CUCINA dal WEB

ARTICOLI, RIFLESSIONE E NEWS D

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    Sono giapponesi i migliori
    pasticceri al mondo. L’Italia? Al secondo posto



    Il Campionato mondiale dei pasticceri è stato organizzato da Fip, la Federazione Internazionale Pasticceria nell’ambito di Host, la rassegna internazionale dell’ospitalità professionale in corso alla Fiera di Milano.

    Sorpresa. La squadra giapponese ha battuto tutti e, in particolare, la concorrenza di due dei Paesi di grande tradizione in fatto di torte e pasticcini, ovvero l’Italia, arrivata seconda, e l’Austria, terza assoluta. Il team vincente, formato da Tsuda Keisuke, Kenta Nakano e Hiroyuki Emori, ha realizzato tre sculture, che rappresentavano in maniera artistica i simboli del Paese del Sol Levante, come la balena realizzata in zucchero, o l’evoluzione del pianeta Terra in pastigliati, e le tappe del volo, dagli uccelli alla conquista dello Spazio, interamente realizzato in cioccolato.

    LA TORTA MODERNA ITALIANA – Al mondiale 2015 hanno partecipato 13 squadre nazionali da quattro continenti: in gara 39 pasticceri in quattro specialità, e cioè praline, gelato, torta moderna e sculture di pasticceria. I portabandiera dell’Italia, Antonino Bondì, Diego Mascia e Paul Occhipinti hanno ottenuto l’oro nella specialità della torta moderna.

    PRALINE E GELATO – Il Messico ha realizzato la miglior pralina, mentre il titolo del Miglior Gelato è stato assegnato alla Polonia. A valutare le realizzazioni una giuria di 13 esperti internazionali formata dai capitani delle squadre in gara e guidati da Christian Beduschi, uno dei migliori pasticceri italiani.

    (27 ottobre 2015)



    FONTE:
    © www.oggi.it/cucina/news-cucina/2015...-secondo-posto/


    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:50
     
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    La parola "pizza" non è nata a Napoli



    Luca Romano


    Dall'archivio della cattedrale della cittadina laziale spunta un atto notarile del 997 dopo Cristo in cui viene nominato il piatto italiano più famoso del mondo: è la prima testimonianza scritta della regina della cucina napoletana


    Sorpresa nella carta d'identità della pizza napoletana. Nel ripercorrere a ritroso le tracce della parola «pizza» si scopre che non nasce nel capoluogo partenopeo ma a Gaeta, borgo marinaro del basso Lazio storicamente più Sud che Centro e gastronomicamente noto come patria delle gustose olive locali e della tiella.

    A svelare l'origine del lemma-portabandiera del made in Italy e di Napoli nei quattro angoli del pianeta, è una ricerca che sarà presentata da Giuseppe Nocca, storico della cultura alimentare e docente dell'Istituto Alberghiero di Formia, giovedì 12 febbraio.
    Secondo tale studio la pizza, almeno come etimo, prende le sue mosse da un mulino nei pressi del fiume Garigliano, che attualmente divide il Lazio dalla Campania. Questa denominazione infatti appare per la prima volta in un documento notarile conservato presso l'archivio della cattedrale di Gaeta e redatto nel mese di maggio del 997 dopo Cristo. L'atto aveva per oggetto la locazione di un mulino e del terreno annesso di proprietà del vescovato, stipulata da Bernardo figlio del duca Marino II e vescovo designato, ma non ancora consacrato, della città di Gaeta. La locazione aveva effetto giuridico a condizione che «... ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere sia a noi che ai nostri successori, a titolo di pigione per il soprascritto episcopio e senza alcuna recriminazione, dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione..».
    L'atto notarile originale è stato redatto in latino, pur tuttavia il testo originale recita «doduodecim pizze». Il termine pizza «può essere in tal modo annoverato tra i primi vocaboli dell'italiano volgare» sottolinea Nocca.
    Al centro del convegno sarà quindi «l'archeopizza», un excursus cioè nella storia di un piatto considerato povero nella Napoli del XVII secolo e nato nella versione bianca ricoperta da strutto. Il pomodoro sulla pizza è arrivato solo tempo dopo, ed è nella versione rossa che questa gustosa specialità si è nobilitata ed è divenuta famosa in tutto il mondo. Nel 1870, durante il soggiorno partenopeo della coppia reale formata da Umberto I e Margherita di Savoia, la regina fu omaggiata con una pizza dai colori della bandiera italiana, e così la pizza margherita divenne lo stendardo gastrononico dell'Italia Unita. I neoborbonici, che contestano questo battesimo sabaudo, hanno dedicato all'ultima sovrana del Regno delle Due Sicilie, Maria Sofia, moglie di Francesco II, una pizza condita con mozzarella casertana, pomodorini del Vesuvio, olive di Gaeta, e alici.

    (Mar, 10/02/2015 - 09:09)



    FONTE:
    © www.ilgiornale.it/news/cultura/pizz...le-1091514.html,
    web,news.leonardo.it


    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:50
     
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    Suicida Benoit Violier,
    uno dei più celebri chef del mondo


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    Benoit Violier (afp)


    A soli 44 anni era alla guida di un ristorante di Losanna in testa alle classifiche globali. Domani avrebbe dovuto partecipare alla presentazione francese della guida Michelin che ogni anno assegna le stelle all'alta ristorazione


    LOSANNA - Lo chef franco-svizzero Benoit Violier si è ucciso con un'arma da fuoco nella sua casa di Crisser, nel distretto di Losanna, in Svizzera. Tra i migliori cuochi del mondo a soli 44 anni, era chef di quello che di recente era stato classificato come il miglior ristorante del mondo, quello dell'Hotel de Ville di Crissier, nel distretto di Losanna. Aveva sostituito nella cucina del famoso ristorante Philippe Rochat, venuto a mancare lo scorso anno.

    Il cadavere dell'uomo, 44 anni, è stato ritrovato nella sua abitazione a Crissier, località Svizzera del Canton Vaud. Nel 2015 Violier era stato nominato chef dell'anno dalla guida Gault & Millau. Per lo chef Numix si tratta "di un'immensa perdita per tutto il mondo della gastronomia; era uno chef - ha detto - all'apice della sua arte". Condoglianze anche dallo chef Guy Martin e

    dagli esperti della Guida Michelin, tra i primi a rendere omaggio a "uno chef di immenso talento". Domani avrebbe dovuto partecipare a Parigi alla presentazione della nuova edizione della guida Michelin Francia, che ogni anno assegna le stelle di riconoscimento dell'alta ristorazione.

    (31 gennaio 2016)

    http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/31...ondo-132448599/




    Benoit Violier con la moglie Brigitte


    FONTE:
    © http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/31...ondo-132448599/
     
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    Benoit Violier, la voce: una truffa
    milionaria dietro il suicidio del super chef


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    Una truffa milionaria dietro il suicidio di Benoit Violier, il "miglior chef del mondo". Secondo la rivista economica svizzera Bilan, l'azienda vinicola di Sion Private Finance Parners lo scorso anno vendette al ristorante di Violier a Losanna, Hotel de Ville (tre stelle Michelin), una partita di costosissime bottiglie di vino poi mai consegnate. Bilan azzarda anche il buco nelle casse di Violier: tra i 720.000 e gli oltre 1,7 milioni di euro. Mentre l'azienda lo scorso novembre ha dichiarato bancarotta, gli ultimi mesi dello chef sarebbero stati "piuttosto tormentati", fino al tragico gesto di una settimana fa.

    (07 Febbraio 2016)


    FONTE:
    © www.liberoquotidiano.it/news/person...l-de-ville.html


    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:51
     
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    Galateo a tavola. Dalla Francia al Giappone:
    Paese che vai, buone maniere che trovi.
    Ecco i consigli per non sbagliare



    Forchetta, cucchiaio o bacchette? Mancia sì oppure no? Ogni angolo di mondo ha le sue regole, abitudini, tradizioni. Ecco allora cosa fare e cosa evitare in cinque tra le destinazioni più complesse.


    Le dritte su come destreggiarsi tra posate e quantità, senza rischiare brutte figure, arrivano da Secret Escapes, club di viaggi online specializzato in vendite flash per alberghi di lusso.

    Francia – Mani avanti: i francesi apprezzano che, quando si sta seduti a tavola, si tengano le mani e i polsi (mai i gomiti) appoggiati alla medesima e non sulle ginocchia. Se le mani non sono in vista, non si vuole immaginare che cosa stia accadendo sotto la tovaglia. Il pane, poi, va appoggiato al tavolo e mai al piatto, mentre è consentito utilizzarlo per avvicinare il cibo alla forchetta. Altra cosa da evitare assolutamente è tagliare con il coltello le foglie della lattuga, che invece vanno piegate e mangiate esclusivamente con la forchetta.

    Thailandia – La cucina thai è basata sulla condivisione: le pietanze vengono di solito servite tutte insieme e non suddivise per portate. Ciascuno può servirsi a volontà, anche in modo abbondante, ma è considerato scortese prelevare l’ultima porzione dal piatto comune senza prima essere stati autorizzati dagli altri commensali. La forchetta viene utilizzata solo per accompagnare il cibo verso il cucchiaio, unico utensile autorizzato. Solitamente non si usano le bacchette, a meno che non si stia mangiando un piatto Chinese-style, servito in una ciotola.

    Giappone – Qui ci si deve per forza cimentare con le temibili bacchette, visto che anche i cucchiai sono piuttosto rari. Cercate di evitare di incrociarle e non leccatele e, soprattutto, non usatele per infirlzare il cibo: questo è il modo in cui il cibo viene offerto ai defunti nelle cerimonie buddhiste, porta sfortuna. Ugualmente non ci si deve mai passare il cibo utilizzando le bacchette, altra pratica tipica delle cerimonie funebri. Se il piatto da consumare è una zuppa o una ciotola di spaghetti in brodo, è buona pratica consumarli in modo “rumoroso”: un segno di apprezzamento. La mancia, invece, è considerata scortese.

    India – Qui l’unico attrezzo utile per mangiare è la mano destra (quella sinistra è considerata impura). Le dita vengono usate anche per mischiare il cibo contenuto nel piatto e per avvicinarlo alla bocca mentre si abbassa la testa per raggiungere meglio il boccone, aiutandosi con il pollice per infilarlo in bocca. Fondamentale il ritmo, lentissimo, con cui si mangia. Finire tutto il cibo presente nel piatto è considerato cortese, sprecare il cibo è irrispettoso.

    Cina – Qui lasciare una piccola quantità di ciò che si è ordinato nel piatto è un gesto educato, come per dimostrare che il padrone di casa ti ha donato più del necessario. Le mance invece non si usano (alcuni ristoranti riportano addirittura cartelli con scritto ‘no mancia’). È maleducato prendere qualcosa dal piatto degli altri, così come mangiare troppo velocemente e non vestirsi in modo adeguato. Infine, vai contro ogni forma di educazione occidentale e rutta: è il migliore dei complimenti nei confronti del cuoco. È invece considerato disgustoso soffiarsi il naso in pubblico.

    Il resto del mondo… – Se in Italia chiedere del parmigiano da spolverizzare sul proprio pasto può essere considerato un passo falso, in Portogallo quello che non bisogna proprio chiedere sono sale e pepe (è considerato un insulto allo chef). Una mancia del 10% accomuna i due Paesi. In Germania, è buona norma schiacciare le patate con la forchetta, anziché tagliarle con il coltello (vorrebbe dire che sono troppo crude). A una cena tradizionale in Georgia, meglio aspettare i brindisi per bere il vino. E, in Corea, una pietanza offerta da una persona più anziana va accettata sempre con due mani.

    (17 marzo 2016)

    http://www.oggi.it/cucina/news-cucina/2016...-non-sbagliare/



    FONTE:
    © http://www.oggi.it/cucina/news-cucina/2016...-non-sbagliare/
     
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    La pizza più lunga del mondo



    di Fabiana Salsi


    Ci sono voluti 2000 chili di farina e 9 ore di lavoro, ma alla fine con 1853 metri di pizza, il 18 maggio i pizzaioli napoletani sono entrati nel Guiness World Record


    I napoletani sulla pizza non li batte nessuno: ora detengono anche il record mondiale della pizza più lunga del mondo. 1853,88 metri, che il 18 maggio sul lungomare Caracciolo di Napoli, durante l'evento l'Unione fa la pizza, hanno preparato 250 pizzaioli.

    Hanno seguito il rigidissimo disciplinare pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel 2010 (nella gallery sotto ne leggete le regole) e usato solo ingredienti campani DOC. Ci sono voluti 2000 kg di farina, 1600 kg di pomodoro, 2000 kg di fiordilatte, 200 litri di olio e 30 kg di basilico. Tutto impastato, condito e cotto (in 5 forni a legna) in 11 ore di lavoro. Ma alla fine l’obiettivo è stato raggiunto: con quasi 2 chilometri, i Maestri Pizzaioli hanno battuto il record di 1595,45 metri di pizza realizzati il 20 giugno 2015 lungo il decumano ad Expo, e sono saliti sul podio. A certificarlo gli ispettori del Guinnes World Record che hanno seguito ogni passaggio dall’impasto, alla stesura nelle speciali teglie traforate, fino a cottura ultimata.




    1. Gli Ingredienti Secondo il disciplinare la pizza per essere considerata «Vera Napoletana» deve essere fatta con: farina di grano tenero, lievito di birra, acqua naturale potabile, pomodori pelati e/o pomodorini freschi, sale marino o sale da cucina, olio d’oliva extravergine. Altri ingredienti che possono essere utilizzati: aglio e origano, Mozzarella di Bufala Campana DOP, basilico fresco e Mozzarella STG

    2. L'impasto Sul disciplinare sono riportate le regole e le dosi per impastare (a macchina). Precissisime (anche troppo), di certo il risultato deve essere un impasto che «deve presentarsi al tatto non appiccicoso, morbido ed elastico»

    3. Lievitazione Una volta lavorato, l'impasto per la pizza deve essere lasciata riposare per 2 ore, coperto da un panno umido, in modo che la superficie non possa indurirsi. Poi si formano i panetti che devono essere tagliati a mano dal pizzaiolo (tassativamente) , e devono pesare «tra i 180 ed i 250 gr». A questo punto si lascia lievitare ancora per 4 a 6 ore, e quindi si deve utilizzare entro le 6 ore. (Consiglio: andate a spiare di nascosto il vostro pizzaiolo per vedere se questi tempi sono rispettati, da quelli dipende - quasi - tutto).

    4. Come si prepara (a mano) e occhio allo spessore Qui il disciplinare spiega la «tecnica del polpastrello»: «Con un movimento dal centro verso l’esterno e con la pressione delle dita di entrambe le mani sul panetto, che viene rivoltato varie volte, il pizzaiolo forma un disco di pasta in modo che al centro lo spessore sia non superiore a 0,4 cm con una tolleranza consentita pari a + 10% e al bordo non superi 1-2 cm, formando così il “cornicione”».

    5. Il condimento Non è che ci si mette quello che si vuole (tipo salame e ananas o patatine!!). La pizza napoletana è in due modi soli:
    - pomodoro, sale, origano, aglio, olio (marinara)
    - pomodoro, sale, mozzarella (Bufala Campana DOP o Mozzarella STP), basilico, olio (margherita)




    6. Cottura Si cuoce solo in forni a legno, dove si raggiunge una temperatura di cottura di 485° C, essenziale per ottenere la “Pizza Napoletana” STG. Deve essere cotta in maniera uniforme su tutta la sua circonferenza e la cottura non deve superare i 60 – 90 secondi.

    7. Come si riconosce Il disciplinare dice anche questo: la vera «Pizza Napoletana» ha un cornicione rialzato, di colore dorato, morbida al tatto e alla degustazione, un centro con la farcitura, dove spicca il rosso del pomodoro e i colori degli altri ingredienti. Deve essere morbida, elastica, facilmente piegabile, morbida al taglio, sapore caratteristico, odore caratteristico, profumato, fragrante! WoW

    Cosa ne è stato della lunghissima pizza? È stata donata ai senza tetto e i bisognosi della città grazie all'impegno di associazioni locali e Croce Rossa.

    La manifestazione è stata promossa da Pizza Village, con il Patrocinio del Comune di Napoli e della Fondazione Univerde ed in collaborazione con l’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, , promotori della candidatura dell'arte della pizza partenopea a patrimonio Unesco.

    (18.05.2016)

    www.vanityfair.it/vanityfood/food-n...ga-mondo-napoli


    FONTE:
    © www.vanityfair.it/vanityfood/food-n...ga-mondo-napoli


    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:05
     
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    Niente curry, siamo inglesi.
    L'inarrestabile declino di una tradizione (importata)


    Chicken-Tikka-Masala-square-FS-51


    Il Chicken Tikka Masala era uno dei piatti "nazionale" inglese, eredità del passato coloniale. Ma ormai è stato surclassato dalla pasta al pomodoro. E le classiche curry house stanno velocemente scomparendo

    di ENRICO FRANCESCHINI

    C’era una volta il ristorante tradizionale inglese. Tra poco potrebbe non esserci più. Non si tratta dei pub che servono fish and chips, sebbene anche quelli ormai stiano scomparendo, bensì delle “curry house”, i ristorantini economici e pittoreschi di cucina indiana. Cucina che fa grande e prevalente uso di curry, micidiale miscela di spezie orientali piccanti. Un ingrediente che, servito in particolare con il pollo, è stato adorato per secoli dai palati del subcontinente indiano, è stato poi importato a Londra al tempo dell’Impero britannico ed è rimasto popolare anzi popolarissimo fino a non molto tempo fa.



    Ma ora per la “curry house” è iniziato il declino. In tutta l’Inghilterra chiudono due o tre ristoranti di curry alla settimana. L’Associazione Ristoranti Asiatici prevede che ne chiuderanno un terzo, su un totale di 4 mila, entro i prossimi due anni. I motivi sono molteplici. Da un lato si sono evoluti e sono cambiati i gusti del pubblico: una volta il ristorante indiano, come e più di quello cinese, era l’unica alternativa esotica a una gastronomia inglese che non era molto eccitante, mentre oggi la globalizzazione ha portato a Londra e in ogni altra città del Regno Unito tutti i tipi di cucina del mondo, non solo delle varie nazioni ma perfino delle singole regioni, come prova il fatto che ormai nella capitale non si va più a mangiare semplicemente in un ristorante italiano ma in un ristorante toscano, veneto, pugliese, calabrese e così via. Dall’altro è cambiata anche la percezione del ristorante indiano, non più visto come un posto dove mangiare piatti gustosi con pochi soldi ma a sua volta diventato più raffinato, specializzato e costoso. “Quando arrivai in Gran Bretagna una decina d’anni fa, pensai che c’erano non più di quattro o cinque grandi ristoranti di cucina indiana”, dice al Guardian un famoso chef di Nuova Delhi. Adesso di grandi ristoranti indiani ce ne sono di più. Ma ci sono meno “curry house”.


    Un’ulteriore ragione è che, non solo calano i clienti, calano anche i cuochi. Nuove leggi per limitare l’immigrazione hanno reso più difficile ottenere un visto per venire a fare questo mestiere nel Regno Unito dalle regioni asiatiche famose per saper cucinare il curry, al primo posto il Bangladesh, da cui provengono l’80 per cento dei cuochi di questa pietanza. Le norme richiedono che lo chef in questione possa guadagnare almeno un salario di 35 mila sterline l’anno, mentre la media reale dei guadagni della categoria è tra 22 mila e 25 mila, appena al di sotto del reddito medio nazionale. La popolazione britannica di origine asiatica era stata invitata dal fronte della Brexit a votare per l’uscita dall’Unione Europea, nel referendum del giugno scorso, con lo slogan “salvate la curry house”: e il 30 per cento circa ha effettivamente votato così, pensando che sarebbero arrivati meno immigrati dall’Europa e ci sarebbe stato più posto per quelli dalle ex-colonie di Londra. Ma adesso hanno scoperto che non è così.

    Un altro motivo ancora è che i giovani, i figli o nipoti dei cuochi e ristoratori di curry che nel dopoguerra aprivano i loro locali in tutta l’Inghilterra, non vogliono ritrovarsi tra i fornelli a odorare di cipolla: scelgono altre occupazioni, che ritengono più socialmente prestigiose. E una motivazione finale è che le grandi catene di supermarket offrono piatti al curry, già pronti e confezionati, pronti per il forno a micro onde e poi per portarli in tavola, alla metà o a un terzo del prezzo sul menù, pur non dispendioso, di una curry house. Se si può mangiare pollo al curry per 3 sterline a casa propria, perché spenderne 6 o 9 per mangiarlo al ristorante? Così il tramonto del curry è in realtà soprattutto il tramonto della curry house, anche se pure al supermercato il pollo al curry non è più il piatto maggiormente venduto: oggi lo hanno surclassato gli “spaghetti alla bolognese” (anche se un bolognese li chiamerebbe “al ragù”).


    Sommati insieme tutti questi fattori, si può dire addio a una vecchia tradizione. Appena quindici anni fa il ministro degli Esteri britannico Robin Cook fece un famoso discorso in parlamento dichiarando che il “chicken tikka masala” era diventato il piatto nazionale britannico, la prova della capacità di questo paese di “assorbire l’influenza esterna e adattarvisi”. In effetti anche il curry si è adattato agli inglesi, servendolo in una forma meno ferocemente piccante di come viene servito nelle case del golfo del Bengala. Ma adesso un settore che impiegava 100 mila persone, con un giro d’affari di 4 miliardi di sterline l’anno, è sul viale del tramonto. Il piatto nazionale britannico, secondo l’ufficio statistiche, oggi è la pasta al pomodoro.



    © Riproduzione riservata 13 gennaio 2017, www.repubblica.it

    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:03
     
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    CIBO DA FIABA

    Fiabe-Hansel-Gretel

    di Rosa Tiziana Bruno

    Il tema del cibo nella letteratura fiabesca è distinto in due parti: da un lato il cibo come nutrimento vero e proprio, dall’altro i valori simbolici del cibo, preso come elemento individuale (es: la mela di Biancaneve). E proprio dalle fiabe inizia il cammino (cammina, cammina…) attraverso le storie ed il loro rapporto con il cibo.
    Nel racconto Brodo di stecchino di Hans Christian Andersen, nel corso di un ricco banchetto alla corte del re dei topi, il sovrano promette che sarebbe diventata regina colei che avesse potuto produrre, nel giro di un anno e un giorno, la ricetta del titolo che allude.
    Com’è facile intuire, l’allusione è ad una tavola povera e ad una cucina in grado di ottenere qualcosa anche dal nulla; quattro sono le topoline che decidono di cimentarsi nell’impresa. La seconda topolina racconta di essere nata nella biblioteca di un castello:

    “a casa, in biblioteca, mangiai subito un intero romanzo, cioè la parte molle di esso, quella vera, lasciando invece da parte la crosta, cioè la rilegatura. Quando lo ebbi digerito, e ne ebbi mandato giù anche un altro, sentii rimescolarmi tutta dentro; mangiai allora un pezzetto di un terzo romanzo, e così fui poeta. Allora pensai a tutte le storie che si sarebbero potute ricollegare a uno stecchino, e mi vennero in mente tanti stecchini, bastoni e bastoncini.”

    Se da un lato i cibi nelle fiabe hanno spesso un valore magico finalizzato al raggiungimento di un obiettivo, (ricchezza, amore, fama, fertilità) attraverso l’eliminazione di ostacoli in sequenza, dall’altro esistono concreti esempi giunti sino ad oggi di ricette provenienti dal mondo degli esseri magici, come i biscotti di burro e zucchero della fata Melusina, chiamati Madri Lusine, che si preparano il lunedì successivo la Pentecoste alla fiera della Font-de-Ce, nei pressi di Lusignan.
    Fame ed eccessi gastronomici rappresentano, nella realtà e quindi nelle fiabe, due poli opposti dell’esistenza. Le fiabe sono spesso storie di poveri alla ventura, alla perigliosa ricerca della tavola imbandita. I protagonisti vengono mandati ad affrontare foreste e montagne impervie orchi inganni e re crudeli. Spesso la sventura che dà origine al racconto è legata alla mancanza di cibo: le fiabe sono affollate di padri che non sanno come sfamare i figli, di madri che, con crudele realismo, ne propongono l’allontanamento dalla famiglia; di poveri che chiedono un tozzo di pane, di viandanti in cerca di osterie, di occhi affamati, di streghe voraci, di re mangioni. Molto significativi sono anche i riferimenti a tavole alle quali basta dire “apparecchiati!”. In virtù nella domanda di cibo, il paesaggio naturale si trasforma in paesaggio alimentare, come nel caso del paese di Cuccagna. Le fiabe si riferiscono spesso a questo paese, le cui origini letterarie sono antichissime, in cui regna la ricchezza alimentare.

    “Fiumi di farina e brodetto nero, ribollendo, scorrevano colmi tra sponde strette, con bocconi di pane già preparati e pezzetti di galletta. Lungo i fiumi, pezzi di carne farcita e rocchi bollenti di salsicce venivano ammucchiati, sfrigolanti, su grossi piatti; vi erano fette di pesce da taglio, cotti a modo, in salse di ogni sorta ed anguille con grandi contorni di bietole. C’era grano ammollito nel latte, in conchette capaci e colostro cagliato; tordi cucinati adeguatamente, calati tra boschetti di mirto ed aiuole di anemoni, volavano intorno alla bocca. I pomi, i belli tra i belli a vedere, pendevano sopra la testa, e non v’era albero che li producesse. Di queste buone cose, ogni volta che uno ne mangiava e beveva, subito ne venivano su il doppio di prima”

    Nella tradizione fiabesca il cibo sta alla base di meccanismi ideologici molto importanti: sul piano sociale rappresenta il denaro (un tempo chi lavorava veniva ricompensato con una razione di cibo), sul piano morale simboleggia il messaggio di speranza cristiana (assenza di pane terrestre, oggi, presenza di pane celeste domani).
    Se si cataloga la cucina delle fiabe per classi e condizioni sociali emergono quasi spontaneamente i modelli di alimentazione: quello della sussistenza e quello del superfluo. Qualità, metodi di cottura, modi di presentazione dei cibi variano a mano a mano che si sale sulla scala sociale. Cucina di contadini e cucina di re: quando racconta la prima, la fiaba esalta la privazione, la moderazione, e affida al sogno la compensazione delle frustrazioni; quando descrive la seconda libera una straordinaria fantasia, illustrando tavole imbandite lussuosamente e sapientemente arredate in castelli pieni di personale di servizio. Anche la preparazione della tavola rispecchia questo stato di cose. Si passa così dallo sfarzo della tavola della Bella Addormentata (in cui le posate tempestate da vetri preziosi sono contenute in un astuccio d’oro massiccio), alla modestia delle tavole dei contadini, preparate con semplici scodelle e spesso senza tovaglia. Nelle fiabe troviamo una cucina del tutto reale (e nella quale si trovano gli stessi alimenti e gli stessi sapori della realtà) ma anche desiderata, impastata di ingredienti di fantasia e di sogno.
    Le fiabe documentano anche l’importanza che la gastronomia aveva nei giorni di festa e nelle grandi occasioni. Ogni evento importante è sottolineato da un ricchissimo pranzo che ha una funzione propiziatoria. I pranzi tradizionali prevedevano nel menù buoi arrosto, ripieni di anatre e di polli, ciambelline e maritozzi. Vengono raccontate sfide gastronomiche, durante le quali venivano messi alla prova le disponibilità finanziare dei protagonisti e le loro capacità fisiche (chi mangia di più). Un pranzo, infatti, non è un semplice atto durante il quale ci si alimenta ma è un linguaggio. Le pratiche alimentari, i sistemi di nutrizione, le maniere a tavola costituiscono un modo di esprimersi attraverso il quale una società traduce le proprie inclinazioni fondamentali e rivela le proprie segrete contraddizioni.
    Insomma il comportamento alimentare è un sistema di comunicazione. I cibi non sono solo sostanze, ma implicano, fatalmente, immagini, sogni, tabù, scelte, valori. I cibi sono anche segni delle situazioni in cui vengono consumati ed è l’uso che dà il significato a questi segni . Tanto è vero che il pane nero, per anni usato per esprimere semplicità, povertà ed indigenza, (vedi: “la bella Caterina”) è oggi simbolo di raffinata agiatezza. Il pranzo ricorda, ad esempio, anche che la società è un ordine fondato sulla differenza. Il posto a tavola è determinato in base all’importanza ed ai rapporti esistenti tra chi partecipa, ad esempio, la maggiore o minore vicinanza al padrone di casa rappresenta il grado di potere del singolo. In ogni pranzo importante l’assegnazione dei posti, che segue un protocollo ben preciso, è rigorosa e molto indicativa. La tavola nelle fiabe è anche luogo di punizione e di incidenti. Il re del monte d’oro, dell’omonima fiaba dei fratelli Grimm, per punire la moglie infedele le fa scomparire le vivande, dopo aver indossato un mantello che rende invisibili. Nella “bella addormentata nel bosco”, per un posto non segnato a tavolo, la principessa rischia addirittura di morire. Il re e la regina dopo anni di attesa hanno avuto una figlia e festeggiano con un banchetto sfarzosissimo il lieto evento. Purtroppo il re dimentica di far invitare una fata che vive da anni chiusa nella sua torre. Il pranzo è veramente degno di re e di fate, tanto che i posti a tavola sono stati apparecchiati con astucci d’oro massiccio, dove trovano posto cucchiai, forchette e coltelli d’oro finissimo e tempestati di diamanti. La fata arriva e non trova il suo coperto; offesa decide di vendicarsi uccidendo la principessa. La fata più giovane riesce, però, a mitigare la sentenza, trasformando la condanna a morte in un lunghissimo sonno di cento anni.
    La preparazione della tavola, che nei banchetti regali richiede un grande dispendio di energia, a volte è magicamente semplificata: ad alcuni basta dire: “Tavolino apparecchiati!” per vedere apparire vassoi di lesso e di arrosto, vino rosso e cibi squisiti. A volte basta una tovaglia alla quale impartire una formula magica: “Apriti tovaglia”, per vedere comparire a volontà vivande che fumano ben calde. Anche il personale addetto alla preparazione della tavola muta con le circostanze: a volte sono camerieri, a volte servitori invisibili, a volte animali magici.
    Nelle fiabe vi sono alcune descrizioni che fanno pensare a vere e proprie messe in scena di cibi. Per quanto riguarda i partecipanti ai banchetti non c’è da meravigliarsi di nulla: uomini, animali, sirene,gnomi, orchi, streghe, principesse educate e raffinate e rozzi villani.
    Insomma le fiabe ci raccontato del cibo e ce ne spiegano i significati nella maniera più completa e intrigante.



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    Edited by gheagabry1 - 16/11/2023, 14:01
     
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