BARBARI

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  1. gheagabry
     
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    La definizione di "BARBARO"



    Nell’antica Grecia, il termine bàrbaros indicava gli stranieri. Si trattava di una categoria molto ampia che comprendeva in generale tutti i non-greci, ovvero popoli che avevano una cultura diversa e che si esprimevano in una lingua differente.

    Dal sanscrito Bal “respirare”, “vivere” , nel greco diventa barbaros, “che balbetta”, “che parla in modo incomprensibile”, “straniero”, in latino diventa balbus . “balbuziente, e barbarus, “straniero.
    Ma “barbaro”, alla lettera, significava balbettante e stava a indicare qualcuno che parlava a fatica e in modo incomprensibile.


    Fino al VI secolo a.C. questo termine non aveva il significato dispregiativo che invece assunse in seguito, dopo le guerre dei greci con i Persiani.
    Fu allora che si impose l’idea di una contrapposizione tra una cultura positiva e civile e un’altra – quella barbara – vista come negativa, incivile quando non apertamente ostile. La nuova sfumatura di significato rimase tale anche quando la parola fu fatta propria dai Romani.
    Con il Cristianesimo, poi, il vocabolo passò a indicare i non-romani nel senso dei non-cristiani, considerati a priori inferiori, per civiltà, storia e cultura.

    “Barbari” per antonomasia sono i Vandali, i Visigoti, gli Ostrogoti, gli Unni e tutti i popoli del nord e dell’est Europa che, a partire dal IV secolo dopo Cristo, calarono verso sud, invadendo l’Impero romano e mettendo fine alla sua unità.



    Nel corso della storia vari popoli, per distinguersi, si sono dati vari nomi.
    I Greci chiamavano “barbari” tutti i popoli che secondo loro non parlavano ma balbettavano suoni incomprensibili (perché non erano greci e avevano quindi un‛altra lingua) e li consideravano “diversi”, “non greci”.
    I barbari compaiono nella storia greca quando l‛espansione persiana mette a rischio la sopravvivenza delle città greche. Dopo la vittoria sui Persiani, Atene diventa il simbolo della Grecia colta e democratica e la Persia monarchica e corrotta, il suo opposto; è la prima contrapposizione della storia occidentale.
    Anche se i Greci si sentivano superiori, non furono mai razzisti perché la loro cultura li spingeva a giustificare la diversità degli “altri” e a conoscerla meglio; per questo oggi conosciamo popoli come Fenici, Egiziani, Sciiti in tutti i loro vari aspetti di vita e cultura. Quindi, anche se si sentivano superiori,
    I Greci riconoscevano i valori positivi delle altre popolazioni. Anche la violenta conquista dei territori barbari non era segno di razzismo (nonostante lo sfruttamento delle popolazioni conquistate), ma era una “normale” regola di comportamento nelle relazioni internazionali che, tuttavia, non impedì una mescolanza culturale e i matrimoni misti.


    Nel corso della spedizione del re persiano Serse contro la Grecia (480-479 a. C.) gli spartani temevano che Atene stringesse alleanza con il barbaro; ma, secondo quanta racconta lo storico greco Erodoto, gli ateniesi, risentiti, risposero che non c‛era motivo di preoccuparsi, perché non si sarebbero mai alleati con i barbari che erano stati la causa di tanti danni. Gli ateniesi al termine barbaro non attribuivano quindi il significato oggi corrente di “incivile, crudele”; per loro barbaro era chi apparteneva ad un‛altra terra, ad un altro popolo



    “Nessuna alleanza con i barbari!”

    Questo risposero ai messi di Sparta: “Che gli Spartani temano che noi ci accordiamo col barbaro, era cosa assai umana. Ma ci sembra che sia ingiurioso il vostro timore, dal momento che voi conoscete i sentimenti degli Ateniesi, che non c’è in alcun punto della terra tanto oro, né paese che tanto si distingua per bellezza e fertilità che noi accetteremmo per consentire ad asservire la Grecia, parteggiando per i Medi. Molte e gravi sono le ragioni che ci impediscono di far questo,anche se lo volessimo. Prima di tutte e più di tutte importanti, le immagini e le dimore degli dei incendiate e abbattute, che noi dobbiamo di necessità vendicare duramente, invece che venire ad accordi con chi ha compiuto tali misfatti, e poi la grecità, lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni templi degli dei e i riti sacri e gli analoghi costumi, dei quali non sarebbe bene che gli Ateniesi divenissero traditori. Sappiate dunque, se non lo sapevate prima, che finché sopravviva anche uno solo degli Ateniesi mai noi ci accorderemo con Serse. Ammiriamo certo la vostra premura verso di noi, di provvedere a noi che abbiamo avuto distrutte le case, tanto da voler mantenere i nostri familiari. Voi avete compiuto ogni vostro dovere di cortesia, ma noi resisteremo così come siamo, senza darvi alcun fastidio. Ora piuttosto, stando così le cose, mandate al più presto un esercito. Perché, a quanto noi prevediamo, fra non molto tempo comparirà il barbaro invadendo la nostra terra, appena saprà dall’ambasceria che non faremo nulla di quel che egli ci ha chiesto. Prima dunque che egli compaia nell’Attica è tempo che voi accorriate in nostro aiuto in Beozia.”
    Dopo questa risposta degli Ateniesi gli ambasciatori se ne tornarono a Sparta.
    (Erodoto, Storie)






    ASPETTANDO I BARBARI

    Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari.
    Perché mai tanta inerzia nel Senato?
    E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari.
    Che leggi devon fare i senatori? Quando verranno le faranno i barbari.
    Perché l’imperatore s’è levato così per tempo e sta, solenne, in trono,
    alla porta maggiore, incoronato? Oggi arrivano i barbari.
    L’imperatore aspetta di ricevere il loro capo.
    E anzi ha già disposto l’offerta d’una pergamena.
    E là gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
    Perché i nostri due consoli e i pretori sono usciti stamani in toga rossa?
    Perché i bracciali con tante ametiste, gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
    Perché brandire le preziose mazze coi bei ceselli tutti d’oro e argento?
    Oggi arrivano i barbari, e questa roba fa impressione ai barbari.
    Perché i valenti oratori non vengono a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
    Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe.
    Perché d’un tratto questo smarrimento ansioso? (I volti come si son fatti seri!)
    Perché rapidamente e strade e piazze si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
    S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
    Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.
    E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
    Era una soluzione, quella gente.
    (Costantino Kavafis)


    Per i Romani l'unico rapporto nei confronti dei barbari (che per loro erano gli uomini del Nord Europa) era conquistare i loro territori portando una civiltà più avanzata. Però per i Romani i “barbari” non sono sempre gli stessi, ma cambiano a seconda del periodo: prima sono i Galli, poi i Germani e, infine, i Parti.
    In poche parole un popolo era “barbaro” finchè non diventava romano.
    Ecco perché le informazioni sui popoli entro i confini delle spedizioni militari si trovano in resoconti scritti dai capi militari di queste legioni; questo perché per i Romani la storia doveva essere fatta dai loro generali e scritta dai suoi scrittori.
    Del difficile e complesso rapporto tra i barbari e l’impero romano parla Alessandro Barbero nel suo libro “9 agosto 378 . Il giorno dei barbari” per arrivare a rievocare la battaglia di Adrianopoli, una delle più gravi sconfitte dell’esercito romano.

    Nel IV secolo, l'impero romano non era in crisi e la prova è che i barbari volevano entrarci. Oggi noi italiani, i francesi e le altre popolazioni latine chiamiamo questo evento “invasioni barbariche”, ma il termine corretto lo usano i tedeschi parlando di “migrazioni dei popoli”; e di fenomeni di immigrazione pacifica si trattò, più o meno, fino alla battaglia di Adrianopoli, quando assunsero una piega violenta e drammatica.
    Ai confini molte popolazioni spingevano per entrare: i persiani a est, le tribù nomadi in Africa a sud, e i barbari a nord. Il confine con i Persiani era formato da due fiumi, il Tigri e l‛Eufrate. Le tribù nomadi africane non erano molto pericolose e le frontiere bastavano a controllarli, solo qualche volta i Romani li attaccavano per renderli inoffensivi.. Per proteggere le vie commerciali bastava pagare i beduini o dare la cittadinanza romana ai capi tribù.
    “La paura è certamente una delle chiavi dell’atteggiamento romano nei confronti dei barbari. È la paura ancestrale evocata dai momenti più drammatici della storia di Roma arcaica e repubblicana: i Galli di Brenno che arrivano fino a Roma, i Cimbri e i Teutoni fermati da Mario quando stanno per traboccare in Italia. Gli scrittori romani ritornano continuamente su questa ossessione: i barbari sono tanti, troppi [...].
    Ma in realtà questa retorica, nel IV secolo, è vecchia. La tengono viva gli oratori che vengono a supplicare l’imperatore, mandati dalle province di frontiera, dalle ricche città della Gallia, dove le scorrerie dei Franchi o degli Alamanni sono una minaccia autentica; la alimentano le notizie che vengono dalle pianure danubiane, dove più di una volta il governo ha dovuto evacuare la popolazione dalle zone più esposte, ritirare le guarnigioni, risistemare i profughi all’interno, per sfuggire alle scorrerie dei nomadi; la rinfocolano le lagnanze provenienti dai confini africani, dove i latifondisti si lamentano che l’esercito è inefficiente, e non li difende abbastanza dalle razzie, e minacciano di armare i loro contadini e difendersi da soli. Ma al
    palazzo imperiale si ragiona in un altro modo. I ministri sanno che l’impero è in grado di punire i barbari ogni volta che alzano troppo la testa, ed è solo per una questione di risorse, di bilancio, di soldi che non ci sono e di reggimenti sotto organico, se bisogna accontentarsi di misure sempre parziali e provvisorie; ma non c’è da avere paura. Certo, i barbari sono gente bellicosa, e bisogna castigarli spesso, perché non imparano mai la lezione; non per niente sono barbari. Quando è passato qualche anno dall’ultima sconfitta, ecco che riprendono coraggio, entrano in territorio romano, aggrediscono le fattorie, si portano via schiavi e bottino; allora gli imperatori devono intervenire, organizzare spedizioni punitive, e sono i Romani, a quel punto, che entrano nel paese nemico, bruciano i villaggi, massacrano donne e bambini, portano via il bestiame, distruggono i raccolti, finché i capitribù non vengono in ginocchio a chiedere pietà.
    E allora quegli stessi latifondisti e commercianti che si lamentavano per l’insicurezza ricavano grossi profitti dagli schiavi catturati, dalle contribuzioni forzate imposte alle tribù, dal bestiame che l’esercito riporta in patria e distribuisce alla gente. Chi ha avuto i raccolti rovinati e gli schiavi dispersi, può chiedere che l’esercito gli assegni una squadra di prigionieri, per lavorare gratis sui suoi fondi. Intanto gli ufficiali reclutatori si aggirano negli accampamenti dei barbari sconfitti e umiliati, scelgono i giovani più robusti, se li portano via; saranno marchiati e rieducati, impareranno la disciplina e diventeranno soldati romani; e i latifondisti, che hanno l’obbligo di fornire le reclute per l’esercito scegliendole fra i loro coloni, saranno ben contenti di poter pagare una tassa, in sostituzione, visto che gli uomini ormai si reclutano oltre la frontiera. E anche un affare, la guerra contro i barbari, basta saperla gestire bene.”
    (Alessandro Barbero: “9 agosto 378 . Il giorno dei barbari”)




    Nei panni di...un “barbaro”

    “Ho lasciato la mia casa e la mia famiglia per difendere un popolo, per combattere una battaglia che non può essere vinta… e ora mi ritrovo qui: a combattere per non essere ucciso, a togliere la vita a persone che, come me, hanno lasciato i loro cari e non sanno se potranno mai tornare indietro per rivederli e riabbracciarli.
    Ormai questa guerra va avanti da due mesi, e più romani uccidiamo più ce ne vengono contro.
    Ho visto uno ad uno i miei compagni morire, accasciarsi al suolo con le lacrime in volto, la faccia e il corpo straziati dalla fatica e dal dolore; e quel che è peggio è che so che molto presto toccherà anche a me;
    nessuno di noi galli ha scampo contro un esercito di tali dimensioni.
    Eccola! Un‛altra orda di soldati… sta venendo verso di noi, prepariamoci al peggio… sono troppi!! Non ce la faremo mai! Si avvicinano sempre di più, sempre di più. In alto le spade compagni! Arrivano! Aaagh… sto morendo!... Sono stato sconfitto… devo resistere… non ce la faccio, morirò con orgoglio. Ho combattuto per il mio popolo e ne sono fiero, ho fatto il mio dovere… mi mancherete tutti… ” (chadmuska)


    Davanti a me vedo il gladiatore caduto: s’appoggia sulle mani - la virile fronte l’angoscia domando la morte accoglie e il suo capo piegato a rilento reclina e l’estreme stille dal suo fianco sboccano pigre dal vermiglio squarcio, ad una ad una come le pigre gocce d’un temporale [...] I suoi occhi seguivano il cuore in terre lontane non gli importava della perduta vita né del trofeo, ma dove sorgeva la sua rozza capanna sulle rive del Danubio, là dove giocavano i suoi giovani barbari, là era la loro madre Dacia.
    (G. Byron, Childe Harold, canto IV, stanze 139-141)




    Dicevano di loro…


    Nei pochi giorni in cui Cesare si trattenne a Vesonzione per rifornirsi di grano e di viveri, i Galli e i mercanti, interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i Germani erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e avvezzi al combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non erano neppure riusciti a sostenerne l’aspetto e lo sguardo. Di colpo, in seguito a tali voci, un timore così grande si impadronì dei nostri, da sconvolgere profondamente le menti e gli animi di tutti.

    Gli Svevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri; l’anno seguente si avvicendano: quest’ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l’agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per praticare l’agricoltura. Si nutrono poco.. di frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l’esercizio quotidiano e la vita libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà, accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che, piccole come sono,lasciano scoperta gran parte del corpo.

    Concedono libero accesso ai mercanti, più per aver modo di vendere il loro bottino di guerra che per desiderio di comprare prodotti d’importazione. Anzi, i Germani non fanno uso di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essi hanno una vera passione e li acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i cavalli della loro regione, piccoli e sgraziati, rendendoli con l’esercizio quotidiano robustissimi animali da fatica. Durante gli scontri di cavalleria spesso smontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato a rimanere sul posto i cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario; secondo il loro modo di vedere, non c’è niente di più vergognoso o inerte che usare la sella. Così, per quanto pochi siano, osano attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri che montino su sella, non importa quanto numeroso. Non permettono assolutamente l’importazione del vino, perché ritengono che indebolisca la capacità di sopportare la fatica e che infiacchisca gli animi.

    I Galli hanno la seguente abitudine: costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi e si informano su ciò che ciascuno di essi ha saputo o sentito su qualsiasi argomento; nelle città, la gente attornia i mercanti e li obbliga a dire da dove provengano e che cosa lì abbiano saputo; poi, sulla scorta delle voci e delle notizie udite, spesso decidono su questioni della massima importanza e devono ben presto pentirsene, perché prestano fede a dicerie infondate, in quanto la maggior parte degli interpellati risponde cose non vere pur di compiacerli.
    (Giulio Cesare, tratto da De Bello Gallico)


    Dunque trascorrono (la vita) barricate nel loro pudore, non corrotte da seduzioni di spettacoli o eccitamenti di banchetti.
    Uomini e donne sono ugualmente all’oscuro dei segreti della scrittura. (Sono) pochissimi, in una popolazione così numerosa, gli adulteri, e la loro punizione (è) immediata e affidata ai mariti (stessi): il marito, in presenza dei parenti, caccia di casa (la moglie), nuda (e) coi capelli tagliati, e la insegue frustandola per tutto il villaggio; infatti non (c’è) perdono per il pudore violato: (la donna adultera) non potrà trovare marito né grazie alla bellezza, né grazie alla giovinezza, né grazie alle ricchezze. Là, infatti, nessuno ride dei vizi, e corrompere e farsi corrompere non si chiama moda. Anzi, meglio ancora (si comportano) quelle tribù in cui soltanto le vergini possono sposarsi e la speranza e il desiderio di maritarsi si appagano una volta sola. Così ricevono un solo marito, come un solo corpo e una sola vita, perché non (abbiano più) alcun pensiero (del genere) dopo (la morte del marito) , perché (in loro) non sopravviva il desiderio , perché non amino (nell’uomo) il marito, ma il matrimonio. Limitare il numero delle nascite o uccidere qualcuno dei figli cadetti è considerato delitto, e sono più efficaci là i buoni costumi che altrove le buone leggi.
    (Tacito, Germania)

     
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  2. gheagabry
     
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    « Abbondanti pietanze erano state preparate per noi e per gli ospiti barbari e servite su piatti d'argento, ma Attila mangiò soltanto della carne da un tagliere di legno; inoltre, dimostrò in tutto una grande modestia: bevve da una coppa di legno, mentre agli ospiti furono dati calici d'oro e argento. Anche gli abiti erano molto semplici e puliti; la spada al fianco, le borchie delle calzature, e la bardatura del cavallo non erano adorne, come quelle degli altri Sciti, di guarnizioni d'oro o pietre preziose né di altro materiale pregiato. Il pavimento era ricoperto di stuoie di lana su cui camminare.»
    (Prisco)


    ATTILA





    Attila è una figura contrastante: temuto in Occidente che lo appella “il flagello di Dio”, ma esaltato nelle culture antiche e moderne d’Europa centro-orientale (in Ungheria come nella letteratura germanica e scandinava), dove viene ricordato come un re nobile e un condottiero coraggioso.
    Nato dalla famiglia regnante degli Unni intorno al 406 d.C. nella regione del Caucaso, ad Attila (“piccolo uomo”) fu imposto un nome germanico come era di moda tra le classi nobili unne. Si dice che a 5 anni sapesse già cavalcare e combattere con arco e frecce, forse da giovane nel il periodo che visse a Ravenna come ostaggio a garanzia di un accordo di pace. Lo zio Rua, sovrano del regno che si estendeva dall’Asia al Reno e al Danubio, nel 434 lasciò il trono ai nipoti Bleda e Attila. I due estesero il regno degli Unni completando l’assoggettamento delle tribù germaniche e scitiche, unificandole per l’unica volta nella storia. Nel 436-7, alleati con i Romani guidati dal generale Ezio, sconfissero il regno burgundo, imprsa di cui resta tracia nella saga dei Nibelunghi.




    Nel 439, i due sovrani unni raggiunsero a Margus un vantaggioso accordo con l’Impero romano d’Oriente, che si impegnava a pagare 200 chili d’oro di tributo, riconsegnare i fuggitivi, aprire i mercati ai commercianti unni e pagare un riscatto per ogni romano prigioniero, Quando però l’anno successivo l’impero bizantino sguarnì le frontiere balcaniche per combatter in Africa, gli Unni, con una scusa, ruppero il trattato e dilagarono nella penisola. Fu quella un’occasione in cui agli Unni vennero attribuiti massacri e devastazioni. L’imperatore Teodosio fu costretto a firmare una onerosa pace che fu di breve durata. Nel 445 Attila divenne unico sovrano, per la morte del fratello Bleda. Nel 447, a seguito della sospensione del pagamento del tributo da parte di Teodosio, Attila ripartì alla conquista dei Balcani e dopo la risicata ma decisiva ma decisiva vittoria di Utus tentò di assediare Costantinopoli. Gli Unni non riuscirono a conquistare la città a causa della mancanza di armamenti adatti, ma Teodosio dovete negoziare un balzello ancora più pensante. Attila riuscì anche a prevenire una congiura che i Bizantini avevano ordito contro di lui.



    A quel punto il condottiero unno concentrò le sue attenzioni sull’impero d’Occidente, che pure grazie al suo precedente aiuto contro i Visigoti e i Burgundi, gli aveva conferito la prestigiosa carica militare di Magister Militum. Gli intrighi della corte di Ravenna fecero balenare ad Attila l’idea di sposare la principessa Onoria (sorella dell’Imperatore Valentiniano III) acquisendo così titoli per il trono. Quando la cosa naufragò , divenne uno dei pretesti usati da Attila per giustificare l’invasione della Gallia. Nel 450 Attila si mise in marcia con il vasto esercito comparso da secoli in Europa, forse 500mila uomini. Devastò le città al di là del Reno, ma so trovò di fronte il romano Ezio che inaspettatamente era riuscito a mettere insieme una vasta coalizione di popoli barbarici nemici di Attila. La battaglia dei Campi Catalaunici fu quasi un pareggio, ma da punto di vista strategico Attila ebbe la peggio, fu bloccato e si ritirò oltre confine. Nel 452 calò in Italia, dove distrusse per sempre l’allora fortissima Aquileia.




    A quel punto le città della Pianura Padana si arresero e il re Unno si insediò nell’ex capitale imperiale Milano. Però, a un certo punto, incontrò sul Mincio una ambasceria romana guidata dal papa Leone I, dal prefetto Trigezio e dal console Avienno, e si convinse a tornare nel suo regno senza avanzare ulteriori pretese. E’ molto probabile che i tre rappresentato di Ezio abbiano tramesso ad Attila le minacce del generale romano che si stava organizzando e soprattutto l’avanzata dell’esercito bizantino di Marciano, verso il dominio unno; per questo Attila avrebbe ritenuto più saggio tornarsene a difendere i sui domini. Rientrato nel suo palazzo oltre al Danubio, nel 453 morì improvvisamente e misteriosamente per una forte emorragia. I suoi figli combatterono per la successione e così il suo impero andò in frantumi poco dopo la sua morte.
    (Oslado Baldacci, History – marzo 2015)

    LA SPADA DI MARTE




    Come altri sovrani e popoli barbarici, Attila dava una grande importanza agli oggetti magici, ed in particolare alle armi magiche.
    Lo storico Giordane, riportando un passo di Prisco, narra gli eventi che portarono la spada magica nelle mani di Attila:

    "Un pastore vide zoppicare una giovenca del suo gregge e non capendo la causa della ferita, seguì con ansia le tracce di sangue ed alla fine trovò una spada su cui l’animale era inciampato inavvertitamente mentre brucava l’erba; la estrasse dal terreno e la portò subito ad Attila, il quale apprezzò molto il dono e, essendo ambizioso, si convinse di essere stato eletto padrone assoluto del mondo intero e che la spada di Marte gli avrebbe garantito la vittoria in tutte le battaglie."

    La romanizzazione in “Spada di Marte”, operata dallo storico bizantino, fece perdere il collegamento originale fra Spada e Dio, inteso come entità suprema e non un semplice dio della guerra, ma rimase nelle leggende ungheresi, che parlano di “az Isten kardja”, ovvero Spada di Dio.

    Le qualità magiche dell’arma valevano sia per Attila che per il suo esercito ed il suo popolo, perchè confermavano e sostenevano la legittimazione da parte Dio o degli Dei ad esercitare il suo potere.
    Edward Gibbon ebbe a dire:

    "Il vigore con cui Attila brandì la Spada di Marte convinse il mondo che quest’ultima era stata fatta apposta per il suo braccio invincibile. Non bisogna poi scordare che Attila passò la sua adolescenza a Ravenna come ostaggio (o per meglio dire “garanzia”) dei Romani. Di conseguenza, potrebbe aver assimilato anche la fusione fra il Cristianesimo e un Impero sempre più legato all’Unico Dio."

    Per qualche secolo se ne persero le tracce ma, a metà dell’XI secolo, gli Arpadi iniziarono a spargere la notizia che la Spada di Dio era nelle loro mani. Avevano ritrovato la spada proprio dopo essersi insediati come regnanti sul popolo ungherese e dopo aver annunciato di avere un filo di sangue diretto con il sovrano unno morto quasi seicento anni prima.

     
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