METAMORFOSI

Ovidio

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    IL MITO DI APOLLO E GIACINTO


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    Il mito di Giacinto si accentra sulla sua bellezza, che fa innamorare Apollo, e sulla morte prematura ; la sua morte segna la fine dell'adolescenza. L'eroe viene collegato al fiore omonimo che sarebbe nato dal suo sangue, per opera di Apollo.

    Giacinto, figlio di Amicla e Diomeda o, secondo altri, di Pierio e di Clio fu teneramente amato da Zefiro e da Apollo. L'amore di Apollo era tanto grande che pur di stare insieme a Giacinto tralasciava tutte le sue principali attività,trasportando invece le reti e tenendo i cani al guinzaglio quando quest’ultimo andava a caccia , accompagnando l'inseparabile amico ovunque egli si recasse.

    “gli è sempre appresso,
    e danno intrambidui nel nobil sito
    di Sparta a gli animai la caccia spesso:
    del suo bel lume il mio padre invaghito
    si scorda totalmente di se stesso".


    Un giorno i due si spogliarono, si unsero d’olio d’oliva, ed iniziarono una gara di lancio col disco : Apollo lanciò per primo il disco in aria e Giacinto corse a riprenderlo, tuttavia, toccata terra, questo gli rimbalzò sul volto , deviato dal geloso Zefiro e colpendo alla tempia Giacinto, lo ferì a morte.

    veleggiò nell'aria e nel sangue
    il disco del dio"


    Apollo cercò di salvare il giovane adoperando ogni arte medica, ma non poté nulla contro il destino. Decise, a quel punto, di trasformare l'amato amico in un fiore dall'intenso colore rosso porpora , proprio come il suo sangue e col suo stesso nome, IACINTHUS affinché del giovane e del profondo dolore del dio per la sua morte si conservasse memoria in eterno.

    " Il qual fu il più bel fior morendo, langue,
    dipinto il suo cor di morte, e sangue."



    Apollo, prima di tornarsene in Cielo, chinato sul fiore appena creato scrisse di proprio pugno sui petali le sillabe "AI", "AI" che tuttora si vogliono ravvisare nei segni che sembrano incisi sulle foglie del Giacinto e che sono simili alle lettere A e I. come imperituro monumento del cordoglio provato per tanta sventura, che lo aveva privato dell'amore e dell'amicizia del giovane.

    L'episodio è narrato nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio.
     
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    IL MITO DI PANDORA




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    ZEUS infuriato per il furto del fuoco divino commesso da Prometeo, decise di punirlo e con lui il genere umano.
    Prometeo venne incatenato ad una roccia ed ogni giorno un’aquila gli divorava il fegato: l’organo ricresceva durante la notte e così, la mattina successiva, il tormento riprendeva.
    Per punire gli uomini, Zeus ordinò ad Efesto di creare una bellissima fanciulla

    La modellò in argilla la fece disseccare, le plasmò con dita sapienti un volto soave, la colorò di tenero rosa e le diede come anima una scintilla del fuoco divino che ardeva nei forni immensi dell'Olimpo. Allora la donna aprì gli occhi, sorrise e le sue membra si mossero con grazia; era in tutto simile alle bellissime Dee. Accorse Minerva ad ammirarla e le donò una cintura di perle e un abito ricchissimo di porpora e gemme; le Grazie le adornarono il petto e le braccia di gioielli scintillanti; Venere, la dolce dea dal sorriso adorabile, sparse sulla testa della fortunata ragazza tutte le più squisite grazie femminili, mentre le Ore dalle lunghe trecce dorate inghirlandavano la donna appena creata con serti di rose vellutate e profumate. Anche Giove volle offrire il suo dono alla bellissima mortale, prima di mandarla fra gli uomini : "Io ti metto nome Pandora e il tuo nome vuol dire la donna "di tutti i doni" e a quelli che hai ricevuto ora, aggiungo il mio. Eccolo, tu porterai questo vaso con te, quando andrai sulla terra. Esso contiene tutti i mali che possono far piangere, soffrire, rovinare gli uomini. Guardati dunque dall'aprirlo, essi sfuggirebbero tutti per il mondo .

    La donna accolse grata il dono del nume e su di un cocchio a forma di cigno, scese sulla Terra ove il Fato aveva stabilito che dovesse diventare la sposa di un re , il fratello di Prometeo, Epimeteo. Questi, nonostante l’avvertimento del fratello di non accettare doni dagli dei , sposò Pandora .
    Ella recava con sé il vaso regalatole da Zeus . Ma la curiosità, a poco a poco, prese a roderle il pensiero: che cosa dunque conteneva il prezioso vaso intarsiato donatole da Giove? Tutti i mali aveva detto il nume? Ma come erano fatti? e Pandora disobbedì: aprì il vaso e da esso uscirono tutti i mali del mondo (la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia, il dolore ecc.) che si abbatterono sull’umanità. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza (Elpis) l'unico dono buono che Zeus aveva posto nel vaso e che rimase incastrato sotto il coperchio che subito Pandora aveva chiuso

    Prima di questo momento l'umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche o preoccupazioni di sorta, e gli uomini erano, così come gli dei, immortali. Dopo l'apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza.

    Con il mito del vaso di Pandora la teodicea greca assegna alla curiosità femminile la responsabilità di aver reso dolorosa la vita dell'uomo: per questo motivo il personaggio di Pandora non è dissimile da quello di Eva nel mito biblico della Genesi.



    Oggi l'espressione vaso di Pandora viene usata metaforicamente per alludere all'improvvisa scoperta di un problema o una serie di problemi che per molto tempo erano rimasti nascosti e che una volta manifesti non è più possibile tornare a celare
     
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    IL MITO DI DEUCALIONE E PIRRA



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    Il mito di Deucalione e Pirra è la variante greca del mito del diluvio universale, avvenimento menzionato in quasi tutti i culti e le religioni asiatici, europei ed africani. Deucalione e Pirra, rispettivamente figli di Prometeo e Epimeteo, erano sposi senza figli e a loro gli dei permisero di salvarsi dal diluvio che si sarebbe abbattuto sulla terra in modo che facessero rinascere l'umanità

    Gli uomini usciti dal mondo primitivo grazie all'illuminazione del fuoco e agli insegnamenti di Prometeo , nell'eta' del Bronzo , inziarono a sentirsi pari agli dèi , divennero superbi, cattivi e maligni, si armarono gli uni contro gli altri e sulla Terra scoppiarono molte guerre che portarono alla rovina molte città. Zeus allora decise di distruggere il genere umano disgustato dalla natura stessa dell'uomo e decise di cancellare l'umanità dalla terra allagando tutta la terra con un diluvio universale. Fu affidato ad Eolo l'incarico di scatenare venti e tempeste che oscurassero il cielo , di portare nubi che squarciando il cielo rovesciassero torrenti d'acqua fino a che la terra ne fosse sommersa

    Prometeo, appreso dell'imminente diluvio corse da suo figlio Deucalione per avvertirlo di quello che stava per accadere e gli consigliò di costruirsi un’arca in cui rifugiarsi . Deucalione, che all'epoca era il re della Tessaglia, segui' il consiglio del padre e vi si rifugiò con la moglie Pirra prima che iniziasse il diluvio.
    Si scatenò quindi il diluvio che implacabile spazzò ogni forma di vita sul pianeta abbattendosi per nove giorni e per nove notti. Il decimo giorno, cessata la pioggia, l'arca con Deucalione e Pirra si arenò sul monte Parnaso , unico luogo rimasto al di sopra delle acque .
    Tutti gli uomini morirono : gli unici due superstiti furono Deucalione e sua moglie Pirra.
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    Deucalione e Pirra si ritrovarono uno spettacolo di desolazione e di rovina e abbandonata l'arca camminarono fino ad una valle dove trovarono un tempio : decisero di pregare la potenza celeste e di chiedere aiuto al sacro oracolo , all''oracolo di Temi, la dea della giustizia .
    Lo consultarono e ne ebbero questa enigmatica risposta:"Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre".
    Sentita la risposta misteriosa , continuarono a ripetere dentro di sé le parole del responso, oscure, tenebrose, e a rimuginarvi sopra.Ma a un tratto Deucalione fece alla figlia di Epimeteo questo consolante discorso:" Forse m' inganno, ma forse ho capito e il responso non è empio e non ci esorta a nessun sacrilegio. La grande madre è la terra; per ossa, penso, vanno intese le pietre, che stanno nel corpo della terra: sono queste che noi dobbiamo gettarci dietro le spalle "
    Pirra rimase scossa dall'interpretazione del marito e ambedue trovavano incredibile il consiglio divino. Ma che male c'era a tentare? S'incamminarono e si velarono il capo e si slacciarono le vesti, e lanciarono all'indietro dei sassi, ubbidendo al responso, sulle proprie orme. I sassi cominciiarono a perdere la loro fredda durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco , a trasformarsi in uomini : quelli gettati da Deucalione divennero uomini, quelli da Pirra donne.

    E la terra fu così ripopolata.



     
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    IL MITO DI ACI E GALATEA


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    Galatea la bella ninfa del mare era figlia di Nereo e Doride ed era una delle cinquanta ninfe del Dio Poseidone . Proteggeva col padre e le sorelle la navigazione dei marinai spesso scampati a Scilla e Cariddi (i due mostri che funestavano lo stretto di Messina) ed agevolava i loro viaggi rendendo il mare splendente come gemma e placido come il candido latte : per questo Galatea si aggirava tra le onde dello Jonio che lambiscono il litorale dominato dall’Etna, per esser pronta, a confortare gli equipaggi usciti ero dallo stretto di Messina vicino.

    La leggenda narra che uno dei ciclopi , sceso dall 'Etna dove forgiavano i fulmini di Giove , la vide nuotare , bianca e giovane insieme alle sorelle e se ne innamorò perdutamente : il suo nome era Polifemo.
    Brutto e spaventoso, di proporzioni gigantesche e modi rozzi tentava di sedurla, di blandirla con regali ed attenzioni e maggiore era la distanza che ella prendeva da lui,trovando rifugio nelle profonde acque dello Jonio e maggiore era il suo desiderio per lei .A nulla servirono i canti che Polifemo le intonò al suono della meravigliosa zampogna dalle cento canne o i teneri agnelli e le morbide lane che il gigante le donava.
    Il cuore di Galatea apparteneva ad Aci i, figlio di Fauno e di una ninfa del Simeto, un bel pastorello che ogni giorno portava il suo gregge verso la costa e stava lungo le sponde del mare suonando lo zufolo in maniera celestiale .
    Il Destino volle che un mattino,uno degli agnellini,cadesse in acqua e venisse portato via dalla corrente ; non potendo Aci seguirlo e salvarlo, si rassegnò a saperlo morto, quando dalla candida spuma marina emersero due braccia morbide e luminose che riportarono l'animale vivo sulla riva
    Il loro amore sbocciò allora tenero e tutte le sere Aci ammaliava la bella ninfa col suono del flauto e con i dolci parole accorate.

    Un giorno Polifemo vide i due amanti in un bosco e al colmo della gelosia ruppe una grossa rupe che scagliò a tradimento sul povero pastore schiacciandolo mortalmente .
    Il dolore di Galatea fu immenso e il suo pianto sconsolato che increspò il mare e scosse la montagna . Impietosito dallo strazio di Galatea, Giove trasformò il sangue del pastorello in un fiume che trova pace nel mare dove l'attende l'abbraccio affettuoso dell'innamorata.

    La fantasia ha così personalizzato, ammantandoli di poesia, l'infuriare periodico dell'Etna (interpretato dalla violenza del ciclope Polifemo), la spuma del mare (il candore della pelle della ninfa Galatea) e il fiume Aci, che scorreva lungo la costa (il pastorello innamorato).

    Mai più gli amanti furono separati e i loro corpi liquidi e puri,fatti di cielo e stelle,fluiscono indivisibili .



    ...................E il Ciclope l'insegue, e staccato un pezzo di monte
    lo lancia sul fuggiasco. Solo un estremo
    della rupe lo colse, ma fu per lui la morte.
    e perché Aci riprendesse la forza dell'avo,
    feci quello che potevo ottenere dal fato.
    Dalla rupe scorreva sangue vivo, ma, ecco, quel rosso
    comincia a svanire, come colore di fiume
    che torbido di pioggia schiarisce a poco a poco.
    Poi la pietra si spacca, e dalle crepe escono tenere
    canne, e il cavo più profondo risuona d'acque in moto.
    E d'improvviso esce di là, fino alla cintola
    (o mirabile cosa), un giovane con le corna
    che spuntano appena cinte di molli canne.
    E somigliava ad Aci, ma più alto e col viso ceruleo.
    Ma anche cosi, mutato in fiume, Aci rimase com'era,
    e ora il fiume ha il nome ch'era una volta di Aci. »



    (dalle Metamorfosi di Ovidio – trad. di Salvatore Quasimodo)




     
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    IL PRINCIPIO



    Dare forma e interpretazione all'universo, oltre che compito di filosofi e astronomi, era, è e sempre sarà, anche interesse di poeti e letterati.
    Intorno al 40 a.C., e quindi a cavallo tra la formulazione delle due teorie astronomiche più famose dell'antichità, quella di Aristotele e quella di Tolomeo, nacque Ovidio che fu forse tra i primi a rappresentare l'universo e la natura in poesia. Nelle "Metamorfosi", infatti, il poeta sembra voler narrare l'origine del mondo, della natura, dell'umanità, del bene e del male in chiave epica attraverso l'ottica dei miti metamorfici. Già attraverso il titolo dell'opera, l'autore cerca di dare "una visione complessiva, in forma d'immagine, sulla posizione dell'uomo tra stabilità e caducità, amore e morte, ordine e caos, tra un'organizzazione giusta o ingiusta del mondo."
    È proprio nel primo libro che l'autore latino narra l'origine del mondo: in principio,

    "Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre,
    unico era il volto della natura in tutto l'universo,
    quello che è detto Caos, mole informe e confusa,
    non più che materia inerte, una congerie di germi
    differenti di cose mal combinate fra loro.
    Non c'era Titano che donasse al mondo la luce,
    né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna;
    in mezzo all'aria, retta dalla gravità,
    non si librava la terra, né lungo i margini
    dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia.
    E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria,
    malferma era la prima, non navigabile l'onda,
    l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile,
    ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo
    il freddo lottava col caldo, l'umido col secco,
    il molle col duro, il peso con l'assenza di peso."


    tutto era dominato dal Caos, lo spazio era privo persino del sole e della luna e la terra ancora non dimorava al centro dell'universo. Nonostante ci fossero acqua, terra ed aria, queste non potevano stare distinte in quanto soggette a forze superiori, ma

    "Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti:
    dal cielo separò la terra, dalla terra il mare
    e dall'aria densa distinse il cielo limpido.
    E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe,
    riunì quelli dispersi nello spazio in concorde armonia."



    è grazie all'intervento di un dio sconosciuto che il mondo ha origine e conosce la "concorde armonia" che lo caratterizza da sempre.
    Dai versi che proseguono la narrazione si capisce, però, che l'autore non ha intenzione di narrare solamente episodi mitologici, ma vuole inserire nel suo racconto, dati "scientifici", ritenuti corretti e validi da tutti:

    "il fuoco, imponderabile energia della volta celeste,
    guizzò insediandosi negli strati più alti;
    poco più sotto per la sua leggerezza si trova l'aria;
    la terra, resa densa dai massicci elementi assorbiti,
    rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare,
    occupati gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma."


    È chiaro, in questi pochi versi, il riferimento alla teoria dei quattro elementi di Aristotele. Ovidio, però, non si ferma qui e ci fornisce altri elementi, sempre uniti alla mitologia, dedotti da Aristotele sulla struttura del cosmo:

    "Quando ebbe così spartito in ordine quella congerie
    e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse,
    prima agglomerò la terra in un grande globo,
    perché fosse uniforme in ogni parte;
    …"



    l'idea che la terra non fosse piatta ma sferica era ormai diffusa in tutto il mondo antico. Ovidio prosegue, inoltre, presentando altri elementi aristotelici:

    "E su tutto l'architetto pose l'etere limpido
    e leggero, che nulla ha della feccia terrena.
    Le cose aveva così appena spartito in confini esatti,
    che le stelle, sepolte a lungo in tenebre profonde,
    cominciarono a scintillare in tutto il cielo;
    e perché non ci fosse luogo privo d'esseri animati,
    astri e forme divine invasero le distese celesti,
    …"


    è proprio all'altezze dei versi 67-73 che l'autore riprende l'idea di cosmo "gerarchizzato" postulato alcuni secoli prima dal filosofo greco. Il mondo sopralunare è caratterizzato dalla presenza dell'etere e non ha niente in comune con l'imperfezione e la corruttibilità terrestri.
    Il primo libro delle "Metamorfosi" prosegue con la nascita, la distruzione e la rinascita del genere umano, da parte degli dei: con questa "dialettica", Ovidio non fa altro che sottolineare la precarietà dell'umanità, facendola apparire, così qui come in altre opere nel corso della storia della letteratura, misera e insignificante rispetto alla perfezione del cosmo.
     
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