ancora nessuna magia!
    - Ma perché te la prendi tanto a cuore per lui?- fecero le compagne.
    - Non so…vorrei provare a fargli un incantesimo io…A modo mio, vedrete…vi prego lasciatelo vivo per ventiquattr’ ore ancora…
    Le sirene che la vedevano sempre triste non osarono dirle di no e rinchiusero il marinaio in un palazzo bianco in fondo al mare. Era giorno e le sirene andarono a dormire. Schiuma si avvicinò al palazzo bianco e si mise a cantare una canzone che diceva:

    " E questo è il canto della luna piena, io ti conobbi in vita e fui ingrata,
    ora son diventata una sirena, ti salverò e sarò condannata."

    Il marinaio tese l’orecchio e capì che quella che cantava non poteva essere che la sua sposa. Si mise ad attendere pieno di speranza e sentì che in cuor suo l’aveva già perdonata e s’era pentito di averla fatta annegare. Le Sirene di giorno dormivano e la notte andavano per il mare a tendere i loro sortilegi ai marinai.
    Schiuma aspettò che fosse notte, aperse il palazzo bianco e ritrovò il suo sposo.
    - Taci - gli disse -le Sirene si sono allontanate da poco e possono sentirci! Abbracciati a me e lasciati portare.
    Così nuotò per ore e ore, finchè non giunsero in vista di un grande bastimento.
    - Domanda aiuto ai marinai- gli disse Schiuma.
    - Ehi! Lassù! Aiuto! Aiuto! – invocò l’uomo.
    Si vide che dal bastimento veniva calata una scialuppa. Remarono verso il naufrago, lo tirarono a bordo
    - La sirena…-diceva lui.- La sirena…la sirena mia sposa…
    - È diventato pazzo in mare – dicevano i soccorritori. - Ehi, sta calmo, compagno, sei in salvo. Non c’è nessuna Sirena qua intorno.
    Il marinaio potè far ritorno al suo paese, ma non faceva altro che pensare alla sua sposa sirena ed era infelice. “Io l’ho annegata e la mia sposa m’ha salvato la vita -pensava- voglio navigare finchè non la ritrovo! Voglio salvarla o annegare anch’io”.
    E così pensando s’addentrò in un bosco, fino ad un albero di noci dove si diceva si riunissero le Fate.
    - Bel giovane, perché sei così triste? – disse una voce accanto a lui.
    Si voltò e vide una vecchia.
    -Sono triste perché mia moglie è una sirena e non so come farla ritornare.
    -Mi sembri un bravo giovane- disse la vecchia- e voglio farti riacquistare tua moglie. Però, ad un patto. Ci stai?
    - Farò tutto quello che mi dite – ribattè il giovane.
    - C’è un fiore che cresce soltanto nei palazzi delle sirene e che si chiama “il più bello”. Tu devi prendere questo fiore e portarlo qui quando è notte e lasciarlo sotto questo noce. Allora avrai tua moglie.
    - Ma come posso fare io a prendere un fiore dal fondo del mare?- osservò lo sposo sconsolato.
    - Se vuoi riavere tua moglie, devi trovare la via – lo incoraggiò la fata.
    - Proverò!- disse il marinaio.
    Andò subito al porto, s’imbarcò sul suo bastimento e sciolse le vele. Quando fu in alto mare si mise a gridare il nome della sposa. E udì uno sbattere d’acqua e la vide che nuotava nella scia della nave.
    - Sposa mia!- disse il marinaio- io voglio salvarti, ma per salvarti devo aver un fiore che cresce soltanto nei palazzi delle sirene e che si chiama “il più bello”.
    - È impossibile! - disse la sposa - Il fiore c’è ed emana un profumo di paradiso, ma è un fiore che le sirene hanno rubato alle fate e il giorno in cui tornasse alle fate, tutte le sirene dovrebbero morire. Anch’io sono sirena e morirei insieme a loro.
    - Non morrai- le disse il marinaio- perché le fate ti salveranno.
    - Torna qua domani e ti darò il fiore - disse la sposa.
    Il marinaio tornò. La sposa riapparve dal mare.
    - Ebbene? – lui le chiese.
    E lei:- Perché possa portarti il fiore che si chiama “il più bello” devi vendere tutto ciò che possiedi, col ricavato comprare i più bei gioielli che ci sono nelle casseforti degli orefici di tutte le città del Regno. Le Sirene, alla vista dei gioielli, s’allontaneranno dal palazzo e io potrò cogliere il fiore.
    Il marinaio in pochi giorni vendette ogni suo avere e comprò i gioielli più splendenti del Regno. Caricò il bastimento di gioielli che pendevano a grappoli da tutti i pennoni, risplendenti al sole; così navigò per il mare.
    Le Sirene, avide di gioielli più che d’ogni altra cosa, cominciarono ad affiorare tra le onde e a seguire il bastimento, cantando:

    " E questo è il canto del sole di fuoco, La tua nave trabocca di gioielli, O marinaio, fermati qui un poco, Regalaci collane, spille, anelli."

    Ma il marinaio continuava la sua via e le Sirene lo seguirono allontanandosi dal loro palazzo. Tutto ad un tratto, si sentì un boato sotto il mare, le acque si alzarono in un ondata mai vista e tutte le Sirene sparirono morte annegate. Dall’onda uscì un’aquila, a cavallo dell’aquila c’era quella vecchia Fata insieme con la moglie del marinaio che volavano via.
    Quando il marinaio tornò a casa, sua moglie era già là ad aspettarlo.

    Italo Calvino
     
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    Una città diversa



    La neve! gridò Marcovaldo alla moglie, ossia fece per gridare, ma la voce gli usci attutita.Come sulle linee e sui colori e sulle prospettive, la neve era caduta sui rumori, anzi sulla possibilità stessa di far rumore; i suoni, in uno spazio imbottito, non vibravano.
    Andò al lavoro a piedi; i tram erano fermi per la neve. Per strada, aprendosi lui stesso la sua pista, si senti libero come non s'era mai sentito.
    Nelle vie cittadine ogni differenza tra marciapiedi e carreggiata era scomparsa, veicoli non ne potevano passare, e Marcovaldo, anche se affondava fino a mezza gamba ad ogni passo e si sentiva infiltrare la neve nelle calze, era diventato padrone di camminare in mezzo alla strada, di calpestare le aiuole,
    d'attraversare fuori delle linee prescritte, di avanzare a zig-zag.
    Le vie e i corsi s'aprivano sterminati e deserti come candide gole tra rocce di montagne.
    La città nascosta sotto quel mantello chissà se era sempre la stessa o se nella notte l'avevano cambiata con un'altra?
    Chissà se sotto quei monticelli bianchi c'erano ancora le pompe della benzina, le edicole, le fermate dei tram o se non c'erano che sacchi e sacchi di neve? Marcovaldo camminando sognava di perdersi in una città diversa: invece i suoi passilo riportavano proprio al suo posto di lavoro di tutti i giorni, il solito magazzino, e, varcata la soglia, il manovale stupi di ritrovarsi tra quelle mura sempre uguali, come se il cambiamento che aveva annullato il mondo di fuori avesse risparmiato solo la sua ditta.
    (Italo Calvino)

     
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  15. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche e Popolari Italiane

    Il lupo e le tre ragazze (Lago di Garda)

    C'erano una volta tre sorelle, a lavorare in un paese. Gli venne la notizia che la loro mamma, che abitava a Borgoforte, stava mal da morte. Allora la sorella maggiore si preparò due sporte con dentro quattro fiaschi e quattro torte e partí per Borgoforte. Per strada trovò il lupo che le disse: "Dove corri così forte?" "Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte." "Cosa porti in quelle sporte?" "Quattro fiaschi e quattro torte." "Dàlle a me se no, alle corte, ch'io ti mangi è la tua sorte." La ragazza diede tutto al lupo, e tornò dalle sorelle a gambe levate. Allora la seconda riempì la sporta lei e partì per Borgoforte. Trovò il lupo. "Dove corri così forte?" "Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte." "Cosa porti in quelle sporte?" "Quattro fiaschi e quattro torte." "Dàlle a me se no, alle corte, ch'io ti mangi è la tua sorte." Anche la seconda sorella vuotò le sporte e tornò via di corsa. Allora la più piccola disse: "Adesso ci vado un pò io," preparò le sporte e partì. Trovò il lupo. "Dove corri così forte?" "Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte." "Cosa porti in quelle sporte?" "Quattro fiaschi e quattro torte." "Dàlle a me se no, alle corte, ch'io ti mangi è la tua sorte." Allora la più piccola prese una torta e la buttò al lupo che stava a bocca aperta. Era una torta che lei aveva preparato prima apposta, con dentro tanti chiodi. Il lupo la prese al volo e la morse e si punse tutto il palato. Sputò la torta, fece un balzo indietro, e scappò dicendo alla bambina: "Me la pagherai!"

    Di corsa, per certe scorciatoie che sapeva solo lui, il lupo arrivò a Borgoforte prima della bambina. Entrò in casa della madre ammalata, la mangiò in un boccone, e si mise a letto al suo posto. Arrivò la bambina, vide la mamma che faceva appena capolino dalle lenzuola, e le disse: "Come sei diventata nera, mamma!" "Sono stati tutti i mali che ho avuto, bambina," disse il lupo." "Come t'è venuta la testa grossa, mamma!" "Sono stati tutti i pensieri che ho avuto, bambina." "Lascia che t'abbracci, mamma," disse la bambina e il lupo, ahm! Se la mangiò in un boccone. Inghiottita che ebbe la bambina, il lupo scappò fuori. Ma appena sulla via i paesani, a vedere un lupo uscire da una casa, gli si misero dietro con forche e badili, gli chiusero tutte le strade e l'ammazzarono. Gli tagliarono subito la pancia e ne uscirono madre e figlia ancora vive. La mamma guarì e la bambina tornò dalle sorelle a dire: "Avete visto che io ce l'ho fatta!"
    (I.Calvino)
     
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17 replies since 8/7/2010, 23:55   37987 views
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