ANIMALI MITOLOGICI

minotauro, draghi.........

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  1. gheagabry
     
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    Per trovare le origini del grifone europeo, bisogna scomodare il solito Erodoto (V secolo a.C:), che prendendo spunto da leggende degli Sciti, antico popolo nomade dell’Asia Centrale, ci presente più o meno per la prima volta in letteratura il grifone.

    Per il nostro storico greco, il grifone costruisce un nido come le aquile, sulla cima delle pendici montuose più alte, ma non depone vere e proprie uova. I suoi cuccioli nascono dall’agata, la pietra silicea di varie forme che in Grecia non manca di certo. Probabile che a ispirare Erodoto sia stato il fatto che l’agata, che è un quarzo che si forma riempiendo la cavità ospite di un’altra roccia, presenta rotonde come gli anelli di un tronco tagliato, o forme simili a occhi. Gli occhi del cucciolo di grifone?

    Per Erodoto i grifoni erano tutti femmine e facevano benevola guardia ai tesori ma anche ai palazzi reali dei sovrani del passato. Il loro peggior nemico era il cavallo, col quale tuttavia qualche volta nasceva un’unione, rarissima. Frutto di quell’unione è l’ippogrifo, con testa e ali d’aquila e corpo da cavallo, o zampe posteriori e coda equine, zampe anteriori da leone, ali d’aquila e testa da cavallo.

    In generale il mito del grifone, cui non venivano attribuite particolari attività magiche o poteri di qualche tipo, è stato molto diffuso sia in età ellenistica che durante l’Impero Romano. E aveva sempre un’accezione positiva, come guardiano di tesori, o comunque non negativa, alla stregua di qualsiasi altro predatore, come il suo “parente” leone. Ce lo testimoniano le numerose rappresentazioni fra vasellame, fregi ornamentali e sculture. Tanto che sembra plausibile che gran parte di greci e romani credessero davvero alla sua esistenza, visto che tutto sommato gli si attribuivano abitudini di vita plausibili per qualunque animale: nidifica, è feroce, è un abile cacciatore. Il fatto che fosse un incrocio fra due specie lontanissime dal punto di vista biologico poco importa: Darwin e l’evoluzionismo erano ancora ben lontani.


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    Buono o cattivo?


    Questo fa sì che la storia del grifone nella letteratura medievale abbia caratteristiche un po’ curiose. Come sempre prendendo spunto dagli autori classici, nei bestiari medievali il grifone ha corpo di leone e testa e ali d’aquila. È originario delle montagne di Hyperborea o dell’Etiopia, anche se non disdegna lunghe cacce nei deserti dell’india. Se cattura un uomo lo smembra per darlo in pasto ai cuccioli. È fortissimo, e può trasportare un bue intero.

    Come ce lo presenta la mitologia, non forniva ai fantasiosi naturalisti medievali la possibilità di trovare particolari simbologie, buone o cattive. E così si sono dovute mischiare un po’ le carte. Chi decideva di farne un malvagio gli aggiungeva qualche attributo demoniaco: corpo scaglioso come il serpente, coda biforcuta o triforcuta, o perfino coda costituita da un serpente vero e proprio. Un dettaglio, quest’ultimo, che finisce per confondere il grifone con la chimera. Il leone, che nella sua accezione negativa rappresenta il peccato capitale dell’’ira, finiva per essere la ciliegine sulla torta. Qualche volta, perfino il drago, il Demonio fatto animale, somigliava un po’ al grifone. Specie nei primi secoli dopo la caduta dell’Impero Romano, almeno fino all’XI secolo, i draghi avevano spesso becco e ali da uccello. Ancora oggi nelle chiese di mezza Europa si possono ammirare come doccioni (ripresi più tardi nelle chiese gotiche) o negli affreschi.

    Simbolo araldico


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    Tuttavia, l’essere la combinazione dei due animali che meglio rappresentano la nobiltà e la fierezza, almeno nell’immaginario collettivo, ha dato enorme fortuna al grifone come simbolo araldico. La cosa vale anche per la sua versione equina, l’ippogrifo; d’altronde anche il cavallo per l’uomo medievale era un grande simbolo di virtù, oltre che un animale di incalcolabile utilità.

    Nel Tractatus de armis del XIV secolo, scritto da John de Bado Aureo (la cui esistenza non è del tutto certa), si dice che il grifone portato in battaglia come insegna significa che il guerriero ha dalla sua parte la forza, temprata però dalla saggezza. Insomma, il fatto che il grifone sia in parte aquila, simbolo di intelligenza e sapienza, in qualche modo mitigava l’accezione negativa che poteva avere il leone, l’ira. Tanto più che la saggezza, che deve condurre la forza, sta nella testa (l'aquila, appunto), mentre la forza sta nelle braccia (il leone).

    E così il nostro animale ha avuto enorme fortuna in araldica ed è stato scelto come simbolo di miglia di famiglie nobili di tutta Europa. Ha spesso una o due zampe alzate, in una posizione con le zampe anteriori alzate che viene chiamata segreante (così come quella del leone è rampante). Un termine che può essere attribuito solo al grifone.



    Il Grifone, come simbolo di Edoardo III (1312–1377), è una delle dieci bestie mitologiche scolpite da James Woodford e messe davanti all’Abbazia di Westminster per la cerimonia d’incoronazione della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, nel 1953. Ora la statua si trova ai Giardini di Kew.

    Lo stemma della città di Londra viene retto da due creature che per la verità somigliano parecchio a draghi, ma che tutti chiamano grifoni.


    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 17:44
     
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  2. gheagabry
     
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    ll grifone e lo stemma di Genova




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    L'ultimo stemma della Repubblica di Genova aveva due grifoni che reggono lo scudo con l'insegna di San Giorgio, croce rossa in campo bianco, con la coda e le ali belle alte ed era sormontato dalla corona regale (chiusa) in segno di sovranità.

    Dopo la riunione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna, decisa illegittimamente dal Congresso di Vienna ( 1814-1815 ) lo stemma municipale della città ebbe due grifoni rappresentati con la coda tra le gambe, così infatti volle il re Vittorio Emanuele in segno della perduta indipendenza. Dal Luglio 2000 il simbolo della città sarà destinato a cambiare, dopo un secolo e varie istanze e proposte, così che la coda si presenta timidamente fuori dalle gambe dei grifoni.

    Curiosità
    Lo stemma del comune di Londra è molto simile a quello della città di Genova, con due grifoni da entrambi i lati. Secoli fa il sigillo venne acquistato dai britannici per dare lustro alle navi londinesi, infatti la bandiera di San Giorgio, una croce rossa su fondo bianco, fu adottata dall'Inghilterra e dalla città di Londra nel 1190 per le navi inglesi dirette verso il Mediterraneo in modo che potessero essere protette dalla flotta genovese ..... per questo privilegio il Monarca inglese corrispondeva al Doge di Genova un tributo annuo



    Arme de la Princesse Philomene Allegro von Hockstaden Potior duchesse von Hostade Jagelloni, madre della Principessa Yasmin von Hohenstaufen Aprile di Buren d'Anjou Puoti Putiatin.Gli Jagelloni di Pomerania , Re Di Polonia, discendenti del Duca Jogaila pronipote di Re Poto d'Alegre von Hochstaden Avril de Saint Genis Griffon ,conservarono come totem il Grifone , stemma della Pomerania.





    I Principi ALLEGRO VON HOCKSTADEN Hostade ou Alegre de PUOTI BOAZ di BOURBON-BUSSET- (aquila dispiegata d'argento o bianca in campo rosso)inces Alegre

    Discendenti di Re Desiderio e del Principe Baud Poto -Fortis

    Dalla Dinastia Graalica ascendente alla Sancta Propago Avril ou Fortis de Saint Genis Saintonge Arles Griffon .Da Re Poto o Alegre,trae origine la Dinastia dei Re Jagelloni di Pomerania che avevano per Totem il Grifone e lo stesso stemma degli Alegre von Hochstaden.Jagellone significa infatti Baud Alegre (Epitomi del Principe Potone riconducibili al Rango di Flavius e Jovius(Luminosi e Gioiosi , qualita' dell' Imperatore Rex Divus Gaius Patricius et Defensor Romanorum )

    Alegre de Hostade von Hochstaden ossia Allegro della Coppa o Vaso dello Spirito Santo o del Graal(Hostade-Coppa dell'Ostia ; Hoch-Vino del Reno, Staden Coppa , quindi coppa del Vino o del Graal)o della Rocca

    -Ordine dello Spirito Santo-

    - Ordine dell'Aquila Bianca-(ou Aigle d'argent)


    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 17:47
     
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    GORGONI




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    Erano tre sorelle - Steno, Euriale e Medusa - figlie di due divinità marine, Forcide e Ceto. Solo Medusa era mortale e, con le sorelle, abitava non lontano dal regno dei morti. Le Gòrgoni avevano serpenti al posto dei capelli, denti come zanne di cinghiale, mani di bronzo e ali d'oro. Il loro sguardo aveva il potere di mutare in pietra chi lo avesse incrociato e quindi incutevano terrore sia nei Mortali sia negli Immortali: l'unico che non le temeva era Posidone, che fece concepire a Medusa due figli.
    Medusa Medusa in un bassorilievo a Leptis Magna, in Libia

    Quest'ultima fu uccisa da Perseo, per ordine del Tiranno di Serifo e su istigazione di Atena perché, secondo una versione del mito, era stata una giovane molto attraente e aveva osato rivaleggiare in beltà con la Dea, vantandosi della propria capigliatura fluente: Atena tramutò quindi i suoi capelli in serpi e ne volle la morte, per punirla di essersi unita a Posidone in un tempio a lei consacrato.

    Dopo mille avventure per trovare il covo delle Gorgoni, Perseo riuscì a decapitare Medusa guardandone la testa riflessa nel proprio scudo, come in uno specchio, per poterne evitare lo sguardo diretto. Dal collo di lei uscirono i figli di Posidone, Pegaso, il cavallo alato, e Crisaore. Della testa recisa si servì Atena, che la collocò al centro del proprio scudo e delle proprie insegne, in modo che i suoi nemici si pietrificavano al solo apparire della Dea. Anche il sangue della Gorgone era dotato di poteri magici: quello sgorgato dalla vena sinistra era un veleno mortale, mentre quello della vena destra resuscitava i morti e fu usato da Asclepio, figlio di Apollo, che esercitava l'arte della medicina.

    Un solo suo ricciolo assicurava la vittoria sugli avversari ed Eracle ne dette uno a Cefeo, come dono di Atena, per ottenere l'alleanza sua e dei suoi venti figli, in una spedizione contro Sparta. Gli disse che poteva partire tranquillo e lasciare la sua città incustodita, purché sua figlia sventolasse il ricciolo di Medusa sopra le mura contro i nemici che l'avessero attaccata.



    Edited by gheagabry1 - 22/1/2023, 01:50
     
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    i..draghi..
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    Possiamo dire che i Draghi siano nati con la nascita dell'umanità, e si siamo presenti in ogni parte del mondo.

    Questi giganteschi esseri "sputa-fuoco", in Europa sono sempre stati descritti come creature malvagie e prive di scrupoli , capaci di seminare terrore e morte, mentre in Oriente si riconosceva la loro potenza ma, al contrario, c'era un rapporto di venerazione: il Drago, se opportunatamente venerato, diventava anche protettore.

    Le leggende narrano che nel Medioevo la caccia ai draghi in Europa fu una lotta senza esclusione di colpi, grazie alla quale l'animale si estinse quasi totalmente a causa di forti e coraggiosi cavalieri che si specializzarono proprio nel divenire 'Cacciatori di Draghi'.

    Ma vi siete mai domandati da dove arrivavano i Draghi?
    Ebbene ...questi esseri enormi e mostruosi sono nati e cresciuti nelle profondità della Terra, nelle paludi e negli antri delle caverne in fondo ai mari.

    L'Idra,ad esempio, era un Drago marino molto cattivo che uccideva anche solo per passare il tempo.
    Si dice che avesse cento teste, una delle quali era immortale e fino a che quella testa non fosse stata tagliata, le altre, pur mozzate, sarebbero ricresciute immediatamente.


    Però i draghi non sono tutti malvagi.Ad esempio i Dragoni orientali di solito sono buoni, crescono nel sottosuolo e proteggono gli uomini.
    Sono loro che hanno spinto l'uomo ad insediarsi in Oriente, per questo sono venerati come le divinità più importanti .

    Presso le antiche popolazioni del Sud dell'America possiamo trovare ben 2 divinità la cui forma è quella di drago: Itzpapalot e Quetzalcoatl.
    Itzpapalot, dio dell'agricoltura, quando cambiava forma diventava di ossidiana, e proveniva dalle stelle.
    Quetzalcoatl invece era un serpente dorato con le ali ed era merito suo se la civiltà era venuta sulla Terra, ma il suo enorme potere poteva anche essere usato per distruggerla...

    Nell'antica Babilonia il simbolo della città era un drago di nome Mushushu: benevolo e saggio, proteggeva la città.

    Secondo il Cristianesimo invece , l' incarnazione dell'Anticristo è un drago nero.
    Quando questo drago comparirà, seminerà morte e distruzione e le persone non potranno reagire perché, di fronte alla sua grandezza e potenza, tutti gli esseri umani rimarranno terrorizzati ed impotenti: ecco qui quel folle terrore che suscitano i draghi e davanti al quale gli umani tremano al solo sentirne parlare.
    Nell'Apocalisse San Giovanni narra di quando l'Arcangelo Michele si ritrovò a combattere contro un drago rosso dalle 7 teste.
    Molto nota anche la leggenda di San Giorgio e il Drago: il santo che decise di affrontare il drago malvagio per salvare la figlia del re, e vinse riuscendo a tagliare la testa al mostro.

    In India è molto diffusa la leggenda dei Naga: creature dall'aspetto stupendo ed immensamente sagge. I Naga avevano il dono di poter mutare forma: all'occorrenza erano in grado di trasformarsi in esseri umani o in draghi, dato che la loro forma originale era un drago con il busto ed il viso da essere umano.



    Nell'antica Grecia molto spesso i draghi erano posti a sorvegliare luoghi importanti o sacri ai quali l'accesso doveva risultare impossibile: ad esempio nel giardino delle Esperidi e nei pressi della fonte Castalia.

    Anche gli antichi egizi avevano le loro legende sui draghi: quando Ra arrivò sulla Terra, venne ostacolato nel suo compito di portare la Luce da un enorme drago nero: ingaggiata una battaglia, il portatore di Luce AmonRa sconfisse il dragone ricacciandolo nell'oscurità.

    Moltissime le leggende inerenti i draghi nel nord Europa: basta pensare a Nessie e ai tanti altri draghi con cui erano in perpetua lotta gli antichi cavalieri.

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    Secondo le leggende mesopotamiche i draghi erano esseri della notte, dell'oscurità, delle profondità, così il loro colore era nero o blu scuro, e provenivano da luoghi oscuri, soprattutto dagli antri bui in fondo al mare.

    I draghi neri e quelli blu sono pertanto cattivi, ma anche intelligenti e astuti. Portano la tenebra e si muovono come generali in guerra, seminano la morte ed il terrore.


    I draghi rossi sono bestiali: di indole principalmente cattiva, se adorati e serviti nella giusta maniera possono anche essere alleati ma bisogna stare attenti perché sono comunque pericolosi per via della collera improvvisa che genera la distruzione.

    Poi ci sono i draghi verdi: questi grandi animali di colore verde erano i guardiani benefici del cielo.

    I draghi azzurri invece erano a guardia del vento e degli elementi in generale.

    I draghi verde smeraldo erano a guardia dei corsi d'acqua.


    I draghi dorati custodivano immensi tesori ed erano dispensatori di gioia e felicità eterna.

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    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:22
     
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    Grifone (araldica)



    OOO



    In araldica, il grifone o grifo è una figura immaginaria ispirata dalla sua raffigurazione mitologica (il Grifone). Simboleggia custodia e vigilanza e, forse proprio per questo, un Grifone compare anche sullo stemma araldico del Corpo della Guardia di Finanza; del resto già gli antichi lo posero a guardia dei tesori esistenti nei monti della Scizia. Inoltre poiché riunisce l'animale dominante sulla terra, il leone, con quello dominante in cielo, l'aquila, il grifone simboleggia anche la perfezione e la potenza. Di norma il grifone prende:

    * dall'aquila: il capo, il collo, il petto, le ali e le zampe anteriori;
    * dal leone: il ventre, le zampe posteriori e la coda;
    * dal cavallo: le orecchie.

    Nella lotta di influenza tra il leone reale dell'ovest e l'aquila imperiale dell'est, il grifone, che univa il coraggio e la forza del primo alla astuzia e alla vigilanza della seconda, sembrava destinato ad un sicuro successo araldico. In effetti è abbastanza frequente, ma forse più tra gli ornamenti esteriori dello scudo che sul campo.

    Il grifone si blasona come l'aquila per le ali e come il leone per il resto, salvo per quanto riguarda il sesso, perché il grifone è una figura araldica «femminile» (per cui l'assenza del pene è normale e non si blasona, diversamente da quanto accade per il leone che, in tal caso, si dice «evirato» (qualche autore dice «castrato»).

    L'araldica inglese conosce un grifone maschio, senza ali, dotato di sesso, con il dorso e le ginocchia irti di aculei. Secondo alcuni araldisti, invece, il grifone maschio si differenzia dalla femmina solo per la presenza di un paio di corna al posto delle orecchie.

    Il grifone è anche il simbolo della città di Perugia, di Genova, di Grosseto, di Montepulciano e di Agnone (IS) e compare sullo stemma della città di Volterra (PI) e di Guardia Sanframondi (BN), in cui viene raffigurato con un sasso mantenuto nella zampa destra, affinché possa rimanere sempre vigile a difesa della comunità: la caduta del sasso lo desterebbe.

    È il simbolo delle squadre di calcio del Genoa C.F.C., dell'U.S. Grosseto e del Perugia Calcio, del Borgo Santa Maria Nuova, uno dei partecipanti al Palio di Asti e della Contrada Grifone, una delle contrade partecipanti al Palio S.Giorgio della Valera.


    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 17:52
     
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  7. gheagabry
     
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    Ippogrifo



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    La figura dell’ Ippogrifo appartiene alla cultura greco-romana.
    Questo animale, descritto nel 1516 da Ludovico Ariosto ha zampe anteriori e corpo di un cavallo od i leone, mentre testa, collo, ali fittamente piumate e zampe posteriori sono d’ avvoltoio e può volare più alto e più a lungo di qualsiasi uccello.
    Il suo nome è formato da ‘ippo’ (dal greco ‘hippos’, cavallo) e da ‘grifo’ (il grifone)

    Nell’ opera di Orlando il Furioso, L’ Ariosto fa volare l’ amico di Orlando Astrolfo sulla luna, per recuperare il senno perduto dell’ amico. Per raggiungere la luna, Astrolfo di serve dell’ ippogrifo.
    In quest’ opera, l’ animale trae elementi dal Pegaso e anche dal Grifone; nel poema però, le parti leonine del grifone sono sostituite da parti di un cavallo, ma la testa e le ali d’ aquila o avvoltoio rimangono.
    Gia in un’ opera del Virgilio (nelle Bucoliche ) si trova un incrocio da grifone e cavallo, considerato però, a causa dell’ odio tra i due animali, assurdo.
    E’ un animale fiero e territoriale, che difende le sue zone di caccia e pascolo preferite allontanando chiunque minacci il suo territorio.

    La figura dell’ ippogrifo è stata utilizzata più volte anche in giochi di ruolo come Dungeons&Dragons e in racconti del genere fantasy.
    Appare anche, più recentemente, in un capitolo della fortunata saga di Harry Potter, della scrittrice inglese J. K. Rowling







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    Dal ‘l'Orlando Furioso’ dell'Ariosto:

    canto IV
    ”Non è finto il destrier, ma naturale,
    Ch'una giumenta generò d'un grifo:
    Simile al padre avea la piuma e l'ale,
    Li piedi anteriori, il capo e il grifo,
    In tutte l'altre membra parea quale
    Era la madre, e chiamasi ippogrifo;
    Che nei monti Rifei vengon, ma rari,
    Molto di là dagli aghiacciati mari.”
    (…)
    E dove l'ippogrifo trovaro anco,
    Ch'avea lo scudo, ma coperto, al fianco.
    (…)
    Si leva in aria, e non troppo si scosta;
    Come fa la cornacchia in secca arena,
    Che dietro il cane or qua or là si mena?
    Ruggier, Gradasso, Sacripante, e tutti
    Quei cavallier che scesi erano insieme,
    Chi di su, chi di giù, si son ridutti
    Dove che torni il volatore han speme.
    Quel, poi che gli altri invano ebbe condutti
    Più volte e sopra le cime supreme
    (…)
    E questa opera fu del vecchio Atlante,
    Di cui non cessa la pietosa voglia
    Di trar Ruggier del gran periglio instante:
    Di ciò sol pensa e di ciò solo ha doglia.
    Però gli manda or l'ippogrifo avante,
    Perché d'Europa con questa arte il toglia.
    Ruggier lo piglia, e seco pensa trarlo;
    Ma quel s'arretra, e non vuol seguitarlo.

    canto VI
    Quello ippogrifo, grande e strano augello,
    Lo porta via con tal prestezza d'ale,
    Che lascieria di lungo tratto quello
    Celer ministro del fulmineo strale.
    Non va per l'aria altro animal sì snello,
    Che di velocità gli fosse uguale:
    Credo ch'a pena il tuono e là saetta
    Venga in terra dal ciel con maggior fretta.
    Poi che l'augel trascorso ebbe gran spazio
    Per linea dritta e senza mai piegarsi,
    Con larghe ruote, omai de l'aria sazio,
    Cominciò sopra una isola a calarsi,
    Pari a quella ove, dopo lungo strazio
    Far del suo amante e lungo a lui celarsi,
    La vergine Aretusa passò invano
    Di sotto il mar per camin cieco e strano.
    (...)
    Come sì presso è l'ippogrifo a terra,
    Ch'esser ne può men periglioso il salto,
    Ruggier con fretta de l'arcion si sferra,
    E si ritruova in su l'erboso smalto.
    Tuttavia in man le redine si serra,
    Che non vuol che 'l destrier più vada in alto:
    Poi lo lega nel margine marino
    A un verde mirto in mezzo un lauro e un pino.

    canto XXXIII
    L'ippogrifo per l'aria a sì gran corso,
    Che l'aquila e il falcon vola assai meno.
    Poi che de' Galli ebbe il paese scorso
    Da un mare a l'altro e da Pirene al Reno,
    Tornò verso ponente alla montagna
    Che separa la Francia da la Spagna.




    L'ippogrifo Fierobecco: Simbolo d'amore



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    Fierobecco è un ippogrifo. Gli ippogrifi sono il simbolo dell'amore nella mitologia greca. Si, dell'amore romantico.

    Come sappiamo, l'ippogrifo Fierobecco rappresenta una grossa parte dell'immaginario romantico H&He nel Prigioniero di Azkaban, quando Harry ed Hermione volano sulla sua groppa, con Hermione che si aggrappa a Harry per sicurezza e comodità (tra l'altro in una notte di luna piena) per salvare Sirius.

    Nell'Ordine della Fenice, quando Harry si rinchiude durante Natale, Hermione arriva, ancora con indosso la giacca, rossa in viso per il freddo e con la neve nei capelli, e riesce a far aprire la porta a Harry e a farlo andare con lei. Nessun altro è stato in grado nemmeno di parlare a Harry, figuriamoci a fargli aprire la porta senza proteste e farsi seguire.

    Comunque, quello che è davvero interessante è questo: JKR ha deciso di ricordarci del volo del Prigioniero di Azkaban, facendo si che il buon vecchio Fierobecco sia presente nella stanza!

    Ora, l'ippogrifo della mitologia greca è mezzo cavallo e mezzo grifone. Un grifone è una creatura con la testa, il becco e le ali di un'aquila e il corpo di leone, qualche volta con la coda di scorpione o serpente. Da qui vediamo delle caratteristiche che possono essere prese per rappresentare Grifondoro, Corvonero e Serpeverde, le 3 case rappresentate da Harry ed Hermione. Dopotutto, anche se Harry ed Hermione sono entrambi Grifondoro, Harry sarebbe dovuto essere a Serpeverde e Hermione a Corvonero, perchè entrambi mostrano delle caratteristiche di queste case. Il leone è il simbolo di Grifondoro, l'aquila non è esattamente un corvo ma è abbastanza simile per rappresentare Corvonero.

    Un appunto: l'aquila è effettivamente usata per rappresentare Corvonero, così come mostra il capitolo 3 della Pietra Filosofale, quando Harry apre per la prima volta la sua lettera per Hogwarts, e c'è un blasone sopra che reca anche l'aquila. Infine il serpente, simbolo di Serpeverde.

    Coincidenze o deliberati indizi di JKR?

    Io credo che qui ci sia troppa roba per essere solo coincidenze, e ci sono altri esempi di come JKR ha usato simbolismi del genere nei suoi libri. Vediamoli.

    Altri esempi di simbolismi

    La fenice è il simbolo della speranza e dell'amore universale. Fanny la fenice ha fato speranza a Harry in passato. L'Ordine della Fenice è la speranza contro Voldemort.

    I Thestral sono la morte. I sei ragazzi volano sui thestral fino all'Ufficio Misteri, il luogo dove Sirius troverà al morte. Da notare che essendo i thestral in parte cavalli possono trasportare due persone alla volta, ma JKR ha fatto in modo che due persone non cavalcassero assieme come con Fierobecco, simbolo di amore.

    Peter Minus/Codaliscia, il topo. Opportunismo e slealtà. Come sappiamo, Codaliscia era opportunista e sleale, e come risultato diventa un traditore. Ora pensiamo a quando Codaliscia era solo un topo di nome Crosta, ed era di proprietà di Percy, il quale è a sua volta opportunista, e come risultato si mette contro la sua famiglia.

    Sirius Black/Felpato, il cane. Lealtà, fiducia. La stella Sirio è inoltre di un tipo conosciuto per la sua breve vita. I cani, allo stesso modo vivono poco. Sirius è vissuto poco. Ma ha vissuto una vita breve ma fedele.

    Remus Lupin/Lunastorta Remus (Remo) era il fratello di Romolo, il mitico fondatore di Roma. Remo e Romolo furono allevati da una lupa. Lupin stesso significa a forma di lupo, e Lupin si trasforma in un lupo mannaro e si trasforma in esso con la luna piena.

    L'unicorno rappresenta l'innocenza e il detto dice che l'innocenza è la prima cosa che muore. Cedric era innocente e la sua è stata la prima vera morte tragica che abbiamo sperimentato nei libri. Inoltre, l'anima della bacchetta di Cedric era fatta di peli della coda di un unicorno.


    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 17:59
     
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  8. gheagabry
     
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    Il GALLO è l'animale sacro a Mercurio. Caratteristica comune alla maggior parte delle simbologie il gallo rappresenta fierezza e forza, coraggio guerrieri, vigilanza e generosità poiché divide il suo cibo con le galline, fiducia e sicurezza poiché annuncia il sorgere del sole. Nella tradizione greco-romana, consacrato agli dei solari sia agli dei notturni, proprio per quel suo traghettare la notte al giorno, il gallo regna sulla notte ed è associato alla luna. E’ animale considerato vigilante ed è attributo di Mercurio. Nella mitologia classica Alektruon (gallo) era un compagno di Marte ed aveva il compito di svegliarlo quando il dio dormiva con Venere.

    Un gallo veniva sacrificato ad Asclepio dio della medicina, figlio di Apollo dio solare, e per accompagnare l'anima dei moribondi, in ruolo di psicopompo che era, poi, di Mercurio stesso.


    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:17
     
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  9. gheagabry
     
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    MINOTAURO


    Mysterium tremendum:
    il mito classico del Labirinto e del Minotauro



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    La lotta tra Teseo e il Minotauro, particolare di mosaico, Casa del Labirinto, Pompei

    "L'orrore è la parte migliore dell'uomo.
    Quanto più il mondo ne rafforza la percezione
    Tanto più profondamente egli è turbato dal portento."
    Wolfgang Goethe

    "Ci sono grandi cose da fare. Falle!"
    Andre Gide, Thésée

    All’ingresso del palazzo di Cnosso c'è il segno del Toro.
    Da esso si scende nel regno del segreto, della disperazione, della purificazione, del ritrovamento di se stessi e della libertà. E laggiù, lungo i corridoi e sulle pareti delle sale regali, troviamo, ammonitore e crudele, l'altro segno sacrale della labrys, dell'ascia doppia, arma e simbolo di potere, scure che uccide la Bestia, giustizia verso destra e verso sinistra, insegna del Talassocratore; forse, stilizzazione delle due corna del Toro o, addirittura, della figura umana.
    Sin dall'epoca in cui è nata la favola di Minos e del Minotauro, racchiuso nel labirinto dove, con l’aiuto dell'amore e dell'inganno, scenderà a cercarlo e a ucciderlo l'eroe solare Teseo, questo simbolo del Toro-uomo segno di forze ctonie che tentano un'estrema rivolta contro l'uomo ordinatore, soggetto agli dèi, ma insieme allievo di Prometeo e dei primi legislatori ha occupato la mente degli uomini, ispirando innumerevoli poeti, favolisti e pittori.
    In effetti, i simboli essenziali dell'uomo e i miti antichi che li esprimono hanno una forza primigenia che è come radicata nel profondo dell'animo e continuano a possederlo e commuoverlo anche quando il loro significato sembra dimenticato, ossia quando quei miti non hanno più, all'apparenza, la carica sacrale, l'energia religiosa che ne avevano accompagnato la nascita. Così, la leggenda del labirinto e del Minotauro ha attraversato integra più di tremila anni di storia. «E forse il racconto più popolare dell'antichità», dice Samivel (Le soleili se lève sur la Grèce), «e il suo successo non è certamente dovuto al caso. In verità, esso contiene un tema mentale di portata e risonanza universali, un misto di angoscia e di speranza capace di nutrire una specie di incubo intellettuale prossimo alla pazzia e insieme, su un altro piano, la meditazione dei saggi. E tutto ciò grazie a una sola immagine, in fondo alla quale giace 'Qualche Cosa', forse il Mostro, forse il Tesoro, forse entrambe le cose.» E anche: l'animalità, la sua tristezza, la sua innocenza, per quanto gravate da una sorte atroce; ed è un'animalità condivisa dall'umanità. Poiché, se il Minotauro nacque, innocente e vittima, da un connubio orrendo, perché deve espiare una colpa non sua? Se tuttavia la deve espiare, nessuno di noi è, in fin dei conti, né più né meno responsabile di lui, e quindi nessuno di noi è responsabile: eppure incombe sopra di noi la stessa Moira.


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    In effetti; la storia del Minotauro è un mysterium tremendum. Ci attira e ci respinge. È mirum, è admirandum, è fascinans; di fronte all'animalità e insieme umanità del mito, noi siamo colpiti, a un tempo, da tremor e stupor per usare la terminologia di R. Otto. «Che cos'è ciò che traspare fino a me e mi colpisce il cuore senza ferirlo? Timore e ardore mi scuotono: timore per quanto ne sono dissimile, ardore per quanto ne sono simile» (Agostino, Conf., II, 9,1). Mistero del diverso, incompreso e inspiegato, alieno e alienante, interamente avulso da quanto ci è familiare e noto. Pesa sul Minotauro il fato dell'innocente, dell'innocentemente crudele, dell’essere incolpevole condannato dagli dèi a essere crudele e insieme a essere colpito per quella crudeltà. Grava su di lui la colpa di lussuria della madre e del mondo; si manifesta in lui non solo il destino della bestia - che è quello di essere sacrificata - ma anche il prorompere della bestialità nell’uomo; bestialità che, in quanto tale, deve essere punita con la morte: ed è una morte insieme necessaria e ingiusta. Nel Minotauro infelice, abitatore delle tenebre inestricabili, confinato in fondo a un inremeabilis error, noi che forse ci credevamo innocenti veniamo inviluppati in colpe oscuramente accumulate.
    Però, se siamo Minotauro, siamo anche il vittorioso Eroe solare. Anche a noi Eros ha fatto avere un lungo filo che ci condurrà fino al mostro, e quando lo avremo vinto con la nostra spada lucente quel filo ci farà tornare alla luce e lasceremo indietro, nell'oscurità eterna, il corpo ormai immobile della bestialità debellata. L'amore ci condurrà sino in fondo, sino alle ultime caverne nascoste dei nostri sentimenti meno umani e, uccisa l'animalità, ci farà tornare sotto il cielo lucente. Quale simbolo più bello di questo?
    Ma, dopo la vittoria, torna ancora nel nostro cuore sensibile la pietà per quella morte, per ogni morte; e forse anche una nostalgia per le tenebre abbandonate, un oscuro sentimento di tenerezza per la vita mostruosa che abbiamo distrutto in noi e abbandonato. Nella notte in cui è stato celebrato quel sacrifìcio, il lato infernale del nostro essere piange sul corpo del mostro. La sua morte lo innalza e glorifica. Ieri, oggi: validità profonda che è come l'essenza simbolo e segno del mito vivente.
    Raccontiamolo per ricordare.


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    Minos
    II mito racconta, dunque, che la fanciulla fenicia Europa, figlia di re e figlia di Telephane, «la lungisplendente» oppure di Argiope, «colei dal volto d'argento» fu vista da Zeus Asterios mentre faceva il bagno con le sue ancelle sulla spiaggia di Tiro. Acceso d'un amore improvviso e assumendo, per uno degli inganni di cui era maestro, le sembianze di un toro dal pelo candido e lucente, dall'alito odoroso di zafferano, il dio, scendendo dal cielo, si inginocchiò davanti alla principessa, la quale, vedendolo così mite, ne infiorò le corna e gli salì sulla groppa. Ma il toro, appena sentita la giovane sopra di sé, si alzò sulle zampe e, tuffandosi nel mare, fuggì a nuoto con la sua bella preda, portandola sull'isola di Creta. Secondo una variante. Zeus avrebbe assunto l'aspetto di un toro per sfuggire alla gelosia di Hera, si sarebbe caricata la giovane sul dorso e, volando oppure attraversando a nuoto l'Ellesponto - che prese allora il nome di Bosforo, «portatore del Toro» - l'avrebbe condotta prima in Asia e poi a Creta. Il dio possedette la principessa sotto un platano nei dintorni di Gortina; in premio e a ricordo, da allora quell'albero non perde più il suo fogliame.
    E fu sull'isola di Creta che la principessa Europa divenne madre di Minos, destinato a regnare sulle isole e sui mari, nonché di Reclamante, saggio legislatore, e del guerriero Sarpedonte. Minos, dopo avere sottomesso i fratelli, estese il proprio dominio da Creta alle Cicladi e a gran parte del Peloponneso; e si disse pure che diede un grande incremento all'agricoltura, all'edilizia, all'ingegneria, ai commerci e alle arti figurative. Conquistato il regno, Minos sposò Pasifae, «la tutta splendente», figlia di Helios, e ne ebbe numerosi figli. Ma Pasifae fu anche interpretata come una divinità lunare e, come tale, ebbe un culto personale in Laconia (Plutarco, Agis, p. 91).
    Che fosse donna dotata di arti magiche, risulta anche da un'altra leggenda. Minos era afflitto da una grave malattia, dovuta probabilmente alla gelosia della consorte. La malattia consisteva nel fatto che non poteva amare nessun'altra donna perché durante l'amplesso scaturivano dal suo corpo animali disgustosi: serpenti, scorpioni e millepiedi.
    […] Pasifae gli aveva dato molti figli maschi, tra cui l'ottimo atleta Androgeo, Deucalione, che sarebbe poi stato padre di Idomeneo, eroe valoroso nella guerra di Troia, e Glauco. […] Tra le fìglie di Minos, dobbiamo ricordare anzitutto Arianna o Ariadne (originariamente Ariagne, «la pura», «la santa»); poi Fedra, «la splendente», ed Egle, «la luminosa» (una leggenda posteriore assegnava anche a lei il ruolo di amante di Teseo).
    Nulla si opponeva ormai a una vita felice e gloriosa del saggio re, che percorreva i mari assoggettando al suo potere isole e colonie lontane e instaurando in ogni luogo la forza della legge. Ma Minos aveva dimenticato l'invidia degli dèi, sempre pronta a vendicare, più che a punire; a fare pagare cara ai mortali ogni piccola trascuratezza o trasgressione; anzi, attenta a trame pretesto per ricordare che la felicità non è - non può essere - una condizione umana.
    Quale fu l'inciampo in cui cadde Minos? Aveva chiesto a Posidone di mandargli un segno, un prodigio che confermasse ai Cretesi il favore degli dèi e, con ciò, il divino fondamento del suo potere. Il dio rispose che avrebbe esaudito la preghiera, ma solo a patto che lui, il re, sacrificasse poi, senza esitare, l'animale favoloso che gli sarebbe stato mandato.
    Di lì a poco, uscì dalle onde del mare, di fronte al porto di Cnosso, un magnifico toro bianco. Vedendone le splendide forme, Minos si pentì della promessa, celebrò un altro sacrifìcio e decise di tenere per sé quella bestia.
    L'infuriato signore dell'Oceano meditò lungamente in quale modo vendicare l’onta che gli era stata arrecata - sappiamo già, per esempio, dalle vicende di Odisseo, quanto fosse pronto all'ira il barbuto Scuotitore di terre - ed escogitò alla fine un inganno terribile: ebbene, se il toro era piaciuto tanto al re, che piacesse molto anche alla regina!
    Posidone fece sì che Pasifae s'innamorasse follemente del toro e non bramasse altro che unirsi a lui, in nozze segrete e bestiali. Ma in quale modo? L'artefice Daidalos, che viveva in quel tempo alla corte di Cnosso, per soddisfare le brame della regina costruì un'immagine di mucca, una «falsa vacca», usando legno e vimini; e vi nascose Pasifae, traendo così in inganno il toro di Posidone. Frutto di quell'amore mostruoso fu il Minotauro - «toro di Minos» - o Tauromino, chiamato anche con il nome di Asterios, dalla testa taurina e dal corpo umano. In ottemperanza all'ingiunzione di un oracolo, il re rinchiuse il mostro nel labirinto, costruzione di vie fallaci, eretta appositamente da Daidalos.
    Tra i figli che Pasifae aveva dato al Signore dell'Oceano e delle isole, eccelleva per abilità in tutte le gare il giovane Androgeo. Giunto in Attica per partecipare alle feste panatenee, il principe morì nella lotta contro il toro di Maratona, ad affrontare il quale era stato mandato da Egeo, re di Atene; oppure, secondo un'altra versione, fu ucciso a tradimento dai giovani ateniesi suoi rivali, invidiosi delle sue vittorie. Minos, assetato di vendetta, assalì Atene con una flotta. Stretta d'assedio la città, invocò l'aiuto di Zeus protettore degli ospiti, e il dio mandò sopra i difensori pestilenza e siccità, costringendoli alla resa. Una delle condizioni di pace fu che ogni nove anni Atene mandasse a Creta un tributo di sette giovani e sette fanciulle, destinati a essere gettati in pasto al Minotauro.


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    Teseo e Ariadne
    Di questo famosissimo eroe ateniese si narrava che re Egeo ne fosse, sì, il padre mortale: ma Posidone era ritenuto il suo padre divino. Ai tempi di Egeo, regnava sulla piccola città di Trezene nel Peloponneso - con l'aria tersa la si scorge dalle alture dell’Imetto - Pitteo, figlio di Pelope e Ippodamia e padre della giovane Etra, che ricordava nel nome il cielo sereno. Proprio davanti alle rocce della costa di Trezene, sorgeva dal mare una piccola isola chiamata Sferia, «la palla», che si poteva raggiungere anche a guado. Lì c'era un tempio di Atena dove le vergini del luogo andavano alla vigilia delle nozze per deporvi la loro cintura.
    Un giorno, mentre la fanciulla Etra era sbarcata sull'isola per celebrarvi dei sacrifìci, la dea glaucopide le mandò una stanchezza improvvisa, un sonno invincibile; e quando la giovane si risvegliò, si trovò tra le braccia di Posidone, che la bramava da tempo e la fece sua.
    Da allora, l'isoletta mutò nome e si chiamò Hièra, «la santa». Tornata al palazzo del padre, la principessa incontrò il giovane Egeo, giunto in visita proprio quel giorno. Il re Pitteo, ottemperando a un vaticinio, fece stordire il giovane con il vino e ordinò alla figlia di mettersi nel suo letto. Al mattino, quando il giorno ebbe fugato le tenebre e l’ubriachezza, Egeo lasciò il letto dell'amante che portava il nome della luce del cielo, le diede la sua spada e i sandali, vi pose sopra una grossa pietra e le ingiunse che, quando il figlio nato da quella unione - lui infatti non era a conoscenza dell'avventura con Posidone - fosse cresciuto abbastanza per sollevare il masso, lei gli rivelasse la sua origine, gli ordinasse di prendere la spada, di calzare i sandali e raggiungere Atene, per farsi riconoscere da suo padre.
    Quando ebbe compiuto i sedici anni, il giovane Teseo sollevò senza sforzo il masso sotto cui si trovavano i sandali e la spada e fece come la madre gli aveva ordinato. Tralasciamo la narrazione delle molte avventure e degli scontri vittoriosi del giovane eroe, partito a debellare mostri e briganti: diciamo solo che dovette subire quelle prove anche perché, secondo un'altra storia, era incorso nelle male arti e nella gelosia di Medea, la maga. […]
    Ultima spedizione del giovane, vittoriosa anch'essa, fu quella contro il furioso toro di Maratona, che continuava a devastare le campagne circostanti e vi seminava il terrore: quella fu anche un'ottima prova preparatoria all'impresa ben più impegnativa che lo aspettava a Creta. […] Al solenne convito che seguì (l’uccisione del Toro di Maratona), l’eroe, mentre stava già per vuotare la coppa di veleno che Medea aveva preparato per lui, sguainò la spada, forse per tagliare la carne che gli era stata servita. Il re, al vedere l'arma affidata tanti anni prima alla giovane Etra e scorti anche i sandali, salutò con grida di gioia il figlio ritrovato e lo strinse fra le braccia, piangendo. La maga dalle male arti non aspettò di essere scacciata con ignominia, ma salì sul suo carro alato e scomparve nell'aria. Dice la favola che quello fu il suo ultimo inganno; tornata in Colchide, si riconciliò con la sua famiglia.
    Al compimento di quella impresa, erano già trascorsi diciotto anni da quando Minos aveva imposto ad Atene il terribile tributo e si stava per scegliere una terza volta la schiera del sacrifìcio da mandare a Cnosso; e così l'eroe lo seppe. Fu rapida la sua decisione di muovere contro il Minotauro e liberare la sua città da un onere così infame. «O salverò il mio popolo», disse al re, «oppure morirò con i miei compagni. Così avrò fatto quel che mi spetta.» Egeo pianse udendo le sue parole e fece di tutto per dissuadere il figlio; ma il popolo stava mormorando che, dopo tutto, non era giusto che proprio il sovrano, primo responsabile di quella iattura, si sottraesse ai mali che ne derivavano e che, in fondo, ogni madre soffriva nello stesso modo per il sacrifìcio del proprio figliolo. Le proteste si facevano sempre più vive. Allora, davanti all'assemblea del popolo, Teseo si alzò in piedi e si dichiarò pronto a partire con gli altri giovani, anche senza partecipare all'estrazione per sorte.
    Re Egeo dovette cedere. «Vai dunque», disse al figlio. «Quando il tempo sarà compiuto, io vigilerò il ritorno della tua nave stando sull'alta rupe del Sunio. Se riuscirai nell'impresa, isserai vele bianche al posto di quelle nere con cui partirà oggi la nave infausta; e così saprò subito della tua vittoria. Il mio cuore esulterà di gioia e porterò sacrifici a Posidone placato.» Quindi, insieme ai tredici suoi compagni - o forse era quindicesimo, secondo altri mitografì - Teseo andò al tempio di Apollo e offrì al Nume un ramoscello d'ulivo avvolto in un ciuffo di lana bianca, omaggio dei supplici che invocano protezione. Poi, accompagnato dal popolo, scese al Falero e, preso congedo dai famigliari, dagli amici, dalla città, salpò per Creta sulla nave dalle vele nere:

    "Sul mare di Creta navigava la prua raggiante d'azzurro.
    Portava Teseo e sette coppie di giovani Ionii."
    Bacchilide, Ditirambo di Teseo

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    Giunto all'isola, fu accolto da Minos, nonostante la sorte che lo attendeva, con grandi onori, in quanto figlio di re. La sera venne celebrato un banchetto. Quando fu versato per la terza volta il vino che toglie gli affanni anche quando si stende sul cuore l'angoscia di un domani incerto, Teseo iniziò a narrare le sue imprese. Seduta alla sinistra del padre, l'ascoltava intenta Ariadne Glaucopide e, ascoltandolo, si invaghì di lui. Dopo il convito, Ariadne chiese consiglio al vecchio Daidalos e si fece consegnare da lui una spada a due tagli e un lungo gomitolo di filo di lana. Poi fece giurare all'eroe che l'avrebbe sposata e condotta ad Atene.
    In quale modo Teseo fosse riuscito a trovarsi solo con la principessa, non è narrato dai favolisti. Secondo un antico disegno vascolare, lei stava filando la lana quando il giovane, pregandola e vezzeggiandola, le tese una mano. La giovane gli consegnò il fuso con il filo, oppure un gomitolo già attorto, come si vede in un altro dipinto?
    Così munito, l’eroe, venuta l'alba, chiamò a raccolta i compagni destinati a essere divorati dal Minotauro e li condusse alla spiaggia per il sacrifìcio di rito. L'oracolo di Delfi gli aveva consigliato di eleggere la dea dell'Amore a sua guida. Solo allora Teseo comprese il senso nascosto di quel vaticinio.
    Armato e rinfrancato, l'eroe penetrò quindi nel labirinto, lasciando i compagni all'ingresso, dove aveva fissato il capo della matassa. Il cammino era silenzioso e le tenebre si facevano sempre più fitte. Dalle dita dell'eroe il filo si svolgeva lentamente, quasi senza fine. Di tanto in tanto arrivavano rumori ed echi, lungo le pareti lisce, e come un soffiare, un muggire del vento. Del vento? Poi, là dove doveva essere il recesso più interno del cammino intricato, dopo avere svoltato a destra e a sinistra infinite volte - o, almeno, così gli pareva - albeggiò come un pallido chiarore. Udì prima il respiro della Bestia; poi la vide, stesa su un fianco. Dormiva, greve nel sonno e come innocente. Secondo l'ordine dell'oracolo, Teseo avrebbe dovuto afferrarla per le sopracciglia e sacrificarla a Posidone.
    D'improvviso, udendo il lieve rumore del mortale che le si stava avvicinando, la Bestia si destò e, proprio come gli animali selvatici, fu subito sveglia e pronta ad afferrare un sasso che giaceva lì vicino. I due si guardarono. Lo spazio era poco. L'eroe si gettò sull'animale e, stendendo la sinistra sopra l'occhio del Tauromino, immerse la spada nel suo corpo. Presto le pareti dell'antro, la terra, il corpo dell'eroe furono lordi di sangue; e Teseo invocò anche il nome di Posidone. Poi, riavvolgendo lentamente il filo di lana, uscì dal labirinto.
    Secondo altri, il pericolo stava più nell'oscurità che negli intrichi del cammino, e Ariadne innamorata avrebbe accompagnato l'eroe e gli avrebbe illuminato il percorso con il fulgore d'oro della corona che aveva sulla testa, oppure con un serto luminoso. Agli antichi, questo sembrò aggiungere altra ignominia a un tradimento già grande, poiché il Minotauro era, dopo tutto, fratellastro della fanciulla e la corona era simbolo di verginità.
    Quando Teseo lasciò Creta, sulla nave si trovava anche Ariadne. Ma la favola narra che, con uno stratagemma e approfittando del sonno di lei, l'eroe l'abbandonò sull'isoletta di Dia. Secondo un altro racconto (Diodoro Siculo, V, 51, 4), Teseo non avrebbe rifiutato le nozze per infedeltà, ma perché Dioniso gli sarebbe apparso nel sonno, imponendogli di lasciare la fanciulla, che egli voleva eleggere a sua sposa.
    Giunto il mattino e prima che lei, al risveglio, si accorgesse dell'abbandono e se ne disperasse, Dioniso scese sull'isola, seduto sul suo carro tirato da tigri e da linci gigantesche e, svegliatala, la incoronò con il mirto che protegge dall'ubriachezza e la portò in corteo nuziale sul monte Drios si sull'isola di Naxos. Quale correa dell'assassinio del fratello, Ariadne fu inizialmente annoverata tra le grandi peccatrici; più tardi i Greci non solo la perdonarono, ma la riconobbero quale coniuge del dio ambivalente terreno e segreto, lieto e terribile, capriccioso e crudele che fu Dioniso (o Bacco) e accettarono che il suo sposo divino la facesse assurgere tra le costellazioni, affinchè fosse pienamente riconosciuta la sua dignità di consorte sacra.
    Nel cielo, Ariadne prese il nome di Aridela, «visibile da lontano». Nella Grecia antica, la figura di Ariadne la cui importanza ne faceva di frequente oggetto di un culto vero e proprio, anche e soprattutto per il suo aspetto di figlia del Sole, vergine solare e simbolo della primavera si affiancava a quella di Dioniso, con aspetti non di rado ambivalenti, poiché aveva una parte festosa e una parte dolorosa, funebre e lamentatoria, rivelando così, anche secondo W.F. Otto, l'ambivalenza generale della religiosità dionisiaca.
    Ariadne è portatrice mitizzata di dolore e di felicità, un simbolo di situazioni-limite: nulla di umano le è alieno, tuttavia lei vive iu una relazione continua con il divino.
    (E, quanto al simbolismo del filo, esso rappresenta in molti contesti e indica sempre anche nella forma di catena, corda o mero tracciato grafico un collegamento dei vari stati di esistenza tra di loro e con il principio che li anima: ritroviamo sempre la rappresentazione di una linea senza soluzione di continuità, di un tracciato più o meno complicato, talvolta ripiegato su sé stesso in modo da formare nodi o intrecci, ma sempre con la volontà di indicare come nodo vitale, ganglio una coesione, una condensazione, una stasi, la cui risoluzione equivale alla cessazione dello stato morale o della situazione di legamento di cui è simbolo; pensiamo al motivo così frequente del meandro o a quello della linea serpentina che ricorda sui sarcofaghi il fluire costante della vita verso la morte e della morte verso la vita.) Giunto a Delo, insieme ai giovani compagni scampati alla morte (Plutarco,
    Thes., 9, d), Teseo danzò con loro la danza delle gru, che imitava le sinuosità del
    labirinto. Offrì poi un sacrifìcio ad Apollo ed eresse vicino alla spiaggia una statua di Afrodite che Ariadne aveva portato con sé sul mare; da allora, quell'immagine fu venerata sull'isola sacra come Hagne Afrodite; e al Falero, a ogni ritorno dell'autunno, nella stagione della vendemmia, gli Ateniesi commemoravano l'eroe e ricordavano il ritorno dei loro figli, indenni da una simile avventura.
    Poi, finalmente, Teseo drizzò la prua della nave verso la patria, impaziente di portare ad Atene la notizia della salvezza sua e dei suoi compagni e della liberazione della città da un tributo tanto odioso.
    Ma sappiamo già come alla gioia segua rapido il dolore e come l'invidia degli dèi sia pronta. Tornando verso i lidi familiari, l'eroe dimenticò la promessa fatta al padre, cioè di issare una vela bianca in caso di vittoria; e il vecchio re, quando vide spuntare dal mare la vela nera che dirigeva la rotta verso il capo Sunio, si gettò disperato dall'alto dello scoglio.
    Tuttavia, anche la pietà degli dèi è pronta. Per ricordare l'evento, il mare che cinge e unisce le coste e le isole dell'Ellade porta da quel giorno il nome di Egeo.



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    Daidalos
    Era destino che la vita di Minos fosse strettamente legata a quella del grande
    artefice che viveva alla sua corte. Chi era Daidalos (che ripeteva nel suo nome il daidallein, «bene costruire»)? Ateniese, fu l'inventore dell'ascia doppia (labrys), della lesina, della squadra, della livella a bolla, del trapano, della vela, «delle statue che si muovono», e discendeva da stirpe regale. La leggenda narra che dovette fuggire dalla sua città natale dopo aver ucciso per gelosia di maestro un suo nipote e allievo; e trovò rifugio a Creta, dove il re, contento di avere alla sua corte un artefice cosi famoso, gli accordò protezione e favori.
    Dopo la fuga di Teseo, Minos si vendicò del tradimento e della complicità con Ariadne rinchiudendo Daidalos, insieme al figlio Icaro, nel labirinto da lui stesso costruito. Fu allora che, per salvarsi, Daidalos ricorse alla grande invenzione dell'ala, e sappiamo dalle Metamorfosi di Ovidio in quale modo Icaro, per essersi avvicinato troppo al carro del Sole,
    sciolta dal grande fuoco la cera che univale penne, precipitò in mare. Il padre, più prudente, riuscì a prendere terra in Sicilia, tra Selinmite e Agrigento, dove, come dicono, fu accolto dal re Còcalo con gli onori dovuti a un simile maestro.[…] Tuttavia, il talassocratore Minos, deciso a riprendere il suo architetto, lo inseguì e, sebbene lui si fosse nascosto con il consenso del re, lo trovò grazie a un ingegnoso espediente. […] Mentre andava
    da una città all'altra, prometteva in ogni luogo un grosso premio a chi fosse riuscito a far passare un filo entro le volute di una conchiglia a spirale. Quando Minos si vide restituire da Còcalo la conchiglia con il filo che la percorreva, seppe di avere trovato chi cercava; infatti, Daidalos aveva risolto il problema (non sapendo chi lo avesse posto), praticando un forellino d'ingresso nella conchiglia e immettendovi una formica intorno a cui aveva legato un filo sottilissimo.
    Ma, dopo, Minos chiese invano a re Còcalo di consegnargli il fuggitivo; anzi, soccombette a una nuova e ultima astuzia dell'artefice. Questi aveva raccontato alle fìglie di Còcalo (Diodoro Siculo, IV, 79) che il Cretese era solito farsi innaffiare nel bagno con un getto d'acqua (o, secondo altri, di pece) bollente. Morì in questo modo, lontano dalla sua isola, nella città di Càmicos, il sovrano che Esiodo avrebbe chiamato «il più potente fra i mortali»; e la sua tomba fu mostrata per lunghi secoli nei dintorni di Agrigento.
    Altri dicono che i suoi resti furono restituiti ai Cretesi, i quali li avrebbero collocati in un sarcofago, su cui si leggeva:

    «Tomba di Minos, figlio di Zeus»

    Una parentela misteriosa e simbolica sembra collegare i protagonisti del mito.
    Daidalos (Dedalo) è un Eretteide, ossia un discendente di quell'Eretteo che Efesto, dio del fuoco e degli artifìci che si fanno con il fuoco, avrebbe generato con Gaia, la Terra, madre di tutte le cose. Ma Eretteo, fondatore della città di Atene, è anche un essere semidivino, la cui natura partecipa dell'uomo, del serpente e del vento, ed è a sua volta correlato a Pitone e Delfina, ossia ai due serpenti gemelli, uccisi o, secondo altri, domati da Apollo,
    che li intreccia sul cadùcèo, simboli di vita e di morte, del potere di guarire e di far morire.
    Padre di Dedalo fu Metione, secondo figlio di Eretteo: il grande artefice è perciò nipote del primo ateniese, uomo-serpente, nonché pronipote di Efesto, dio che opera con il fuoco e forgia gli oggetti con gli arnesi del fabbro e della Terra.
    Ma non basta: secondo alcuni mitografi, Cecrope, essere primitivo da cui gli Ateniesi avrebbero preso il nome di Cecropidi, sarebbe stato fratello minore di Metione, padre di Dedalo, e quindi nonno di Egeo, padre (umano) di Teseo. Seguendo le segrete suggestioni del mito, vediamo dunque che Dedalo, uomo di stirpe regale, è zio (o prozio) di Teseo […].



    Interamente tratto da Il Libro dei Labirinti, Storia di un Mito e di un Simbolo di Paolo Santarcangeli, Edizioni Frassinelli

    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:30
     
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    Il Minotauro (Μινώταυρος) è una figura della mitologia greca. È un essere mostruoso e feroce metà uomo metà toro. Era figlio del Toro di Creta e di Pasifae regina di Creta. Il suo vero nome è Asterio o Asterione.

    Minosse, re di Creta, pregò Poseidone di inviargli un toro, come simbolo dell'apprezzamento degli dei verso di lui in qualità di sovrano, promettendo di sacrificarlo in onore del dio. Poseidone acconsentì e gli mandò un bellissimo e possente toro bianco di un valore inestimabile. Vista la bellezza dell'animale, Minosse decise di tenerlo per le sue mandrie. Poseidone allora, per punirlo, fece innamorare perdutamente Pasifae, moglie di Minosse, del toro stesso. Nonostante quello fosse un animale e lei una donna, ella desiderava ardentemente accoppiarsi con esso e voleva a tutti i costi soddisfare il proprio desiderio carnale. Vi riuscì nascondendosi dentro una giovenca di legno costruita per lei dall'artista di corte Dedalo.

    Dall'unione mostruosa nacque il Minotauro, termine che unisce, appunto, il prefisso "minos" (che presso i cretesi significava re) con il suffisso "taurus" (che significa toro).

    Il Minotauro aveva il corpo umanoide e bipede, ma aveva zoccoli, pelliccia bovina, coda e testa di toro. Era selvaggio e feroce, perché la sua mente era completamente dominata dall'istinto animale.
    Thésée et le Minotaure, Étienne-Jules Ramey, 1826. Giardino delle Tuileries (Parigi)

    Minosse fece rinchiudere il Minotauro nel labirinto costruito da Dedalo. La città di Atene, sottomessa allora da Creta, doveva inviare ogni anno (secondo altre fonti: ogni tre o ogni nove anni) sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro, che si cibava di carne umana. Allora Tèseo, eroe figlio del re ateniese Ègeo, si offrì di far parte dei giovani per sconfiggere il Minotauro. Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, si innamorò di lui.

    All'entrata del labirinto Arianna diede a Tèseo il celebre "filo d'Arianna", un gomitolo (di filo rosso, realizzato da Dèdalo) che gli avrebbe permesso di non perdersi una volta entrato. Quando Teseo giunse dinanzi al minotauro, attese che si addormentasse e poi lo pugnalò (secondo altri, lo affrontò e lo uccise con la spada).

    Uscito dal labirinto Tèseo salpò con Arianna alla volta di Atene, montando vele bianche in segno di vittoria. Ma poi abbandonò la fanciulla dormiente su un'isola deserta (l'isola di Nasso, donde il detto, qualora non si tratti di una semplice paretimologia: abbandonare in Nasso, o, popolarmente, in asso)[senza fonte]. Il motivo di tale atto è controverso. Si dice che l’eroe si fosse invaghito di un’altra o che si sentisse in imbarazzo a ritornare in patria con la figlia del nemico, oppure che venne intimorito da Dionisos in sogno, che gli intimò di lasciarla là, per poi raggiungerla ancora dormiente e farla sua sposa.

    Arianna, rimasta sola, iniziò a piangere fino a quando apparve al suo cospetto il dio Dioniso che per confortarla le donò una meravigliosa corona d'oro, opera di Efesto, che venne poi, alla sua morte, mutata dal dio in una costellazione splendente: la costellazione della Corona.

    Poseidone, adirato contro Tèseo, inviò una tempesta, che squarciò le vele bianche della nave, costringendo l'eroe ateniese a sostituirle con quelle nere. Infatti a Teseo, prima di partire, fu raccomandato da suo padre Ègeo di portare due gruppi di vele, e di montare al ritorno le vele bianche in caso di vittoria, mentre, in caso di sconfitta, di issare quelle nere. Ègeo, vedendo all'orizzonte le vele nere, si gettò disperato nel mare, il quale poi dal suo nome fu chiamato mare di Ègeo, cioè Mar Egèo.

    Dietro il mito si celano anche particolari significati che i Greci attribuivano ad alcuni elementi del racconto. Ad esempio il termine Minosse, attribuito al re di Creta, è designato da alcuni studi non come il nome del solo re di Cnosso, ma come il termine genericamente utilizzato per indicare "i sovrani" in tutta l'isola di Creta. Dietro al personaggio del Minotauro si stima ci sia la divinizzazione del toro da parte dei Greci, mentre lo sterminato Labirinto di Cnosso è simbolo dello stupore dei Greci verso le immense costruzioni Cretesi. Alla vittoria di Tèseo si attribuisce invece l'inizio del predominio dei Greci sul mar Egèo nonché la signoria su tutte le sue isole ed il controllo delle principali rotte percorse per i commerci.





    La casa di Asterione



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    “E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione”
    Apollodoro, Biblioteca III, 1

    So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole.
    È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)* restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi ne' la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine.
    E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n'è una simile.)
    Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c'è un solo mobile. Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d'un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.

    La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.

    Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s'avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo d'un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: "Adesso torniamo all'angolo di prima," o: "Adesso sbocchiamo in un altro cortile," o: "Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell'acqua," oppure: "Ora ti faccio vedere una cisterna che s'è riempita di sabbia," o anche: "Vedrai come si biforca la cantina." A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.

    Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

    Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?

    Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
    "Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non s'è quasi difeso."



    1) L'originale dice quattordici, ma non mancano motivi per inferire che, in bocca ad
    Asterione, questo aggettivo numerale vale infiniti. [N. d. A.]





    Tratto da 'L'Aleph" di Jorge L. Borges, Edizioni Feltrinelli.

    Jorge Luis Borges tratta il tema del Minotauro nel racconto La casa di Asterione. Lo scrittore argentino afferma di aver preso spunto da una tela di George Frederic Watts del 1896, intitolata appunto Il minotauro.

    Anche lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt ha scritto una versione della storia: Il minotauro.


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    Il Minotauro nella Divina Commedia



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    « e 'n su la punta de la rotta lacca
    l'infamïa di Creti era distesa
    che fu concetta ne la falsa vacca »

    (Dante Alighieri, Inferno - Canto dodicesimo, vv. 11-13)

    Il Minotauro appare anche nella Divina Commedia. Precisamente nel dodicesimo canto dell'Inferno.

    È il guardiano del Cerchio dei violenti ed è qui che Dante e Virgilio lo incontrano. Nonostante tenti inizialmente di sbarrare loro la strada, Virgilio riesce a allontanarlo, e allora il minotauro comincia a divincolarsi qua e là come un toro.

    Allegoricamente, il Minotauro è posto a guardia del girone dei violenti, perché nel mito greco esso simboleggia proprio la parte istintiva e irrazionale della mente umana, quella che ci accomuna agli animali (la «matta bestialità») e ci rende inconsapevoli. I violenti sono proprio quei peccatori che hanno peccato cedendo all'istinto e non hanno seguito la ragione. Per la teologia cristiana rappresenta un grave peccato, perché mentre agli animali non si può dare alcuna colpa, perché fanno ciò che è necessario per sopravvivere e nulla più, l'uomo dovrebbe usare la ragione per non compiere atti di pura crudeltà. La scena di Virgilio che vince il Minotauro rappresenta allegoricamente il trionfo della ragione sull'istinto.

    Nella Divina Commedia è presente inoltre un accenno a Pasifae, madre del minotauro, nel ventiseiesimo canto del Purgatorio, dedicato al vizio dei lussuriosi. Pasifae vi è citata due volte, come emblema dell'animalità del peccato di lussuria: Dante la definisce con eloquente sintesi "colei che si imbestiò ne le 'mbestiate schegge" (cf. Purg. xxvi, vv. 41-42, 86-87).


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    BASILISCO





    Nei bestiari e nelle leggende greche ed europee, il basilisco (dal greco βασιλίσκος basilískos, "piccolo re" da βασιλεύς basiléus, "re"; in latino rēgulus) è una creatura mitologica citata anche come "re dei serpenti", che si narra abbia il potere di uccidere con un solo sguardo diretto negli occhi.

    Secondo Solino e la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, il basilisco sarebbe un piccolo serpente, lungo meno di venti centimetri e nonostante questo sarebbe la creatura più mortale in assoluto. È infatti velenosissimo ed è in grado di uccidere con il solo sguardo. Qualunque essere vivente entri in contatto con il suo fiato o venga morso muore sul colpo. Secondo alcune leggende medioevali, se un cavaliere cercava di colpire il basilisco con la lancia, il veleno vi si infiltrava immediatamente uccidendo cavallo e cavaliere. Il basilisco vivrebbe nel deserto da lui stesso creato, perché ha la capacità di seccare gli arbusti oltre che con il contatto, con il solo sguardo.

    A Plinio si rifece Isidoro da Siviglia, che lo definiva come il re dei serpenti, i quali lo temono per il suo soffio velenoso e per il suo sguardo mortale. Alessandro Neckham (nato nel 1157) fu il primo a riferire la teoria secondo la quale non era lo sguardo del basilisco a uccidere direttamente, ma la corruzione dell'aria che esso provocava (teoria sviluppata un secolo dopo da Pietro d'Abano).

    Viene chiamato "re" a causa della cresta a forma di mitra che ha sulla testa oppure, secondo Plinio, a causa di un marchio biancastro sulla sommità del capo. I racconti sul basilisco lo collocano nella stessa famiglia della coccatrice.

    Beda fu il primo ad attestare la leggenda di come il basilisco nascerebbe da un uovo deposto di tanto in tanto da un gallo anziano (altri autori hanno aggiunto di sette anni quando Sirio sia ascendente). L'uovo deve essere sferico e deve essere covato da un serpente o da un rospo, processo, questo, che poteva impiegare fino a nove anni.

    Teofilo monaco, nella raccolta di ricette artigiane che hanno preso il suo nome, indicò un procedimento dettagliato per creare un basilisco, attraverso la copula di due galli rinchiusi in una cella sotterranea e tramite la cova di due rospi: la polvere del basilisco bruciato e macinato serviva a creare il cosiddetto aurus hyspanicus, ottenuto a partire dal rame. Nell'Europa dell'età medievale, la descrizione della creatura cominciò ad inglobare caratteristiche proprie dei galli.

    Alberto Magno nel De animalibus scriveva di credere allo sguardo assassino del basilisco, ma negava che questi morisse se un uomo lo vedeva per primo e che un gallo potesse fare un uovo; interessante è come egli indichi queste credenze come frutto nei suoi contemporanei nell'autorità di Ermete Trismegisto, il quale avrebbe pure sostenuto come le ceneri di basilisco fossero state necessarie per trasformare l'argento in oro: un'attribuzione del tutto infondata ma che dimostra come già nel XIII secolo la figura del basilisco fosse associata a interpretazioni alchemiche.

    Per quanto riguarda lo sguardo pestilenziale sulla vegetazione, potrebbe essere illuminante il confronto con le teorie della scuola salernitana del XII secolo: essi sostenevano che i rettili nascessero per "putrefazione" della materia causata dal calore esterno. Il periodo estivo della Canicola era infatti la stagione più propizia per i serpenti che allora uscivano in massa dalle tane sotterranee trascorrendo più tempo sulla superficie; il collegamento tra calura e serpenti presto diede origine a un ribaltamento delle cause, indicando i rettili come reponsabili della corruzione dell'aria e dell'imputridimento delle acque che causavano epidemie malariche. Quindi esisteva un vero e proprio collegamento tra il re dei rettili, il periodo più caldo dell'anno e il seccare della vegetazione.

    Con il passare del tempo, grazie al moltiplicarsi di storie, le sue capacità letali continuarono ad aumentare, comprendendo l'abilità di sputare fiamme e quella di uccidere solo con il suono della sua voce, oltre alle sue sempre crescenti dimensioni. Alcuni scrittori affermarono che la creatura poteva uccidere anche senza un tocco diretto, ma perfino toccando qualcosa che a sua volta toccava qualcuno, come una spada. Il basilisco è anche la creatura a guardia della città svizzera Basilea.

    Nonostante la loro apparenza invincibile, i basilischi hanno due nemici mortali: le donnole, che però morivano sempre anche se riuscivano ad ucciderlo, ed i galli, il cui canto gli era letale. Un basilisco può inoltre essere ucciso anche facendolo specchiare in modo che sia il suo stesso sguardo ad ucciderlo.

    La leggenda del basilisco ha goduto di continui richiami nel tempo: Geoffrey Chaucer parla di una basilicok nelle Canterbury Tales; Leonardo da Vinci incluse un basilisco nel suo bestiario, citando la sua malvagità di nascondersi in alto sui rami e di fissare le sue vittime mentre appassiscono al suo sguardo. Percy Bysshe Shelley nell'"Ode a Napoli" alluse a un basilisco. Anche Voltaire citò un basilisco nel capitolo XVI di Zadig.

    In Italia centrale, tra la Toscana, l'Umbria e l'alto Lazio, è diffusa nelle campagne la tradizione del "Serpente Regolo", anch'esso "piccolo re", serpente pernicioso e vendicativo, dalla testa grande come quella di un bambino, abitante fossi, campi, rovine e foreste.

    I basilischi sono stati riutilizzati nei giochi, film, libri e romanzi fantasy moderni. Non è insolito trovare un basilisco nei bestiari dei giochi di ruolo come Dungeons & Dragons e Final Fantasy. Anche nel mondo magico di Harry Potter esistono basilischi, soprattutto il mostro protagonista del secondo libro Harry Potter e la camera dei segreti, in cui Harry dovrà battersi con lui, però in questo libro il basilisco ha l'aspetto di un gigantesco serpente con lo sguardo mortale.

    In araldica suoi attributi frequenti sono squamoso e illuminato.

    Il basilisco simboleggia potenza ed eternità della stirpe, in base alle credenze egizie che lo dipingevano di vita lunghissima, vista la sua capacità di uccidere gli altri animali col fiato. A causa di ciò, alcuni lo presero a simbolo di calunnia, colpa o contagio, ma queste sue caratteristiche mal si adattano alle necessità dell'araldica che impiega solo simboli positivi.

    Il basilisco viene spesso accomunato ad un'altra figura mitologica: il biscione, simbolo del casato dei Visconti e della città di Milano, delle cui origini non vi sono ancora dati certi.
    Il basilisco è il simbolo di Sternatia, nel Salento, e di alcune città della Basilicata quali sono Lauria, Melfi, Teana e Venosa.


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    Gallus cauda quadrupedis cum crista Gallinacea
    Gallus monstrificus barbatus cornutus ocreatus cauda anguina in cuius extremitate est flocus.
    Prope uropygium autem ubi adhaeret corpori habet quoddam tuberosum rotundum colore albido.
    Crista palearibusque plumosis.

    Gallo con coda da quadrupede e ciuffo da gallinaceo
    Gallo mostruoso, barbuto, cornuto, con gambali di cuoio e coda di serpente alla cui estremità si trova un fiocco.


    In prossimità dell'uropigio, dove aderisce al corpo, presenta una sorta di tuberosità rotondeggiante di colore biancastro.
    Cresta e bargigli impiumati.

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    Basilisco

    Contenuto nell'Ornithologia di Ulisse Aldrovandi
    volume II - libro XIV - Bologna - 1600

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    Cockatrice



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    L'etimologia del vocabolo inglese cockatrice, già in uso nel 1382, riconosce questa sequenza: dall'antico francese cocatris, composto da coq = gallo + calcatrix dal latino calcare = pigiare, calpestare, che oggi senza tanti mezzi termini suonerebbe scopare, essendo calx il calcagno, e i galli lo usano per breve tempo quando si accoppiano con le galline, invece i tacchini usano i calcagni per un tempo che talora risulta letale quando calcano e spremono le tacchine. In araldica cockatrice è un ibrido che ricorda il gallo e il serpente.

    Allorché fu pubblicato il secondo volume dell'Ornithologia di Aldrovandi non erano ancora trascorsi molti lustri da quando a Basilea - il cui toponimo dal 1448 si unì al Basilisco, animale fantasioso e terribile - un gallo di undici anni era stato condannato a morte. Venne decapitato e messo al rogo essendosi permesso di andare contro natura: aveva deposto un uovo. Era il 4 agosto del 1474. Anche il suo presunto uovo venne dato alle fiamme.


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    A Basilea, il basilisco, da solo o in coppia, fa da supporto allo stemma civico caricato del pastorale vescovile. Sul Lungoreno si trova la Drachenbrunnen - la fontana del drago - o Basiliskenbrunnen, una fontanella pubblica del 1884 che getta acqua in continuazione dalla bocca di un basilisco dotato di cresta semplice e di due bei bargigli da Livornese.

    Così, Basilea cremò un gallo ovaiolo, ma già da 5 lustri aveva unito un essere peccaminoso, mostruoso e fantastico al simbolo del potere spirituale.

    Come si può desumere da un manoscritto del 1448, il basilisco sostituì due atleti – a loro volta preceduti da due angeli – nel compito di reggere lo stemma civico di Basilea. Quindi a partire dal 1448 e per alcuni secoli il basilisco legò il suo nome a quello della città, menzionata per la prima volta come Basilia nel 374 dC da Ammiano Marcellino, quando l’imperatore romano Valentiniano I costruì una piazzaforte sull’ansa del Reno forse a difesa di un ponte. Il pastorale vescovile nero – tutt'oggi emblema civico di Basilea e del Cantone di Basilea Città – pare ricollegarsi alla reliquia del pastorale di San Germano assassinato nel 666 e che fu il primo abate del monastero di Moutier-Grandval - oggi Cantone di Berna, circa 35 km a sudovest di Basilea - abbandonato nel 1534 e poi scomparso in seguito alla Riforma protestante. Il pastorale di san Germano si trova ora nella chiesa parrocchiale di Delémont, capitale del Cantone del Giura, 47 km a nord di Berna.


    Basilisco deriva dal greco basilískos, diminutivo di basiléus, letteralmente piccolo re, reuccio. Secondo la tradizione, riportata anche da Plinio il Vecchio, si trattava di un mostro favoloso, riconoscibile per recare una macchia bianca sulla testa a mo’ di diadema, dotato di poteri malefici e terribili.

    Considerato il Re di tutti i serpenti e di tutti gli esseri viventi eccetto l’uomo, aveva il potere di uccidere col solo sguardo o addirittura col semplice alito, mentre nel Medio Evo si diffuse la credenza secondo cui bastava essere i primi a scorgerlo per sfuggirne gli effetti letali, anzi, di essere addirittura in grado così di ucciderlo. Presso i cristiani divenne simbolo del peccato.

    Altre fonti riferiscono trattarsi di un serpentello il cui capo è ornato da un diadema bianco; secondo altre ha il corpo di un gallo, coda di serpente o di lucertola, ali di drago, becco d'aquila; infine, secondo altre fonti ancora, avrebbe portamento eretto e sembianze umane.

    Il basilisco nascerebbe dall’uovo deposto da un gallo di 7 anni, covato dal gallo stesso oppure da un serpente o da un rospo, o avrebbe addirittura come padre un gallo e come madre un rospo, e il suo sangue, come quello dei draghi, sarebbe dotato di straordinarie virtù terapeutiche.

    Ben altra cosa sono i Basilischi appartenenti alla famiglia degli Iguanidi: recano sul capo una sorta di stretto elmo e sul dorso un’alta cresta, possono correre sull’acqua raggiungendo i 12 km orari. Il Basilisco comune, Basiliscus basiliscus, vive in America Centrale come le altre specie.

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    Ma, Aldrovandi, credeva al basilisco?

    Innanzitutto non credeva che un gallo potesse produrre un vero uovo, confortato dal fatto che nessuno si è mai sognato di asserire che un uomo è in grado di partorire. E Aldrovandi, oltretutto, non credeva che da simili uova di gallo potesse nascere un basilisco.

    Ma, del basilisco, ne parla piuttosto a iosa nel secondo volume della sua Ornithologia, riportando da Claudio Eliano come il basilisco, temutissimo dai serpenti, tema invece a tal punto il gallo che coloro che intraprendono un viaggio nelle sconfinate solitudini della Cirenaica ne portano uno al seguito nell'eventualità di dover incappare in quella maledetta bestiaccia: come sente il canto del gallo, viene assalita da un terrore tale da addirittura morire.


    Fonte summagallicana











    un animale magico, conosciuto da pochi, il Basilisco, una creatura con il corpo e la testa di gallo, con una cresta squamosa rossa, grandi ali spinose e coda di serpente.

    Il basilisco, secondo la legenda, nasce dall’uovo di un vecchio gallo, deposto sul letame e covato da un rospo o una rana. Lo sguardo di questo animale incenerisce, secca le piante, contamina le acque, il suo alito uccide, brucia l’erba ed è velenoso.

    Il Basilisco può morire solamente mettendolo davanti ad uno specchio dal quale può vedersi riflesso. Questa figura mitologica ha due nemici mortali: le donnole, che però morivano anche se riuscivano ad ucciderlo, ed i galli, il cui canto gli era letale.

    Si dice che esso sia nato dal sangue di Medusa, decapitata da Perseo. Esso un rettile leggendario carico di significati simbolici.



    Fonte Esosterya

    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:50
     
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  13. gheagabry
     
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    Il primo a citare il Basilisco è Plinio il Vecchio (scrittore latino del I secolo a.C.) nell'opera "Naturalis Historia" in cui dice che questa creatura è un serpente piccolo (circa 35 cm) originario dell'Africa Settentrionale. Il suo nome viene da basíliskos (che in greco significa "re dei serpenti", poichè attorno il suo capo ci sono dei disegni molto simili ad una corona: per questo aspetto si pensa che Plinio si riferisca ai cobra, una costante presenza all'interno della corte egiziana). Secondo Plinio questa creatura si avvicinava ai suoi nemici in posizione eretta, invece che strisciando, e appiccava fuoco o distruggeva ogni cosa solo alitandovi sopra: per questo viveva in luoghi desertici, non per propria scelta o per particolari condizioni che favorissero la sua vita, ma perchè lui stesso li trasformava tali distruggendo ogni cosa. Sempre secondo un altro scrittore latino, Claudio Eliano (175-235 d.C.), il canto del gallo faceva cadere il basilisco in preda a convulsioni, che lo portavano alla morte. Nella tradizione medioevale, infine, questo assumeva la forma di un Drago dalle ali e piume di un gallo e, talvolta, anche le zampe (Quindi avvicinandosi di più all'aspetto di una Chimera). Secondo la tradizione, il basilisco nasce da un uovo abbandonato di gallina e covato da un Rospo: per questo a volte il corpo di questa creatura è ricoperto quasi totalmente da piume.


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    Le varie forme che può assumere un Basilisco.Le varie forme che può assumere un Basilisco.Le varie forme che può assumere un Basilisco.Le varie forme che può assumere un Basilisco.



    DESCRIZIONE: Il basilisco può assumere varie forme: in tutti i casi è un mostro rettile. La forma più comune è quella di un serpente gigante, che può essere lungo dai 30 cm fino ai 7-8 metri. Può avere anche la forma di una lucertola gigante o, infine, la forma meno nota di un Drago (oppure una Chimera piumata) con zampe testa ed ali di un gallo e il corpo di un serpente. Il suo sguardo provoca morte istantanea su coloro che lo incrociano, mentre pietrifica quelli che lo guardano riflesso (In uno specchio, in una pozza d'acqua, ecc.). Tende a rifugiarsi in buche poco profonde, caverne o in altri posti riparati ed è onnivoro: spesso mangia anche le sue vittime. Da cucciolo il suo sguardo è in grado di pietrificare momentaneamente le persone e a volte vengono lasciati come guardiani di segreti o tesori preziosi. Il loro corpo è marrone con il ventre molle e giallastro. Una singola fila di aculei sorge sulla schiena e a volte alcuni hanno un corno ricurvo in fronte. Il basilisco si nutre solitamente di uccelli, rettili e mammiferi, oltre che ad umanoidi. Si fa gran lunghe dormite nella sua tana e, durante l'accoppiamento, gli esemplari di questa specie si radunano in gruppo.

    ATTACCHI: E' una creatura molto pigra ed attacca quasi sempre con il suo sguardo. Gli unici attacchi corpo a corpo che effettua sono morsi ed artigliate: nessun attacco a distanza, se non il suo sguardo;

    - Sguardo Mortale = Con solo il proprio sguardo un basilisco è capace di uccidere il proprio avversario.

    - Zanne velenose = Le loro fauci sono molto velenose e, coloro che vengono feriti, a meno che non trovino una cura efficace subito, muoiono entro 30 secondi dal colpo.




    dal web



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    Sconosciuta nel regno degli animali striscianti, incrocio fra serpente e gallo, questa bestia partorita dalla spigliata fantasia letteraria e artistica incute piú paura di quelle reali, anche le più feroci. Il basilisco è 1'immagine del potere disastroso del male. Raffigurato in quello scultoreo ciclo di vita e di morte che è il portale bitontino, sembra lì pronto a dare la morte col solo suo sguardo dalla potenza infernale. Re dei serpenti, come il suo stesso nome richiama, il basilisco (da basileus) non ha del vero serpente che la coda; il resto del corpo è quello di un gallo, con piume, becco e cresta dentellata simile ad una corona. «Rex est serpentium basiliscus - afferma sant'Agostino - sicut diabolus rex est daemoniorum» (Enarr. in ps. 90 serm. 2, 9, in P.L. 37, col. 1168).

    Il basilisco della Cirenaica era stato descritto da Plinio come un serpente di piccola taglia con una macchia bianca sulla testa a forma di diadema: il suo fiato fa perire i piccoli alberi, brucia le erbe e spacca le pietre. Plinio aggiunge inoltre che se un cavaliere colpisce la bestia con la punta della lancia, muoiono cavallo e cavaliere a causa del veleno che percorre l'asta dal punto di contatto fin verso l'alto, verso 1’impugnatura.

    Sin dai tempi di Davide, presso i popoli pagani del bacino del Mediterraneo orientale, il basilisco non ha goduto di buona reputazione. Secondo alcune leggende greche e romane riportate da Plinio, anche i serpenti fuggono dinanzi al basilisco capace di ucciderli col suo solo fiato o col solo suo sguardo. Brunetto Latini ripete, seguendo Plinio, che questo rettile uccide col potente e velenoso sguardo uomini e bestie.

    Nato da un uovo covato da un rospo, il basilisco è stato reso iconograficamente più raccapricciante dall'artista medievale per sottolineare la fraudolenta perversità del suo sguardo; lo ha raffigurato con gli organi visuali situati sulla coda, che talvolta assume la forma di testa di serpente. Così, dotato di doppi organi visivi, l'ambigua bestia è capace di dare la morte davanti e da dietro. Trasfigurazione del cristiano pervertito e depravato, sordo ad ogni voce che lo sollevi dal fondo del suo sudiciume, il basilisco non è una figura molto nota nell'arte delle cattedrali romaniche pugliesi, tuttalpiù si confonde con gli altri rettili senza particolari caratteristiche e difficilmente individuabile. Chiaramente identificabile è invece nel portale bitontino, cosí come nelle grandi cattedrali francesi: da Amiens a Sens a Poitiers, a Vezelay.




    Cattedrale di Bitonto, portale centrale, particolare dello stipite: il basilisco fra mostro e sirena.


    A sottolineare ancora la sua potenza malefica, l'anonimo scultore bitontino ha fornito al rettile un paio di ali membranose a significare il satanico rapporto col principe delle tenebre. Immagine di Satana, il basilisco incarna la lussuria: da qui la comune opinione che la sifilide, che cominciò a flagellare la popolazione europea dalla fine del XV secolo, fosse attribuita al veleno di questo rettile il cui tema trionfa ancora su un capitello della prima colonna della navata sinistra della cattedrale di Bitonto. È il capitello della tentazione diabolica sul quale il basilisco è raffigurato in posizione di movimento, con le ali spiegate, la coda strisciante, la cresta alzata, lo sguardo fisso e il becco semiaperto, pronto a soffiare sulla preda il suo fiato mortale.

    Sin dai tempi di David, il basilisco aveva avuto come soci in sporchi e infernali affari l'aspide, il drago e il leone: «super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem», dice il salmo.



    Mondimedivali

    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:56
     
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  14. gheagabry
     
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    Questa creatura ha corpo e testa di gallo, sormontata da una cresta squamosa rossa che somiglia ad una corona, possiede inoltre grandi ali spinose e coda di serpente.
    Il basilisco nasce dall’uovo di un vecchio gallo di sette o quattordici anni, deposto sul letame e covato da un rospo o da una rana.
    Il suo sguardo incenerisce, secca le piante e contamina le acque il suo contatto e anche il suo alito uccide gli arboscelli, brucia l’erba da tanto è velenoso.
    Può essere ucciso mettendolo davanti ad uno specchio sul quale può vedersi riflesso, inoltre questo essere ha due nemici mortali le donnole, che però morivano sempre anche se riuscivano ad ucciderlo, ed i galli, il cui canto gli era letale.
    Secondo alcuni miti il basilisco nasce dal sangue di Medusa, decapitata da Perseo, che cadde sulla terra di Libia. Ha poteri simili a quelli della gorgone della mitologia greca.

    Il Basilisco è l’essere favoloso del mondo dei serpenti, un rettile leggendario carico di significati simbolici.
    Nel corso dei secoli il basilisco, che significa "piccolo re", si modifica fino alla bruttezza e all’orrore, e adesso se ne sta perdendo il ricordo.
    Scrive Plinio: "E’ un drago che ha sulla testa una corona d’oro, grandi ali spinose, una coda di serpente, che termina con la testa di un gallo. Il suo fiato avvizzisce la frutta. Il suo sputo brucia e corrode. Il suo sguardo spacca le pietre. L’odore della donnola lo uccide.
    Altra arma contro di lui è lo specchio: il basilisco è fulminato dalla sua propria immagine. E’ l’idea del maligno che lo morde".
    Il basilisco, sempre secondo Plinio che ne ha parlato a lungo è un serpente lungo solo dodici dita che ha una macchia bianca sulla testa, a forma di diadema.
    "Il suo sibilo fa fuggire i serpenti: non striscia sinuosamente come gli altri rettili, ma avanza, col corpo eretto a metà.”
    Per Pietro il Piccardo, che scrisse nel medioevo, il basilisco non poteva essere altri che il diavolo, e così la pensava la maggior parte degli scrittori del suo tempo.
    In molte cattedrali romaniche e gotiche, esso sta a rappresentare alternativamente, il diavolo e il peccato.

    In Italia centrale, tra la Toscana, l'Umbria e l'alto Lazio, è diffusa nelle campagne la tradizione del "Serpente Regolo", anch'esso "piccolo re", serpente pernicioso e vendicativo, dalla testa grande come quella di un bambino, abitante fossi, campi, rovine e foreste.


    DragonFly

    Edited by gheagabry1 - 23/1/2023, 18:57
     
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  15. gheagabry
     
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    Idra di Lerna



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    Nella mitologia greca l'Idra di Lerna o Idra è un mostro con nove teste a forma di serpente, nato da Tifone ed Echidna, come Cerbero, Ortro e la Chimera. Viveva insieme al mostro Carcino.

    Aveva nove teste di serpente, di cui la centrale era immortale. Secondo altre versioni tuttavia ne aveva 50 e tutte d'oro. Il corpo era di un drago gigantesco e senza ali. Qualsiasi testa venisse tagliata, subito ne rispuntavano due. Il sangue e il fiato dell'Idra erano veleno mortale.

    l mito narra che l'Idra fu ucciso da Ercole durante la seconda delle sue fatiche. Non fu un'impresa facile. Ercole sbranò l'orrenda belva mentre digeriva il suo pasto nella caverna. Appena uscì l'Idra gli si avvinghiò contro facendolo cadere. Ercole reagì e tagliò tutte le teste dell'Idra; scoprì con orrore che dal mozzicone di ogni testa tagliata ne spuntavano istantaneamente altre due. Per non cadere preda del suo fiato tremendo Ercole trattenne il respiro. Ebbe poi un'illuminazione. Chiese aiuto al nipote Iolao: mentre Ercole tagliava le teste, Iolao dava fuoco al sangue della ferita, cicatrizzandola in modo che le teste non potessero ricrescere. L'ultima testa tuttavia era immortale e non servì nemmeno il suo nuovo stratagemma. Allora seppellì la testa e il corpo sotto un masso enorme. Poi bagnò la punta delle frecce nel sangue dell'idra, altamente velenoso, per rendere le ferite inflitte da esse inguaribili.

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    Il veleno dell'Idra fu inoltre la causa della morte dell'eroe. La moglie Deianira, ingannata dal centauro Nesso, userà il sangue del mostro come filtro d'amore, impregnando una veste che fece poi indossare al marito. Un'accidentale puntura con una delle frecce avvelenate provocò atroci sofferenze a Chirone, centauro amico e insegnante di Ercole che, essendo immortale, non poteva morire.

    Nella zoologia mitologica medioevale, il termine Idra sta ad indicare un generico drago con molte teste.

    Nei bestiari medioevali esiste l'Hydrus, variante dell'Idra. Esso è il nemico per antonomasia del coccodrillo, dal quale si fa inghiottire per poi lacerarne l'intestino.

    Erasmo da Rotterdam nei suoi Adagia paragona la guerra all'Idra di Lerna. «Quinetiam bellum e bello seritur, e simulato verum, e pusillo maximum exoritur, neque raro solet in his accidere quod de Lernaeo monstro fabulis proditum est». (E poiché guerra genera guerra, da guerra finta nasce guerra vera, da guerra piccina guerra poderosa, non di rado suole accadere ciò che nel mito si racconta del mostro di Lerna)

    * L'idra è presente nel cartone della Disney Hercules dove appare come una specie di drago mandato da Ade per uccidere il nipote. Qui l'idra è molto più grande di come viene descritto nella mitologia, inoltre non ha né il fiato velenoso né la testa immortale.

    * L'idra appare come unità mitica dei greci nel videogioco Age of Mythology e ha il potere di acquisire più teste uccidendo unità nemiche (questa abilità viene anche condivisa con la sua controparte acquatica, Scilla).

    * L'idra è il primo, immenso boss del videogame God of War. Il protagonista, Kratos, l'affronta su una flotta di navi incagliate tra gli scogli nel mare Egeo.

    * Appare anche in Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini.

    * Appare nella puntata numero 45 di C'era una volta... Pollon.







    CARCINO


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    Carcino è un gigantesco crostaceo della mitologia greca, descritto come un mostro a volte con forma di granchio oppure di gambero.

    Secondo il mito, viveva insieme all'Idra di Lerna: durante il combattimento di quest'ultima con l'eroe Eracle, le giunse in aiuto, cercando di ferirlo con le sue chele, ma Eracle lo uccise, rompendogli la corazza con un colpo della clava. Era allora lo trasportò in cielo dove divenne la costellazione del Cancro.


    Edited by gheagabry1 - 22/1/2023, 01:58
     
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