ANIMALI MITOLOGICI

minotauro, draghi.........

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  1. gheagabry
     
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    La fenice

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    "Esiste anche un uccello sacro, chiamato fenice, che però io non ho mai visto se non in
    dipinti; pare infatti che compaia in poche circostanze, ogni 500 anni, secondo gli
    abitanti di Eliopoli i quali sostengono che apparirebbe solo quando gli muore il padre.
    Se le raffigurazioni che ho visto sono fedeli, la fenice avrebbe le penne delle ali in
    parte dorate e in parte rosse, assomiglierebbe molto, come aspetto e grandezza, a
    un'aquila. Gli Egizi le attribuiscono un'impresa straordinaria, che però a me sembra
    poco credibile: la fenice volerebbe dall'Arabia fino al tempio del dio Elio
    trasportando il padre avvolto nella mirra, una sostanza gommosa ricavata dalla
    corteccia degli alberi utile all’imbalsamazione, per seppellirlo nel santuario.
    Secondo gli Egizi, la fenice fabbrica con la mirra un uovo molto grande ma comunque
    trasportabile in volo; dopo alcuni voli di prova lo svuota e vi introduce il padre;
    poi sigilla l’uovo con altra mirra. L'uovo con dentro il padre
    pesa quanto pesava quando era pieno di mirra, a questo
    punto la fenice lo trasporta in Egitto al tempio del dio Elio."

    (Erodoto, Le storie)



    Edited by gheagabry1 - 25/1/2023, 00:00
     
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  2. gheagabry
     
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    ANIMALI MITOLOGICI DIMENTICATI

    IL COROCOTTA

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    Il Corocotta è un cane-lupo acerrimo nemico dell’uomo. E' descritto da Plinio il Vecchio in Naturalis Historia, che lo considera un animale dalla forza prodigiosa e in grado di divorare la sua preda in pochi istanti. Secondo Plinio, l'accoppiamento di una corocotta con un leone poteva generare la leucrotta (leucrota, leucrocuta, leucrocotta, o leocrocotta), un'altra terribile fiera. Plinio il Vecchio, nel suo Bestiario, la descriveva così:
    "Animale selvaggio velocissimo, della taglia di un asino selvatico, che ha la parte posteriore di cervo, il collo, la coda e il petto di leone, la testa di tasso, gli zoccoli divisi in due parti, la bocca che si apre fino agli orecchi e al posto dei denti un osso continuo: dicono che questo animale sia capace di imitare la voce umana"
    Nel Bestiario di Cambridge (XII secolo) possiamo leggere: “Nasce in India un animale chiamato leucrota, imbattibile nella velocità. Possiede dimensioni di asino, natiche di cervo, petto e zampe di leone, testa di cavallo, unghie divise in due parti e una bocca che si estende fino alle orecchie. Al posto dei denti ha un unico osso. Questa è la sua forma; inoltre con la voce riesce a imitare le parole umane"
    Entrambi gli animali sono stati successivamente descritti in numerosi bestiari, oltre che nel Manuale di zoologia fantastica di Borges. La corocotta altri non è se non la iena,il cui nome scientifico è Crocuta crocuta, parola che ha una notevole assonanza con il termine "Corocotta". Crocuta deriva del greco Κροκόττας (Krokottas), a sua volta derivata dal sanscrito koṭṭhâraka, ancora una volta proveniente da kroshṭuka. Entrambe le parole volte ad indicare lo sciacallo dorato).

    LO YALE


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    Lo Yale, conosciuto anche come Eale o Centicore, è un animale misterioso appartenente alla tradizione mitologica europea classica. La sua leggenda potrebbe originarsi dalla descrizione di un bufalo d'acqua indiano, capace di spostare in avanti le corna per la difesa e il nome derivare dalla parola ebrea "Yael", che significa "capra della montagna".
    Molte descrizioni la fanno somigliare ad una antilope con corna lunghe e molto flessibili che può muovere in ogni direzione, in modo indipendente. La yale è stata descritta per prima da Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale, poi nei bestiari medievali e utilizzata nell'araldica, in cui rappresenta la difesa fiera.
    È stato usato dalla famiglia reale britannica come sostegno per i bracci di John, duca di Bedford e dalla famiglia di Beaufort dell'Inghilterra. I sostegni del yale di Margaret Beaufort possono essere visti sopra i Gateway dell'università del Christ de Cambridge e dell'università della st John. Ci sono inoltre yales sul tetto del cappella della st George nel castello di Windsor.





    IL CATOBLETA


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    Il Catoblepa appartiene alla mitologia classica, descritto per primo da Plinio il Vecchio che lo descrive come un animale di andatura pigra, che vive in Africa, ai confini dell'Etiopia. Il suo sguardo uccide chiunque all'istante, ma è difficile fissarlo negli occhi perché la sua testa pesa molto, e l'animale la tiene sempre chinata. Per Claudio Eliano (natura degli animali, 7.6), la creatura è un erbivoro delle dimensioni di un toro domestico, con una folta criniera, occhi stretti e iniettati di sangue, e uno spesso strato di ciglia. Nella descrizione di Eliano, il suo sguardo non è letale, ma il suo alito è velenoso, perché velenose sono le piante di cui si nutre e può trasformare esseri in pietra. Nell'antica zoologia greca e romana era un quadrupede africano, raffigurato col capo pesante sempre abbassato verso terra. È probabile che entrambi gli autori si riferissero allo gnu.

    L'AO AO

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    L' Ao Ao appartiene alla mitologia del Guaranì, ed uno uno dei figli maledetti di Tau e Kerana. Il nome deriva dal verso che faceva per attrarre le sue prede che, nella maggior parte dei casi, pare fossero esseri umani.
    La sua straordinaria capacità riproduttiva l’ha reso anche una divinità della fertilità.
    E’ il protettore dei monti e delle colline. La testa è di pecora, le orecchi d’orso e ha potentissimi artigli. Se la prende soprattutto con i cacciatori e con tutti quelli che si avventurano per boschi. L’unico modo per salvarsi è arrampicarsi su un “Pindo”, l’albero sacro dato da Tupà al popolo guaranì. Sembra sia esistata davvero una specie di pecora carnivora, la ovecha-kaaguy studiata dagli zoologi del passato senza però arrivare ad una classificazione definitiva.


    Edited by gheagabry1 - 25/1/2023, 00:10
     
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  3. TiffanyX
     
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    QUOTE (gheagabry @ 24/11/2014, 14:46) 

    L'OCA NELLA STORIA
    Storia, miti e leggende



    Un caratteristico misto di potere arcano e di caratteri quotidiani distingue la vita dell'oca come animale simbolico fin dall'antichità. Nella storia l'oca era sacra a varie divinità egizie come Amun-Ra, Eset, Geb, Asar e Hor. Amun-Ra, a volte è chiamato “la Grande Gracula”, in riferimento alla sua nascita dall’Uovo Cosmico. Presso gli Egizi, l'oca è fra i volatili "da cortile" più comuni - e difatti lo stesso cigno, che fra essi ha significato cosmicamente più intenso, è detto comunque "oca del Nilo" - ma al tempo stesso, forse per il candore delle sue piume, forse per la consuetudine di migrare verso nord all' inizio della stagione calda, lo si definisce "figlio di re)" cioè, nella pratica, se ne fa il simbolo geroglifico del ka del faraone, qualcosa che - con approssimazione grossolana - potremmo anche definire la sua "anima". Nella tradizione indù l'oca è al cavalcatura di Brahma, tra i popoli centroasiatici soccorre lo sciamano nella sua ascesa al cielo, nei mondi celtico e germanico ha un significato di tipo profetico. Nella religione ellenica, l’oca è sacra ad Era, in qualità di regina dell’Olimpo, ad Apollo, ad Ares e ad Eros. Secondo la leggenda romana, durante un’invasione di Roma da parte dei Galli, le oche sacre del tempio di Giunone sul colle Capitolino iniziarono a starnazzare non appena scorsero i nemici, avvertendo così i Romani dell’invasione. Le oche, uccise dai nemici, furono celebrate come martiri, e un’oca d’oro fu portata in processione in memoria di questo evento. A Roma, oltre che a Giunone, l’oca era anche sacra a Marte e a Priapo. Nella mitologia cinese, l’oca è un uccello del paradiso, simbolo dello Yang (nero), il principio maschile. Nel simbolismo giapponese, l’oca è simbolo dell’autunno, associata alla luna autunnale. Nella religione induista le oche selvatiche sono sacre a Brahma, che infatti a volte è raffigurato a cavallo di un papero. Nel folclore cristiano d’Europa ritroviamo l'oca alla guida di turbe di pellegrini diretti alla volta di Gerusalemme e l’abitudine inglese di mangiare l’oca il giorno di San Michele si dice abbia avuto origine durante il regno di Elisabetta I che, proprio in quel giorno, ricevette la notizia della disfatta definitiva dell’Invincibile Armada, la flotta spagnola. Edoardo IV banchettava con l’oca grassa come augurio per la fine dell’inverno e delle piogge.

    In un brano della Thidhrekssaga - un prodotto per la verità abbastanza tardo della poesia norrena: si tratta del tempo nel quale re Haakon IV di Norvegia voleva impiantare alla sua corte la cultura cortese: ma ciò non toglie che questo testo rielabori materiale tradizionale antico - nel quale il fabbro Wieland forgia per il suo re una spada straordinariamente forte e tagliente usando una tecnica raffinatissima. Difatti, prima forgia una spada buona, della quale il re si dichiara soddisfatto: ma egli replica che si può fare di meglio. Difatti riduce la spada in limatura molto fine, che dà da mangiare a degli "uccelli selvatici" mischiandola al loro cibo; raccoglie poi gli escrementi dei volatili, li passa nel forno in modo da liberare il ferro di ogni scoria e con il metallo così ottenuto forgia una nuova spada, dalle straordinarie prestazioni. E probabile che quegli "uccelli selvatici" fossero in realtà oche, le feci delle quali contengono, com'è noto, buone quantità di carbonio e d'ammoniaca, cioè di efficaci agenti di cementazione dell'acciaio. E indugiamo pure sul fatto che Wieland teneva delle oche presso di se: per sfruttarne gli escrementi? È probabile: si trattava di un fabbro di perizia straordinaria. Ma in realtà Wieland era un fabbro- mago, come un po' tutti i fabbri sono maghi nelle culture tradizionali, in quanto capaci di trattare con l'elemento arcano e terribile del fuoco e di lavorare il metallo.

    L'oca psicagoga riemerge nella coscienza collettiva. L'oca è una grande marciatrice: al tempo di Plinio - quando già si cominciava ad apprezzare il suo fegato - si diceva che i branchi d'oche fossero capaci di arrivare dalla regione di Calais fino a Roma, sempre marciando a piedi: pare che le oche più stanche venissero portate nelle prime file, e le altre le spingessero. Marciatrice o psicagoga che fosse, alla fine dell'XI secolo troviamo l'oca guidare turbe di pellegrini diretti alla volta di Gerusalemme in quella. che siamo soliti chiamare la prima crociata: una specie di ver sacrum, sulle orme d'un animale evidentemente considerato dotato di sacralità. Nell' arme non sembra di venerabile antichità o nobiltà; è probabile si tratti di un'insegna araldica d'una famiglia di non alti natali, che se l'era scelta sulla base d'una sorta di anagramma, come spesso accadeva in questi casi: difatti la parola Obriachi richiama i due termini misti di latino e d'italiano rubra e oca. Del resto, l'oca è abbastanza rara nell'araldica europea, il che si spiega tenendo presente che era andata divenendo sempre più animale da cortile.

    Grande guardiano, dotato -in quanto tale?.. di poteri profetici, l'oca sa vedere anche le sventure invisibili che si avvicinano alla casa. si dice che, qualora essa si metta senza ragione a correre attorno all'edificio starnazzando, sia un pericolo mortale quello che essa segnala. E del resto la sua attenzione e il suo coraggio, specie all'appressarsi di predatori - ladri, faine, volpi, magari anche lupi - o in coincidenza con un principio di incendio, sono cose note. In Inghilterra - in omaggio forse alle capacità profetiche dell'oca in rapporto alla morte, e quindi alla sua funzione psicagogica - si usa mangiare un'oca per il giorno del Grande Psicagogo del mondo cristiano, l'arcangelo Michele, il 29 settembre. e si dice che chi ottemperi a questa tradizione non troverà mai difficoltà nel pagare i suoi debiti. Questo rapporto dell'oca con il danaro, cioè con i tesori che tradizionalmente si trovano sottoterra, non fa che confermare il so carattere psicagogico e il suo rapporto con le forze dell'Altro Mondo. (liberamente tratto da un'articolo di Franco Cardini - Ordinario di Storia Medievale, Università di Firenze www.airesis.net/)

    LA LEGGENDA DELL'OCA VEGETALE



    C'è stata un'epoca, tempo fa, esattamente nel Medioevo, in cui le oche non erano solite venire al mondo da un uovo, bensì da un albero, semplici frutti pronti a staccarsi dai rami per volar via una volta maturi. Non si tratta propriamente di una fiaba, ma di una credenza che ha tenuto banco per secoli in ambito popolare e accademico, sostenuta e supportata da biologi ed eminenti studiosi, sebbene qualche voce di dissenso si fosse levata qui e lì.
    La storia delle oche, dell'albero delle oche, è riuscita ad attraversare pressoché indenne i secoli. Nel 1751 il naturalista britannico John Hell raccontava di marinai olandesi che, visitata l'estrema l'Europa settentrionale, avevano avuto occasione di vederne i nidi.
    Era una sola specifica specie a essere interessata dalla credenza: quella branta leucopsis, conosciuta come oca facciabianca, diffusa nell'Europa settentrionale, che nei mesi estivi spariva dalle coste inglesi e irlandesi diretta ancora più a nord per riprodursi. A quell'epoca nel tentativo di trovare una giustificazione a questa loro improvvisa scomparsa nel nulla durante il periodo estivo, e siccome non la si vedeva riprodursi, si trovò una spiegazione plausibile.

    "Sono come le oche di palude, ma un po' più piccole. Sono prodotte dal legno di abete gettato in mare, e sono inizialmente simili a gomma. Successivamente si aggrappano con i becchi come alghe attaccate al tronco, e dopo essersi rivestite di un fitto strato di piume cadono in acqua o spiccano il volo. Traggono il loro cibo dalla linfa del legno e dal mare, da un segreto e sorprendente processo di alimentazione. Ho frequentemente visto con i miei occhi più di un centinaio di questi piccoli corpi di uccelli pendere sulle rive del mare da un pezzo di tronco, chiusi nelle loro conchiglie e già formati. Non si riproducono o depongono uova come gli altri uccelli, né sembrano costruirsi nidi in nessun luogo della terra".

    E' con queste parole che la leggenda delle oche vegetali fa il debutto ufficiale, tra le pagine della Topographia hiberniae, opera corposa sulle terre e sulla popolazione d'Irlanda scritta da Giraldus Cambrensis. E' il 1187, e lo storico gallese altro non fa che riportare una credenza già esistente.
    Per lungo tempo, nel Medioevo, l'uomo guardò la natura come se questa fosse un immenso libro su cui Dio si dilettava a scrivere i propri insegnamenti. La natura era quindi letta per trarre i dovuti precetti teologici, a sostegno di quanto dalla Chiesa predicato.
    Questa particolare specie di oche assumeva una posizione particolare all'interno del regno animale, fungendo così da anello di congiunzione tra flora e fauna, un'unicità, sempre a dire del Cambrensis, della quale il clero anglosassone imparò astutamente ad approfittare sotto quaresima, durante il periodo di digiuno. Del resto, facevano golosamente notare gli interessati, se nascevano alla stregua di frutti, allora queste brantae leucopsis non potevano certo rientrare nella categoria di carne animale. La questione dovette assumere una sua importanza se sull'argomento intervenne perfino papa Innocenzo III. La diatriba trovò così una sua conclusione durante il IV Concilio lateranense del 1215: albero o non albero, sempre oche erano.
    Il consumo dell'oca vegetale era stato così vietato, ma la sua esistenza non messa in discussione. Anzi, la fiducia in una tale stranezza botanica era tale da spingere taluni studiosi a confermarla empiricamente, dopo attenta osservazione del frutto interessato. E' il caso del botanico dilettante John Gerard, che all'oca vegetale dedicò un intero capitolo, Of the goose tree, Barnacle tree, or the tree bearing geese, del suo trattato The herball or General historie of plantes del 1597.
    (tratto liberamente da http://casadelcappellaio.blogspot.it/2014/05, foto del sito citato)

    questa dell'oca la avevo sentita, molto interessante.
    Hanno capito che gli uccelli emigrano quando una cicogna è tornata in Europa con un frammento di una lancia africana nel collo, e da li hanno capito che andavano in Africa!

    mi chiedo, ma non avevano mai parlato con gli africani, che non vedevano più gli stessi uccelli d'estate? non ci volove molto
     
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  4. gheagabry
     
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    CREATURE MITOLOGICHE


    L'agnello vegetale della Tartaria

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    Tra le creature leggendarie, e soprattutto tra gli ibridi del mondo vegetale con quello animale, la Mandragora è sicuramente la specie più conosciuta, ma la più bizzarra è affascinante resta il Barometz, o Agnello vegetale della Tartaria. L'Agnello Vegetale della Tartaria (“Agnus scythicus” o “Planta Tartarica Barometz”) è una creatura leggendaria originaria dell’Asia Centrale. Questa pianta mitologica si riteneva riprodusse come frutti, delle pecore. E' noto con molti altri nomi, fra i quali Agnello della Scizia, Barometz, Borometz o Borametz. Tali prodigiosi frutti-ovini erano collegati alla pianta tramite un cordone ombelicale che permetteva loro di brucare l’erba intorno,entro un certo raggio dalle proprie radici. Quando tutto il nutrimento della pecora si esauriva, sia la pianta sia la pecora si seccavano, morendo. Nonostante il mito sia nato come modo per spiegare l’esistenza del cotone secondo il pensiero medioevale, la leggenda si basa su un pianta realmente esistente, la Cibotium barometz, o Polypodium borametz una felce del genere Cibotium, lanuginosa e con radici a fittone, solitamente in numero di quattro o cinque.
    Nell’antichità era d’uso produrre delle “prove” dell’esistenza della miracolosa pianta, rimuovendo le foglie dalla parte terminale del rizoma dall'apparenza lanuginosa della felce: capovolgendo il tutto, il rizoma filamentoso poteva facilmente rassomigliare ad un agnello con tanto di lana, con le gambe formate dalle basi recise dei piccioli. Il Tradescant Museum of Garden History conserva un esemplare di "Barometz" sotto vetro.

    Nel suo libro, The Vegetable Lamb of Tartary (1887), il naturalista Henry Lee descrive il leggendario agnello come ritenuto essere dai cronisti medievali contemporaneamente un animale vero e proprio ed una pianta; tuttavia asserisce che alcuni scrittori credevano che il Barometz fosse in tutto e per tutto il frutto di una pianta, nato da semi simili a quelli del melone, e che qualora l’agnello si fosse separato dallo stelo che lo ancorava al suolo, sarebbe morto. Si credeva che l’agnello vegetale possedesse sangue, ossa e carne simili a quelle di un normale ovino, ma che fosse connesso alla terra da un fusto simile ad un cordone ombelicale che sorreggeva l’agnello in alto. Con il tempo poi il gambo si sarebbe flesso in avanti sotto il peso del suo stesso frutto, permettendo all’agnello di consumare l’erba intorno. Una volta che tutta l’erba disponibile nel raggio d’azione dell’agnello fosse finita, l’agnello moriva e poteva quindi essere consumato. Secondo la leggenda il suo sangue era dolce come miele e la sua lana era usata dai nativi della Tartaria per fabbricare copricapo ed altri generi di abbigliamento. Gli unici altri animali carnivori che attaccavano l’agnello vegetale, oltre agli umani, erano i lupi.

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    Odorico da Pordenone, francescano italiano nato nel 1265, riporta di come, sentendo della prima volta parlare del Barometz, gli fosse venuto in mente di un altro genere di simili piante prodigiose che vivevano sulle coste del Mare di Irlanda. Questi alberi producevano frutti simili a Cucurbitacee, che cadendo in acqua germogliavano in uccelli chiamati Barnacle. Nella sua relazione su un viaggio compiuto in Oriente tra il 1316 e il 1328, relazione scritta nel 1330, troviamo il seguente racconto : "Un dì fra gli altri viddi una bestia grande come un agnello, che era tutta bianca più che neve, la cui lana ressembrava un bombace, la quale si pelava. E domandando dai circostanti che cosa fusse, fummi detto che era stata donata dal signore ad un barone per una carne che fusse la migliore e più utile al corpo umano che ogni altra; soggiungendomi che vi è un monte che ha nome Capsiis in cui nascono certi poponi grandi, e quando si fan maturi si aprono e n' esce fuori questa bestia. Fummi anche soggionto che nel reame di Scozia e d' Inghilterra sono arbori che producono pomi violati e tondi alla guisa di una zucca, dai quali, quando sono maturi esce fuori un uccello".
    Demetrio di Daniele, uomo fra li barbari di fede singolare, ci raccontò : "essendo stato mandato suo padre per ambasciatore dal principe di Moscovita al re Zauvolhense, mentre era in quella legazione aveva veduta una certa semenza in quelle isole, poco maggiore e più rotonda del seme del melone, ma non dissimile però da quella. La qual semenza ascosa in terra, nacque poi dei quella una certa cosa simile ad un agnello di altezza di cinque palmi, e questo in loro lingua chiamano “boranetz” cioè agnello, perché ha il capo, gli occhi, l’ orecchie e tutte le altre cose alla similitudine d’ uno agnello nuovamente nato. Oltra di questo ha una pelle sottilissima, la quale molti in questo paese usano in capo in luogo di berretta; e molti dicono di averne vedute. Diceva ancora quella pianta, se pianta è lecito essere chiamata, aver in sé sangue ma senza carne, ma in luogo della carne una certa materia simile alla carne di gambari; ha l’ unghie non cornee come li agnelli, ma con certi peli vestite alla similitudine di un corno; ha la radice sin all’ umbilico e dura sin tanto che, mangiate le erbe torno a torno, la radice per carestia del pascolo si secca. Dicono aver in sé una dolcezza meravigliosa e che perciò è molto desiderata da’ lupi e d’ altri animali rapaci. Io quantunque giudico tutto questo, e del seme e della pianta, essere cosa favolosa e incerta, nondimeno, perché me l’ hanno riferita gli uomini degni di fede, l’ ho voluta riferire agli atri”.

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    La diffusione della leggenda presso il popolo inglese nel XIV secolo è attribuita Sir John Mandeville, che la raccontò nelle sue opere durante il regno di Edoardo III. Mandeville ritornò dalla Tartaria descrivendo un bizzarro frutto simile ad una strana zucca originario di quelle terre. Una volta maturo, il frutto si apriva, rivelando al suo interno quello che sembrava in tutto e per tutto un agnello, ma senza ancora lana; a quel punto il frutto e l’agnello venivano mangiati. Anche Odorico di Pordenone, avendo viaggiato a lungo confermò di aver sentito di zucche in Persia che quando mature si aprivano per rivelare al proprio interno creature simili agli agnelli.
    Nella metà del XVI secolo, Sigismund von Herberstein, che nel 1517 e nel 1526 fu Ambasciatore presso l’Imperatore Massimiliano I e Carlo V, presentò un resoconto molto più dettagliato sul Barometz nel suo Rerum Moscoviticarum commentarii, uno fra i più antichi trattati sulla Russia. Asserì di aver appreso la storia da molte fonti, tutte troppo affidabili per dubitare dell’esistenza dell’agnello vegetale, e diede una collocazione esatta della creatura, vicino il Mar Caspio, fra il fiume Jaick e il Volga. La creatura, che nasceva da semi somiglianti a meloni, poteva raggiungere un’altezza pari a 80 cm, ed era simile ad un agnello per molti aspetti, eccetto alcuni: nelle sue vene scorreva una linfa simile al sangue, ma la sua carne era dissimile da quella di un agnello, essendo invece più simile a quella di un crostaceo. Diversamente da un regolare agnello, i suoi zoccoli erano fatti di spessa peluria; era un cibo prediletto dai lupi e da molti altri animali.

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    Il medico e studioso tedesco Engelbert Kaempfer, accompagnò una delegazione in Persia nel 1683 con l’intenzione di trovare l’agnello. Dopo aver parlato con degli indigeni e non aver trovato nessuna prova fisica dell’esistenza dell’agnello vegetale, concluse che si trattava di una leggenda. Tuttavia, osservò l’usanza dei locali di rimuovere un agnello ancora non nato dall’utero della madre, per raccoglierne la sofficissima lana e ritenne si potesse trattare di una possibile origine della leggenda. Kaempfer ipotizzò ulteriormente che i campioni di lana fetale conservati nei musei potessero essere erroneamente attribuiti ad una sostanza vegetale.
    La storia si diffuse, ripetuta da numerosi scrittori e scienziati dell’ epoca. Il primo a riprenderla è Guglielmo Postel (Liber de causis, 1552); in maniera poco convinta Gerolamo Cardano (De rerum variegate, 1554, libro 6, cap. 22) tenta di obbiettare che il fatto è impossibile perché, se l’ agnello possiede sangue, deve avere un cuore ed il terreno non è in grado di fornire stimolo sufficiente al movimento e al calore di questo organo; mitiga però questa sua professione di incredulità con l’ affermare che “forse in un luogo la cui aria sia abbastanza densa e grassa non sarà impossibile trovare qualche pianta che abbia sensibilità e sia simile a una carne imperfetta, come quella delle ostriche e dei pesci”.
    Il dotto Giulio Cesare Scaligero nell’ exotericarum exercitationum liber ( exerc. 181 ) alla già colorita leggenda dell’ agnello vegetale aggiunge il suggestivo particolare che, tagliando uno degli “arti” della bestiola, fuoriusciva un liquido simile al sangue. Il poeta Guillaume Salluste du Bartas (La semaine, 1578) così descrive la pianta, scoperta da Adamo nel Paradiso terrestre il primo giorno della seconda settimana di vita dell’ Universo : “Sembrano montoni appena nati, e lo sarebbero davvero se nel nobile petto della terra, non immergessero una radice vivente che si allaccia al loro ombelico e muore il giorno in cui cessano di brucare il fieno che cresceva intorno. O effetto mirabile della mano divina! La pianta di carne e sangue, l’ animale con la radice!”. Ne parla il napoletano Giovan Battista della Porta (Phytognomonicon, 1591) che oltre a ricordare l’ estrema morbidezza della pelle, usata per fare copricapi, ritenne che, poiché la pianta ha tutte le caratteristiche fisiche di un agnello in carne e ossa, possa essere usata a fini terapeutici e medicinali negli stessi casi in cui si prescriverebbe l’ animale vero. Claude Duret nel 1605 riassume tutto quello che è stato scritto fino ad allora sull’ argomento, parteggiando chiaramente per la realtà della pianta. Altri due viaggiatori Olearius ( Voyages de Moscovie, 1636 ) scrive : “Ci hanno assicurato che presso Samara tra il Volga e il Don esistono una specie di meloni o meglio di cocomeri fatti come un agnello, di cui questo frutto rappresenta tutte le membra, che è legata al terreno dal gambo che gli serve da ombelico. Crescendo si sposta per quanto il suo gambo glielo permette e fa seccare l’ erba dovunque si gira. I moscoviti definiscono questo fatto “pascolare” o “brucare”; e aggiungono che quando è maturo il gambo si secca ed il frutto si ricopre di una pelle pelosa, che si può preparare ed usare come una pelliccia. Chiamano questo frutto “Boranez, cioè agnello”. Più cauto il secondo viaggiatore, J. Janssen Struyss (Les voyages de Jean Struyss en Moscovite, 1669): “Verso il regno di Cazan cresce un grosso cocomero peloso che sembra rodere tutte le erbe che ha intorno al suo gambo. Si dice che i lupi lo divorino avidamente e che somiglia ad un agnello; i moscoviti lo chiamano Bonnaret”.
    Alla cautela di Struyss fa riscontro per la prima volta in questo stesso periodo la prima “prova autentica” dell’ esistenza della pianta: si tratta di una serie di curiosi oggetti di origine indubbiamente vegetale, con la forma inequivocabilmente di un agnellino in miniatura; inoltre si afferma che le pellicce che oggi definiamo di “persiano” sono niente altro che la ricercata pelle, opportunatamente conciata, dell’ agnello vegetale. E’ Hans Sloane, botanico della Royal Society of London, a svelare la prima parte del mistero: il presunto Borametz, di cui aveva ottenuto un esemplare da un tale Mr. Buckley, era indubbiamente nient’ altro che una parte artefatta di una felce arborescente, che il Linneo, in memoria proprio della leggenda, chiamò Cibotium Borametz. Si tratta di una felce a grande sviluppo, raggiunge anche i quattro metri e mezzo di altezza, con un grosso rizoma coperto di una peluria setolosa da cui si dipartono robusti steli. Basta tagliare opportunatamente questi steli per simulare delle gambe o far rassomigliare il tutto ad un agnellino. Nello stesso periodo il dottor Kaempfer, chirurgo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali aveva potuto osservare che l’ attribuzione della pelliccia di “persiano” al Borametz era solo un espediente per nascondere la più sconvolgente provenienza della stessa da feti di agnellino strappati dal ventre delle loro madri prima di nascere, per garantire alla pelliccia una morbidezza inusitata. Una ulteriore conferma di questi fatti si trova in un trattato scritto dal botanico Breyn nel 1725. L’ imbroglio dei falsi agnelli vegetali era stato quindi svelato praticamente non appena questi erano stati introdotti in Europa.

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    Molti autori scrissero poesie integrando nei loro versi la leggenda del Barometz. La leggenda dell’Agnello Vegetale colpì molto l’immaginazione di autori settecenteschi come Erasmus Darwin, che scrisse una composizione sul borametz nella sua opera Il Giardino Botanico (1781) e Demetrius De La Croix, che ne scrisse nella sua opera intitolata Connubia Florum, Latino Carmine Demonstrata (1791). Precedentemente, Guillaume de Salluste Du Bartas scrisse dell’agnello della tartaria nel suo lavoro La Semaine (1587). Nel suo componimento Adamo passeggia per il Giardino dell'Eden ed è stupefatto dalla singolarità della creatura. Denis Diderot scrisse un articolo sull'Agnus scythicus nella prima edizione della sua Encyclopédie e la creatura è descritta anche da Thomas Browne nel terzo libro dell'opera Pseudodoxia Epidemica. L’Agnello Vegetale della Tartaria appare inoltre come Borometz nel famoso Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges.

    Una creatura sostanzialmente identica, combinante caratteristiche sia animali che vegetali, è menzionata nella tradizione popolare ebraica non prima del 436 a.C. Questa creatura, chiamata Yeduah, era del tutto simile ad un agnello nella forma e spuntava dalla terra connessa ad uno stelo. Coloro che andavano a caccia dello Yeduah potevano effettuare il “raccolto” dell’animale solamente recidendo lo stelo con frecce o dardi. Una volta che l’animale era stato disgiunto dal suolo, moriva rapidamente e le sue ossa potevano essere usate nella divinazione e in alcune cerimonie profetiche.
    Nel suo lavoro intitolato The Shui-yang or Watersheep and The Agnus Scythicus or Vegetable Lamb (1892), il naturalista e sinologo Gustav Schlegel indica la leggenda cinese della pecora d’acqua come ispirazione originale della leggenda dell’Agnello Vegetale della Tartaria. In maniera molto simile all’agnello, la pecora d’acqua era ritenuta essere sia una pianta che un animale, e le leggende che la riguardavano ponevano la sua terra d’origine in Persia. Era connessa alla terra da uno stelo e, se lo stemma era reciso, si seccava e moriva. L’animale era protetto dai suoi predatori da una recinzione artificiale e da uomini armati che gridavano e battevano su tamburi. Si diceva che la sua lana fosse usata per vestiti pregiati e copricapo. Allo stesso modo in cui l’Agnello Vegetale della Tartaria era una spiegazione per il cotone, la pecora d’acqua era probabilmente una spiegazione al bisso.

    ...
    Una versione alternativa narra del Faduah, una pianta di forma umana connessa alla terra da uno stelo attaccato al suo ombelico. A differenza del Barometz, il Faduah era ritenuta una pianta aggressiva, che aveva l’abitudine di afferrare e uccidere ogni creatura a portata di mano che lo scambiava per un comune vegetale. Come l’agnello vegetale però, anche il Faduah moriva se il suo stelo era reciso.
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    Edited by gheagabry1 - 27/10/2022, 20:16
     
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    Jaṭāyu

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    Jaṭāyu (devanāgarī जटायू), è una figura mitologica della tradizione hindū e un personaggio del celebre poema epico Rāmāyaṇa. Figlio di Aruṇa e fratello di Sampāti, discendente di Garuḍa, è un divino avvoltoio.

    Nel poema Rāmāyaṇa, precisamente nel suo III kāṇḍa, lo Āraṇyakāṇḍa, il demone malvagio Rāvaṇa rapisce Sītā, sposa di Rāma, il coraggioso Jatayu cerca di fermare Rāvaṇa durante la sua fuga, ma, dopo una coraggiosa ed estenuante lotta, il più potente demone lo sconfigge tagliandogli le ali. Quando Rāma e suo fratello Lakṣmaṇa si gettano all'inseguimento di Rāvaṇa, trovano il morente Jatayu il quale, dopo aver narrato la sua lotta con Rāvaṇa, indica loro la giusta direzione per raggiungerlo, e muore sotto la benedizione dello stesso Rāma.

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    Nel distretto di Kollam, nello stato indiano di Kerala, è conservata un'enorme roccia denominata Jatayupara, che si vuole sia il punto esatto dove cadde rovinosamente Jaṭāyu dopo la sua lotta con Rāvaṇa. Proprio nel punto dove si dice sia caduto questo avvoltoio divino, esiste una fonte, che la leggenda vuole si sia creata proprio dall'impatto del becco di Jatayu con la roccia, e questa fonte, luogo di pellegrinaggio di molti fedeli hindu.

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    Nel Jatayu Earth's Center è situato a circa 1000 piedi sopra il livello del mare, il centro comprende una scultura colossale e concreta di Jatayu, il mitico uccello dell'epica Ramayana. È lungo 200 piedi, largo 150 piedi e alto 70 metri, diventando così la più grande scultura di uccelli funzionale al mondo.

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    «Ctesia scrive che presso gli stessi Etiopi nasce l'animale che egli chiama manticora, con un triplice ordine di denti uniti a forma di pettine, con faccia e orecchie umane, occhi azzurri, colore sanguigno, corpo di leone, e che punge, come lo scorpione, con la coda; la sua voce ricorda un suono di zampogna e insieme di tromba, ha una grande velocità, e soprattutto è avido di carne umana.»
    (Plinio il Vecchio, Naturalis historia, VIII, 30)


    MANTICORA


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    La manticora è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di scagliare spine velenose per rendere inerme la preda.

    Il nome manticora viene dal latino mantichōra, dal greco antico μαντιχώρας, mantikhṓras o μαρτιοχώρας, martiokhṓras, dall'antico persiano *𐎶𐎼𐎫𐎹-𐎧𐎺𐎠𐎼, *martya-χvāra, «che mangia gli uomini».

    Il primo a parlare di questa creatura è Ctesia di Cnido, studioso e medico vissuto all’incirca tra il 440 e il 397 a.C. La storia della manticora non ci giunge direttamente da lui ma, dalla ricca biblioteca del patriarca bizantino Fozio di Costantinopoli, all’interno della quale è conservata una copia del manoscritto: nelle sue Indikà il medico greco descrive una creatura spaventosa che vive in India ed è di color rosso, con il corpo di leone e la testa di uomo, munita di tre file di denti acuminati oltre che ovviamente della pericolosa coda di scorpione che vi abbiamo già menzionato. Il mito viene ripreso anche da altre figure importanti tra cui Plinio il vecchio, la cui descrizione verrà poi attualizzata da Jorge Luis Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica arrivando a collocarla però in Etiopia.

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    «I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col riverbero delle grandi sabbie. Soffio dalle narici lo spavento delle solitudini. Sputo la peste. Mangio gli eserciti, quando s'avventurano nel deserto. Ho le unghie ritorte a succhiello, i denti tagliati a sega; e la mia coda roteante è irta di dardi che lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda! (la manticora lancia le spine della coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Gocce di sangue piovono schioccando sul fogliame.)»

    La Manticora è una creatura quasi invulnerabile e può essere uccisa solo da un leone. Spesso citata nelle leggende cristiane, rappresenta l’incarnazione del malevolo o dello stesso Diavolo. Geremia, uno dei profeti della Bibbia e demolitore instancabile di false credenze, è spesso ritratto proprio con questa creatura.

    Questa creatura trova i un grande spazio nei romanzi fantasy, un esempio molto noto è Harry Potter, dove la manticora viene menzionata in "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban" e in "Animali Fantastici e dove trovarli" come una pericolosa entità alla quale fare attenzione. Altri riferimenti noti possono essere riscontrati ne Il nome della rosa e Baudolino di Umberto Eco e nella saga di Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo.

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