LA STORIA DELLA MODA

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  1. gheagabry
     
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    "...un popolo che aveva il culto della barba era quello Assiro e poi Babilonese. Portavano lunghe barbe ricciole scurite e lucidate con olii profumati. In occasioni speciali usavano poi polvere d’oro o d’argento."
    LA BARBA NELLA STORIA

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    L'uso di radersi la barba è antichissimo in Egitto, già nei monumenti delle prime dinastie le figure maschili compaiono con il volto completamente raso, e solo in tempi più recenti appare la barba, forse per influenza semitica.

    In Egitto era un simbolo divino e in definitiva di potere. I personaggi di alto rango si sbarbavano ma allo stesso tempo usavano barbe posticcie ritrovate con le loro custodie in numerose sepolture. L’unica donna riuscita a salire al rango di Faraone (Hatseputh 1480 a.C.) è spesso raffigurata con la barba.

    Nei tempi più antichi, sono barbute soltanto alcune immagini di divinità, nelle quali la barba è fortemente stilizzata. Anche i Sumeri si radevano completamente il volto. L'assenza della barba è una delle differenze più caratteristiche tra i Sumeri e i Semiti che fin dal IV millennio a.C. occuparono le sedi dei Sumeri nella Babilonide e nella Mesopotamia. I Semiti sono sempre rappresentati barbuti, sia nei monumenti egiziani (un rilievo di Sesostri I, 1906-1887 a. C.) sia in quelli babilonesi e assiri. Tanto gli dei quanto i sovrani assiri compaiono con lunghe barbe fluenti e spesso ricciute, accuratamente pettinate e squadrate all'estremità, con baffi spuntati e spesso accorciati al disopra del labbro. I Semiti occidentali sono invece forniti di barba a punta piuttosto corta, così compaiono gli Amorriti, gli Aramei, gli Ebrei. Negli Hittiti, il labbro superiore è raso, mentre la barba, a punta, è più lunga di quella dei Semiti occidentali.

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    Molte notizie si hanno sul modo di portare la barba degli antichi Ebrei, (Antico Testamento), c'è soprattutto la rappresentazione del re d'Israele Jehu e del suo seguito nell' obelisco di Salmanassar. La barba era portata piena, e la legge religiosa vietava di tagliarla sulle guance. Il tagliarsi la barba, come il radersi il capo, era segno di lutto (Geremia, XLI, 5), e il tagliarla ad altri costituiva ingiuria suprema. Il re degli Ammoniti fece tagliare la barba agli ambasciatori di David, la conseguenza fu la guerra. Inoltre colui che si taglia la barba è minacciato da Dio, come scritto nei libri profetici, "segno dell'ignominia in cui cadrà il popolo ribelle ai comandi divini (Isaia, VII, 20, XV, 2; Geremia, XLVIII, 37; Michea, I, 16)". Lo stesso significato che ha tuttora il taglio della barba presso gli Arabi.
    Anche gli Arabi portarono fin dall'età preislamica la barba piena, e tale la portano tuttora i beduini, che la radono soltanto al disotto del mento. Nella sunnah musulmana è prescritta la barba accorciata fino alla lunghezza di una spanna e sfoltita, ma non rasa, sulle guance; i baffi devono essere spuntati e accorciati sopra il labbro. I dotti solevano accrescere la propria importanza nel portare la barba lunga e prolissa, il che ha generato il detto popolare: "lungo di barba, corto d'ingegno".
    L'uso di radere la barba conservando i soli baffi, lunghi e spioventi, è stato introdotto nell'Islam dai Turchi. Ii sultani ottomani portarono a lungo la barba secondo la moda araba. Il primo a raderla fu Selim I (1512-1520), che si scusò dell'averlo fatto con l'osservare "che in tal modo il suo Gran visir non avrebbe avuto luogo per dove afferrarlo...".
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    L'uso di radersi fra i Greci comincia nell'età macedonica. Antichissimo, invece, è l'uso di farsi i baffi. Nelle più antiche figurazioni, come nella maschera d'oro dell'età micenea con barba rotonda ma con labbro superiore rasato.
    Nei poemi omerici i baffi non sono mai nominati. In una moda arcaica, si nota nella più antica scultura e pittura, i baffi o mancano o sono estremamente ridotti, e talvolta è raso anche il labbro inferiore in modo da lasciare il mento rimane scoperto. Nell'età classica questa moda è scomparsa, rimane solo una sopravvivenza formale fra gli Spartani, ma non è credibile in quanto non sono o rare le allusioni alla loro folta barba e non si capirebbe il silenzio delle fonti su di un particolare che avrebbe colpito per la sua stranezza. Personaggi come gli strateghi ateniesi Temistocle, Pericle o Milziade ma anche gli spartani Pausania e Leonida portavano una corta barba.
    L'uso di radersi cominciò nell'età macedone. Alessandro Magno volle i suoi soldati ben sbarbati; non per motivi estetici o di igiene ma non volle che la barba potesse diventare un appiglio per i nemici durante le battaglie. Vi erano naturalmente delle eccezioni, ad esempio erano barbuti i vecchi e i filosofi. Questa eccentricità dei filosofi trovò imitatori anche nelle età successive, specie fra i cinici e gli stoici e la barba del filosofo divenne proverbiale.




    I Romani nell'antichità erano barbuti. Solo nel III sec. a.C., nel periodo della II guerra punica, cominciò a diffondersi l'uso di radersi, l'uso del rasoio è antichissimo. Scipione Africano fu il primo che cominciò a farsi la barba tutti i giorni, secondo una notizia tramandata da Plinio (Nat. Hist., VII, 211), che però va accolta con riserva, tenendo conto della tendenza della tradizione a far di Scipione l'iniziatore di tutte le raffinatezze greche.
    Il primo personaggio storico la cui effigie appare rasata nelle monete è Marcello, il conquistatore di Siracusa. Tuttavia fra l'uso romano e il moderno vi sono delle differenze: si faceva crescere liberamente la prima pelurie che spunta sulle guance del giovinetto sinché non avesse preso l'aspetto di vera barba; allora, ma non prima, si tagliava; questo era, come per i Greci, un giorno di festa. Anche dopo il taglio della prima barba, si continuava di regola a portar una barbetta (barbula) sino ai 40 anni. Da quest'uso derivano alcune espressioni che parrebbero incomprensibili a chi non sapesse che i Romani associavano alla barba l'idea di giovinezza ad esempio Giovenale (VI, 105) radere guttur coeperat "cominciava ad aver la sua età" (ibid., 215) iam senior cuius barbam tua ianua vidit "vecchio ormai, ma tu l'hai conosciuto giovane". . La barbula con cui è rappresentato Augusto dopo la sua apoteosi è simbolo di eterna giovinezza. L’imperatore Nerone già se la faceva crescere sul collo in quanto non amava che il coltello del barbiere (il tonsor) si avvicinasse a quella parte delicata del corpo.
    Con l'imperatore Adriano, costretto a portare la barba lunga per nascondere i difetti del volto, cessò la moda di radersi, ma per poco tempo fino all'età di Costantino in poi si tornò all'uso di radersi. Degl'imperatori posteriori a Costantino solo Giuliano ebbe la barba.

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    Nel periodo medioevale la barba segnala le differenti fazioni religiose. Se in oriente gli islamici la portano in quanto si narra che Maometto fosse barbuto. In occidente, dopo lo scisma del 1035, diventa caratteristica degli Ortodossi mentre i Cattolici si sbarbano fino al sacco di Roma. È infatti papa Clemente VII che inaugura in segno di lutto una nuova serie di pontefici barbuti dopo che la città sacra è profanata dalle truppe lanzichenecche.
    In Occidente, i monaci barbati sono meno frequenti. Nella Regula di S. Benedetto, molto minuziosa e precisa, non se ne parla. Tuttavia in una delle più antiche miniature di Monte Cassino i monaci appaiono con barba corta.
    In età carolingia e posteriore troviamo molti ritratti di monaci col volto rasato alcuni si adornano di una corta barba che frangia appena il mento. Molte figurazioni dei frati minori li mostrano con la barba. È tradizionale e proverbiale la barba dei cappuccini. Vi sono però talune famiglie francescane come S. Antonio di Padova e i suoi seguaci sono sbarbati. L'ordine domenicano aborra anch'esso dalla barba. Più tardi, nel Cinquecento, non vi saranno regole fisse per l'ordine gesuitico. Il clero secolare si è quasi sempre raso. Fino al sec. XVI numerosi concilii vietano la barba agli ecclesiastici. Le immagini di pontefici del Medioevo sono in maggioranza a volto rasato. Anche i papi del sec. XV sono quasi sempre rasati. Nel Cinquecento invece la moda della barba riaffiora come in Giulio II, Paolo III, Sisto V. Nel sec. XVII i papi sono spesso barbati. Un'aristocratica barbetta a fiocco possiede Urbano VIII. Nel XVIII i papi ordinariamente non si discostano dalla moda contemporanea. Nel XIX tornano a radersi ristabilendo la tradizione clericale. Uno dei tanti episodi della rasura ecclesiastica è quello di Clemente VII che, nel 1527, per il dolore del Sacco di Roma, si lasciò crescere la barba. Persino la liturgia si occupa della barba, poiché in alcuni Libri ordinum o "Pontificali" è descritta la cerimonia del primo taglio della barba nei monasteri, cerimonia che sembra sostituire quella della depositio barbae pagana che dava luogo ad offerte alle divinità.
    Tra le suppellettili trovate nelle tombe dei popoli slavi fra il secolo IX e l'XI, non appare il rasoio. Ma sappiamo che lo s'importava dai territori romani fra il sec. I e il V d. C. e la parola che significa "radersi" (briti) è slavo comune ed antico.
    Le razze germaniche hanno tenuto in onore i mustacchi e la barba. Lo testimoniano i vari storici dell'antichità, e lo si legge anche le antiche saghe nordiche. I re longobardi avevano la barba come testimonia la lamina di Val di Nievole ove re Agilulfo ha una barba maestosa. Teodorico, re degli Ostrogoti d'Italia, portava la barba, e così pure Alarico e Clodoveo. Un episodio singolare è quello di carattere leggendario relativo a Clodoveo che mandò ambasciatori al visigoto re Alarico per pregarlo di venirgli a toccare la barba in segno d'alleanza. Ma il re prese gli ambasciatori per la barba. Allora Clodoveo con i suoi baroni giurarono sulle loro barbe di vendicare l'offesa. Queste testimonianze contrastano con l'altra più positiva di Sidonio Apollinare il quale dice che i Franchi avevano piccoli mustacchi accomodati col pettine:.... vultibus undique rasis - Pro barba tenues peraxantur pectine cristae (Carmen, V). Anche le raffigurazioni sulle monete non ci mostrano affatto queste barbe favolose che l'immaginazione dei narratori di gesta molto posteriori attribuì anche a Carlomagno.

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    I ritratti di Carlomagno lo mostrano con la barba corta e i baffi spioventi. Così è nel ritratto musivo del triclinio lateranense. Andando a Roma, egli cercò di conformarsi agli usi della nobiltà locale.
    I primi Capeti sui sigilli portano la barba e quelle di Roberto, Enrico I e Filippo I sono abbastanza lunghe. Ma alla fine del sec. XII il favore per la barba vien meno. In tutte le figurazioni cavalleresche, il cavaliere ideale, fiorente di giovinezza, ha il mento raso e la barba è data a qualche personaggio regale, ad esempio Artù. All'opposto, la si vede nei contadini e nei pellegrini. Nella seconda metà del sec. XIV si ricominciò progressivamente a sopprimere la barba e sotto Carlo V di Francia la soppressione era un fatto compiuto. Ai tempi di Carlo VIII e Luigi XII gli uomini continuarono a radersi. Solo Francesco I, salendo al trono, rimise in vigore la barba. Enrico III si rasava le gote e portava mustacchi e mosca.
    Anche in Italia nel Trecento non portavano barba che i magistrati e i vecchi. Verso la metà del secolo l'uso della barba a pizzo si diffuse anche tra le plebi.
    Gli Inglesi hanno portato più a lungo la barba ed anzi Mathieu Paris parla della barba come caratteristica assoluta. Più tardi, nell'età Elisabettiana, soldati e cortigiani erano tutti barbati.

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    Gli uomini del Cinquecento avuto la barba in tutte le forme: a pizzo, a mosca, a pappafico, a massa, a scodella, forcuta. Raffaello, che sembrerebbe consacrato alla rasura giovanile, ha invece un ritratto - di G. Bonasone - con barba, Bramante si radeva, Michelangelo si era coltivata una folta barba che aggiungeva una nota severa al suo volto. Anche i poeti e i letterati in genere si adornano di nobili barbe. Ne ha una aristocratica Ludovico Ariosto e quella sottile di Torquato Tasso accentua il languore del suo pallido volto. Una barba satiresca ha Pietro Aretino nel ritratto di Tiziano.
    Poco piú tardi, nel `600, in Inghilterra prendono piede barba e baffi appuntiti che approdano anche sul continente un secolo dopo (la cosiddetta barba alla Van Dyke). In questo periodo nasce la mosca come simbolo di virilità.
    Luigi XIV di Francia aveva la mosca. Nel regno seguente si prese il vezzo d'incipriare la barba. Sotto Luigi XVI e sotto la Repubblica tutti si rasavano. La restaurazione rispettò la moda e il mustacchio fu permesso ai soli militari. Dopo la rivoluzione del 1830 tornarono in onore mustacchi e mosca. Solo i notai, i commedianti e le persone di servizio erano sbarbati con brevi mustacchi: gli avvocati dovevano andare completamente rasi. Durante il Risorgimento, portare la barba e i baffi fu considerato come dimostrazione di liberalismo: nel regno delle Due Sicilie la polizia talvolta faceva radere per forza i contravventori e in qualche caso chi portava la barba intera o a pizzo fu imprigionato. I partigiani dei governi portavano le basette lunghe con o senza baffi, o la barba a collana, oppure si radevano interamente.
    Ma il vero secolo della barba e anche dei baffi è il 1800. Il ceto medio avanza e la tecnica ha fatto passi da gigante. I prodotti per la cura di barba e baffi sono alla portata di tutti e nascono numerose case produttrici tuttora attive. Se le basette vengono portate lunghe è ai baffi che viene portata maggior attenzione e cura. Diventano infatti imponenti e tipicamente arricciati all’insù. Di giorno ricevevano cure particolari con creme ed unguenti mentre di notte veniva applicato il piegabaffi, una striscia di stoffa che, attaccata alle orecchie, permetteva di tenerli distesi.

    ...i barbieri...

    unnamed_0Il rasoio è oggetto antichissimo. Se ne hanno degli esemplari fra i reperti archeologici delle popolazioni italiche primitive. Anche Omero lo nomina. Il rasoio antico (come, per una notevole analogia, il trincetto del calzolaio) ha forma di mezzaluna. Già nell'età classica vi sono fra i Greci delle botteghe di barbiere, nonostante che l'uso di radersi sia raro e screditato, ma ai barbieri non mancavano clienti, perché oltre a curare i capelli e la barba, facevano servizio di callista e di manicure. Divenne luogo di ritrovo in preminenza sulle altre botteghe, quando, nell'età alessandrina, venne la moda di radersi la faccia. Teofrasto con celebre frase chiamò la bottega del barbiere "banchetto senza vino", un posto cioè, in cui, tranne che il bere, si fa quel che si fa nei simposî, dove ognuno vuol dir la sua.
    Secondo Varrone, che afferma di aver tolto la notizia da un documento di Ardea, i primi barbieri vennero in Italia dalla Sicilia nel 300 a.C. A Roma vi erano due tipi: il barbiere pubblico, che faceva il suo mestiere in una botteguccia, o andava in giro per le case (circitores). Nella bottega si davano ritrovo i vanesi che si consultavano a lungo sui minimi particolari della loro toilette (Sen., Ep. 114, 21). Che la bottega del barbiere fosse nido di pettegolezzi è noto fin dall'antichità " lippis et tonsoribus"... e il barbiere privato, uno schiavo addetto a questo lavoro.
    La bottega del barbiere sia in Grecia sia in Roma ha un arredamento civettuolo.. vi sono grandi specchi, delle insegne e dei vasetti di profumeria. Dentro la bottega sono esposti gli strumenti del mestiere, forbici, rasoio, pettine, le pinzette depilatorie (volsellae), e unguenti d'ogni specie per profumare, per tingere, e anche per depilare (dropax).
    Nel Medioevo in Italia già nel sec. XIII i barbieri esercitavano il loro mestiere in bottega, mentre nelle città di Francia lavoravano sulle pubbliche piazze e sull'angolo delle vie sin quasi al sec. XVIII. In un inventario della Sede Apostolica nel 1295 si ricordano gli attrezzi da barbiere.
    La figura del barbiere è delle più complesse, poichè aveva un compito igienico ed estetico.


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    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 18:26
     
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    I primi pantaloni della Storia



    Gamba stretta, cavallo largo, vita bassa: se non avessero subito l'usura di migliaia di anni di Storia, sembrerebbero normali jeans da teenager. Invece i pantaloni di lana di cui stiamo parlando sono forse i più antichi mai trovati finora.
    L'indumento è stato rinvenuto in una delle tombe di Yanghai nel bacino di Tarim, nella regione cinese dello Xinjiang. Le prime analisi al radiocarbonio suggeriscono possa risalire a 3000-3300 anni fa, un'epoca in cui i pantaloni servivano - con ogni probabilità - per cavalcare.
    Prima di quell'epoca gli abitanti della zona si coprivano con tuniche, toghe e mantelli, lunghe vesti perfette per camminare, ma scomode una volta saliti in sella.

    «Durante i normali movimenti quotidiani la parte interna della gamba e il cavallo non sono esposti a costante frizione: questo diviene un problema solo quando si cavalca ogni giorno» spiega Mayke Wagner del German Archaeological Institute di Berlino, tra gli scopritori dei pantaloni.

    La scoperta avvalora l'ipotesi che ad inventare i pantaloni siano stati pastori nomadi capaci di cavalcare, e che l'innovativo tipo di abbigliamento si sia diffuso nella regione dello Xinjiang grazie a popoli a cavallo - allevatori o forse guerrieri. Nella tomba in cui è stato trovato il reperto, appartenente a due uomini sui 40 anni, sono stati rinvenuti anche una frusta, un morso per cavallo in legno, un'ascia da battaglia e un arco. La datazione è compatibile con le attuali teorie sulla nascita delle prime cavalcate, databili intorno a 4 mila anni fa.

    Gli antichi pantaloni sono fatti di tre diversi pezzi di stoffa cuciti l'uno all'altro, uno per ogni gamba e uno per il cavallo: quest'ultimo è realizzato con un tessuto diverso e più resistente, con pieghe lasciate appositamente un po' lasse (per facilitare la salita in sella e non stringere durante la cavalcata) come alcuni pantaloni che vanno di moda oggi.

    I calzoni - ipotizzano gli archeologi - dovevano risultare abbastanza scomodi una volta scesi dal destriero. Ma erano comunque, per l'epoca, finemente decorati con motivi geometrici su entrambe le gambe. «Tendiamo a sottostimare i tentativi ornamentali di migliaia di anni fa, perché raramente se ne conserva traccia» spiega Wagner «ma anche all'epoca i vestiti si distinguevano anche per stile e aspetto estetico, e non solo per comodità».



    Elisabetta Intini, focus.it

    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 18:31
     
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    Viaggio nella moda


    ..Il montgomery...


    ...Le sue origini....


    Il suo nome ha un'origine militare, perché la storia del cappotto di lana grezza chiuso di alamari va oltre la moda. Che è rimasto fedele al suo stile


    Era il 1914 quando gli uomini della marina inglese indossarono i primi Duffle coat, cappotti di lana pesante per proteggersi dai freddi venti dell’Oceano Atlantico e dei mari del Nord. Ma è durante la seconda guerra mondiale che queste giacche, che prendono il nome dalla cittadina di Duffel in Belgio, diventarono la divisa ufficiale della Royal Navy. Il generale Bernard Law Montgomery amava la versione color cammello e il cappotto si identificò a tal punto punto col suo nome che le sue truppe lo soprannominarono “Monty coat”. Si dovette aspettare la fine del conflitto perché questo indumento basico ed essenziale fosse venduto dalla grande distribuzione e diventasse un must intramontabile.


    The-Duffle-Coat-Guide


    .. Note storiche ...



    Il giaccone aveva già visto la luce ai primi del secolo scorso nell’ambiente militare, quando la Royal Navy lo adottò per i suoi marinai. Nelle traversate della Manica o nei viaggi oceanici battuti dalle gelide tempeste era considerato insostituibile, e il fatto che non vi fossero bottoni che si strappavano o si impigliavano, lo rendeva straordinariamente funzionale. Ma non avrebbe conosciuto il suo successo mondiale se non ci fosse stato Montgomery: quel soprabito, che lo stratega amava indossare quando si trovava a condurre le sue campagne nei climi più impervi, diventò estremamente popolare dal 1942. In quella data il comandante vinse la battaglia di El Alamein che segnò il punto di svolta della seconda guerra mondiale nel Nord Africa.

    Nella leggenda, sostenuta anche dalla propaganda alleata, il cappottone si lega all’immagine dell’eroe di El Alamein nato da un vescovo anglicano, un missionario laico votato alla guerra che, impegnato contro il nazifascismo, aveva rinunciato a tutti i piaceri della vita. Il tabarro con cappuccio lo accompagnò a Dunkerque, in Normandia, nell’Italia del Sud, nel cuore dell’Europa del Nord e divenne un simbolo di liberazione dalla dittatura e l’emblema dello stile dei vincitori, rude e semplice, anticonformista ma privo di orpelli. Così la sua fama non terminerà con la fine del conflitto.

    "Alla fine della guerra i cappotti non utilizzati dai militari furono venduti ai civili a prezzi molto bassi, e così è entrato di diritto a far parte dell’abbigliamento, soprattutto di quello degli intellettuali degli Anni ’50."

    Le prime fanciulle a indossare il Montgomery saranno nel dopoguerra le studentesse della Sorbona che consideravano il massimo del sex appeal essere infagottate in un abito così ricco di storia e di gloria. I militanti della campagna per il disarmo nucleare lo esibivano poi sulle piazze ghiacciate di Londra e di Parigi mentre lo sfoggiavano attori e cantanti, come Bing Crosby, e miliardarie come Charlotte Ford, nipote del magnate delle automobili, che si faceva riprendere incorniciata dal cappuccio.

    Riappare alla ribalta verde bosco o cammello, con gli alamari di cuoio, negli anni Settanta e in quelli Ottanta, come divisa dei ragazzi che se la davano a gambe di fronte ai celerini e come abbigliamento per i dirigenti politici di sinistra, da Occhetto a Natta, Craxi e Berlinguer che lo alternava con uno striminzito cappottino. Piaceva pure agli artisti, da Gino Paoli a Antonello Venditti che il suo testo d’esordio, «Sora Rosa», lo andò a proporre avvolto da un montgomery blu notte.


    .. Caratteristiche ...


    Il modello caratterizzato dalla tipica chiusura con alamari in cuoio o in legno, risulta prettamente sportivo: lungo tre quarti e tagliato dritto, è realizzato in pesante panno di lana, con maniche lunghe, carrè intero sulle spalle, cappuccio e tasche applicate. Il modello originale viene prodotto dalla casa inglese Tibbett nei colori classici blu o cammello.


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    ..IERI ...


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    Gregory Peck e David Niven


    ..OGGI ...

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    "Rivisitazione"


    Continuamente
    rivisitato dagli stilisti
    non è mai completamente
    scomparso, negli Anni ’90 è tornato
    alla ribalta grazie anche ai nuovi colori
    e ai materiali in cui è stato proposto
    (essendo fatto in lana di cammello,
    originariamente era solo
    marrone): rosso, blu
    o verde.



    Clipboardmonty1



    ...un amore, vero??!!



    Fonte:
    www.lastampa.it/2012/02/11/societa/...1uL/pagina.html,
    www.vogue.it/encyclo/moda/m/il-montgomery,
    www.clitt.it/contents/disegno-files...ella_storia.pdf,
    www.vintaged.it/il-montgomery/,
    web,www.costaneracenter.cl,blog.lyleandscott.com,cerrutiviacoladirienzo.
    it,www.vogue.it,signetseal.files.wordpress.com,www.fashionbeans.com,www.
    dailymail.co.uk,jetsetsewing.com,www.originalmontgomery.com,www.
    fly3.it,signetseal.wordpress.com,www.tirdy.it


    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 18:49
     
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  4. gheagabry
     
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    "La poesia è come la pittura e rappresenta una delle maggiori caratteristiche del vestito tradizionale giapponese, ovvero il Kimono. Il suo disegno e i motivi decorativi contengono spesso una certa iconologia, che trasmette vivacemente un messaggio o racconta una storia letteraria e la poesia.
    Il termine Kimono significa letteralmente "le cose da vestire" .."


    IL KIMONO


    Il 21 ottobre del 1600 ebbe luogo una sanguinosa battagli nella piana di Sekigahara, che portò alla vittoria assoluta di una delle fazioni, la famiglia Tokugawa. Il vincitore Ieyasu si fece incoronare shogun dall’imperatore tre anni dopo e i suoi sucessori governarono il Giappone per quasi tre secoli, dando vita al periodo EDO (1603-1867), chiamato così dal nome della nuova capitale, l’odierna Tokyo. Sulle rovine della società feudale, i nuovi governatori instaurarono un regime che assicurò al Giappone una lunga epoca di pace, ma a costo di un completo isolamento culturale e politico dal resto del mondo. Il periodo Edo segnò anche l’inizio di un profondo cambiamento nell’arte e nel modo di vestire: l’abito tradizionale, il Kosode, un predecessore del kimono, è introdotto in quest’epoca e sarà indossato fino alla seconda guerra mondiale.

    Dalla fine del XV secolo, i Giapponesi portavano il kosode che era formato da una tunica aperta a forma di T che si allacciava alla vita con una cintura. Derivato da un’antichissima sottoveste che si usava nel periodo Heian (794-1185), il kosode aveva lo stesso taglio per uomini e donne. Le donne dei samurai adottarono il semplice kosode nel periodo Kamakura (1185-1333) come abito principale, accorciandone le maniche. Questo abbigliamento divenne standard per le donne a partire dal periodo Muromachi (1333-1587) e verso la fine di questa epoca tutte le classi sociali indossavano il kosode come abbigliamento principale esterno.
    All’inizio del periodo Edo, gli abiti subirono importanti mutamenti e il kosode acquistò importanza e bellezza come abito femminile. Con il passare del tempo, si affinarono le tecniche di tintura e di decorazione, sia a colore sia con ricami, portando notevoli risultati di raffinatezza e grazia. Iniziarono a differenziarsi i motivi ornamentali degli abiti tre uomo e donne. Le decorazioni erano sempre più colorate e vistose sugli abiti femminili e e semplici su quelli maschili. Nel periodo Edo, il kosode divenne sempre più popolare e le mode iniziarono ad essere influenzate dagli stili elaborati di cortigiani, intrattenitori e attori di Kabuki, una delle principali forme drammatiche giapponesi a partire dal XVII secolo. Pertanto, lo shogunato promulgò una serie di leggi suntuarie che stabilivano quali abiti fossero appropriati per ciascun ceto sociale e in quali occasioni. I vestiti lussuosi erano riservati all’aristocrazia, la seta non era concessa alle classi meno agiate, soprattutto se contadini, e il loro uso da parte di dame di rango inferiore era punito severamente. Lo scrittore giapponese Mitsui Takafusa (1684-1748), in un testo del 1728, dedicato alla classe mercantile, narra che agli inizi del secolo la moglie di un ricco commerciante di nome Ishikawa che viveva a Edo, disattendendo le norme che proibivano ai mercanti gli eccessi nell’abbigliamento, indossò vestiti di lusso. Un giorno, “incontrò lungo la strada il principe che credendo che la donna fosse la moglie di un daimyo, cioè appartenente a qualche famiglia di alto rango, si rivolse gentilmente ai suoi servitori: scoprì però che ella era solo la moglie di un mercante. Tornato al suo palazzo, il principe fece convocare Ishikawa e la moglie; il magistrato punì la scandalosa stravaganza della donna espropriando i coniugi dei loro beni ed esiliandoli dalla città.


    Legata alle mode degli abiti era soprattutto la geisha, che letteralmente significa “artista” e che identifica una donna esperta nella danza, nel canto e nell’arte dell’intratte-
    nimento degli uomini giapponesi, ai quali serviva il tè e con i quali conversava durante cene e feste. Questo ruolo da cortigiana, che in passato era in realtà assunto da uomini, si affermò intorno alla fine del XVII scolo, nel periodo Edo; quando il secondo shogun di quest’epoca legalizzò la prostituzione, le geisha furono spesso confuse con le prostitute, chiamato geiko a kyoto, poiché abitavano nei quartieri del piacere delle grandi città. Nel XIX secolo però, con il sorgere delle case da tè e delle case chiuse, le due figure si differenziarono. Le geisha conservavano gelosamente i segreti del loro mestiere e degli abiti tradizionali. Queste vestivano inizialmente in maniera sontuosa ed erano loro a creare le tendenze. Alla fine del periodo Edo, molte donne giapponesi del paese tentarono di emulare gli abiti sfarzosi delle geisha, spesso riprodotti in stampe; in occasioni importanti queste artiste indossavano un abito simile al kimono, chiamato susohiki, il quale aveva l’orlo leggermente imbottito in modo da ricadere a terra elegantemente e creare uno strascico. Questi vestiti avevano poi motivi inusuali, che si differenziavano dalle solite peonie e fiori di pruno che abbondano sui kimono delle altre donne. La differenza, però, era soprattutto nel modo di indossare questi abiti: la geisha tirava indietro il colletto del kimono fino a scoprire tutta la nuca, poiché questa parte del corpo era considerata un punto focale dell’erotismo giapponese. Sempre per perseguire questo intento di mostrare la nuca, nel periodo Edo nacquero inoltre acconciature molto seducenti, elaborate con spilloni, nastri, fiori e pendenti e identificate con un nome.

    Per quanto riguarda gli uomini, il personaggio più caratteristico dell’epoca era il samurai. Oltre al codice di condotta, chiamato bushido, erano rigidamente stabiliti anche gli abiti di questi guerrieri, erano composti da due parti principali: ampi pantaloni, detti hakama, un gilet con le spalle molto larghe, denominato kataginu, e una giacca leggera di seta, chiamata haori, indossata anche sopra il kimono per proteggerlo. Questo completo era conosciuto all’epoca come kamishimo ed era decorato con motivi piccoli e sobri in modo da renderlo poco appariscente. Nell’abito maschile era anche ricamato lo stemma familiare, detto kamon, che indicava il rango di colui che indossava il kamishimo e compariva in genere nella bandiera e nell’armatura, per distinguere la propria famiglia dalle altre. Di cotone o di seta, l’abito del samurai non era completo senza la katana, la lunga spada della classe guerriera. Inoltre, nel periodo Edo i samurai portavano un’acconciatura chiamata chomage, che originariamente manteneva la stabilità dell’elmo in battaglia. Consisteva in un taglio che faceva risaltare la fronte rasata e i capelli rimanenti, che venivano unti, erano raccolti in una coda molto alta che ripiegata formava un ciuffo cadente.

    I Giapponesi appartenenti alle classi inferiori erano invece, secondo le norme, soggetti a restrizioni sugli indumenti. Poiché era vietato utilizzare tessuti lussuosi per i loro abiti, vi erano zone del Paese nelle quali gli abitanti possedevano solo un abito di canapa per l’estate e un altro di carta per l’inverno. Gli abiti di carta, washi in giapponese, erano di uso comune e si estesero in tutto il Paese alla fine del periodo Edo. Erano infatti leggeri, lavabili, abbastanza resistenti e più caldi dei vestiti in cotone. Furono fabbricati fino alla Seconda guerra mondiale e ancora oggi esistono alcuni artigiani che li producono. I contadini ricorsero anche a materiali poveri, meno elaborati, come giunchi e la paglia, con la quale realizzavano i tipici mantelli per ripararsi dalla pioggia, chiamati mino.
    (Irene Seco Serra, Museo dell’abito, Madrid – Storica settembre 2014)
     
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  5. gheagabry
     
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    I vestiti più memorabili della storia del cinema

    Il sito Flavorwire ha compilato una lista dei dieci vestiti femminili più memorabili della storia del cinema, quelli che essenzialmente sono diventati delle icone. Flarvowire ha scritto di avere pensato alla lista dopo la morte dell’attrice svedese Anita Ekberg, diventata famosa in tutto il mondo soprattutto per la scena del film di Federico Fellini “La Dolce Vita” nella quale fa il bagno nella fontana di Trevi con Marcello Mastroianni e un lungo vestito nero. Alcuni vestiti scelti da Flavorwire sono molto famosi: c’è per esempio il vestito bianco di Marilyn Monroe in “Quando la moglie è in vacanza”, che viene sollevato a causa dell’aria che esce da una grata per terra. Ci sono anche il tubino nero di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”, disegnato dallo stilista francese Hubert de Givenchy; il completo da bambina di Judy Garland nel film “Il mago di Oz”; e il vestito da cocktail bianco che indossa Liz Taylor in “La gatta sul tetto che scotta”, e del quale l’attrice richiese una copia da indossare una volta finito di girare il film.
    Tra i molti vestiti indossati da Vivian Leigh in “Via col vento”, Flavorwire ha scelto quello di velluto verde, che fu studiato appositamente per abbinarsi al colore degli occhi di Leigh e alle tonalità del Technicolor, la tecnica cinematografica per fare film a colori utilizzata. A quello che indossa Rita Hayworth in “Gilda” si ispirarono gli autori di “Chi ha incastrato Roger Rabbit” per disegnare il personaggio di Jessica Rabbit, mentre nella lista c’è anche il vestito dell’attore e cantante americano Divine nel film “Fenicotteri Rosa”, in cui lui interpreta una drag queen.
    (www.ilpost.it)





    Jean Harlow, Pranzo alle otto

    Un abito bianco di raso tagliato in sbieco e capelli bianchi decolorati trasformati Jean Harlow in solitario e viziati Kitty Packard nel 1933 del Pranzo alle otto . L'abito si dimostrò così popolare che le copiature erano semplicemente chiamati "abiti Jean Harlow." Era un vestito cucito addosso all' attrice che nelle pause del film non poteva sedersi talmente era attillato.




    Rita Hayworth, Gilda

    Jessica Rabbit ha rubato il suo look a Rita Hayworth in Gilda. Designer di Jean Louis, il vestito ha giocato un ruolo fondamentale nel plasmare l'immagine alla moda della star In Gilda scena più memorabile è la Hayworth che canta "Put the Blame on Mame", mentre toglie i guanti e li lancia sulla folla.




    Vivian Leigh, Via col vento

    E 'difficile scegliere un vestito preferito tra il numero di velluto bordeaux che la splendida Vivian Leigh indossa in Via col vento e il vestito verde.

    Il vestito, un simbolo della volontà di Scarlett per sopravvivere, è stato portato in tre scene: la scena in carcere in cui Scarlett chiede Rhett l'assistenza finanziaria, la scena in cui Scarlett cammina per le strade di Atlanta con Mammy, e la scena in cui Scarlett si riunisce Frank Kennedy.
    Il colore del vestito, del designer costumista Walter, era quello degli occhi di Vivien Leigh e doveva essere conforme alle specifiche della Technicolor. Inoltre, il vestito doveva sembrare come se fosse fatto coi tendaggi a Tara.





    Marilyn Monroe, la moglie è in vacanza

    L'abito icona è del 1955 dal film di Billy Wilder, The Seven Year Itch , con il designer di William Travilla, Lo indossa la sinuosa Marilyn Monroe. L'immagine di Marilyn su una grata della metropolitana in un abito da cocktail color avorio, con la gonna svolazzante è uno dei momenti più rappresentati del cinema. Wilder aveva, originariamente girato la scena in Lexington Avenue a 52a a Manhattan.


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    Elizabeth Taylor, La gatta sul tetto che scotta

    Una variazione sul vestito Marilyn, un vestito bianco di chiffon, da cocktail indossato da Elizabeth Taylor nel film. E' stato molto amato dall'attrice, che aveva fatto una copia per sé.


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    Judy Garland, Il mago di Oz

    Il famoso abito a quadretti, Technicolor nel Mago di Oz, è il più innocente dei vestiti al cinema e ha attraversato diversi cambiamenti prima che i creatori stabilissero la versione da schermo.


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    Audrey Hepburn, Colazione da Tiffany

    Il più grande tubino nero di tutti i tempi, Audrey Hepburn sembrava come una regina nel raso Givenchy abito italiano. In primo piano nella scena di apertura del 1961 di Colazione da Tiffany , il vestito fu modificato dalla costumista Edith Head, poiché mostrava troppo la gamba per i produttori.



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    Divine, Pink Flamingos

    "Tutto ciò che serve per un film è una pistola e una ragazza", disse Godard fu caso di John Waters ' Pink Flamingos , una drag queen con una pistola.



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    Michelle Pfeiffer, Scarface

    Un aggiornamento sul classico sulle baby di gangster, il vestito di Michelle Pfeiffer in Scarface lasciato poco all'immaginazione.



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    Sharon Stone, Basic Instinct

    Sharon Stone ha giocato un gioco perverso di donna fatale durante la scena dell'interrogatorio in Basic Instinct , indossando un abito bianco che trasudava sex appeal. "Pensavo che i costumi e il look del film erano estremamente classici" ha detto il costumista e progettista Ellen Mirojnick "L'atmosfera contemporanea del film è ancora più contemporanea. Si tratta di un pezzo senza tempo."



    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 19:17
     
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    "A' sottili cascan le brache."
    (proverbio toscano)

    LA STORIA DEI PANTALONI


    Il termine "pantalone" venne usato dai francesi per una specie di pantalone largo in uso presso i veneziani, derivandolo da quello dell'omonimo personaggio della Commedia dell'arte "Pantalone". Il termine calzone deriva anch'esso dal francese chausson e caleçon, come accrescitivo di calceus, "calzatura". Il termine brache deriva invece dal celtico o dal germanico, attraverso il latino bracæ e più tardi bragæ, usato dagli antichi romani per designare un tipo di pantalone in uso presso i popoli orientali e quello in uso presso i popoli barbari, soprattutto germani.
    Probabilmente nati come indumento per cavalcare, i pantaloni fecero la loro comparsa in Persia molti secoli prima di Cristo. I persiani furono molto abili a conciare le pelli rendendole morbide e duttili. Nel bacino del Mediterraneo i pantaloni comparvero molto più tardi, dopo le conquiste romane in Gallia: i barbari usavano, per difendersi dal freddo, lunghi tubi che coprivano le gambe, i latini furono talmente sorpresi da definire la regione “Gallia bracata”. I popoli nordici, Celti, Britanni, Germani, Galli portavano abitualmente questi indumenti. Le antiche brache erano lunghe e larghe, di panno o di pelle conciata, fermate attorno alle gambe da lacci incrociati e tenute in vita da lacci di cuoio. Un modello chiamato hosa veniva indossato dai germani e aveva la particolarità di racchiudere il piede ed i lacci erano incrociati fino al ginocchio.

    Gli antichi romani li considerarono un’abitudine incivile e volgare. Nonostante questo, per la loro grande praticità le brache saranno ben presto adottate nelle varie provincie dell’impero, anche se diverse leggi le proibiranno come indumenti indecenti. I romani nel loro grande impero poterono vedere anche quelli indossati dagli schiavi orientali. I persiani, indomiti cavalieri, indossavano pantaloni in cuoio morbidissimo e decorato, di sapiente tecnica sartoriale. Gli anaxyrides, i raffinati calzoni attillati tenuti da un sottopiede.
    Dal XIII secolo i pantaloni definirono la diversificazione, nel modo di vestire, fra uomo e donna sancendo le braghe come l’emblema incontrastato di virilità. Le calzesolate attillate furono due tubi di tela, prima in panno poi in maglia, lunghe
    fino a coprire il piede e provviste di suole, spesso di diverso colore. Arrivano sino all’altezza dell’inguine dove si raccordano al farsetto per mezzo del braghere, cintura con cordoncini e nastri passanti attraverso gli occhielli.
    Le due parti separate vennero poi unite dal triangolo di tessuto che copriva i genitali, la cosiddetta braghetta, portata in vista dai giovani che nel XIV secolo, soprattutto in Italia, che la indossavano con farsetti e zuparelli cortissimi, suscitando scandalo. L’uso della braghetta rimase in uso per tutto il 500, assunse la forma di un astuccio penico spesso imbottito, a forma conica, evidente simbolo fallico, che fuoriesce dal volume dei calzoncini che ricoprivano la parte alta delle calze. Scomparse le calzesolate, fino alla metà del XVII secolo, le brache assunsero le forme più svariate in base alla nazione di appartenenza: calzoncini a sbuffo, stretti e corti, oppure larghissimi gonfi e arrotondati, a palloncino, a meloncino, a zucca o a pera. Si diffuse la moda della foggia “accoltellata”, la cui origine risale ai Lanzichenecchi scesi dalle Alpi. Il voluminoso modello era costituito da tante strisce di tessuto prezioso, trattenute in vita da un fascione e intorno alle
    gambe da bande più o meno alte, lunghe appena sotto l’inguine, a mezza coscia o al ginocchio. Grandi sboffi di fodera setosa, in colore contrastante o bianco, fuoriuscivano dalle fenditure, mantenendo la forma gonfia e arrotondata.
    Dopo la voga eccentrica del "rhingrave", - un calzone a pieghe lungo al ginocchio, guarnito da nastri e fiocchi, e tanto largo da sembrare una gonna -, la moda dei calzoni creò il modello delle culottes.
    Alla corte francese, dalla fine del XVII secolo, si diffonde l’uso dell’habit à la française, giustacuore, veste e culottes, divisa indiscussa della nobiltà fino alla Rivoluzione francese, evidenziava soprattutto la giacca e il gilet che erano completamente ricamati con fili d'oro e d'argento e di altri fili multicolore, paillettes, e gemme artificiali. Le culottes erano comodi calzoni muniti di tasche, di linea aderente, arrivano sotto il ginocchio con una fascetta fermata da fibbie o bottoncini, erano portati sopra alle calze di seta. Durante tutto il Settecento le culottes, che i veneziani chiamarono bragoni, si confezionavano in velluto, raso damascato o marezzato, in tinta unita, in tono o in contrasto con la marsina e il gilet. Verso la fine del Settecento, in Inghilterra le culottes si chiamarono breeches, erano molto aderenti, in jersey di seta, ma anche in panno di lana e in pelle di daino color bruno per le battute di caccia; poi diventarono obbligatoriamente bianche, sempre abbottonate sotto il ginocchio, fermate da un fiocco scuro, tagliate alte in vita e con l’apertura davanti nascosta da una pattella fermata da due bottoni.
    La Rivoluzione francese portò molte trasformazioni anche nel costume che daranno inizio ad un abbigliamento borghese. I pantaloni dei sanculotti (sans-culottes, ossia senza culottes) provenivano dal mondo del lavoro e della marina. Erano larghi e lunghi fino alla caviglia, di taglio essenziale, di tela ruvida, cotone o lana, sostenuti da bretelle, avevano sul davanti una patta agganciata da tre bottoni che poteva essere abbassata, venivano chiamati pantalon à pont. Fino al 1820, nelle occasioni ufficiali ed eleganti furono indossate ancora le culottes attillate bianche con il frac scuro o la marsina, mentre si andava affermando presso i più giovani e progressisti la moda dei pantaloni lunghi, larghi in alto, allacciati alla caviglia e tenuti da un sottopiede. La staffa e il sottopiede in tessuto o in pelle resta in uso per quasi tutto l’Ottocento, in funzione della necessità di tenere teso il pantalone anche dopo le cavalcate.
    I pantaloni di linea dritta a tubo, abbinati al frac o alla redingote, furono il modello dominante per tutto il XIX secolo e rappresentarono una delle componenti essenziali dell’uniforme borghese; le culottes rimasero prerogativa delle livree dei domestici e dei valletti. Nel 1843, il sarto Humann ideò l’apertura nel mezzo davanti coperta da una lista dello stesso tessuto che si chiamerà finta; questo accorgimento migliorava la vestibilità e non sarà più abbandonato fino al 1950, quando la cerniera lampo sostituì i bottoni.

    L’eleganza maschile, all’inizio del 900 segue la moda inglese e il Principe di Galles, Edoardo VII dal 1901 re d’Inghilterra, che inaugurò il risvolto quando, visitando le scuderie di Ascot, si rimboccò l’orlo dei pantaloni per non inzaccherarli e dimenticò poi di metterli a posto; a lui si deve anche l’uso di tenere slacciato l’ultimo bottone del gilet, da cui deriva la foggia delle due punte sul mezzo davanti. In fatto di moda maschile gli esempi del Principe di Galles venivano immediatamente seguiti e consacrati all’ultima moda. La consuetudine inglese raccomandava il completo giacca, pantalone, gilet; il pantalone continuò ad essere tagliato in quattro pezzi, dotato di un risvolto al fondo, riservato esclusivamente ai modelli da mattina, e di una piega tenacemente stirata, nel mezzo davanti e dietro di ogni gamba, che conferiva una linea secca, precisa ed elegante. Le bretelle tenevano in forma il pantalone ed erano rigorosamente nascoste sotto il gilet, come la parte alta dei pantaloni, perché considerate un accessorio intimo.

    Ai completi formali composti da finanziera e pantaloni grigi, si contrappongono mises adeguatamente studiate per poter praticare lo sport. Dall’Inghilterra, insieme alla giacca Norfolk, monopetto e allacciata molto alta, collo con piccoli revers e cintura incorporata, si diffusero i knickerbockers, pantaloni lunghi fino sotto al ginocchio con una fascetta e due bottoni, o una fibbia di metallo. Erano in tessuto di lana dall’aspetto rustico, quasi sempre abbinato alla giacca, e si portavano con calzettoni di lana e ghette; erano indossati dagli uomini che andavano in bicicletta, scalavano monti, cacciavano, pescavano e giocavano a golf.
    La versione americana fu chiamata plus-fours, poiché il modello era allungato di quattro pollici per una più comoda vestibilità. D’estate gli sportivi avevano un guardaroba fornitissimo di pantaloni diritti, appena più larghi di quelli da sera, in lino bianco, in flanella panna o avorio, abbinate ai cardigan blu marina e all’immancabile paglietta.

    Le fogge dei pantaloni militari degli eserciti, nella prima guerra mondiale, si differenziavano per il colore, - erano grigioverde, cilestrino, kaki, grigio, bruno-verde; avevano una linea bombata alla zuava, fermati all’altezza del polpaccio, si portavano con scarponi e mollettiere, fasce di maglia avvolte intorno alla gamba a spirale o a spina di pesce; gli ufficiali li indossavano con gli stivali interi o i gambali di cuoio. Nel corredo degli aviatori militari, per proteggere il corpo dal vento dalla velocità e dagli spostamenti d’aria, compare un modello, detto overall, che copre tutto il corpo, in tessuto impermeabilizzato a più strati, con molte tasche a soffietto sparse sul petto e sulle gambe. Confezionato in America, si ispirava ad un capo già utilizzato dai boscaioli canadesi. Finita la guerra, il modello overall e i pantaloni con pettorina e bretelle dei cercatori d’oro e dei cow-boy, divennero la base per gli abiti da lavoro del nostro secolo.
    Dalla cavalleria britannica in India, nella regione Jodhpur, arrivò la moda dei calzoni jodhpurs, un modello da equitazione in cotone bianco che si stringeva sotto il ginocchio.
    Nel 1919, il pittore futurista Ernesto Thayaht ideò e indossò un abito rivoluzionario, realizzato con un minimo di materiali, bottoni e cuciture, che elimina giacca, colletti e cravatte: la tuta.

    ..la donna e i pantaloni..


    Solo nell'800, con i primi movimenti di emancipazione le donne iniziarono a compiere azioni estremamente provocatorie per l'epoca come andare in bicicletta o indossare i pantaloni. Già dalla metà dell’800 per le attività sportive e per la bicicletta le donne indossavano i knickerbocker e la giacca norfolk, tuttavia quando Amelia Bloomer propose un completo ispirato all’abbigliamento delle donne turche composto da bustino aderente, ampia gonna al ginocchio e larghi pantaloni alla caviglia, detti poi bloomers, l’opinione pubblica reagì gridando allo scandalo.
    Verso la metà degli anni Venti i pantaloni cominciarono a comparire nei guardaroba delle signore sportive più disinvolte e alla moda. Indossavano pantaloni, per necessità e non per moda, le donne che durante la guerra sostituirono gli uomini nei lavori pesanti: gli indumenti maschili da lavoro, indossati per andare in fabbrica o nei campi, hanno rappresentato il primo esempio di unisex. I pantaloni del marito, o del fratello, tenuti con le bretelle tirate, e stretti al ginocchio da uno spago, per renderli più corti e non infilarli nei raggi delle ruote della bicicletta, venivano necessariamente indossati per praticità d’uso. L’inclinazione a copiare modi e indumenti dal vestiario maschile iniziò un processo irreversibile negli anni Venti.
    Lo sport ebbe una funzione notevole: in nome dell’igiene e della razionalità furono adottate scarpe senza tacco, giacche maschili, pull-over indossati originariamente dai marinai inglesi. Nei primi anni del Venti comparvero i pijamas da sera o per la spiaggia, completi casacca e pantalone di linea larga; nel 1926 lo smoking entrò a far parte del guardaroba femminile. Alla fine del decennio Coco Chanel lanciò i completi con pantaloni da barca e per il tempo libero, di linea piuttosto larga. Per qualche decennio ancora l’uso del pantalone femminile resta comunque riservato ai poli opposti della società: all’élite mondana per eccellenza o alle donne delle classi operaie e contadine. Dagli anni Sessanta riprenderà il processo di conquista da parte della donna di professioni e ruoli maschili e la tendenza della moda ad acquisire caratteristiche dell’altro sesso attraverso l’uso disinvolto di pantaloni, cravatte e smoking.

    Da Amelia Bloomer, che fu la prima ad indossarli in pubblico facendo scalpore, alla più recente attrice e modella Chloë Sevigny, passando per Coco Chanel, Bianca Jagger e Grace Jones, i pantaloni sono da sempre simbolo di libertà. Grazie a queste icone rivoluzionarie e al lavoro di Yves Saint Laurent e Giorgio Armani negli anni '70-'80 i pantaloni, oggi, sono un caposaldo del guardaroba femminile

    I PANTALONI PIU’ ANTICHI DELLA STORIA



    Un equipe dell’Istituto Archeologico Germanico di Berlino ha scoperto, nella necropoli di Yanghai, nell’ovest della Cina, un paio di pantaloni perfettamente conservati che, secondo i dati forniti dalle analisi al radio carbonio, risalgono a oltre 3000 anni fa. Probabilmente si sono mantenuti grazie alle condizioni climatiche della regione, caratterizzata da un elevata aridità. Yanghai è un grade cimitero della cultura Gushi, una civiltà seminomade che conosceva i rudimenti dell’agricoltura e dell’allevamento. I pantaloni sono stati rivenuti nella tomba di due uomini di circa 40 anni. Sono molto simili a quelli attualmente utilizzati per l’equitazione, stretti alle gambe e larghi al cavallo, e sono formati da tre pei di lana marrone, unop per ogni gamba e un terzo per il tronco, cuciti insieme. Presentano anche delle aperture laterali, lacci per la chiusura intorno alla vita e motivi decorativi geometrici. Mayke Wagner, direttore del progetto, ritiene che probabilmente i Gushi siano gli inventori di questo capo di abbigliamento, che consentì una maggior libertà di movimento nel montare a cavallo rispetto alle tuniche e alle toghe. Nella tomba sono stati infatti trovati anche oggetti riconducibili all’uso del cavallo, come briglie, un morso in legno, un frustino e armi usate dai guerrieri equestri, come arco con il suo fodero. (Storica, National Geographic – aprile 2015)
     
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    STORIA DELLA MODA...


    “..una giacca conviviale per la sera – nera, senza code e con revers a punta di lancia”
    (Giorgio Mendicini)


    LO SMOKING


    Lo smoking è un tipo di abito completo da uomo. Viene indossato esclusivamente di sera. Lo si sfoggia per i cenoni di San Silvestro, nelle serate di gala e alle seconde teatrali (o anche alle prime teatrali se non si dispone del frac) Lo s'indossa anche nei casinò. Quando un uomo riceve un invito che riporta la dicitura black tie/cravate noir o abito da sera, egli deve presentarsi con uno smoking.

    La giacca tipica è monopetto ad unico bottone, che deve di regola chiudersi, se si ha il panciotto è ammesso aprirla per sedersi o guardare l'orologio. Esiste la variante doppiopetto a due bottoni, da tenersi sempre abbottonata. I revers sono in satin di seta, possono essere sia classici che a lancia, questi ultimi preferibilmente per uomini oltre i 40 anni di età. I bottoni sono ricoperti dello stesso tessuto. La giacca dello smoking non deve avere spacchi, né pattine o tasche di tipo sportivo. Il colore tradizionale è il nero, anche se ne esistono versioni in tartan o rosse mentre, negli anni sessanta, si vedevano smoking di ogni colore. Tuttavia l'unica variante ammissibile, secondo i canoni dell'eleganza, è la versione "blu midnight", introdotta dal duca di Windsor, mentre quelle colorate sono da riservarsi esclusivamente ai cabarettisti.
    Per i tessuti, la scelta è ampia e spazia dalla lana alla vigogna, all’alpaca e al twill, in base ai gusti di chi indossi l’abito.
    La manica ha di regola quattro bottoni ricoperti di seta.
    Il Papillon è un elemento fondamentale dello smoking, di seta o raso (satin) nero. Il farfallino dev'essere annodato a mano. Deve essere annodato a mano.Gravissimo errore è indossare il papillon bianco ch'è riservato al frac.
    La camicia da smoking è rigorosamente bianca, di cotone o seta e a maniche lunghe. Ha doppi polsi, che vanno rivoltati verso l'esterno e chiusi con i gemelli. Lo sparato può essere liscio o a piegoline sulla parte anteriore.
    I bottoni, di madreperla o gioiello, devono essere sempre visibili. Il colletto può essere invece ribattuto verso il basso o in Italia preferibilmente ad alette rovesciate.
    Al di sotto della giacca da smoking si può indossare il panciotto o gilet, anch'esso nero e dello stesso tessuto dello smoking, che serve a nascondere le bretelle. Il gilet ha un taglio completamente diverso dai panciotti tipici degli abiti completi, in quanto ha uno scollo molto più svasato, può essere sciallato, ha tre bottoni e si abbottona solo sul ventre; la parte superiore scompare sotto la giacca, lasciando visibile lo sparato della camicia.
    In alternativa al panciotto, si può indossare la fusciacca o cummerbund, una cintura di raso nera da annodarsi sul dorso. La fusciacca, che deve accordarsi come colore e foggia al farfallino, è plissettata nella parte anteriore e va portata con le pieghe rivolte verso l'alto.
    I Pantaloni, detti anche brachette, sono neri e assolutamente senza risvolto. Si contraddistinguono per una sottile banda (detta gallone) di raso nero, applicata lungo le cuciture esterne su entrambe le gambe dalla vita all'orlo.
    I pantaloni da smoking sono di regola privi di passanti per la cintura, in quanto lo smoking è sostenuto da un paio di bretelle sottili. Queste devono essere possibilmente di colori non sgargianti e restare assolutamente invisibili.
    Le calze da smoking sono nere e lunghe al ginocchio e di seta, sottili e senza disegni geometrici o costine.
    Tradizionalmente le scarpe per lo smoking sono scollate, non allacciate e molto lucide. Sono le cosiddette "pumps", pantofoline, scarpette di vernice con un fiocco di seta al posto delle stringhe.
    Nelle stagioni fredde sopra lo smoking si indossa un cappotto da sera di tipo chesterfield o un soprabito grigio ferro o nero, talvolta con una sciarpa bianca di seta o, nel rigore invernale, di lana pettinata, indicata soprattutto in occasione di spettacoli lirici.

    ....storia.....


    Con buona pace degli americani, l’attuale foggia della dinner jacket, ops, tuxedo, pardon, smoking, la dobbiamo a un inglese. Il futuro Re Edoardo VIII e Duca di Windsor, infatti, trasformò, negli anni venti del ‘900, la giacca a un petto nella versione attuale, foggia a doppio petto di colore blue notte, che condivide col nero il titolo di colore appropriato per lo smoking.
    Al numero 15 di Savile Row, la strada unanimemente considerata come il luogo dove il bespoke maschile trova la sua sublimazione, è possibile ammirare l’elegante vetrina della Henry Poole & Co. Fondata nel lontano 1806, la celebre sartoria londinese vanta una serie di meriti indiscussi, tanto da assurgere, fin dagli albori, all’ambito ruolo di fornitrice di abiti su misura per la famiglia reale britannica. Nel 1865 il futuro Edoardo VIII ordinò una short smoking jacket, da indossare nella propria residenza di campagna, nella contea di Norfolk, presso la Sandringham House.
    Proprio in quegli anni, si rivelò necessario, tra la nobiltà e i gentiluomini britannici, disporre di una giacca da fumo, considerata la sempre più di tendenza, specie dopo la Guerra di Crimea dopo aver assimilato certe abitudini turche, come gustare, dopo pranzo, una piacevole fumata combinata con buon alcolico. Da qui la nascita della “giacca per fumare”, la “smoking jacket” voluta dal figlio della Regina Vittoria. La nascita di questo abito, fu un fatto di educazione, al fine di evitare di restare impregnati del forte odore di sigaro, che tanto disappunto suscitava tra molte donne all’epoca.

    Una storia americana racconta che nell’autunno del 1886, Grisword Lorillard, quarto figlio dell’uomo del tabacco Pierre Lorillard IV, indossò lo smoking al Tuxedo Club, ambiente esclusivo aperto quello stesso anno nell’Orange County, New Jersey. Il che spiega perché questo completo da sera, d’obbligo nelle serate di teatro più eleganti e in occasioni speciali, specie se sull’invito è riportata la locuzione “black tie”, negli Stati Uniti d’America non venga chiamato smoking, ma “tuxedo” (o “tux”) ovvero, specialmente dalle parti di New York City, “dinner coat”.In effetti lo smoking è chiamato in tal modo solo nei paesi latini, Italia e Francia su tutti.
    E il suo nome cambia nella stessa Inghilterra, dove è noto come “dinner jacket”, poiché la “smoking jacket” resta, ancora oggi, la giacca da casa o da camera utile a evitare di mantenere addosso alle vesti l’odore di sigaro.


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  8. gheagabry
     
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    “Non bisogna mai cercare di capire una donna.
    Le donne sono delle immagini; gli uomini sono dei problemi.
    Anche se queste possono essere stravaganze della moda,
    servono comunque per leggere nel pensiero di una donna”.
    (Oscar Wilde)


    La storia delle scarpe a tacco alto

    ClioMakeUp-Storia-dei-tacchi-alti-27



    L’esatto inizio della storia della calzatura è difficile da stabilire. La facile deperibilità del materiale di natura organica e avendo nella calzatura l’unico scopo di protezione dei piedi, non ha reso possibile il giungere fino a noi di antichi resti. Le scarpe primitive erano in pelli non conciate e assicurate al piede dall’utilizzo di un sistema di lacci dello stesso materiale. Venivano prodotte anche suole in fibra vegetale intrecciate e fermate al piede con lo stesso sistema.
    In Armenia, nel 2010 è stata rivenuta la scarpa più antica del mondo, risalente circa al 3.500 a.C. Ritrovata incredibilmente in ottimo stato di conservazione ed è costituita da un unico pezzo di pelle bovina, allacciata sia nella parte anteriore che nella parte posteriore con un cordoncino di cuoio. Le prime raffigurazioni di calzature indossate da figure umane risalgono a circa 15.000 anni fa presenti in dipinti rupestri spagnoli.
    Gli Egizi a causa del clima del proprio territorio producevano e utilizzavano sandali. Questi sandali, costituiti da pelli conciate con oli vegetali e grassi animali venivano successivamente puliti dai residui di grasso e carne per mezzo di raschiatoi, tese su telai e immerse in bagni di materia grassa. Presentavano una suola realizzata in cuoio, legno, papiro, giunco o foglie di palma intrecciate assicurata al piede con il sistema dell’infradito. Però, nell'antico Egitto, la maggior parte del ceto inferiore camminava a piedi nudi, solo i rilevamenti delle pitture murali, risalenti al 3500 a. C., mostrano una versione di scarpe indossate soprattutto dalle classi superiori, pezzi di cuoio tenuti insieme con un’ allacciatura spesso disposta per rassomigliare il simbolo di "Ankh", dio della vita. Ben visibili anche alcuni dipinti di entrambi i ceti alti, maschili e femminili, I macellai egizi indossavano scarpe con i tacchi,in modo da evitare il sangue degli animali.
    Esisteva anche una carica onorifica di “Portatore di Sandali” per le persone al seguito di faraoni e nobili. I
    Sumeri (ca 3.500 a.C. – ca 2.000 a.C.) originari della parte meridionali della Mesopotamia crearono nuove diverse tecniche di concia tra le quali, la concia grassa con oli, concia minerale con allume e la concia vegetale con tannino estratto da noci di galla. La colorazione delle pelli realizzate era nera, bianca e rossa. Anche gli Ittiti (2.000 a.C. – 1.100 a.C.) popolo indoeuropeo delle regioni montuose dell’Anatolia, svilupparono la concia delle pelli con tannino estratto delle noci di galla. Le calzature da loro prodotte, in conseguenza del territorio che insediavano, erano robuste e con la punta volta all’insù. Testimonianze sono presenti nei bassorilievi conservati al British Museum, dove gli Egizi raffiguravano gli Ittiti indossanti calzature di questa tipologia.
    Gli Assiri (2.000 a.C. – 612 a.C.) affinarono queste tecniche di concia delle pelli e del cuoio assimilate dai popoli vicini. Riuscirono a realizzare veri e propri stivali alti al ginocchio, adatti soprattutto per cavalcare e all’uso di carri da guerra. Anche tra gli Assiri la distinzione sociale era segnalata dal colore della colorazione, rossa per i nobili e gialla per la classe media. I Babilonesi (2.000 a.C. – 539 a.C.) in modo simile ai Sumeri utilizzavano sandali, introducendo ricami e decorazioni per mezzo di applicazioni metalliche. Anche altri popoli delle regioni confinanti quali i Persiani (ca 700 a.C. – 331 a.C.), gli Ebrei (2.000 a.C. – 44 d.C.), i Fenici (2.000 a.C. – 64 a.C.), gli Sciiti (1.500 a.C. – 100 d.C.) adottarono e svilupparono proprie tecniche di concia, e di creazione delle calzature che si distinguevano dai sandali agli stivali a seconda della tipologia di regione abitata.
    Nell’antica Grecia (2.000 a.C. – 146 a.C.) le calzature iniziarono ad assumere le varie forme base che oggi conosciamo. I principali tipi di calzature usate erano: le “Upodémata”, il classico sandalo greco costituito da una suola di cuoio, di legno o di sparto fermata al piede da corregge (striscie) di pelle, oppure le “Krepis” sandali da viaggio nei quali la suola per le donne poteva essere anche in sughero; le “Embàs”, stivaletto a mezza gamba allacciato; l'”Embàtes”, stivale di cuoio o stoffa per i cavalieri; l'”Endromides”, stivaletto per la caccia ed il viaggio, alti fino a mezza gamba; gli “Akatioi”, scarpe dalla punta rialzata; ed i “Kothornoi”, calzatura dalla suola spessa e tomaia in pelle morbida alta al polpaccio ed allacciata con corregge di colore rosso. Gli antichi Romani (750 a.C. – 476 d.C.) influenzati dai popoli vicini, gli Etruschi , i Greci,i Galli e i Germani adottarono tecniche di concia delle pelli simili. Tali tecniche prevedevano l’utilizzo di allume, materie grasse e prodotti vegetali contenenti tannino tra i quali il sommacco, le noci di galla, la corteccia di pino e di quercia.
    Con l’evoluzione della società, le scarpe finirono per diventare, anche per i Romani, un elemento caratterizzante dello status sociale di chi le indossava. I Cittadini di rango elevato utilizzavano i “Calcei”, consistenti in suole senza tacco corredate da tomaie in pelle che avvolgevano tutto il piede. I “Calcei senatorii” di colore nero venivano indossati dai senatori romani, mentre di colore rosso da rappresentati delle più alte cariche civili, che in occasione di cerimonie dei patrizi erano formati da una suola molto, i “Mullei”, spessa in modo da innalzare la statura. I popolani e i contadini indossavano un altro tipo di calzatura, la più usata chiamata “Perones”, scarpa dalla suola senza tacco con una tomaia in pelle alta alla caviglia. Mentre le calzature utilizzate da contadini e militari per affrontare viaggi lunghi su terreni accidentati erano le “Caligae” formata da una suola spessa, senza tacco e chiodata da bullette. Nell'antica Roma, le prostitute venivano identificate dai loro tacchi alti.

    Durante il Medio Evo, uomini e donne, indossa-
    vano zoccoli, o suole di legno che permette-
    vano di camminaree in strade fangose e piene di detriti, e sostituivano le scarpe fragili e costose, in lino, seta e caucciù, soggette a minore duratura temporale.
    Nel 1400, chopines o zeppe, apparvero in Turchia e furono introdotte, dalla metà del 1660, in tutta Europa. Queste calzature potevano avere dei rialzi in sughero o legno alti dagli 8 ai 10 cm, ma talvolta arrivavano anche a 18-20 cm, la qual misura richiedeva alle donne di usare bastoni o servi per aiutarle a restare in equilibrio. Venivano indossate solitamente dal sesso femminile o da eunuchi.
    I Veneziani fecero delle pianelle un loro status symbol, che rivelavano la ricchezza e la posizione sociale delle donne. Un visitatore persiano osservandole ad un’asta di gioielli disse “quei trampoli sono stati inventati dai mariti di belle mogli, con la speranza che il loro movimento ingombrante renda loro difficili le relazioni illecite".
    In Cina e in Turchia, sia le concubine cinesi che le odalische turche indossavano scarpe alte, costringendo gli studiosi a ipotizzare se i tacchi fossero stati utilizzati non solo per ragioni estetiche ma anche per impedire alle donne di fuggire dagli harem.
    Nel corso del 1500, i tacchi crebbero in popolarità nei cavalieri, data la loro utilità di scivolare nelle staffe. I tacchi di questi stivali furono resi più stilizzati e sottili da Caterina de’ Medici che ne fece una vera e propria moda da utilizzare anche fuori dall’ambito prettamente equestre. L'introduzione del tacco alto portò i calzolai a ideare "la scarpa dritta", calzature che potevano adattarsi sia al piede sinistro o destro. La destra e sinistra tornarono agli inizi del 1800, quando i tacchi furono abbandonati.

    L'invenzione formale dei tacchi alti come moda è solitamente attribuita alla bassa statura di Caterina de’ Medici. Alla ricerca di un modo per stupire la nazione francese e compensare la sua mancanza di appeal estetico, Caterina indossò, durante una festa di ricevimento, delle scarpe con tacchi alti 7 cm che le avevano dato un fisico più imponente e un seducente ondeggiare quando camminava. I suoi tacchi riscossero un successo enorme e, da allora, vennero associati all’abbigliamento femminile. Mary Tudor, o "Bloody Mary", un’altra monarca che cercò di apparire più alta, iniziò, senza mai smettere, ad indossare rialzi: i più alti possibili. Dal 1580, questi rialzi divennero popolari per entrambi i sessi, e chi li indossava veniva spesso definito "benestante". All'inizio del 1700, in Francia, re Luigi XIV (il Re Sole) spesso portava tacchi con personali decorazioni che raffiguravano scene di battaglia in miniatura. Questi rialzi vennero denominati "tacchi Louis," e la loro altezza toccava solitamente i 9 cm. Il re decretò che solo la nobiltà poteva indossare rialzi colorati di rosso (les talons rogue) e che nessuno mai avrebbe potuto portarli uguali ai suoi.
    Sotto l'influenza del Rococò, che evidenziava uno stile decorativo e ornamentale orientale, i tacchi divennero più alti e slanciati; molte donne iniziarono a coprire i piedi con nastri di seta per ridurne, apparente-
    mente, le dimensioni. Come il corsetto, i tacchi alti scolpivano il loro corpo per farlo sembrare più aristocratico, puro, raffinato e desiderabile. La natura sessuale del tacco era considerata disdicevole per Puritani nel Nuovo Mondo. La colonia del Massachusetts approvò una legge che vietava alle donne di indossarli. Nel caso fosse stata trovata con scarpe coi tacchi alti veniva processata come strega “istigatrice di sesso demoniaco”. Solo a metà del 1800 l'americano medio accettò la moda della scarpa europea.
    Nel 1791, “ i tacchi Louis" scomparvero con la rivoluzione, e Napoleone bandì i rialzi, nel tentativo di mostrare l'uguaglianza tra i cittadini. Nonostante il codice napoleonico contro i tacchi alti, nel 1793 Maria Antonietta salì sul patibolo per essere ghigliottinata indossando rialzi alti 9 centimetri. Il tacco venne abbassato notevolmente a partire dal 1791 trasformandosi in un ridottissimo, minuto cuneo o sostituito da bassi rialzi a molla. Queste scarpe risultavano per lo più molto fragili e dovevano essere rinforzate da nastri o spaghi che le attraversavano legati intorno alla caviglia, in stile sandalo romano.

    Nel 1860, le calzature con i tacchi, grazie alla moda, tornano di nuovo popolari. Nell'arte e nella letteratura vittoriana, disegni e allusioni ai piedi piccoli, come creati da Dio, e l'afflizione dei piedi di grandi dimensioni, tipici delle anziane zitelle, erano onnipresenti. L’età Vittoriana soleva sostenere che il tacco alto sottolineava sensualmente l’arco del piede ed era visto come simbolo di curve o fattezze della donna. Il collo del piede alto veniva associato, generalmente, ad una persona aristocratica ed europea, mentre quello più basso veniva accostato ad un’etnia afro-americana.
    I tacchi alti creavano un’andatura più sessualmente aggressiva e servivano, seconda la divina Greta Garbo, come “poisoned hook” (gancio avvelenato) per catturare i maschi incauti. Alcuni addirittura associavano il tacco alto alle unghie divise di un diavolo o di una strega.

    Nel 1940, gli accessori di lusso erano molto scarsi tra le famiglie occidentali, a causa della Seconda Guerra Mondiale, e le calzature con i tacchi tendettero a rimanere moderata-
    mente alte e spesse. La rinascita dell'Europa occidentale nell'alta moda inizia nel dopoguerra, in particolar modo nei primi anni ’50, grazie al designer francese Christian Dior e alla sua collaborazione con lo stilista di scarpe Roger Vivier. Sul Daily Telegram, di Londra, il 10 settembre del 1953: “ Il tacco esageratamente esile e stretto equiparato all’altezza pura dello stesso suggeriscono un percettibile simbolismo fallico-erettile a dimostrazione di una maturità sessuale raggiunta almeno dai francesi”. I tacchi-Stiletto vennero frequentemente vietati all’interno degli edifici pubblici, perché erano causa di danni ai parquet e alle pavimentazioni con moquette.
    Il movimento femminista, negli anni 60, definì i tacchi a spillo una vera e propria disgrazia contro le donne. Gli slogan contro Dior e la moda francese si sprecavano: “Liberate il piede prigioniero dalla femminilità forzata”.
    Di conseguenza, crollato il mito della scarpa con il tacco vertiginoso, prese sempre più campo il rialzo basso e ispessito, che va di prepotenza a sostituire il fascinoso stiletto. Nel 1970, la disillusione degli anni sessanta con il logorio della vita contemporanea e l’angoscia per il futuro porta i giovani, in gran parte dell'Occidente, ad abbracciare la cultura hippie che riscopre la scarpa rasoterra o a piattaforma. Gli anni settanta, in generale, mostrano un periodo tumultuoso di sperimentazione di droghe, sesso e, naturalmente, fashion. Uomini e donne vestono per scioccare, spesso indossando scarpe che ricordano gli antichi kothorni e chopines con tinte psichedeliche e turbinii di colori.
    Parlando di scarpe con il tacco non si può non ricordare la celebre frase di Marilyn Monroe “non so chi abbia inventato le scarpe con i tacchi alti, ma tutti gli uomini gli devono molto” o la frase del noto designer di calzature Renè Caovilla: “I tacchi sono oggetti speciali per celebrare le bellezza femminile. Sono oggetti erotici, indossati per essere tolti sulla soglia della camera da letto”.(fonte www.totalita.it/, web)



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    Edited by gheagabry1 - 7/6/2023, 17:27
     
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    A cosa serve il mini taschino dei Jeans?
    Ecco la risposta della Levi's



    Un mistero lungo oltre 100 anni, finalmente svelato.


    Troppo piccolo per infilarci le mani, troppo scomodo per tenerci le monete o la carta di credito. A cosa serve davvero il taschino rettangolare cucito all'interno della tasca destra dei jeans?

    La domanda è stata lanciata da alcuni utenti di Quora, un sito web che pubblica domande e risposte su qualunque argomento, scatenando le risposte pronte degli esperti della tela di Genova, tra cui Levi's.

    A tirare in ballo l'iconica azienda statunitense fondata nel 1853 a San Francisco da Levi Strauss, l'utente Renata Janoskova - come riporta 'The Independent' - che ha svelato il segreto del 'misterioso' taschino, citando un post pubblicato da Levi's nel suo blog. Si tratta di una 'watch pocket', ossia di una piccola tasca pensata per contenere l'orologio da taschino.

    "Nell'Ottocento - spiega un altro utente su Quora - i cowboy indossavano l'orologio da taschino con una catena, e lo riponevano nel panciotto. Per evitare che si rompesse, la Levi's ideò questa piccola tasca". Tanti gli oggetti che il micro taschino ha ospitato negli anni, dalle confezioni di preservativi, alle monete, fino ai biglietti.

    (Mercoledì 27 Gennaio 2016, 10:12)

    http://www.leggo.it/SOCIETA/TEMPO_LIBERO/t...e/1812664.shtml



    FONTE:
    © http://www.leggo.it/SOCIETA/TEMPO_LIBERO/t...e/1812664.shtml,
    web,www.today.it
     
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    GLI STILISTI E LA MODA!!!




    Christian Dior
    L'interprete della donna


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    Christian Dior (Granville, 21 gennaio 1905 – Montecatini Terme, 24 ottobre 1957) è stato uno stilista e imprenditore francese.

    Biografia
    Christian-Dior-CollectionChristian Dior, figlio di un industriale, assecondò il desiderio dei propri genitori frequentando l'École des Sciences Politiques dal 1920 al 1925. Alla fine Dior lasciò gli studi, e grazie all'aiuto finanziario del padre nel 1928 riuscì ad aprire una piccola galleria d'arte, che però dovette chiudere pochi anni dopo per via del crollo dell'azienda di famiglia. Dal 1937 al 1939 lo stilista lavorò con Robert Piguet finché non fu chiamato per il servizio militare. Nel 1942, Dior cominciò a lavorare nella casa di moda di Lucien Lelong, dove lui e Pierre Balmain diventarono i principali stilisti.
    L'8 ottobre 1946 Dior aprì un suo atelier a Parigi con l'aiuto finanziario di be040061-1517_0x420Marcel Boussac, il re del cotone. Dior riuscì nell'impresa di rivoluzionare la moda degli anni quaranta, introducendo uno stile e un'idea di femminilità completamente nuovi. La donna di Dior aveva spalle arrotondate rispetto a quelle imbottite precedentemente in uso; gonna lunga a forma di corolla a venti centimetri dal suolo; vita di vespa ottenuta con un leggero bustino, la celebre guepière; tessuti raffinati e costosi, che sostituirono il panno usato durante la guerra. L'abbondanza di stoffa dei suoi modelli fu di non poco aiuto alla ripresa dell'industria tessile. La sua linea, detta New Look, fu lanciata nel 1947 in America, dove aprì nel 1948 la boutique Dior New York.
    Ogni anno Dior immise sul mercato nuove idee creando un'attesa ed una tensione continua. Al Corolle et "En Huit" del 1947 seguirono:
    1949 la linea illusione a pannelli intercambiabili.
    1950 la linea verticale con le gonne a tubo e braccia nude.
    1951 la linea lunga con gonne strutturate per dare più slancio al busto.
    1952 la linea sinuosa con la vita sciolta e la gonna più corta.
    1953 la linea tulipano che valorizzava il seno.
    1954 la linea H che uniformava il seno alla linea del corpo.
    1955 la linea A dalle gonne ampie e le spalle strette.
    1956 la linea a freccia che assottigliava la figura.
    1957 la linea a sacco o a fuso.
    Fu anche il primo ad associare sistematicamente lo stile degli accessori alla linea dei vestiti, vendendo, insieme ai modelli, scarpe, borse, foulard, profumi e perfino lo smalto per unghie. Dior estese la sua attività in 24 Paesi, e portò il suo giro d'affari a sfiorare il miliardo di lire dell'epoca, una cifra enorme.
    reneg1Morì al Grand hotel & La Pace di Montecatini. Dopo la sua morte la maison Dior ha continuato la sua attività con Yves Saint-Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferrè, John Galliano e Raf Simons che ne ha assunto la direzione creativa per l'universo femminile nel 2012.
    La maison Dior oggi
    Al giorno d'oggi la maison Dior conta più di 200 boutiques in tutto il mondo di cui quattro in Italia (Milano, Roma, Firenze, Portofino).
    La maison Dior dà vita ogni stagione a nuove creazioni di:
    Abbigliamento femminile (prêt-à-porter, haute couture, accessori, calzature).
    Gioielleria e Orologeria.
    Abbigliamento maschile (prêt-à-porter, accessori, calzature).
    Abbigliamento per bambini (accessori, calzature).
    Profumi, maquillage e cosmesi.

     
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    L'ABITO IN GRAFENE


    Grafene-2

    Al Trafford Centre di Manchester è stato presentato il primo abito contenente grafene, un nuovo materiale leggerissimo ed estremamente resistente scoperto, isolato e studiato per la prima volta nel 2004 nell’Università di Manchester dai fisici Andrej Gejm e Konstantin Novoselov, che per queste ricerche ricevettero nel 2010 il premio Nobel per la fisica. Il grafene è costituito da uno strato di singoli atomi di carbonio disposti in esagoni: è molto flessibile, è il miglior conduttore di elettricità conosciuto, è 200 volte più resistente dell’acciaio ma sei volte più leggero.
    Il vestito è stato realizzato dai ricercatori del National Graphene Institute dell’Università di Manchester in collaborazione con CuteCircuit, azienda guidata dalla direttrice creativa Francesca Rosella, che realizza abiti con materiali tecnologici e innovativi, indossati da popstar come Katy Perry e gli U2. Il grafene è stato utilizzato sul vestito, un little black dress, per alimentare le luci LED cucite sopra, attivate dai movimenti: in questo modo l’abito si illumina e cambia colore seguendo il respiro di chi lo indossa. Oltre al grafene, l’abito è realizzato con materiali più tradizionali come tessuti di nylon leggero.

    Grafene-4

    Per le sue molteplici qualità, il grafene è considerato un materiale rivoluzionario con migliaia di potenziali applicazioni. Nel 2013 la Commissione europea ha approvato un finanziamento per un progetto di ricerca sul grafene di un miliardo di euro per dieci anni; nel frattempo alcune startup, soprattutto in Europa e negli Stati, Uniti hanno iniziato a produrlo e utilizzarlo in vari campi.



    www.ilpost.it

    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 19:21
     
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    A volte una ruvida stoffa nasconde un volto di velluto.
    (Kahlil Gibran)


    Il VELLUTO



    Il velluto: uno dei tessuti più apprezzati.Emblema di ricchezza e preziosità, tante sono le sue varietà. Il nome deriva dal termine latino “vellus”: vello, tosone o mantello.
    La sua caratteristica principale è quella di presentare sul dritto un pelo rasato e molto fitto (velluto unito, liscio o tagliato) oppure una serie di piccoli anelli di filo che sporgono dalla trama (velluto riccio).
    Queste differenze vengono accentuate dalle diverse lavorazioni: il courduroy (velluto a coste), il dévoré (su cui si ottengono effetti di trasparenza attraverso dei procedimenti chimici di scioglimento selettivo della fibra), il froissé (dall’aspetto sgualcito), il soprarizzo (operato fino ad ottenere un risultato damascato o cesellato), il velveton (il fustagno), il jacquard (con disegno intessuto nella trama). Tradizionalmente la fibra scelta era la seta, che rendeva il velluto particolarmente lucido e morbido al tatto, ma anche prezioso e delicato. In seguito è stato introdotto l’utilizzo del cotone, del lino, della lana e del mohair, che hanno reso il tessuto meno lussuoso, ma più resistente. Recentemente sono stati sviluppati velluti sintetici (in poliestere, acetato, nylon e viscosa).



    ..la storia…

    Le prime tracce di questo materiale si perdono in un luogo indefinito lungo la leggendaria “via della seta”, probabilmente nella regione del Kashmir, incastonata tra India, Pakistan e Cina. Pare siano entrati in Europa col nome "sciamiti", a Palermo per importazione araba, e a Venezia per i suoi continui contatti con l'Oriente.

    La svolta, per Venezia, si verifica nel XII secolo, quando la città smette di essere una semplice importatrice di stoffe dall’Oriente, per diventare invece produttrice di tessuti pregiati. I primi tessuti ad essere prodotti qui furono gli sciamiti.
    Lo sciamito è un “tessuto di sei fili”, come dice il suo nome greco, hexamitos, che nel Medioevo poteva essere ammirato su paramenti e abiti sontuosi. È composto da una seta pesante e vellutata, che gli conferisce un aspetto satinato e brillante. E, come molte altre stoffe – il damasco, solo per citarne una – viene dall’Oriente, più precisamente dal Medio Oriente: da Iran e Siria, attraverso Bisanzio e grazie alla dominazione araba, questo tessuto si è diffuso in tutta l’area del Mediterraneo.
    Ma a Venezia arriva grazie alle merci riportate in patria da una famiglia veneziana ben nota, quella dei Polo, e soprattutto grazie a Marco. I Polo permisero a Venezia di scoprire un tessuto con un numero ridotto di motivi decorativi, perché gli sciamiti mostrano soprattutto ruote contenenti animali simbolici, come leoni e pappagalli.
    Dal punto di vista tecnico, lo sciamito è formato da due orditi, uno di fondo – che crea il disegno – e uno di legatura, e da almeno due trame, legate in senso obliquo. Lo sciamito è anche legato alla storia del patrono di Venezia. Prima di San Marco, infatti, il cui culto arriva qui solo nel XIII secolo, il santo protettore della città era San Teodoro di Amasea, forse fin dal VI secolo.
    Ma nel XIII secolo, probabilmente in occasione delle nozze di Federico II di Svevia e Jolanda di Gerusalemme, celebrate a Brindisi, le spoglie del santo furono portate a Brindisi, avvolte, appunto, in uno sciamito pregiato. E se, da un lato, questo “sequestro” portò alla fine del culto di questo santo, dall’altro permise a San Marco di arrivare a Venezia. E di portare con sé quello che ora è il simbolo della città e la sua basilica.

    (www.luigi-bevilacqua.com)



    L'insurrezione dei Vespri avrebbe fatto riparare nelle repubbliche di Amalfi e di Lucca i tessitori proscritti e fatto sorgere l'arte di tessere i velluti, ma poco dopo anche Siena, Pisa, Genova, Firenze Verso il sec. XIII in Italia si cominciò a usare la parola velluto, e sembra che i primi velluti in Europa siano stati lavorati, a imitazione di quelli orientali. A Firenze è probabile che nei primi decenni del 1400, velluti fiorentini si esportassero a Londra, a Costantinopoli e in vari paesi d'Europa.

    Nel secolo XIV, Venezia fu la maggior produttrice di velluto liscio. Presto si iniziò, sempre a Venezia, anche la lavorazione degli alto-bassi con due strati di pelo (velluti a due piani), i soprarizzi dove, secondo il disegno, le parti tagliate sono contornate da rizzi, risaltando sul fondo allumacato. Gli alluciolati a vergole d'oro trapelante erano eseguiti con una trama sussidiaria che formava i singoli anelli d'oro. Nei sec. XIV e XV, fu usatissimo il velluto decorato a inferriate gotiche (ferronneries) dove il disegno rivela il fondo di raso, oppure al contrario, e cioè il fondo di tela e l'ornato in sottile velluto. I velluti cesellati, dove i procedimenti del velluto a riccio e il tagliato si trovano uniti, erano fabbricati specialmente a Genova.

    Durante il Rinascimento, specialmente a Venezia e a Genova, i motivi si allargarono, e si arricchirono di parti broccate d'oro e d'argento; riappaiono animali, fiori, volute, palme, ecc. Soprattutto a Venezia furono usate larghe fasce sinuose, alle quali si innestano volute fogliacee, rosoni, dove il velluto tagliato trionfava su fondi d'oro e d'argento. A Genova, nei sec. XVII e XVIII, fu usato un velluto a fiori, di più colori detto "a giardino". I maggiori centri italiani di produzione dal sec. XIV al XVIII furono: Catanzaro, Como, Ferrara, Firenze, Genova, Venezia, Lucca, Mantova, Milano; e poi anche meno importanti, Reggio nell'Emilia, Roma, Siena, Torino, Modena.



    Fuori d'Italia solo la Francia ebbe un'importanza notevole nella fabbricazione dei velluti. Notizie certe si hanno solo nella seconda meta del sec. XV, e sono operai italiani, specialmente genovesi, che portarono l'uso dei velluti e ne reggevano la produzione. Uno scolaro del pittore Lebrun, il Revel, ricorrendo ad una interpretazione ampia della flora, diede le caratteristiche dei velluti che furono fatti durante lo sfarzoso regno di Luigi XIV e di Luigi XV e che ebbero gran voga. I disegni occupano per intero la larghezza dei tessuti, che sono spolinati con grande ricchezza di colori, compreso l'oro e l'argento contesti e laminati. La decorazione è pittoresca e riesce, specialmente quando la composizione è chiara e sontuosa. Un tessitore di Aix en Provence, G. Grégoire, sul finire del settecento, fu famoso per alcuni velluti figurati, recanti ritratti, o soggetti diversi in piccoli quadretti. Il suo sistema fu usato a lungo e si conservano velluti con le figure di Napoleone I, di Luigi XVIII, della duchessa di Angoulême, ecc.



    La produzione negli altri paesi fu scarsissima e fino a tutto il sec. XVIII, l'Italia rifornì tutta l'Europa di velluti per vestiti, per tappezzerie, per bardature di cavalli, per copertura di mobili, per rivestire l'interno di portantine e carrozze, ecc. Nel sec. XIX la produzione italiana declina fino al 1860 circa, quando in Liguria e specialmente a Zoagli, si riprendeva la lavorazione di velluti lisci. Nel 1866 il duca Visconti di Modrone iniziava la prima fabbrica di velluto a coste (velluto di trama). Dopo il 1880 richiamano la pratica dei velluti decorati (velluti di ordito) su telai a mano a Venezia Luigi Bevilacqua (1882) e L. Rubelli succeduto nel 1892 a G. B. Trapolin, a Milano Vittorio Ferrari nel 1891, a Firenze il Lisio nel 1906.
    Questa tradizione passò nelle mani dei Fiamminghi e i velluti di Bruges sono giunti nel XVI secolo ad avere una reputazione non inferiore a quelli delle grandi città italiane.
    Sapori di epoche lontane, salotti borghesi e abiti regali: a volte un tessuto è capace di evocare tutto questo, e anche di più. La storia dell’arte insegna quanto il velluto sia stato apprezzato dalla classe nobile dell’epoca. A testimonianza di ciò numerosi dipinti e opere, come gli affreschi del Ghirlandaio o quelli del Palazzo di Schifanoia a Ferrara. Ritratti raffiguranti dame e cavalieri della Corte sforzesca dimostrano quanto fosse ampio l’utilizzo del velluto e, grazie ai dipinti al limite della fotografia di artisti del calibro di Antonello da Messina e del Bronzino, è possibile risalire alla raffinatezza delle decorazione.
    Questa stoffa, fu apprezzata dai nobili di tutte le epoche successive alla sua introduzione; Riccardo II d’Inghilterra stabilì nel 1399 che nessun altro tessuto avrebbe toccato la sua pelle e che in esso sarebbe stato seppellito e non ha mancato di ispirare illustri artisti, tra cui il più celebre rimane Tiziano, che nei suoi ritratti ne ha fatto ampio uso."
    Nel regno di Luigi XIV e di Luigi XV poterono godere dell’importante contributo che il Revel, artista discepolo del pittore Lebrun, diede alla produzione: a lui spettò l’incarico di dirigere la decorazione delle stoffe a Lione, dove ricorse nella maggior parte dei casi a disegni floreali e sfarzosi. Il velluto, in questo caso, era caratterizzato da una grande ricchezza di colori, oltre all’uso dell’oro e dell’argento. A partire dal XIX, la produzione nella Penisola Italica subì un declino nella produzione del velluto, fino a quando, in seguito alla ripresa in Liguria, nel 1866 il duca Visconti di Modrone fondò la prima fabbrica di velluto a coste.

    Storia del velluto a coste, che va e torna e cambia




    Inizia nell'Antico Egitto e continua nelle corti medievali, prima di diventare la divisa degli aristocratici, poi degli operai, poi di studenti e artisti

    Arriva l’autunno e nei negozi di abbigliamento inizia a spuntare qualche capo in velluto a coste, di solito sono pantaloni marroni o verde bottiglia, più raramente giacche (magari con le toppe) e berretti: probabilmente lo associate agli anni Settanta e allo stile preppy, che negli ultimi anni non va particolarmente di moda ma la sua storia ha sempre alternato periodi alterni di grande popolarità e di dimenticanza. Per la sua comodità e praticità sembra che il velluto a coste continuerà a lungo a essere riscoperto e proposto nei negozi, aggiornato al gusto e alle necessità del momento. La sua storia iniziò secoli fa, racconta Ernie Smith su Atlas Obscura, in una città dell’Antico Egitto affacciata sul Nilo: ne fu la prima capitale sotto il dominio islamico prima di venire soppiantata da Il Cairo nel XII secolo.
    Nel II secolo a.C. al-Fustat era un centro importante di produzione di tessuti resistenti, e in particolare del fustagno, considerato l’antesignano del velluto a coste: è un tessuto pesante e resistente, solitamente fatto con cotone mescolato a lana o lino, con una superficie pelosa ma senza costolature in rilievo. Un libro sui tessuti del 1870 spiega: «Il fustagno, di cui restano due versioni, il velluto e il velluto a coste, era originariamente realizzato a Fustat sul Nilo, con un ordito di lino (cioè i fili disposti verticalmente) e una trama di cotone pesante (cioè i fili che si intrecciano perpendicolarmente all’ordito), tagliato in modo da avere un pelo corto ma spesso; e il tessuto così fatto prese il nome di fustagno da quella antica città».

    Nel Medioevo il fustagno veniva importato dall’Oriente in Europa dai mercanti italiani e si diffuse soprattutto nelle corti europee per la sua morbidezza, il cotone pregiato e il calore che tratteneva. Fu associato anche alla Chiesa Cattolica dopo che un abate dell’ordine cistercense stabilì che le casule – cioè gli abiti da messa dei preti – fossero in lino o fustagno e non in materiali più costosi. Dal XIV al XVI secolo vennero realizzate imitazioni europee e la parola fustagno iniziò a indicare tutti i tessuti in cotone con una fattura simile a quella dei modelli orientali. Dalla metà del XVI secolo si iniziò a fabbricarlo in Regno Unito, a Londra e Norwich, nel Lancashire e in Irlanda, usando cotone, lana, lino e misto cotone. Nel Settecento il fustagno si impose come un tessuto di cotone e lino con un pelo tosato. Nel frattempo iniziarono a diffondersi versioni più o meno economiche e il fustagno venne parimenti indossato dai regnanti soprattutto a caccia e nello sport (era molto apprezzato da da Enrico VIII d’Inghilterra), dai loro servitori (in particolar modo le livree francesi, fatte di un tessuto resistente e simile al fustagno ma in seta), per lavorare all’aperto, fare sport e per le uniformi dei soldati, perché era resistente, caldo e si asciugava rapidamente. Veniva anche usato per gli abiti da signora ed è in questo periodo che in Inghilterra assunse spesso il nome di velluto di cotone o corduroy, come viene ancora chiamato.
    Col tempo dal fustagno si sviluppò il velluto a coste che, secondo la famosa azienda di abbigliamento inglese Brooks Brothers, venne inventato a Manchester nel Settecento. Ed è sempre nel Settecento, nel 1774 precisamente, che comparì la prima accezione della parola corduroy, sulla Maryland Gazette, dove si parlava di velluto a coste importato dal Regno Unito. Nell’Ottocento il velluto a coste, come il fustagno, proseguì la sua parallela popolarità tra i gentiluomini di campagna e i contadini: era ormai prodotto in massa nelle fabbriche europee e americane e in epoca vittoriana divenne l’uniforme da lavoro degli operai grazie alla sua resistenza e durata. Indossato anche da artisti e studenti, era comunemente chiamato “il velluto dei poveri”. A inizio Novecento era usato per i calzoncini dei bambini, per le divise scolastiche americane e per quelle degli scout francesi, per i pantaloni degli scalatori, degli autisti e dei soldati europei durante la Prima guerra mondiale. Nel 1918 la Ford T venne realizzata con una tappezzeria di velluto a coste e nei due decenni successivi divenne un tessuto popolare e alla moda, impiegato per abiti, pantaloni, berretti e giacche. Per tutto il Novecento ha conosciuto successi alterni ma è stato impiegato soprattutto per gli abiti sportivi e da lavoro. In particolare, la sua fortuna diventò altalenante dagli Cinquanta in poi, quando venne completamente dimenticato e poi riscoperto, adattato a gusti e tendenze e indossato da persone di tutte le età e le classi sociali.
    Era particolarmente di moda negli anni Sessanta e Settanta, quando veniva indossato da manifestanti e studenti per la sua comodità e morbidezza; per questo venne realizzato in tantissimi colori e impiegato anche nei jeans. Nel 1982 Versace disegnò una linea di abiti maschili tutta in velluto a coste, mentre negli anni Novanta si diffusero i jeans elasticizzati in velluto a coste. Nel 1973 Marylin Stitz ne spiegò così il successo sul Chicago Tribune:
    «Quando si pensa a vestiti alla moda, per il tempo libero, per andare a scuola, c’è un solo tessuto che viene in mente: il velluto a coste. Perché? Perché è lussuoso e comodo allo stesso tempo. Può farti sembrare elegante o sbarazzino. È adatto a vestire tutta la famiglia. Dura a lungo e costa poco».
    Oltre alla storia della sua diffusione, è curiosa anche quella del suo nome inglese, corduroy, che ha un’etimologia ancora discussa. Secondo alcuni filologi, deriverebbe dal francese “cord du roy”, cioè tessuto del re: o perché indicava le livree dei servitori dei signori francesi o per dare una patina di prestigio francese a un tessuto fabbricato in Regno Unito. In Francia, nel Settecento, era però chiamato “the king’s cord”, dove cord indicava le costine e duroy un tipo di tessuto di lana usato allora in Inghilterra. Infine la Philological Society, che studia l’etimologia delle parole, suggerisce anche che il nome potrebbe derivare da qualcuno chiamato Corderoy.
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    I colori nell'abbigliamento medioevale e rinascimentale



    Il colore, nelle varie epoche e nelle diverse culture, ha assunto significati e simbologie differenti. Studiando i colori usati dai pittori nel Medioevo si percepisce che i requisiti più importanti erano due: la luminosità e l’intensità. Per questo erano applicati con forte saturazione, senza sfumature e mezzi toni, per esaltare l’espressione e il significato simbolico.

    E' nei secoli del Basso Medioevo (XII-XIII-XIV) che si diffonde l'uso dei colori, si pensava accentuassero il valore simbolico della luce e della bellezza interiore, fino ad essere considerati emanazione divina, secondo le tesi filosofiche della patristica medioevale.

    Nei secoli precedenti al Mille si utilizzavano i tre colori “polari”: bianco, rosso e nero, presenti in tutte le civiltà. Dal 1200 in poi l'uso degli altri colori diviene sempre più diffuso nell'arte figurativa, nelle vetrate cloisonnées, nelle miniature, nell'araldica e nel costume, sia femminile che maschile.

    Anche se alcuni religiosi, come San Bernardo associavano il colore all'esaltazione dell'avvenenza femminile, o come San Bernardino da Siena che condannava gli strascichi dell'abbigliamento femminile paragonandoli alla coda di Satana. Tuttavia pochi censurarono le abitudini di moda, neanche i Magistrati delle Pompe (nel Medioevo i nobili potevano sfoggiare gli abiti più sfarzosi e preziosi; proprio contro questo abuso di lusso, a Bologna nel 1401, lo Statuto suntuario impose precise limitazioni agli abiti e prescrisse di far bollare le vesti, precedentemente confezionate, che esulassero dalle nuove norme), preposti a tale compito, emisero decreti proibitivi. Due eccezioni nel 1300: il divieto delle ampie scollature per le signore veneziane, che adottarono “le cipriote”, abiti che lasciano sporgere generosamente i seni, e le riserve di alcuni commentatori medioevali che criticavano l'uso maschile di indossare calzabrache tanto aderenti da far risaltare gli attributi maschili.



    Ma il Rinascimento è alle porte e la bellezza e la sontuosità dei tessuti, la varietà delle fogge e dei colori esploderanno sia nel costume che nell'arte, diffondendosi dalle corti italiane in tutta Europa.

    Il problema principale per gli studiosi del Rinascimento e del periodo medievale è proprio la mancanza di simboli universalmente riconosciuti. Non solo c'erano più riferimenti simbolici per lo stesso colore, ma diversi sistemi si contraddicevano reciprocamente.

    L'uso simbolico dei colori nei rispettivi periodi:


    Rosso - Medioevo

    'Un amante indossa il rosso, come il sangue' (tardo Medioevo).
    In alcune leggende europee e racconti popolari era un segno di potere ultraterreno. Indicava anche protezione: il filo rosso per difendersi dalle streghe e collane di corallo rosso per allontanare le malattie. A volte il colore delle vesti della Vergine Maria. Il colore dei re, identificato con le virtù regali del valore e della vittoria in guerra. Inoltre, simbolo del fuoco. Era indossato da ricchi.

    Rosso - Rinascimento

    Indicava un elevato status sociale, regalità, contraddistingueva gli uomini della giustizia. Era indossato da giudici (Scozia, Sacro Romano Impero, Court of Common Pleas dell'Inghilterra, occasionalmente dai Pari nel Parlamento inglese), da magistrati reali, dal cancelliere del re (Francia) e indicava posizioni di comando nel governo a Venezia e Firenze.
    Lo indossavano uomini cosmopoliti addetti al commercio internazionale. Simbolo di potere e prestigio.
    Nella Chiesa, il rosso era un simbolo di autorità, fuoco pentecostale, del sangue di Cristo, del martirio, della crocifissione, della carità cristiana. Inoltre, poteva simboleggiare anche il satanico e il colore delle fiamme dell'inferno.
    All'Università di Padova e Bologna, il rosso era simbolico della medicina.

    Arancio - Rinascimento

    I contadini e le persone della classe media, cercando di imitare i rossi usati dalle classi superiori, utilizzavano abiti tinti con coloranti più convenienti e meno costosi, rosso-arancio e ruggine.

    Giallo - Medioevo

    Solitamente si abbina a significati negativi come risulta nell'iconografia di tutta Europa. Negli affreschi medioevali i traditori, i musulmani e gli ebrei sono vestiti di giallo: un celebre esempio per tutti, il mantello di Giuda raffigurato nel Bacio dipinto da Giotto ad Assisi. Quando il giallo vira verso il verde simboleggia la follia, i buffoni medioevali sono sempre rappresentati con costumi giallo- verdi.
    Nel tardo Medioevo il giallo, era un colore armonioso che esprimeva l'equilibrio tra il rosso della giustizia e il bianco della compassione.
    Nel tardo XIV secolo, a Venezia, una prostituta era riconosciuta per il suo vestito giallo.

    Giallo - Rinascimento

    In quasi tutte le città italiane, una prostituta era obbligata ad indossare il giallo. A Venezia, gli ebrei erano tenuti a cucire un cerchio giallo sul vestito.



    Verde - Rinascimento

    Usato dai giovani, soprattutto nel mese di maggio. Nella sfera secolare, indicava castità.
    Simbolo d'amore e gioia.



    Blu - Medioevo

    Nel Medio Evo, il blu fu associato all'oscurità e al male, successivamente con la luce, la spiritualità e trascendenza. I pigmenti blu erano essenzialmente l’oltremare, ottenuto dai lapislazzuli, e l’azzurrite. Il blu, poco usato fino alla fine del XII secolo, riprende quota perché la chimica inizia ad utilizzare, per la tintura degli abiti, oltre all'indaco, molto costoso e di difficile reperimento, anche il guado, una pianta facilmente coltivabile in Europa. Questo blu brillante e luminoso, divenne la tinta più ambita perché permetteva la “tenuta” del colore, requisito fondamentale per un abito destinato ai ricchi e ai nobili. Non a caso gli abiti dei poveri erano stinti e grigiastri.
    Nel tardo Medioevo, il blu sostituì il rosso reale nel mantello della Vergine Maria e in araldica, soprattutto in Francia. Era il colore più usato nel secoli XIII e XIV. Un amante indossava il blu col significato di fedeltà.
    Dal 1300, i contadini vestivano di blu a causa della tintura di Isatis facilmente disponibile.
    Risulta il colore più usato, non solo perché è il colore del manto della Vergine Maria, simbolo di giustizia, fedeltà e spiritualità, ma anche perché nell'Occidente divenne sinonimo di regalità: principi, sovrani, nobili usavano il blu per le cerimonie e per gli eventi importanti.

    Blu - Rinascimento

    Il blu chiaro era tipico di una giovane donna da marito. Nella sfera sacra, indaco o blu profondo significavano Castità . "... il turchese era un segno sicuro di gelosia..."
    In Inghilterra, il blu era il colore tradizionale della servitù. Servi o membri di una società cittadina indossavano abiti blu chiaro o grigio rinascimentale.

    Porpora - Medioevo e Rinascimento

    Fin dall'antichità, il colore di re ed imperatori, ma per lo più inesistente in epoca rinascimentale e medievale a causa della quasi estinzione della lumaca usata per realizzare la porpora imperiale, che scomparve nel 1453. Durante il Rinascimento, la famiglia dei Medici a Firenze, indossava il viola.

    Marrone - Rinascimento

    Abito modesto e religioso. Beige era il colore della povertà.
    In Inghilterra, abiti marrone opaco erano indossati dalle classi inferiori.


    Grigio - Medioevo

    Colore dell'abbigliamento dei contadini (VIII secolo, per ordine di Carlo Magno).

    Grigio - Rinascimento

    Abito modesto e religioso. Il colore della povertà. Nel ‘400, a Firenze, le serve erano vincolate ad indossare corsetti di lana senza colori brillanti.
    In Inghilterra, servi o membri di una società di città dovevano indossare il blu luminoso o grigio. Gli abiti grigi erano per le classi inferiori.



    Nero - Medioevo

    Era indossato da un amante malinconico. Un colore che non compare nelle vesti dei personaggi dipinti. Riservato per i paramenti dei chierici, le tonache dei Benedettini
    Colore usato dai contadini (VIII secolo, per ordine di Carlo Magno). La qualità del nero non era la stessa del periodo rinascimentale, per questo era meno costosa e quindi accessibile ai contadini.
    Secondo Papa Innocente III, circa nel 1200, il nero è il colore della penitenza e del lutto, utilizzato per l'avvento e la Quaresima. Era il colore del lutto anche in Bretagna. Il nero era associato all’umiltà, alla pazienza, al dolore, alla morte.


    Nero - Rinascimento

    Con la promulgazione di leggi che proibivano abiti e tessuti troppo costosi, il nero divenne prima in Italia, poi in Europa, soprattutto nei Paesi del Nord, il colore tipico di una eleganza composta e austera, di importanza, raffinatezza e grande dignità. Nel 1400, i colori del lutto erano il blu e il grigio, mentre il nero fu molto usato in età controriformistica, anche senza connessione al lutto. Basta pensare ai ritratti maschili di Tiziano, di Tintoretto, e ai quadri olandesi del ‘600 dove dominano signore e signori vestiti di nero.
    La moda degli abiti neri prese piede solo a partire dal XV sec., grazie l’utilizzo prima nella corte di Borgogna e poi in quella spagnola. Era il colore dell'abbigliamento di nobili e ricchi, rappresentava raffinatezza e distinzione.
    Fu indossato da Filippo il buono, duca di Burgandy dopo il 1419 per ricordare che non dimenticava la morte di suo padre.
    Simboleggiava anche la sconfitta, l'umiliazione e l'umiltà. Era indossato dai ministri del re come un segno della loro sottomissione alla volontà del sovrano.
    Era un colore costoso da produrre, indicava la distinzione sociale e non era indossato dalle classi inferiori. Nel Quattrocento, i mercanti indossavano regolarmente il nero.
    Colore tradizionale di Venezia, cui era attribuita pietà e virtù, caratteristiche che, per un veneziano, consistevano nel potenziamento della Serenissima. Un colore di alta moda nella metà del 1500.
    Un senatore veneziano vestiva di nero. A Genova, il Doge e l'aristocrazia vestivano di nero.
    In Inghilterra, le donne della classe inferiore indossavano principalmente il nero.


    Bianco - Medioevo

    Il bianco, nella valutazione cromatica medievale, come il nero, era percepito come un’assenza di colore e come tale, era spesso associato alla morte e al lutto. Conseguentemente diventa anche il colore di cambiamento. Bianco è anche il colore degli angeli.
    Nel tardo Medioevo, un amante indossava il bianco per rappresentare la purezza .
    Secondo Papa Innocenzo III circa 1200, il bianco è il colore della purezza e dell'innocenza e veniva usato nelle feste della Vergine. Simbolo di Compassione (tardo Medioevo). In Francia, il bianco era il colore del lutto.

    Bianco - Rinascimento

    Il bianco indicava purezza per le donne e la castità per gli uomini.
    All'Università di Padova e Bologna, il bianco era simbolico delle discipline umanistiche.




    Nel medioevo i coloranti naturali davano alle fibre un colore resistente; ecco le piante da cui si ricavavano i colori:

    Rosso

    rubia tinctorum (robbia domestica)
    bixa orellana (annato)
    carthamus tinctorius (zafferanone coltivato)
    dracena draco (sangue di Drago)
    roccella tinctoria (oricello)
    kermes (estratto da insetti della famiglia Kermesidae o quercus coccifera)
    robinia pseudoacacia (acacia)
    caesalpina Sapan (legno brasiliano)
    rosso di Tiro o rosso porpora (estratto dalle murici, famiglia delle gasteropodi marine).

    Giallo

    reseda luteola (reseda biondella)
    anthemis tinctoria (camomilla per tintori)
    berberis vulgaris (crespino comune)
    crocus sativus (zafferano vero)
    curcuma longa (curcuma)
    genista tinctoria (ginestra minore)
    sparticum jenceum (ginestra)
    pyrus malus(melo)
    rubus frutticosus (mora)
    rhus Cotinus (scotano)

    Blu

    indigofera tinctoria (indaco)
    isatis tinctoria (guado)
    polygonum tinctorium (poligono tintorio)

    Verde

    calicotome villosa (spazio villoso)
    cytisus scoparius (ginestra dei carbonai)
    iris pseudacorus (giaggiolo acquatico)
    lavandola stoechas (lavanda selvatica)

    Viola

    haematoxylum campechianum (campeggio)
    papaver rhoeas (papavero comune)
    vaccinium myrtillus (mirtillo nero)
    rocella tinctoria (oricella)

    Marrone

    alnus glutinosa(ontano comune)
    acacia catechu (catecù)
    juglans regia (noce comune)
    lawsonia inermis (henné)
    salix purpurea (salice rosso)
    corylus avellana (nocciolo)
    plantago major(piantaggine)

    Nero

    corteccia di ontano, castagno, leccio, faggio, quercia comune.



    Dal guado (isatis tinctoria)si ricavava una sostanza ricca gradazione di azzurri, toni carichi e vivaci detti "perso" e "persiero" che potevano degradare in azzurrino, celeste, lo "sbiadito" ed il turchino, fino ad un celeste pallido detto "allazzato"; insieme alla robbia si ottenevano tonalità di violetto e tramite l’unione con la braglia si ottenevano sfumature di verde. In Italia il guado era coltivato in molte zone ma i centri di maggiore produzione erano la Lombardia, il bolognese, l'aretino e diverse località umbro-marchigiane.

    La robbia, polvere ricavata dall'essiccazione dalle radici dalla rubia Tinctorum , ricca di alizarina, veniva sciolta in una soluzione acquosa capace di tingere le fibre di rosso; era impiegata anche come sopra tinta o miscelata ad altri coloranti ad esempio a petali di papavero per ottenere sfumature dal "paonazzo" al viola.

    Lo scotano era il nome del colorante ricavato dal legno dalle e foglie di rhus cotinus, il colore giallo carico ottenuto su fibre tessili, l'elevato tenore di tannino se trattato con sali di ferro donava sfumature di grigi e neri.

    Braglia è il nome dato dai tintori medioevali alla genestra tinctoria i cui fiori opportunamente trattati generavano un colorante capace di tingere in giallo la lana.

    Il verzino era ricavato della caesalpina sapan il cui legno è ricco di un glucoside che decomponendosi sviluppa una sostanza detta brasiliana, che per ossidazione si trasforma in un colorante rosso facilmente solubile in acqua. La pianta è una leguminosa proveniente dalle Indie orientali e dal Sappan, nelle isole Filippine.

    Il nero si otteneva facilmente combinando sali ferrosi con l'acido tannico contenuto nella corteccia di castagno, leccio, faggio e quercia comune; con un procedimento simile ma impiegando galle e galloni raccolte dagli alberi (protuberanze che si formano nei rami in seguito all'azione di alcuni insetti che vi depositano le uova) davano tinte di granlunga più brillanti e costose. Un prodotto economico era ottenuto dal mallo di noce che però offre tinture molto scadenti sia per qualità che per durata.

    L'oricella estratta per fermentazione in un bagno di urina del lichene occella tinctoria , reperibile in tutto il mediterraneo, assume un colore violetto carico degradabile a paonazzo se trattata con robbia.

     
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    MODA AI TEMPI FASCISTI

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    Storia, moda, donne e regime sono gli ingredienti principali di “Eleganza Fascista”, il libro di Sofia Gnoli (Carocci Editore) che attraverso documenti inediti e rare testimonianze, ripercorre la storia dell’affermazione della moda italiana, a partire dagli anni Venti, fino al suo grande riconoscimento internazionale dopo la Seconda guerra mondiale.

    BATTAGLIE CONTRO IL LUSSO

    Era il 1920 quando Marinetti elaborò il manifesto Contro il lusso femminile in cui condannava la cosiddetta “toilettite” e difendeva la naturalezza del corpo in contrapposizione a uno stile artificiale e decadente: “i gioielli e le stoffe dolci al tatto distruggono nel maschio l’assaporamento tattile della carne femminile”. Di tutta risposta, Lydia de Liguoro, direttrice della rivista patinata Lidel, nonché sfegatata promotrice di una moda italiana svincolata dall’influenza parigina, tuonò: “non bisogna combattere contro il lusso, ma contro il lusso d’importazione straniera”.

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    SARTINE


    Alla moda confezionata le signore preferivano ancora le consuete sartine. “Le mie predilette” scriveva Irene Brin “sono le sartine indipendenti, le isolate, che abitano una periferia percorsa da treni e cuciono nella stanza da letto, misurano nella sala da pranzo (c’è sempre un grosso tavolo con tappeto di pizzo ed aspidistra in vaso d’ottone, ed il lume trema al passaggio dei camion)”.

    MATRIMONI

    La Casa Reale e la famiglia del Duce contribuirono nel 1930 all’affermazione della moda italiana con due grandi matrimoni sfruttati propagandisticamente dal Regime per ‘lanciare’ uno stile nostrano.

    Sfarzosissimo fu quello celebrato nella Cappella Paolina del Quirinale l’8 gennaio tra il principe ereditario Umberto di Savoia e Maria José del Belgio, il cui abito nuziale fu confezionato dalla sartoria Ventura, si disse, su bozzetto dello stesso principe. Il 24 aprile dello stesso anno si celebrarono a Villa Torlonia le più borghesi nozze tra il conte Galeazzo Ciano e la figlia del Duce che indossava un vestito della sartoria Montorsi.
    Come si legge su Moda: “Edda Mussolini, illuminata dalla sua giovinezza, appariva raggiante nel suo abito di raso candidissimo che le inguainava la svelta figura e che rappresentava un nuovo miracolo di eleganza nell’industria nazionale.

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    UNO STILE ITALIANO

    “Perché guardare solamente oltralpe, quando anche da noi abbonda tanto materiale che può essere di ottima ispirazione?”, si chiedeva Vera nel 1933 sulle pagine di La Donna. Il 12 aprile di quell’anno venne inaugurata a Torino la Prima Mostra Nazionale della Moda. Se il Duce spedì un telegramma di auguri: “Se l’inizio è buono il seguito sarà migliore, si tratta di avere fede”. La regina Elena “tagliando la fragile barriera di quel nastro tricolore” fu la madrina della cerimonia di apertura della manifestazione.

    TESSILI DEL FUTURO

    “La donna del 3000 si vestirà, probabilmente, con tessuti metallizzati” notava nel 1939 Pietro Merli, capo dell’ufficio propaganda dell’azienda De Angeli Frua. “I nostri vecchi si vestivano con tessuti di lana, di cotone, noi intanto, uomini del XX secolo, ci vestiamo col lanital e col fiocco. Il lanital e il fiocco non sono succedanei; sono prodotti tessili nuovi, della nostra epoca: costituiscono un progresso. Il lanital è ‘super-lana’, il raion è ‘super-seta’, il fiocco è ‘super-cotone’. C’è stata l’età della pietra, l’età del cotone. Ora siamo nell’età del raion”.

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    SPALLINE

    Anche sull’onda dell’influenza esercitata da Joan Crawford attraverso i suoi film, le spalline erano diffusissime. Al punto che spesso, come scriveva nel 1936 Mario Vigolo sulle pagine di Moda: “la spalla forma uno dei motivi più salienti della nuova moda. Non è anzi azzardato il dire che qualche volta è la spalla che forma il modello. Ne abbiamo viste di esageratamente sagomate, ricche di pieghine e di nidi d’ape, altre con spalle dritte sostenute internamente con fili di ferro. E di conseguenza le maniche sono amplissime, pieghettate qualche volta e strette al polso da un nodo o da un cordone dello stesso tessuto”.

    TURBANTE

    Nonostante il successo che avrebbe trasformato questo copricapo in uno dei simboli della moda dell’epoca, il 10 agosto 1939 sulla Gazzetta del Popolo si legge: “Questa foggia di cappello, a parer nostro, non potrà avere gran voga, prima di tutto perché è complicata, poi perché richiede un abbigliamento in tutto raffinato, infine perché si addice ad una minoranza di donne”.


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    PELLICCE ESTIVE

    Vera costante della moda del ventennio, la pelliccia era di moda anche d’estate. Lo conferma nel giugno del 1938 Vita femminile, dove si legge: “è prevedibile che le pellicce non cadano nel consueto letargo estivo, ma che saranno più che mai presenti nei mesi caldi”.

    ZEPPE DI SUGHERO

    Salvatore Ferragamo con le zeppe di sughero fu il pioniere di uno stile nazionale in un momento in cui ancora non esisteva una vera e propria moda italiana. Lo notava già nel 1939 L’Illustrazione Italiana dove si legge: “Ferragamo è riuscito a creare una moda che prima non esisteva, quella delle calzature femminili, ed a procurarsi una notorietà internazionale”.

    A differenza dei paesi anglosassoni, che allo scoppio della guerra vararono una sorta di moda di Stato, il nostro Paese, visto il valore propagandistico che il regime attribuiva alla moda, non mostrò molti segni di mutamento.

    Dov’è la guerra?
    «La guerra c’è ma non si vede»,
    si legge sulla didascalia di un servizio comparso su Dea (luglio 1940).
    “Accanto alla sobria tenuta da sera dei due uomini,
    il bell’abito di velo di rodia della ragazza, reduce dalla veglia danzante,
    l’avvolge come in una nuvola leggera, atta a renderla ancor più seducente”.




    Edited by gheagabry1 - 17/2/2021, 19:40
     
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    IL KIMONO

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    Il kimono (着物"cosa da indossare") è un indumento tradizionale e costume nazionale giapponese. In origine il termine kimono veniva usato per ogni tipo di abito, molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang. La veste è avvolta attorno al corpo, sempre con il lembo sinistro sopra quello destro (tranne che ai funerali dove avviene il contrario) e fissato da un'ampia cintura annodata sul retro chiamata obi.

    I kimono tradizionali sono di una sola taglia e vengono adattati alle varie forme. La lunghezza ideale del kimono da uomo dovrebbe arrivare alle caviglie senza essere piegato in vita; quello da donna è invece più lungo, ma arriva comunque alle caviglie dato che viene ripiegato in vita sotto la cintura obi. Questa ripiegatura viene chiamata ohashori. Sono cuciti a mano e i tessuti usati per il loro confezionamento sono spesso fatti e decorati a mano. Venivano ricavati da un singolo rotolo di seta, broccato o satinato, chiamato tan, largo circa trentacinque centimetri e lungo circa undici metri e mezzo; a forma di T e consisteva di quattro larghe strisce di tessuto: due pannelli che coprivano il corpo e due che andavano a formare le maniche molto ampie all'altezza dei polsi (fino a mezzo metro), più due piccole strisce per il colletto e i risvolti del pannello frontale. In passato il kimono veniva spesso scucito per lavare separatamente i vari pannelli e ricucito a mano. Le decorazioni erano varie: si poteva decorare un kimono con motivi che si ripetevano o singoli disegni oppure usando della tintura speciale ottenuta impiegando un prodotto a base di una pasta di riso oppure usando la pittura a mano o ancora stencil.

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    Il kimono è composto da svariate parti, per quello da donna le parti che vanno a comporre l'indumento, secondo regole precise, sono:

    Doura: la fodera esterna.
    Eri: il colletto.
    Fuki: l'orlo principale.
    Furi: la parte della manica sotto al foro del braccio.
    Maemigoro: il pannello anteriore principale.
    Miyatsukuchi: l'apertura sotto la manica.
    Okumi: la parte interna del pannello anteriore principale.
    Sode: la manica.
    Sodeguchi: l'apertura della manica.
    Sodetsuke: il foro del braccio.
    Susomawashi: la fodera interna.
    Tamoto: drappeggio della manica.
    Tomoeri: il sopra il colletto.
    Uraeri: il colletto interno.
    Ushiromigoro: la sezione principale posteriore.

    La scelta del kimono da indossare in un'occasione è legata a numerosi simboli e sottili messaggi sociali. La scelta rifletteva l'età della donna, il suo stato civile e la formalità dell'occasione. Vi sono vari tipi di kimono:

    - Kurotomesode (黒留袖): è un kimono nero dipinto solo sotto la cintura, hanno solitamente cinque kamon (stemmi familiari) dipinti su maniche, petto e schiena del kimono. E’ molto formale per le donne sposate e sono spesso indossati dalle madri degli sposi ai matrimoni.

    - Furisode (振袖): furisode "maniche svolazzanti"; le maniche variano in lunghezza tra i 75 e i 105 centimetri (oggi possono arrivare fino a 114 centimetri, poiché proporzionate all'altezza della persona). Sono completamente decorati ed è un abito indossabile unicamente dalle ragazze nubili (indossati nella cerimonia di passaggio alla maggiore età). Si possono distinguere tre tipologie di "furisode", a seconda della lunghezza delle maniche: il kofurisode (75 cm), il chuburisode (90 cm) e l'ōburisode (105-114 cm).

    - Irotomesode (色留袖): un kimono in tinta unita (escluso il nero), decorato solo sotto la cintura. E’ indossato da donne sposate, spesso le parenti più strette degli sposi ai matrimoni. Un irotomesode può recare tre o cinque kamon.

    - Hōmongi (訪問着): letteralmente "abito da visita". Caratterizzato da decorazioni che si sviluppano oltre le spalle, attraversando le cuciture. Viene indossato sia da donne nubili che sposate.

    - Tsukesage (付け下げ): rispetto allo hōmongi ha decorazioni meno estese e generalmente limitate a sotto la cintura e alle maniche; può essere indossato sia da donne sposate che da donne nubili.

    - Iromuji (色無地): un kimono in tinta unita (a esclusione del nero e del bianco/avorio, considerati come non colori e destinati a occasioni specifiche), sono indossati in occasione delle cerimonie del tè sia da donne sposate che da donne nubili.

    - Komon (小紋): letteralmente "bel motivo", un kimono con un piccolo motivo decorativo ripetuto su tutta la superficie dell'abito. Abbastanza informale, può essere portato per strada o abbinato a un obi più elegante per una cena al ristorante.

    - Edo komon (江戸小紋): è un tipo di komon contraddistinto da piccoli punti disposti in gruppi densi a formare un disegno più ampio sulla superficie dell'abito. La tecnica di tintura dell'Edo komon nacque all'interno della classe sociale dei samurai durante il periodo Edo.

    - Yukata (浴衣): kimono estremamente informale, sfoderato, generalmente in cotone, lino o canapa. Gli yukata sono indossati in estate in occasioni all'aperto da uomini e donne di ogni età. Sono inoltre indossati alle terme, dove spesso vengono anche offerti agli ospiti degli stabilimenti termali.

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    A differenza dell'abito da donna, i kimono da uomo sono molto più semplici e si compongono di un massimo di cinque pezzi, esclusi calze e sandali. Il kimono tipico è di colore scuro (nero, blu scuro, verde scuro e più raramente marrone). I tessuti sono opachi e, nei modelli meno formali, presentano un motivo leggero. Kimono meno formali possono essere di colori leggermente più vivaci, come il viola, il verde e il blu. Alcuni lottatori di sumo a volte indossano anche colori particolarmente vivaci, come il fucsia. Il tipo di kimono più formale è completamente nero, con cinque kamon sul petto, sulle spalle e sulla schiena. Leggermente meno formale è la versione con tre kamon. Quasi ogni kimono può essere reso più formale indossando hakama e haori.

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    Gli accessori del kimono sono:

    - Datejime (伊達締め): è una piccola cintura a sciarpa parzialmente rigida indossata sotto la cintura obi per assicurarla.

    - Geta (下駄): sono sandali di legno, calzati da uomini e donne esclusivamente con lo yukata. Un tipo leggermente diverso di geta è usato dalla geisha.

    - Hakama (袴): è una gonna – divisa o unita – più simile a un paio di pantaloni molto larghi, tradizionalmente indossata dagli uomini, ma oggi anche dalle donne e usata nelle tenute di svariate arti marziali (aikidō, kendo, iaido e naginata). Una tipica hakama ha delle pieghe, una koshiita – una parte rigida o imbottita sul fondoschiena – e un himo – lunghe strisce di tessuto avvolte attorno alla vita e attorno a un obi. Normalmente non è parte dei kimono formali da signora, mentre lo è per quelli da uomo.

    - Haori (羽織): un soprabito che giunge fino all'anca o alla coscia, che aggiunge ulteriore formalità. Introdotto già tra il XV e il XVI secolo, fu riservato agli uomini fino alla fine del periodo Meiji (1868-1912).

    - Hiyoku (ひよく): è sotto-kimono, viene indossato soltanto in occasioni formali come matrimoni o eventi sociali importanti.

    - Haori-himo (羽織紐): una corda per stringere lo haori, decorata con nappine; il colore più formale è il bianco.

    - Jūnihitoe (十二単): un abito a dodici strati indossato nell'antichità dalle donne di corte. Oggi usato solo nelle occasioni più formali a corte – matrimoni imperiali o incoronazioni – e visibile nei musei.

    - Kanzashi (簪): ornamenti per i capelli in forma di fiori di seta, pettini di legno e forcine di giada.

    - Obi (帯): fusciacca o della cintura, usata per il kimono o per la yukata, generalmente usati in modi differenti a seconda dell'occasione.

    - Tabi (足袋): calzini corti con separazione infradito usati con i sandali.

    - Waraji (草鞋): sandali di corda. Usati spesso dai monaci.

    - Zōri (草履): sandali di stoffa, pelle o fibra. Possono essere molto decorati con disegni intrecciati o completamente lisci. I più formali da uomo sono di fibra intrecciata con lacci bianchi.

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    Esistono diversi tipi stili di kimono a seconda delle varie occasioni dalle più formali a quelle più informali: il livello di formalità di un kimono per donna è dato dalla lunghezza delle maniche, dal disegno, dal colore, dalle decorazioni e dal tessuto; per un uomo ciò è irrilevante poichè il kimono maschile si presenta in un ‘unica forma e i colori non sono molto accesi e brillanti come per quelli femminili però il livello di formalità lo si può dedurre dal colore degli accessori, dal tessuto e dalla presenza o meno del cimiero di famiglia (kamon).

    La storia del Kimono è legata strettamente allo sviluppo dei tessuti giapponesi e delle tecniche di tessitura.

    I periodi della storia del Giappone: Periodo Jomon (10.000 a.C. - 300 a.C); Periodo Yayoi (300 a.C - 300 d.C); Periodo Kofun (detto anche "dei tumuli") (300 - 552); Periodo Asuka (552 - 710); Periodo Nara (710 - 794); Periodo Heian (794 - 1185); Periodo Kamakura (1185 - 1333); Periodo Muromachi (1333 - 1587);

    Periodo Momoyama (1587 - 1603); Periodo Edo (1603 - 1867); Periodo Meiji (1867 - 1911); Periodo Taisho (1912 - 1926); Periodo Showa (1926 - 1989); Periodo Heisei (1989 - )


    La tintura e la tessitura iniziarono in Giappone dopo che il periodo Yayoi (età della pietra). Le prime testimonianze del tipo di abbigliamento indossato in Giappone risalgono al periodo Kofun, grazie alle sculture funebri. Uomini e donne indossavano delle specie di giacche a maniche corte e aperte sul davanti: per la parte inferiore, gli uomini indossavano dei pantaloni, mentre le donne usavano le gonne.

    Secondo alcune fonti, fu l'Imperatrice Jingo per prima a importare la seta cinese in Giappone. Secondo altri fu la principessa Sotorihime a introdurne la tessitura nel paese nel V secolo.

    I materiali tessuti a mano erano classificati a seconda dello spessore o della qualità della trama. Ogni materiale con disegni diagonali o a onde pieghettate prendeva il nome di "Aya”, con disegni di diversi colori prendeva il nome di "Nichiki" (broccato).
    I tessuti più antichi di cui possediamo dei reperti tangibili risalgono al periodo Asuka, mentre il primo esempio di industria tessile pienamente sviluppato risale al periodo Nara. Nel 711, vennero inviati degli esperti nelle province più remote per insegnare agli artigiani a creare la seta, il broccato e la tessitura diagonale. In questo periodo, apparve il primo capo d'abbigliamento somigliante a un Kimono. Gli aristocratici indossavano degli abiti ispirati alla moda cinese: gli uomini usavano delle giacche aperte, con fessure su entrambi i lati, sopra i pantaloni; le donne indossavano delle giacche corte sopra delle gonne ampie. Gli abiti della gente comune erano molto più semplici: per facilitare il lavoro nei campi, sopra ai pantaloni gli uomini indossavano dei capi molto somiglianti ai Kimono, con maniche strette e legati con fasce; anche le donne indossavano dei capi somiglianti a Kimono, sovrapponendo il lato destro al sinistro (al contrario dell'usanza attuale), e abbinandoli a una corta sottoveste e a una gonna.

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    Durante il periodo Heian, il potere degli Imperatori si indebolì e le relazioni con la Cina sospese.
    Come risultato, il Giappone poté sviluppare un proprio senso artistico.
    Il ricco broccato cinese venne sostituito da strati pesanti di Kimono. La moda del tempo prevedeva dei disegni piccoli e regolari. Accenni di varie sfumature di colore sul collo, sulle maniche e sull'orlo dei capi più ricercati, mentre sottili variazioni cromatiche si adattavano alla stagione in corso.
    L'aristocrazia dell'epoca indossava delle lunghe vesti con strascico, chiamate "sokutai". Le maniche erano grandi e aperte in fondo. Al di sotto, si trovava una sottoveste ("Kosode"), che è la diretta progenitrice del Kimono moderno.

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    Gli uomini indossavano il "noshi" nelle occasioni formali e il "kariginu" nella vita di tutti i giorni. Entrambi i capi rimanevano aperti sul davanti, erano molto larghi e possedevano lunghe maniche che arrivavano fino alle ginocchia. In aggiunta, potevano usare l'Hakama o un pantalone lungo e largo.
    Nelle cerimonie formali, le dame di corte indossavano il "juni-hitoe", formato da "dodici strati" (anche se poteva arrivare a contarne fino a venti). Lo strato più vicino alla pelle era una sottoveste semplice. Al di sopra si trovava una veste sfoderata ("hita"), seguita da un insieme di vesti con fodera di vari colori ("sugimi"). Procedendo verso l'esterno, una veste ("uchiginu") seguita da un mantello ("uwagi"). In aggiunta, nelle occasioni più formali, potevano essere aggiunti uno strascico molto lungo ("mo") e una giacca.
    Questi Kimono richiedevano molta materia prima, e i tessitori dovettero sviluppare dei metodi più semplici e rapidi per soddisfare la domanda. Vi fu un deterioramento e la tessitura divenne grossolana e a disegni ripetuti.

    Vennero redatte circa 200 regole per stabilire la combinazioni dei colori dei kimono, come armonizzare quelli delle fodere con quelli della parte esterna, ecc. I colori iniziarono a rispecchiare le stagioni e gli stati d'animo a esse associati. I colori nei mesi di novembre e febbraio presero il nome di "ume-gasane" ("sfumature del fiore di susino"), erano bianchi esteriormente e rossi all'interno. Marzo e Aprile erano associati a una combinazione chiamata "sfumature di glicine" (lavanda all'esterno e fodera blu). In estate e in primavera, la parte esterna dei Kimono era gialla e arancione. I motivi estivi includevano le onde dell'oceano e le foglie rosse d'acero.
    Le regole indicavano anche i divieti, per esempio indossare un Kimono con un fiore di ciliegio in autunno o inverno. Un'interessante usanza, ancora in voga ai giorni nostri, consiste nel possedere un set invernale e uno estivo e scambiarli in date specifiche e proviene da una legge emanata dall'Imperatore Go-Daigo (1318-1339).

    Il Kosode più antico che sia stato rinvenuto risale al 1157 e si trovava nella tomba di Fujiwara Motohira, all'interno di un tempio buddista. Differisce dai Kimono attuali per la presenza di strette maniche tubulari e l'assenza di sovrapposizione frontale.

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    Nel Periodo Kamakura (1185 - 1333), a causa degli sconvolgimenti politici, anche lo stile d'abbigliamento fu radicalmente modificato: agli abiti eleganti del periodo Heian si sostituirono delle forme più semplici e i Kimono non vennero più indossati dalla classe dei samurai. Le donne dei samurai adottarono il semplice Kosode bianco del "juni-hitoe" come abito principale, accorciandone le maniche. L'abbigliamento formale venne relegato esclusivamente alle occasioni speciali. In viaggio, non mostravano mai il volto in pubblico, nascondendolo sotto un copricapo chiamato "ichime-gasa". Verso la fine del periodo, le donne della classe militare e le dame di corte iniziarono a indossare i pantaloni interi ("Hakama").

    Nel Periodo Muromachi (1333 - 1587), nuovi tessuti arrivarono dalla Cina Ming. I guerrieri continuarono ad adottare uno stile sobrio, mentre per le donne il Kosode divenne lo standard. Per le occasioni formali, veniva indossata una veste lunga ("Uchikake"), che in seguito si è evoluta nell'abito nuziale. La gente comune indossava una mantella corta simile all'Haori.
    Il secondo Kosode più antico kimono risale al 1566 e dimostra che il modello era in costante evoluzione; sono stati rinvenuti altri dodici Kosode dell'epoca, tutti appartenenti a Ueugi Kenshin (1530-1578), un potente feudatario.

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    Nel periodo Momoyama, furono introdotti gli elementi pittorici di base e le tecniche di decorazione ancora utilizzati nei Kimono moderni. In pubblico, le donne continuavano a indossare i Kosode, ma le mogli dei Daimyo possedevano capi molto più eleganti ed elaborati. Grazie al lungo periodo di pace, l'industria tessile poté evolversi e e perfezionarsi. La moda si estese a tutti gli strati sociali: la pittura e la tessitura degli abiti non erano più prerogativa esclusiva delle classi superiori. I disegni cambiarono, passando da motivi piccoli e regolari a veri e propri dipinti a mano. Gli uomini indossavano colori più luminosi, mentre alle donne erano riservati i motivi più delicati e le tonalità tenui.
    Uno dei maggiori artisti dell'epoca fu Ogata Korin (1658-1716), altri furono Maruyama Okyo (1726-1792) e Ando Hisoshige (1797-1858). Il coinvolgimento di artisti di calibro elevato mostra l’ importanza delle decorazione dei Kimono.
    Il periodo Momoyama è considerato uno dei più produttivi e artistici di tutta la storia del Giappone. Il distretto di Nishijin divenne il centro della produzione tessile, con circa 10.000 tessitori.
    In questo periodo, si iniziò a produrre un nuovo tipo di broccato ("kara-ori") e si sviluppò un procedimento ("tsujigahana") che combinava i ricami tye-dye (letteralmente "annoda e stingi"), con i contorni disegnati con l'inchiostro. Un altro Kimono del periodo era il jimbaori, indossato esclusivamente dai nobili: si trattava di un mantello corto senza maniche, da sovrapporre all'armatura.


    Nel periodo Edo (1603 - 1867), la capitale venne spostata a Edo e la nazione si isolò dalle influenze straniere. Le decorazioni iniziarono a diminuire, ripetendo alcuni motivi del passato.
    A questo periodo risale la tecnica pittorica Yuzen, con produzioni più complesse e realistiche. L'Obi acquisì maggiore importanza. I samurai di rango superiore indossavano delle giacche sopra i Kimono e gli Hakama. Più avanti, anche gli studenti e gli uomini prestanti adottarono lo stesso stile. Il Kosode divenne ancor più popolare e le mode iniziarono a essere influenzate dagli stili indossati da cortigiani, intrattenitori e attori di Kabuki: come conseguenza, gli abiti divennero sempre più elaborati mentre gli Obi erano semplici per non distrarre dalla magnificenza dei Kimono. Gli Shogun emanarono delle leggi per regolare le spese sui Kosode che era ritenuta troppo esosa.

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    Le leggi stabilivano il controllo:

    - su quali abiti fossero appropriati per determinati ranghi e classi sociali.
    - su quali abiti fossero adatti a determinate occasioni.
    - sull'età e il sesso della persona che indossava l'abito.
    - i contadini non potevano indossare la seta (non che potessero permettersela, comunque).
    - solo i nonni potevano donare a un neonato un abito di cotone.
    - Il Kimono leggero estivo poteva essere indossato solo fra il 15 maggio e il 31 agosto. Un abito con fodera era ammesso solo fra il 1 aprile e il 15 maggio. Gli abiti imbottiti erano relegati fra il 9 settembre e il 31 marzo.
    - l'Imperatore indossava vesti cerimoniali a maniche larghe e un Hakama con dodici figure. Altrimenti vestiva in grigio e giallo se erano presenti dei motivi, o in verde se assenti.
    - l'Imperatore a riposo indossava una veste giallo-liquirizia o di seta dipinta con un misto di nocciola, chiamato "tsurubami".
    - i ministri indossavano abiti color tè con motivi semplici.
    - i proprietari terrieri e i nobili di corte indossavano abiti di vari colori.
    - gli ufficiali di quarto grado indossavano abiti color tè; quelli di quinto grado, abiti rossi; quelli di sesto grado, abiti rossi; quelli di sesto grado, abiti verde scuro; quelli di settimo grado, abiti blu scuro; il rango inferiore, abiti azzurri.

    Nel periodo Meiji (1867 - 1911), dopo due secoli e mezzo di isolamento, lo shogunato Tokugawa venne sostituito da una monarchia costituzionale e il Giappone si riaprì al mondo esterno durante il periodo chiamato "Rinnovamento Meiji". In questo periodo, furono adottati metodi industriali su vasta scala e tecniche di tintura chimica provenienti dall'occidente. Per la prima volta fu permesso a degli studenti, di lingua olandese della prefettura di Sagadi, indossare abiti di stile europeo. Ai marinai fu ordinato di utilizzare uniformi occidentali, seguiti l'anno successivo dagli ufficiali dell'esercito.
    Nel 1868 venne introdotto in Giappone l'utilizzo della macchina da cucire. Nel 1871, l’abbigliamento occidentale fu permesso anche alla gente comune, anche se la maggioranza del popolo continuò a indossare abiti tradizionali. Un fattore che alterò radicalmente la moda fu la guerra sino-giapponese (1894-1895): le donne iniziarono a lavorare fuori di casa, quindi necessitarono di abiti diversi più pratici. Verso la fine del periodo Meiji, la situazione cambiò nuovamente e vi fu una reazione contro la moda occidentale.

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    Nei Periodi Taisho (1912 - 1926), Showa (1926 - 1989) e Heisei (1989 - ), ebbe origine uno stile affascinante composto dalla fusione tra il kimono tradizionale e l'abbigliamento occidentale. Di conseguenza, si iniziò a produrre un nuovo tipo di kimono completamente contemporaneo e originale. Negli ultimi anni del periodo Meiji, l'industria tessile giapponese fece il primo passo verso la modernizzazione e l'industrializzazione. Nel periodo Taisho, i lavori effettuati con il telaio divennero molto efficienti e produttivi e la tintura chimica generò nuovi colori estremamente brillanti. Iniziò la produzione di massa, più veloce e a costi più contenuti. L'utilizzo di motivi occidentali, con forti influenze dei movimenti dell'art deco e dell'art nouveau, rese questo periodo estremamente riconoscibile.
    Nella seconda metà degli anni '20, il governo ridusse la produzione di seta per supportare il mantenimento dell'esercito: di conseguenza, si iniziò a semplificare i motivi e a risparmiare sulle materie prime. La produzione riprese ad aumentare dopo la seconda guerra mondiale, ma oramai gli abiti occidentali avevano soppiantato i Kimono. Gli ultimi rimasti e le loro varianti furono riservati alle cerimonie e alle occasioni speciali. Dagli anni '50 in poi, i motivi divennero sempre più stilizzati, mentre dagli anni '70 si nota l'influenza pop e geometrica. La maggior parte delle donne giapponesi moderne non indossa il kimono tutti i giorni, ma viene considerato ancora come una parte importante dell'abbigliamento.

     
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