ALBERI - CONIFERE, LATIFOGLIE..

..nei boschi, nella giungla insomma proprio tutti

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  1. gheagabry
     
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    Fa più rumore una albero che cade,
    piuttosto che una foresta che cresce.
    ~ Lao Tze ~


    L'ACERO


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    Gli aceri sono iscritti dai botanici nel genere Acer, una volta compreso nella famiglia delle Aceraceae, ora nelle Sapindaceae, genere che comprende circa 200 specie di alberi ed arbusti, in grandissima parte decidui, provenienti da tutto l’emisfero boreale, soprattutto da Europa, Nord America, Asia. Sono piante arboree o anche arbustive, spesso decidue, dotate di foglie opposte quasi sempre lobate, solo raramente pennate (A. negundo). I piccoli fiori, che emanano una caratteristica fragranza un po’ dolciastra, sono raccolti in pannocchie o corimbi posti alle ascelle delle foglie o anche all’apice dei getti. Ben conosciute dai bambini sono le infruttescenze, le famose due ali a forma di elica (disamare), che sono unite alla base e che contengono ciascuna un solo seme. La natura le ha create così per sfruttare il vento ed aiutare la disseminazione spontanea.

    L'acero campestre (Acer campestre L.), chiamato volgarmente loppio o testucchio, è un albero di piccole dimensioni, alto fino a 12-15 m, presente nei boschi di latifoglie mesofile. E' pianta mellifera e le sue foglie venivano una volta impiegate per integrare il foraggio degli animali. Attualmente non è molto diffuso e trova sporadico impiego per siepi rustiche di campagna e come albero ornamentale, dimostrando una certa efficacia nel consolidamento di pendii franosi.

    L'acero montano (Acer pseudoplatanus L.) è un albero dalla chioma globosa ed ampia, che può raggiungere i 40 m di altezza. E' un albero delle zone montuose, tuttavia compare anche a quote poco elevate ed è coltivato nelle città sia come pianta da giardino sia come pianta per viali alberati. Numerose varietà sono state selezionate per le particolari caratteristiche del portamento e del fogliame.

    L'acero riccio (Acer platanoides L.) è molto simile all'acero montano, col quale è spesso confuso. Ha però un minor vigore vegetativo, potendo arrivare fino a 20 m dei altezza. La sua fioritura ha un certo interesse ornamentale, con fiori molto profumati color giallo-crema, riuniti in corimbi che compaiono in aprile-maggio, prima delle foglie.

    Particolare interesse ornamentale durante tutta la stagione vegetativa rivestono i cosiddetti 'aceri giapponesi', appartenenti principalmente alle specie Acer palmatum ed Acer japonicum, selezionati dai vivaisti in tantissime varietà, con diverse colorazioni e forme delle foglie. Spettacolari le loro colorazioni autunnali, con tinte che vanno dal giallo al rosso fuoco, ma molto belle anche le tinte di verde e le trame disegnate da fogliame che essi ci regalano all'inizio della primavera.

    Altra pianta molto bella durante tutta la stagione è l'acero saccarino (Acer saccharinum), originario delle regioni nord-occidentali del continente americano (Stati Uniti e Canada, dove rappresenta l'albero nazionale). Può raggiungere i 25-30 metri di altezza ed ha foglie profondamente lobate, argentate sulla pagina inferiore. Dalla sua linfa si estrae il cosiddetto 'sciroppo d'acero'.

    Acer griseum, alberello di piccole dimensioni (3-4 m di altezza), ha una corteccia di colore bruno-aranciato che con l'invecchiamento tende a sfrangiarsi, sia sul fusto che sui rami, in sottili lamelle quasi cartacee, che rimangono attaccate alla pianta dandole un aspetto molto particolare. Il fogliame autunnale assume tonalità color porpora.

    Acer grosseri var. hersii, è un alberello di circa 5 m di altezza, con la corteccia verdastra striata di bianco. Ha una fruttificazione molto abbondante ed una colorazione autunnale rossa molto interessante.


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    "Già sorgeva il cavallo, fatto di travi d'acero: allora più che mai | i nembi risuonavano per tutto il vasto cielo"
    (Enedie, Virgilio)


    .....storia, miti e leggende.....


    L'acero (Acero pseudoplatano), nella mitologia classica, era l'albero del dio della paura, Fobos.
    Questo accostamento era probabilmente dovuto al colore rosso sangue che le foglie prendono in autunno.
    Per questo motivo il contatto con l'acero era evitato dagli antichi Romani e Greci, i quali gli preferivano il platano, dalle foglie simili. Questa caratteristica negativa fa si che l'acero non sia molto citato negli antichi libri
    In alcune regioni della Francia e della Germania si dice che le cicogne usassero mettere dei piccoli rami di acero nei nidi per tenere lontano i pipistrelli, ritenuti colpevoli di danneggiare le uove.
    Un bell'esempio di come un elemento naturale ritenuto "negativo" fosse utile per bilanciare un altro elemento, il pipistrello, anch'esso ritenuto funesto.
    Fin dai tempi più antichi cucchiai, bicchieri, piatti e scodelle di acero sono serviti a molti popoli come recipienti per cibi e bevande. Inoltre l'acero campestre è stato ampiamente coltivato e diffuso nei vigneti per fungere da tutore (una sorta di sostegno 'vivo') della vite.
    Il suo legno marrone duro, ma facile da lavorare fu usato da Stradivari nella costruzione dei violini


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    ...lo sciroppo d'acero...


    Lo sciroppo d’acero è un dolcificante ottenuto dalla linfa degli alberi d’acero ed è il meno calorico dopo la melassa. E’ parte integrante della cultura canadese perchè già gli indiani nativi, molto tempo prima dell’arrivo degli europei, lo producevano e lo utilizzavano come zucchero...Ancora oggi il periodo migliore per raccogliere la linfa dagli alberi è a cavallo tra fine inverno ed inizio primavera tramite incisioni sulla corteccia. Gli indiani ed i primi coloni europei appendevano poi agli alberi dei contenitori o secchi che lasciavano così a lungo finchè la linfa, pian piano, non li riempiva. Oggi si usano delle pompe.
    La linfa raccolta si deve raffinare tramite bollitura per diventare vero e proprio sciroppo d’acero e si calcola che ne servono 40 litri per produrne 1 solo di sciroppo.
    I nativi riuscivano a bollire la linfa anche su un semplice contenitore da appoggiare sul fuoco e quindi spesso diventava una cerimonia festosa a cui partecipava tutta la famiglia. Oppure la lasciavano in un secchio durante la notte ed il giorno seguente, dopo tante ore al freddo esterno, utilizzavano come una versione antica di zollette da zucchero i pezzi della superficie ghiacciata che si era formata.



    ...L’acero protegge la ricerca della verità, da voce alla giustizia e favorisce le riappacificazioni....


    .......una racconto......


    Basilio era un ragazzino molto attento ai fenomeni della natura e dallo spirito pratico. Spesso si divertiva con gli amici ad inventare nuovi giochi, tanto che il gruppo aumentava in continuazione perché “con Basilio non ci si annoia!”
    Memorabile quel pomeriggio in cui il gioco proposto fu una sfida a chi raccogliesse il maggior numero di frutti diversi dalla rigogliosa e varia vegetazione, che cresceva nella campagna e nei giardini del paese.
    Un giorno, il ragazzino si accorse che nella pur numerosa compagnia mancava un assiduo frequentatore: “Teodoro è all’ospedale” gli risposero i genitori. Basilio restò colpito, tanto che volle subito far visita a questo suo amico.
    All’ospedale lo trovò a letto, molto triste, quasi senza la forza di parlare: nemmeno quella visita gli aveva fatto fare un sorriso.....Basilio non si perse d’animo. Si congedò dall’amico infermo, promettendogli che sarebbe ritornato a trovarlo, convinto che per Tedoro era necessario riacquistare un po’ di allegria per guarire dalla malattia. Così, proprio nel giardino dell’ospedale vide degli Aceri negundi; raccolse allora i tipici frutti alati per portarli con sé il giorno dopo.
    L’indomani Basilio era assieme anche ad altri amici. Assicuratisi che non ci fossero nei paraggi infermieri, nell’entrare nella stanza di Teodoro i ragazzi buttarono in aria i frutti alati che, come tante eliche di elicotteri, cominciarono a roteare cadendo a terra. Questa bella sorpresa fece finalmente aprire sul volto del ragazzino infermo un bel sorriso di gioia. E proprio il desiderio di ritornare a giocare assieme ai suoi amici favorì il decorso positivo della malattia, tanto che il gruppo molto presto si ricompose....Quei ragazzini crebbero. Basilio intraprese studi scientifici, fino a laurearsi in ingegneria… aeronautica! Teodoro, invece, divenne pediatra e diede molta importanza alla terapia del sorriso per aiutare nella guarigione i suoi degenti....Tornando però indietro a quel giorno in ospedale, c’è da ricordare che gli infermieri, nel trovare il pavimento pieno di samare di Acero negundo, pensarono di chiudere la finestra della stanza per evitare un’altra invasione dei frutti alati; il ragazzino cercava invece di trattenere le risate con le lenzuola…
    (dal web)



    Gli alberi sono dei genitori per corrispondenza
    C’è un essere vivente del pianeta terra che sa generare figli o come padre o come madre, ma senza mai incontrare fisicamente l’altro genitore Non ha arti per camminare, ne gambe, ne zampe ne pedicelli , non nuota (non vive nell’acqua) e non si muove durante tutta la sua vita. Per accoppiarsi col suo simile utilizza il vento o in modo più avveduto e meno dispersivo , si sposa attraverso gli insetti, gli uccelli… Si può dire che è un genitore per corrispondenza e un campione di comunicazione.


    acero-campestre-2





    ...........................


    Ecco cosa pensava Herman Hesse degli alberi. Una citazione presa dal libro di
    Herman Hesse “Il Canto degli alberi" , Le fenici tascabili, Guanda Editore (un libro fondamentale per ogni biblioteca e per ciò che riguarda la cultura dell'albero)
    "Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. Li venero quando vivono in popoli e famiglie, in selve e boschi. E li venero ancora di più quando se ne stanno isolati. Sono come uomini solitari. Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto per sfuggire a una debolezza, ma come grandi uomini solitari, come Beethoven e Nietzsche. Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo : realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte.
    Quando un albero è stato segato e porge al sole la sua nuda ferita mortale, sulla chiara sezione del suo tronco - una lapide sepolcrale – si può leggere tutta la sua storia: negli anelli e nelle con crescenze sono scritte fedelmente tutta la lotta, tutta la sofferenza, tutte le malattie, tutta la felicità e la prosperità, gli anni magri e gli anni floridi, gli assalti sostenuti e le tempeste superate. E ogni contadino sa che il legno più duro e più pregiato ha gli anelli più stretti, che i tronchi più indistruttibili, più robusti, più perfetti, crescono in cima alle montagne, nel perpetuo pericolo,
    Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita.
    Così parla un albero : in me è celato un seme, una scintilla, un pensiero, io sono vita della vita eterna. Unico è l’esperimento che la madre perenne ha tentato con me, unica la mia forma e la venatura della mia pelle, unico il più piccolo gioco di foglie delle mie fronde e la più piccola cicatrice della mia corteccia. Il mio compito è quello di dar forma e rivelare l’eterno nella sua marcata unicità.
    Così parla un albero : la mia forza è la mia fede. Io non so nulla dei miei padri, non so nulla delle migliaia di figli che ogni anno nascono da me. Vivo il segreto del mio seme fino alla fine, non ho altra preoccupazione. Io ho fede che Dio è in me. Ho fede che il mio compito è sacro. Di questa fede io vivo.
    Quando siamo tristi e non riusciamo più a sopportare la vita, allora un albero può parlarci così : Sii calmo! Sii calmo! Guarda me! La vita non è facile, la vita non è difficile. Questi sono pensieri infantili. Lascia che Dio parli in te ed essi taceranno. Tu hai paura perché la tua strada ti allontana dalla madre e dalla patria. Ma ogni passo e ogni giorno ti riconducono di nuovo alla madre. La patria non è in questo o quel luogo. La patria è dentro di te, o in nessun posto.
    La nostalgia di vagare senza meta mi prende il cuore, quando a sera, sento gli alberi stormire nel vento. Se li si ascolta a lungo, in silenzio, anche la nostalgia di vagare rivela appieno il suo significato più profondo. Non è desiderio di scappare via dal dolore, come sembra. E’ nostalgia della propria patria, ricordo della propria madre, struggimento per nuovi simboli di vita. Conduce a casa. Ogni strada conduce a casa, ogni passo è nascita, ogni passo è morte, ogni tomba è madre.
    Così sussurra l’albero nella sera, quando abbiamo paura dei nostri pensieri infantili. Gli alberi hanno pensieri duraturi, di lungo respiro, tranquilli, come hanno una vita più lunga della nostra. Sono più saggi di noi finché non li ascoltiamo. Ma quando abbiamo imparato ad ascoltare gli alberi, allora proprio la brevità, la rapidità e la precipitazione infantile dei nostri pensieri acquistano una letizia incomparabile. Chi ha imparato ad ascoltare gli alberi non desidera più essere un albero. Non desidera essere altro che quello che è. Questa è la patria. Questa è la felicità."
    (1919)

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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:05
     
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  2. gheagabry
     
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    "Sulle sponde dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto",
    ha detto, come se parlasse da solo.
    " Ai salici di quella terra abbiamo appeso le nostre cetre."


    Il SALICE


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    E’ un albero dalle mille risorse e dai mille usi che cresce rapidamente e che si riproduce molto facilmente.
    Grazie alla sua radice capillare ha la caratteristica di reggere il terreno dove ci sono ristagni o affioramenti di acqua, lungo le sponde di fiumi o laghetti...In Botanica la grande famiglia di queste piante viene denominata “Salix” seguito dalla specie “Salix purpurea, Salix Alba, Salix Viminalis, Salix Triandra” ecc. Il riconoscimento è piuttosto difficoltoso anche per gli addetti ai lavori per la grande facilità con cui si ibridano fra loro...Il salice è una pianta che si riproduce con una straordinaria semplicità. Nella cellula della corteccia è già contenuta quella delle radici. Basta tagliare una stecca di 50 o 60 cm con uno spessore di un dito (1,5 cm... un dito da contadino) e infilarla nel terreno lasciandone fuori circa 10 cm.

    Nel linguaggio popolare corrente o arcaio, invece troviamo i nomi a seconda dell’uso che se ne faceva. Tutto quello che si può intrecciare viene chiamato genericamente “Vimini”, “Salcio o vetrice” in toscana, “Venz” in romagna, “Stropel” nel bresciano, “Salgar” nel veneto e così via. Ogni contadino quando parla di queste piante intende una varietà particolare, conviene sempre farsela mostrare, verificarne la flessibilità toccandola e “provandola” per intendersi sui termini....

    Fra le piante non alimentari che hanno accompagnato l’uomo nella storia, un posto di prestigio lo occupa il salice. Pianta dalle mille risorse: lo incontriamo mentre, con le radici, regge le rive dei fossi, nei cesti, nelle gerle, nei panieri e in altri contenitori, nelle legature delle viti o nelle cataste di legna (vero e proprio spago di campagna), nei cassetti delle persone… si nasconde all’interno dell’ “aspirina” ..... ne esistono moltissime specie e varietà. Basta guardare nei paraggi di una vigna per vedere delle piante che vengono capitozzate in inverno (cioè vengono tagliati tutti i rami e lasciato solo il tronco per ottenere verghe giovani che ricrescono ogni anno)..


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    "La cara anima stava desolata. Tutti, cantate tutti un verde salice. Stava li con la testa ripiegata. Cantate salice, salice, salice. I ruscelletti le correano accanto, e parea ripetessero il suo pianto."
    (W. Shakespeare, Otello)


    ...storia, miti e leggende.....


    La famiglia del Salice accoglie alberi, arbusti, erbacee per circa 300 specie, note fin dai tempi remoti; il nome (Linneo) viene dal latino Salix, in italiano con Salice ed anche Salcio. Proviene dalla radice sanscrita saras acqua o sarit fiume (acqua che scorre) volendo riconoscere alle piante il vezzo di prediligere terreni umidi, alluvionali, rive di fiumi, sponde di laghi e simili. Il nome, peraltro, è ricollegabile al colore grigio-argenteo della pagina inferiore delle foglie.
    Specie viventi in tempi remoti, infatti appaiono nei reperti fossili dell’era terziaria (mesozoica) che è convenzionalmente confinata tra i 65 e i 2 milioni di anni fa. Se un giorno l’umanità sarà in grado di intendere il linguaggio degli alberi, anche i salici potranno fornire la loro versione e storia delle evoluzioni che portarono alla comparsa degli ominidi.
    A questi ultimi ed ai loro successori, i salici hanno data manforte combattendone alcuni nemici della salute. Già Ippocrate (V a.C.) identificò l’esistenza, nei salici, di proprietà antidolorifiche efficaci anche nei dolori del parto. Più specificamente, Plinio il Vecchio descrive le proprietà medicamentose presenti nelle foglie e nella corteccia di alcuni salici.
    Nei 100 anni che separano la rivoluzione inglese da quella francese (illuminismo) ripresi con fervore gli studi, l’uomo di scienza scoprì che un estratto di corteccia era capace di abbattere la febbre.
    Nel 1830 venne isolata la salicina e il napoletano Raffaele Piria subito dopo potrà stabilire il procedimento per estrarre l’acido salicilico, vale a dire il principio attivo. Solo sul finire dell’800, per merito dello Hoffmann, laboratorista della Bayer, nacque dal connubio di due acidi (acetico e salicilico) l’aspirina (termine derivato da: A privativa, Spir(aea ulmaria) e In (ina) per stabilire che il prodotto è sintetizzato e non estratto dall’ulmaria.
    E va bene: però per quale motivo non compiacersi che il nome derivi da S. Aspreno, venerato a Napoli, avente la prerogativa di guarire i fedeli dal mal di testa, alla sola condizione che il capo dolente venga infilato in un apposito pertugio presente ai piedi della statua?
    Tra le centinaia di specie dei salici, quella che al pronunciare del termine si affaccia più velocemente alla memoria è il Salice piangente o S. babylonica, pur essendo plurime le varietà pendule. Quel “piangente” colpisce non perché assurdamente ci si aspetti singhiozzi, lamenti e lacrime che di fatto non ci sono, ma poiché, avendolo visto, torna il ricordo della chioma ciondoloni, tale per via dei rami ricadenti.
    Per un fatto mitologico si vorrebbe che la prostrazione dei rami sia da ricollegare alla cattività babilonese degli ebrei. Essi, cessati i riti religiosi, erano soliti appendere gli strumenti musicali ai rami di un salice incurvandoli e poi piangere lo stato di schiavitù all’ombra dell’albero medesimo. Giuste e dovute lacrime considerando che durante la cattività babilonese persero ben 10 tribù delle 12.
    Ancorché fosse imperfetto il ricordo, l’episodio da cui viene tratto lo specificativo “piangente” resta parimente suggestivo.
    Nella mitologia greca è collegato all’undicesima fatica di Ercole: il prelievo dei pomi d’oro dal giardino di Giunone detto delle Esperidi. Vi riuscì superando con un tanto astuto quanto ingenuo accorgimento, la costante guardiania di un drago e di alcune ninfe dette Esperidi. A seguito della violazione l’ingenuo mostro, Ladone, finì con l’essere trasformato in una costellazione e le “Ninfe del Tramonto” poste a guardia, giustappunto le Esperidi, furono trasformate in alberi, Egle (la brillante) in olmo, Erizia (la rossa) in pioppo, Esperaretusa (Aretusa del tramonto) in salice piangente.
    Le Esperidi probabilmente erano in numero di sette. Essendo le ninfe del tramonto una ogni sera della settimana.
    (Enzo Ferri)


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    ...ancora nella mitologia greca il salice è simboleggiato all’Idra-salice, un mostro delle paludi dalle cento teste che Teseo cercava di tagliare con la spada ma queste tutte le volte ricrescevano senza sosta... Lui risolse la questione con una freccia nel cuore...Molti riti e credenze girano attorno a questo albero, albero della fecondità e guaritore, albero delle streghe votato a divinità lunari, albero malefico. Il salice, per le sue caratteristiche, rami cadenti e foglie pendule, si è sempre guadagnato la caratteristica di albero triste, nostalgico e malinconico o albero del pianto.
    Nella mitologia, il salice era consacrato ad Ecate (la dea lunare), dea che in un primo tempo era considerata benigna poiché dava agli uomini ricchezza e presiedeva alla navigazione, diventata poi impura precipitando negli inferi diventando la "signora degli incantesimi". Durante il Medioevo, questo suo stretto legame con la luna, lo ha reso l'albero prediletto per la fabbricazione della "scopa delle streghe". I Druidi costruivano con il salice dei cesti di vimini con i quali offrivano al plenilunio sacrifici umani.


    L'origine della parola Lilith si perde nella notte dei tempi. L'etimo di « lilith » proviene forse dall'ebraico « Laylal », che significa « notte » o « spirito della notte », riportato nell'Antico Testamento (Isaia 34-14) col significato di strega notturna o
    civetta. Nell'antico poema sumero di Gilgamesh, che probabilmente risale al terzo millennio a.C., già troviamo una certa « Lilla » o « Lilitu », strana creatura che si era costruita la casa nel tronco di un « huluppu », il nostro salice, caro ad Atena, e che fu poi cacciata via dall'eroe Gilgamesh, che si accingeva ad abbattere l'albero per donarlo a una Dea... Prima di regalare l'albero, il gigante ne staccò un ramo che tenne per sé. La leggenda non ci dice cosa ricavasse Gilgamesh da questo legno ma ancora oggi il salice assolve a una funzione quasi magica: è usato infatti dai rabdomanti, insieme all'olmo e al nocciolo, per trovare le vene d'acqua sotterranee. Fin dai tempi più remoti era inoltre considerato un albero sacro alle dee della guerra e dell'amore ed era indispensabile oggetto di culto durante i riti magici di fecondazione della terra
    (Miti Babilonesi e Assiri, di Furlani).



    “Da quando intreccio cesti vedo salici dappertuttto... eppure ci sono sempre stati,
    anche vicino a casa... ma prima non li vedovo...."


    - Che fatica sprecata ch'è la tua! - diceva er Fiume a un Salice Piangente
    che se piagneva l'animaccia sua -
    Perchè te struggi a ricordà un passato se tutto quer che fu nun è più gnente?
    Perfino li rimpianti più sinceri finisce che te sciupeno er cervello
    per quello che desideri e che speri.
    Più ch'a le cose che so' state ieri pensa a domani e cerca che sia bello!
    Er Salice fiottò: - P è parte mia nun ciò né desideri né speranze:
    io so' l'ombrello de le rimambranze sotto una pioggia de malinconia:
    e, rassegnato, aspetto un'alluvione che in un tramonto
    me se porti via co' tutti li ricordi a pennolone.
    (Trilussa)


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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:19
     
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  3. gheagabry
     
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    betulla



    "Ho passato quasi cinquant'anni di vita nei boschi e ho parlato con gli alberi.
    Gli alberi non si spostano, ma possiedono un loro carattere che comunicano in vari modi, anche con la diversa reazione che hanno nei confronti di chi li tocca. In queste righe si parla di loro e di uomini: a volte bene e altre male... e così il cattivo, senza quasi rendersi conto, proverà simpatia per il sambuco, il buono per il larice, il sempliciotto per il faggio, l'elegante per la betulla, il cocciuto per il carpino e via dicendo..."
    (Mauro Corona)





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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:20
     
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  4. gheagabry
     
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    Lo scopo del regno vegetale è di nutrire animali e uomini, consolidare il terreno, accrescere la bellezza e mantenere l'equilibrio nell'atmosfera. Mi venne detto che le piante e gli alberi cantano silenziosamente per noi umani e che tutto ciò che chiedono in cambio è di cantare per loro.
    (Marlo Morgan)


    LE FELCI


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    Strane piante le felci. Appartenenti alla divisione delle Pteridofite contano più di 10.000 specie (divise in quasi 200 generi) e danno vita a una moltitudine di forme e grandezze incredibile, passando da dimensioni minuscole alla stazza dei grandi alberi, ma che comunque hanno tutte in comune due tratti fondamentali: la riproduzione tramite spore (al posto dei semi) e un ciclo vitale costituito da due fasi molto ben distinte tra loro...Dal punto di vista biologico le felci con le loro radici, fusti e foglie assomigliano in tutto e per tutto alle piante che di solito coltiviamo, solo che differiscono da queste per un “piccolissimo” particolare: non producono fiori, non generano frutti, non producono semi.
    Il ciclo vitale delle felci, detto alternanza di generazioni, è molto peculiare perché dà origine a due differenti tipi di pianta: da un lato abbiamo una pianta matura (la generazione sporofita) con tanto di radici, fusto e fronde il cui lato inferiore (ben visibile ad occhio nudo) genera spore che, una volta rilasciate, vengono trasportate anche per lunghe distanze fino a quando non trovano l’ambiente ideale (un terreno abbastanza umido) e danno vita a una piccola pianta (detta protallo) che di rado supera i pochi millimetri d’altezza, di solito dalla caratteristica forma a cuore, che è l’altro lato del ciclo vitale, cioè la generazione gametofita.
    Le spore hanno solo il 50% dei cromosomi della pianta adulta ma le gametofiti generano sia cellule maschili che cellule femminili dalla cui fecondazione si ottiene di nuovo una sporofita, munita del 100% dei cromosomi: una felce adulta.


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    Cammino lentamente lungo il sentiero delle erbe; alcune piante hannoattirato la mia attenzione, altre un po’ meno, ma il fascino della natura è sconfinato, com’è immenso il suo meraviglioso dono. Immaginate di camminare in un luminoso boschetto di larici, dove le fronde lasciano filtrare i raggi del sole; passo dopo passo, lentamente s’innalza il profumo del sottobosco.
    L’autunno bussa alle porte e le imponenti piante dorate si muovono maestose al soffio del vento, lasciando cadere ai loro piedi piccole foglioline danzanti, che si posano sul terreno e su foglie sfumate color ambra, a rigogliosi ciuffi: è la Felce, che segnala la sua presenza, sinuosa e soave, e via via, con il passar del tempo, lascia solo il ricordo della sua presenza; ma al ritorno della primavera riprenderà a germogliare, srotolando lentamente le sue foglie arricciate, fino a raggiungere la sua massima bellezza alle soglie dell’estate, quando l’eco del picchio laborioso risuona tra gli alberi e le rocce, alla ricerca di cibo per i suoi piccoli affamati.
    La rugiada si posa sui rizomi verdi della felce, i raggi illuminano le gocce che sembrano danzare alla brezza già frizzante del mattino montano. Tutto si trasforma in magia, nel silenzio del bosco. La sensazione di vedere piccoli esseri fatati è forte, il balletto della rugiada sembra un volo di fate. Forse per questo la felce è dedicata a Pan; gli eleganti rizomi della pianta sono ancora oggi protagonisti di molti rituali propiziatori, durante i quali vengono deposti sull’altare del dio silvestre, perché sacri a questa divinità.
    Si narra che questa pianta abbia la capacità di generare il "fiore magico di San Giovanni", una corolla candida e luminosa, che nascerebbe la notte tra il 23 e il 24 giugno, con il potere di rendere invisibile chi lo possiede e di donare poteri occulti e grandi conoscenze, oltre ad una forte protezione contro il male.
    Per procurarsi questo fiore (immaginario?!) occorre camminare nel bosco, nel giorno del Solstizio, osservando attentamente dove si trovano i rizomi della felce maschio; una volta trovati, bisogna sedersi presso la pianta, tracciare con un coltello, attorno a sé ed al ciuffo verde, un cerchio, dopo di che mettersi con doveroso silenzio nell’attesa, senza farsi distrarre da eventuali rumori o voci: potrebbe essere il diavolo che si avvicina per distrarci, per cui non ascoltate e non voltate il capo. Il cerchio simbolico è una protezione dalle forze sinistre: restate tranquillamente a fissare la pianta ed aspettate la mezzanotte. Ma attenti! Il fiore sboccia all’improvviso e il suo massimo splendore dura un batter d'occhio.
    Dato che siete fermi ad aspettare, sappiate che se metterete sotto alla pianta un fazzoletto bianco di seta o di lino, la felce lascerà cadere i suoi semi preziosi, che vi porteranno fortuna per tutta la vita. Per i curiosi e gli amanti dell’avventura questa potrebbe essere una simpatica esperienza. Vera o non vera? Forse una favola si può tramutare in realtà...
    La felce è una pianta perenne, dalle bellissime fronde che possono superare anche il metro; ama i terreni freschi e umidi, infatti i rigogliosi ciuffi si trovano spesso vicino a piccoli rigagnoli. La sua presenza affascina; sembra che tra quelle lunghe foglie si celi un mondo segreto e magico: quante volte mi sono avvicinata a lei e, alzata la fluente chioma, ho sperato di trovare chissà che di fatato? No, non ho trovato nessun esserino fatato, ma la sua presenza mi ha lasciato un velo di pace nel cuore.
    (Katia, dal web)


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    ...nella storia...


    La storia delle Felci è scritta nel carbon fossile e nelle rocce formatesi in lontane ere. Le piante che sono diventate carbone e le numerose impronte fossili da esse lasciate sulle antiche rocce raccontano che durante il Carbonifero, precisamente 300-200 milioni di anni fa, le felci spadroneggiavano sulla Terra. Erano alberi giganteschi e formavano immense foreste abitate da rettili e da insetti grossi come colombi (mammiferi e uccelli non esistevano ancora). Tutto ciò fu reso possibile da un ambiente caldo-umido, paragonabile a quello attuale della foresta amazzonica, ma poi un bel giorno il caldo incominciò a diminuire, gelidi venti asciugarono le paludi e resero aridi i continenti, seppellendo sotto sabbia e terriccio le millenarie foreste. il bel tempo ricominciò a spuntare al Nord, quelle che noi oggi chiamiamo regioni polari, così nuove piante invasero il suolo: le Conifere. Con esse ricominciarono a vivere le felci, ma ormai erano diventate piante piccole, amanti dell'ombra e dell'umidità.


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    ...una favola.....


    Il grillo a pois arrivò nel bosco delle fragoline scolorite. Si riposò un attimo poi cominciò a cantare il "Magnificat" di Claudio Monteverdi. Le fragoline scolorite dopo averlo ascoltato applaudirono con tale intensità che persero qualche fogliolina. Ma qualcuno protestò e chiese al grillo a pois di andarsene. Le contestatrici erano le felci verdi: sostenevano di poter essere le uniche voci a cantare Monteverdi essendo fin dalla nascita verdi verdi.
    - Taci e vattene, grillo a pois! Tu non puoi cantare l'opera di Claudio Monteverdi! Solo noi possiamo farlo perché siamo verdi, tu no! Tu sei nero e a pois per giunta! - dissero in coro le felci verdi.
    - Io sono un grillo! Ho bisogno di cantare! Io amo la lirica! Amo la musica! - rispose il grillo a pois.
    - Non ci interessa, qui tu non canti! Vattene! - Cantiamo insieme! C'è fra di voi un soprano?
    - Ma cosa dice questo...un soprano? Un soprano? Ah, sì,sì, c'è il nostro nano...lui è il nostro sovrano...ma cosa c'entra lui adesso?
    - Non intendevo sovrano, Re, Imperatore, ect...io ho detto soprano...la più acuta delle voci femminili in un'opera lirica!
    - Ci sta dando di femminucce. Ora lo vedrai insolente di un grillo a pois. Chiameremo il nano del bosco e ti schiaccerà con i suoi grossi tacchi!
    - Me ne vado, ma vi consiglio felci verdi di studiare di più la musica! La vostra ignoranza vi renderà presto secche.
    - Nano del bosco, nostro signore e sovrano accorri...accorri c'è un grillo a pois che canta.
    Il grillo lasciò il bosco saltellando e le fragoline scolorite diventarono immediamente rosse e mature. Si staccarono dalla piantina e lo seguirono contente.
    "Diventerete un coro meraviglioso!" disse il grillo a pois rivolto alle fragoline.
    (Andrea Salvatici )




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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:26
     
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  5. gheagabry
     
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    Sii come un bambù, fuori duro e compatto, dentro morbido e cavo. Le sue radici sono saldamente conficcate nel terreno s'intrecciano con quelle di altre piante per rafforzarsi e sorreggersi a vicenda. Lo stelo si lascia investire liberamente dal vento, e lungi dal resistergli si piega. Ciò che si piega È molto difficile a spezzarsi.
    (Pensiero Buddista)


    Il BAMBU'


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    Bambù e’ un termine comune che descrive un gruppo di larghe erbe legnose (sottofamiglia Bambusoideae, famiglia Andropogoneae/Poaceae). Il Bambù è la pianta con il ritmo di crescita più rapido al mondo – sino a 120 cm nell’arco di 24 ore. Molte specie raggiungono la loro maturita’ in 5 anni, ma con fioriture non frequenti. I bambù nani possono essere piccoli fino a 10 centrimetri in altezza, mentre i giganti possono arrivare sino a 15-20 metri, e il piu’ largo conosciuto (Dendrocalamus giganteus) cresce fino a 40 metri con un diametro di 30 cm.
    Il Bambù può essere raccolto selettivamente ogni anno dopo 7 anni, diversamente dai 30 ai 50 anni per gli alberi, ed è in grado di rigenerarsi senza essere ripiantato. Con un aumento di 10-30% di biomassa annuale rispetto al 2-5% per gli alberi, il Bambù può produrre sino a 20 volte più legname rispetto al numero di alberi di una stessa area.
    Comprende oltre 1000 specie di piante legnose, perenni distribuite sulla Terra tra circa 75 generi che sono nativi in ogni continente eccetto l’Europa ed i Poli. La Cina ha abbondanti risorse di bambù – oltre 300 specie di 44 generi diversi che occupano 33,000 km2 o il 3% dell’area forestale totale. Un altro maggiore produttore e’ l’India con 130 specie e 96,000 km2 coperti o il 13% dell’area forestale. Per 3000 anni, cinesi ed indiani hanno realizzato ed utilizzato prodotti in Bambù.
    Il Bambù è in grado di tollerare condizioni estreme di aridità ed allagamenti, genera il 30% in più di ossigeno rispetto agli alberi ed è considerato un elemento critico nel mantenimento dell’equilibrio tra ossigeno ed anidride carbonica nell’atmosfera. Dato il suo ampio sistema di radici ed i suoi canneti, il bambù riduce drasticamente la peridta dell’acqua piovana e previene la massiccia erosione del suolo.....è in grado di mitigare l’inquinamento delle acque attraverso il suo alto consumo di nitrati, rappresentando quindi una soluzione per la captazione e filtrazione delle acque di scarico di aziende manifatturiere, agricole e per il trattamento delle fognature.
    E' uno dei materiali più resistenti sulla Terra. Data la sua elevata forza tensile, la sua capacità di aprirsi longitudinalmente, la sua durezza, la sua particolare struttura in sezione trasversale e la facilità con cui può essere coltivata – una combinazione di caratteristiche che non sono evidenziabili in nessun altra pianta – il Bambù rappresenta uno di quelli sviluppi provvidenziali presenti in natura che, come il cavallo, la mucca, il grano ed il cotone, sono stati indirettamente responsabili dell’evoluzione dell’uomo.
    Sono state identificate circa 1500 applicazioni commerciali di cui la maggior parte in Asia. In Europa le attivita’ commerciali relative a prodotti creati con il bambu’ sono in fortissimo aumento, soprattutto nell’artigianato, arredamento e nel settore tessile.
    (dal web)


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    .....storia, miti e leggende.....


    “Possiamo vivere senza carne, ma senza bambù sarebbe la morte”, questo è ciò che pensava Confucio della pianta di bambù da lui ritenuta indispensabile per l’umanità. Per gli indiani Hopi il bambù rappresentava la via verso la salvezza, infatti una leggenda racconta che il più lontano dei quattro mondi era così affollato che gli dei decisero di piantarvi degli alberi per consentire agli uomini di arrampicarsi e tentare di raggiungere il paradiso, ma solo il bambù crebbe abbastanza e offri i suoi anelli nodosi come scala agli uomini in cerca di gioia. Fin dalle sue origini è stato utilizzato per una notevole varietà di esigenze: i conquistadores spagnoli ci costruivano case, riserve d’acqua, canali; i monaci in Cina ne fecero un nascondiglio per portare i bachi da seta a Costantinopoli, ma fu Linneo (23 maggio 1707- 10 gennaio 1778) a dargli un nome (dalla parola indiana “mambu”) inserendolo negli elenchi della botanica ufficiale.

    La lunga vita dell'albero del bambù lo rende per i cinesi un simbolo di lunga vita, mentre in India è un simbolo di amicizia. Il fatto che la fioritura avvenga raramente ha reso l'evento un segno dell' incombente arrivo di carestia alimentare. Si dice che questa credenza sia dovuta al fatto che i topi si nutrano a profusione dei fiori caduti, moltiplicandosi quindi a dismisura e di conseguenza distruggendo gran parte dei raccolti e delle riserve di cibo locali. La più recente fioritura avvenne nel maggio del 2006 (vedi Mautam). Si dice che il bambù fiorisca in questo modo soltanto ogni 50 anni.

    Diverse culture asiatiche, inclusa quella delle Isole Andamane, credono che l'umanità discenda da uno stelo di bambù. Nel mito della creazione filippino, la leggenda narra che il primo uomo e la prima donna vennero liberati per l'apertura di un germoglio di bambù che emerse su un'isola creata dopo la battaglia tra le forze elementari (Cielo e Oceano). Nelle leggende della Malesia una storia simile include un uomo che sogna una bellissima donna mentre dorme sotto una pianta di bambù; si sveglia e rompe lo stelo di bambù, scoprendo la donna all'interno di esso. In Giappone, molto spesso una piccola foresta di bambù circonda un monastero scintoista come parte della barriera sacra contro il male.


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    .....una favola....


    In un magnifico giardino cresceva un bambù dal nobile aspetto. Il signore del giardino lo amava più di tutti gli altri alberi.
    Anno dopo anno, il bambù cresceva e si faceva bello e robusto, perché il bambù sapeva bene che il signore lo amava... e ne era felice. Un giorno, il signore si avvicinò al suo amato albero e gli disse: “Caro bambù, ho bisogno di te”.
    Il magnifico albero sentì che era venuto il momento per cui era stato creato e disse, con grande gioia:
    “Signore, sono pronto, fa’ di me l’uso che vuoi”.
    La voce del Signore era grave: “Per usarti… devo abbatterti!”.
    Il bambù si spaventò: “Abbattermi, Signore? Io... il più bello degli alberi del tuo giardino? No! Per favore, no!
    Usami per la tua gioia, Signore, ma... per favore... non abbattermi”.
    “Mio caro bambù - continuò il signore – se non posso abbatterti... non posso usarti”.
    Il giardino piombò in un forte silenzio. Anche il vento smise di soffiare. Lentamente, il bambù chinò la sua magnifica chioma e sussurrò: “Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi... abbattimi”.
    “Mio caro bambù – disse ancora il signore – non solo devo abbatterti, ma anche tagliarti i rami e le foglie”.
    “Mio signore, abbi pietà. Distruggi la mia bellezza, ma lasciami i rami e le foglie!”. “Se non posso tagliarli... non posso usarti!”. Il Sole nascose il suo volto... una farfalla, inorridita, volò via. Tremando, il bambù disse, fiocamente:
    “Signore, tagliali!”.
    “Mio caro bambù, devo ancora farti di più! Devo spaccarti in due e strapparti il cuore”.
    Il bambù si chinò fino a terra e mormorò: “Signore, spacca e strappa”.
    Così, il signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami e le foglie, lo spaccò in due e gli estirpò il cuore. Poi lo portò dove sgorgava una fonte di acqua fresca, vicino ai suoi campi, che soffrivano per la siccità. Delicatamente, collegò alla sorgente un’estremità dell’amato bambù e diresse l’altra verso i campi inariditi. La chiara, fresca, dolce acqua prese a scorrere nel corpo del bambù e raggiunse i campi. Fu piantato il riso, e il raccolto fu ottimo. Così, il bambù divenne una grande benedizione, anche se era stato abbattuto e distrutto. Quando era un albero stupendo… viveva solo per sé stesso e si specchiava nella propria bellezza. Stroncato, ferito e sfigurato, era diventato un canale, che il signore usava per rendere fecondo il suo Regno.
    Noi la chiamiamo… “SOFFERENZA”. Dio la chiama… “HO BISOGNO DI TE”. "NESSUNA SOFFERENZA E' MAI SPRECATA"
    (Bruno Ferrero)




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    La leggenda racconta che in un villaggio della Cina, tantissimi anni fa, venne un’alluvione catastrofica che distrusse case e raccolti. Una bimba senza casa, disperata per la fame e la povertà, inginocchiata in mezzo al suo piccolo campo devastato, invocò l’aiuto del Dio dei Buoni. Questo apparve e le chiese:
    “Di cosa hai bisogno?”
    “Di tutto: non ho più nulla” rispose la bimba
    “Ma io posso farti un dono soltanto” disse il Dio dei Buoni
    “Mi basta; a patto però che mi dia tutto il necessario”
    Il giorno dopo, nel campo della bimba apparve una piantina mai vista prima. Come iniziò a crescere provocò molta delusione perché produceva soltanto esili cannucce. I contadini vicini di casa prendevano in giro la bambina: “Ma come, il Dio dei Buoni ti ha fatto un così misero dono? A che può servirti?” Ma la bambina rispondeva sorridendo: “Io sono certa che quel dono soddisferà non solo i miei bisogni, ma anche tutti i vostri”.
    Infatti, in breve tempo, le esili cannucce della pianta diventarono robustissime e gigantesche. Su invito della bimba generosa, che subito donò getti della sua pianta a tutti, gli abitanti del villaggio usarono quelle canne per costruire i tetti delle case, i paraventi, le stuoie, i mobili. E poi gli aratri, i cappelli per ripararsi dal sole e dalla pioggia, i bastoni per sorreggere i secchi e gli anziani, le culle per i neonati, le ceste per trasportare il raccolto e altre mille cose. Infine la bimba scoprì che i germogli di quella pianta erano anche ottimi da mangiare.
    Per questo ancora oggi i Cinesi considerano il bambù “pianta nazionale”, indispensabile come il riso alla loro vita.
    M. Vigliero

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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:40
     
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  6. gheagabry
     
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    I cipressi sono sempre nei miei pensieri, vorrei fare una cosa come i quadri con i girasoli e mi stupisce che nessuno li abbia ancora fatti come li vedo io. […] E il verde è così particolare. Rappresenta la macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una delle note nere più interessanti, fra le più difficili da indovinare tra tutte quelle che posso immaginare.
    (da una lettera di Van Gogh al fratello Theo)


    IL CIPRESSO


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    Il Cupressus sempervirens, originario dell’Iran settentrionale, della Siria, della Turchia, di Cipro e diverse isole greche (Creta, Rodi, ecc), fu introdotto negli altri paesi del bacino del Mediterraneo probabilmente prima o durante l’epoca romana.
    Il cipresso è una componente vitale nella civiltà di tutti i paesi mediterranei e costituisce un elemento peculiare del loro paesaggio e della loro arte, nonché una fonte di reddito non indifferente.
    In Francia il cipresso è stato piantato ed è presente in tutte le regioni costiere dalle Alpi alle montagne pirenaiche. E’ usato sia come pianta ornamentale che come frangivento per proteggere produzioni erbacee ed arboree; può essere utilizzato anche per piantagioni forestali.....In Grecia il cipresso vegeta dal livello del mare fino al limite della vegetazione (1750 m slm a Creta) e costituisce boschi naturali a Creta, Samos, Rodi, Cos, Simi e Milo. Nei vecchi popolamenti del Peloponneso e nelle isole del Mar Ionio questa pianta è considerata naturalizzata....In Spagna il Cupressus sempervirens è stato introdotto solo recentemente e gli individui più vecchi hanno circa 150 anni. Inizialmente veniva impiegato come pianta ornamentale intorno ai monumenti religiosi e nei giardini pubblici poi è stato utilizzato anche come frangivento e per rimboschimenti...
    In Italia non sono presenti boschi naturali di cipresso. Cipressete di piccola estensione si trovano sulle colline costiere tirreniche, dalla Liguria alla Calabria ed in Sicilia; quelle più ampie e produttive sono localizzate in Italia centrale soprattutto in Toscana vicino a Firenze, Siena e Pisa.... nel comune di Fontegreca (CE) vi è una cipresseta di 70 ettari già segnalata a partire dal 1506 e meglio conosciuta come “il bosco degli Zappini” di cui non è chiara l’origine.... In Italia settentrionale il cipresso si trova per lo più sulle rive dei laghi dove le condizioni climatiche ne favoriscono la crescita.....In Portogallo il Cupressus sempervirens non è molto diffuso ed è impiegato solo come frangivento o albero ornamentale.

    Il cipresso può raggiungere dimensioni rilevanti, anche fino a 30 m, e comprende due varietà distinte: la varietà horizzontalis ha rami inseriti quasi perpendicolarmente al tronco, con chioma tendenzialmente conica; la varietà pyramidalis (=stricta) ha la chioma fastigiata, con rami addossati al tronco, corti o lunghi.
    Il cipresso, come la maggior parte delle specie forestali, predilige suoli ricchi, profondi, umidi e ben aerati con pH neutro; tuttavia la sua grande rusticità rende spesso possibili buoni accrescimenti anche in terreni poveri, aridi e superficiali.
    Il Cupressus sempervirens è tollerante al freddo fino a -20 °C.


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    Cupressus dupreziana Camus...E’ una specie relitto originaria del Sahara algerino, più precisamente della zona del Tassili d’Ajjers, ove sono rimasti circa 150 individui distribuiti su una superficie di 200 Km2. Gli esemplari più giovani sembrano avere almeno un secolo di età, mentre i più vecchi superano i 2000 anni. Queste piante vegetano nel letto di uadi a quote comprese tra 1000 e 1800 m, con temperature minime e massime comprese tra 1°C e 30°C con frequenti gelate e con precipitazioni annuali che in media si aggirano sui 30 mm. La rinnovazione è del tutto assente, sia per la scarsa capacità germinativa di questa specie, sia per le condizioni ambientali avverse alla germinazione, alla crescita e all’affermazione delle piantine, sia per il pascolamento.
    Cupressus atlantica Gaussen....Il cipresso dell’Atlante vegeta nella parte occidentale dell’Alto Atlante in Marocco tra 1100 e 2200 m di altitudine. Questa specie, endemica di un’area geografica limitata, si caratterizza per la molteplicità di funzioni: come pianta da foraggio, da legno, ornamentale, per la difesa del suolo dall’erosione e come frangivento.
    Il cipresso dell’Atlante raggiunge mediamente i 25 m di altezza ed è caratterizzato da una chioma di forma conica, con rami più o meno sottili e lunghi, disposti orizzontalmente. C. atlantica vegeta in stazioni caratterizzate da una forte escursione termica, con temperature minime di -15°C e massime di 35-40°C ed è ben adattato a una piovosità di 250-350 mm annui. E’ una specie molto plastica per quanto concerne la natura del suolo e si ritrova su scisti primari, graniti, calcari e substrati argillosi. Trattasi quindi di una specie xerofila, frugale, con una capacità di adattamento alle condizioni più difficili di clima e suolo.


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    .....storia, miti e leggende......


    Il cipresso non e’ nato in Toscana: la sua culla e’ nel bacino del mediterraneo orientale, idealmente fra la Persia (attuale Iran) l’Egitto e la Grecia. In Italia fu importato dai Fenici e dai Greci ed in Toscana dagli Etruschi.....Il cipresso molto prima di abbellire i viali,i giardini, i parchi, le fattorie delle colline toscane al punto di divenire da qualche secolo a questa parte uno dei massimi simboli del paesaggio toscano, ha avuto un’importanza ornamentale e simbolica praticamente ininterrotta per migliaia di anni.
    L’ attenzione dell’ uomo per questa pianta viene da molto lontano; cipressi snelli e slanciati venivano regolarmente introdotti nei giardini dei leggendari palazzi persiani ed egizi, ugualmente ad Atene se ne sottolineava con piacere l’ intrinseca eleganza formale....nell’antico Egitto si utilizzava esclusivamente legno di cipresso per costruire i sarcofagi e l’ olio essenziale di questa pianta veniva usato a scopi terapeutici. Gli egiziani si servivano di oli essenziali, tra cui quello di cipresso, per imbalsamare i corpi dei defunti perche’ sapevano che esso era in grado di bloccare, in quanto antisettico e antibatterico, la proliferazione dei microbi e quindi il processo di decomposizione.
    Quello del cipresso era uno dei legnami piu’ pregiati del mediterraneo, forte e aromatico e i medici antichi consigliavano ai malati di soggiornare nelle zone dove crescevano boschi di cipresso (l’isola di Creta era famosa) perche’ ritenevano che purificasse l’aria. Anche Ippocrate ne conosceva le proprieta’ antibatteriche: quando infatti ad Atene scoppio’ la peste, egli consiglio’ ai suoi cittadini di bruciare piante di cipresso ed erbe aromatiche agli angoli delle strade per fermare l’epidemia.
    Anticamente, e ancora oggi in oriente, questo albero evocava soprattutto il simbolo della fertilita’ per il suo aspetto vagamente fallico, tant’e’ vero che gli antichi romani ponevano a guardia dei loro campi, giardini e vigne, statue con enormi attributi intagliate in questo legno ed in occasione delle nozze gli sposi ricevevano in dono giovani piante di cipresso.
    Nelle novelle medioevali simboleggiava l’amante, era anche l’immagine vegetale dell’ immortalita’ dell’anima a causa delle foglie sempreverdi e del legno considerato incorruttibile, nel quale erano stati intagliati: la freccia di Eros e la mazza di Ercole. Nell’odissea di Omero cipressi odorosi erano davanti alla grotta della ninfa Calipso la quale era dispensatrice dell’ eterna giovinezza. Erano di cipresso le porte della basilica costantiniana di San Pietro e le cronache riferiscono che quando furono sostituite durante il pontificato di Eugenio IV fossero dopo 1000 anni ancora in perfetto stato.
    I persiani vi coglievano il simbolo vegetale del fuoco per la sua forma evocatrice della fiamma e sostenevano che fosse il primo albero del paradiso.
    Nell’antica mitologia greca l’origine del cipresso e’ narrata nella leggenda di ciparisso (kuparissos). Apollo il Dio del sole si era invaghito della bellezza del giovane ciparisso, che aveva per compagno un cervo addomesticato. Mentre un giorno si esercitava con l’arco Ciparisso colpi’ erroneamente il cervo e lo uccise. Tanta era la sua disperazione da implorare a sua volta la morte. Apollo commosso dal dolore del suo amato, lo trasformo’ in un albero al quale dette il nome di cipresso e che da allora divento’ il simbolo del lutto e dell’accesso all’eternita’.
    Si trovano tracce di questa pianta in testi assiri di 3500 anni fa. Anche il popolo ebraico nel primo libro della Bibbia racconta che Dio prima del diluvio comando’ a Noe’ di costruire un’arca in legno di cipresso.
    Nella tradizione cristiana per la sua verticalita’ assoluta, l’erigersi verso l’alto, il cipresso indica l’anima che si avvia verso il regno celeste.

    Il cipresso è il simbolo dell’immortalità come emblema della vita eterna dopo la morte, infatti lo si trova nei cimiteri. Per la sua verticalità assoluta, l’erigersi verso l’alto, il cipresso indica l’anima che si avvia verso il regno celeste. Nella Grecia antica è associato ad Apollo e Artemide. È l’albero di Ade, dio dei morti. I Greci e i Romani lo collegarono, invece, al culto di Plutone, dio degli Inferi. Venivano accesi grandi falò di legno di cipresso nelle cerimonie funebri per aprire le porte dell'Ade ed aiutare l'anima del defunto a trovare la Via.Poiché il cupo fogliame del cipresso esprime malinconia e dolore, i sacerdoti di Ade se ne facevano delle corone e se ne cospargevano le vesti duranti i sacrifici.

    Per i Cinesi ed i Giapponesi è simbolo della vita.
    Una leggenda cinese racconta che, strofinando sui talloni la resina del cipresso, si riesce a camminare sulle acque e a rendere il corpo molto leggero.....Alcune società segrete cinesi collocano il cipresso, come loro simbolo, al lato dell'ingresso del mondo degli immortali...Ancora oggi è usanza di qualcuno di bruciare rametti di cipresso per purificare un ambiente e favorire il raccoglimento nella meditazione.


    Cari-Cipressi-Di-Bolgheri


    .......Bolgheri.......


    Progettato nel ‘700 come semplice stradone diritto, in sostituzione di un antico tracciato tortuoso spesso impraticabile, il Viale dei Cipressi di Bolgheri fu costruito a tratti sul finire del secolo e divenne viale solo dopo la metà del 1800.
    La trasformazione del territorio di questa parte della maremma rientra in un ampia serie di cambiamenti dell’assetto territoriale viario e idrogeologico, con interventi di bonifica realizzati a più riprese dal ‘700 fino alla metà dell’800. Nella zona di Bolgheri si verificarono vere e proprie “poderizzazioni”, con lo sviluppo della mezzadria, dell’allevamento del bastiame e con la nascita di molte fattorie, degne di vanto ancor’oggi per la produzione di vini tra i più pregiati al mondo.
    Fu nel 1734 che si iniziò a realizzare un primo tratto di strada rettilinea che si collegherà in parte all’attuale Viale, inizialmente piantumato con pioppi cipressini, come l’allora via regia ... I pioppi risultarono molto appetiti al bestiame, per questo già dopo pochi anni, i Conti della Gherardesca decisero di piantare essenze meno appetite, scegliendo a tal scopo il cipresso. Tra il 1843 ed il 1844 furono ordinati a Firenze 3582 cipressi per lo “Stradone” di San Guido. I lavori andarono a rilento e si bloccarono in corrispondenza del bivio per l’attuale via Bolgherese. Da tale punto, in direzione del borgo di Bolgheri, il viale ebbe come sentinelle delle piante di olivo. Fino ad allora perciò il Viale dei Cipressi misurava poco più di 3 km. Nel 1911 la piantumazione del Viale fu condotta a termine e il Viale dei Cipressi raggiunse una lunghezza di 4962 metri, in perfetta dirittura, fermandosi a rispettosa distanza dal castello di Bolgheri.
    I due filari di cipressi costituiscono un insieme armonico e un’architettura verde che fa da quinta arborea tra due palcoscenici: il centro storico di Bolgheri sulle colline e la distesa verso il mare. Il viale è inserito in un territorio ove la bellezza della natura circostante è rimasta in gran parte protetta dallo sviluppo urbano e turistico indiscriminato e ove anche l’esercizio dell’agricoltura è risultato valorizzante.
    Il Viale dei Cipressi emerge dalla pianura formando un maestoso e spettacolare taglio geometrico che attraversa la piana e le colline ondulate.....si viene colpiti da un effetto prospettico avvolgente e da un’atmosfera che suggestiona e incanta. Le poesie che Carducci scrisse in ricordo dei luoghi maremmani della sua infanzia, tra cui la famosa “Davanti San Guido”, dedicata proprio al viale dei cipressi, contribuirono a creare la fama e il mito che ancora oggi circondano Bolgheri e il suo viale.
    (dal web)

    Con Decreto Ministeriale del 21 agosto 1995 il viale di Bolgheri è stato dichiarato bene di interesse artistico e storico e, come tale, sottoposto al regime di tutela previsto dalla legge 1089 sui beni monumentali. Il viale costituisce uno degli esempi più conosciuti e, probabilmente, il più celebrato, del ruolo paesaggistico, simbolico e rappresentativo che il cipresso riveste in Toscana.


    "I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
    Van da San Guido in duplice filar,
    Quasi in corsa giganti giovinetti..."
    (Giosuè Carducci, 1874)


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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:52
     
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  7. gheagabry
     
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    IL PITTORE DI BAMBU'

    Si narra che un discepolo andò da un Maestro Zen, e gli chiese come poter dipingere meravigliosamente il bambù. Il discepolo era un pittore esperto e aveva ricevuto molti riconoscimenti e molti onori, la sua pratica della pittura era molto avanzata, ma lui voleva dipingere un quadro che fosse veramente superbo per onorare la sua arte. Il Maestro Zen lo guardò e gli sorrise, poi disse: “Se vuoi dipingere perfettamente, vai nella foresta dei bambù, e vivi con loro. Come puoi raffigurare ciò che non conosci? Solo quando conoscerai il bambù, solo allora, tu potrai dipingerlo perfettamente. Oggi lo raffigureresti dall’esterno ma, se lo conoscerai bene, ne saprai cogliere tutta l’essenza.”

    Il discepolo si recò nella foresta dei bambù e visse meditando per tre anni, così meditò nel trascorrere delle stagioni, e osservò il bambù in tutti i suoi comportamenti, poiché il bambù si comporta diversamente a seconda delle condizioni del tempo e a seconda delle circostanze, infatti il bambù ha i suoi umori. Il bambù fa un rumore quando viene scosso dal vento, mentre fa un rumore diverso quando viene colpito dalla pioggia: l‘umore del bambù diventa gioioso se viene riscaldato dal sole, mentre diventa sospiroso se viene calpestato dal cuculo che si posa sul suo fusto.

    Vivendo in mezzo al bambù, e meditando profondamente, il pittore lo imparò a conoscere come s’imparano a conoscere le persone: lo osservò nei momenti di dolore e di gioia, e lo conobbe nelle salite d’estasi gioiosa, così come nei dolori della tormenta. Il discepolo continuava a vivere nel bosco del bambù finché, un giorno, mentre era seduto in meditazione lui si dimenticò di tutto e, mentre si alzava il vento facendo ondeggiare la foresta, anche lui prese ad ondeggiare lentamente come uno stelo di bambù, facendosi portare dolcemente dal ritmo del vento.

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    E in quell’istante, quello che non era accaduto fino a quel momento, in un solo istante, tutto quanto avvenne! Il discepolo si dimenticò di sé e si fece catturare interamente dal bambù e, ondeggiando divenne della sua natura, e rimase a lungo ad ondeggiare beatamente. Fu solo più tardi, quando il vento si fu calmato e la foresta restò immersa nel profondo silenzio e nell‘immobilità, fu solo allora che si ricordò di essere stato rapito dall’anima della pianta, e di essersi inebriato della sua essenza.

    Fu solo dopo quel fatto che, il discepolo amante della pittura, poté fare il dipinto perfetto del bambù, e quando il quadro fu ultimato tutti ne erano incantati perché nel dipinto vi era l‘anima del bambù unita ai suoi veri sentimenti, narrati con il senso del trascorrere delle stagioni: nel dipinto era magistralmente raffigurata la conoscenza totale e la più profonda essenza dell’anima del bambù.

    Sharatan






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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:56
     
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  8. gheagabry
     
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    vecchio-grande-quercia-caduta-alla-luce-del-sole-estivo-182696843

    LA QUERCIA CADUTA

    Dov'era l'ombra or sé la quercia spande
    morta, né più coi turbini tenzona.
    La gente dice: "Or vedo: era pur grande!".

    Pendono qua e là dalla corona
    i nidietti della primavera.
    Dice la gente: "Or vedo: era pur buona!".

    Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
    ognuno col suo grave fascio va.
    Nell'aria, un pianto... d'una capinera

    che cerca un nido che non troverà.

    Pascoli



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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 17:58
     
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  9. gheagabry
     
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    Se un albero scrivesse l'autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo.
    (Kahlil Gibran)


    L'OLMO


    U


    L'olmo bianco o ciliato è un albero alto fino a 30 metri, a foglia caduca.
    Le foglie, lunghe al massimo 10 cm, sono asimmetriche alla base della lamina e sensibilmente dentate. Le nervature, a differenza di quelle di Ulmus minor, non sono ramificate. La pagina inferiore è vellutata ("laevis" in latino significa appunto "vellutato").
    I fiori appaiono precocemente a primavera, prima delle foglie. Sono riuniti in infiorescenze, hanno piccioli lunghi circa 2 cm e sono privi di petali. L'impollinazione è anemofila.
    Il frutto, una samara, si distingue da quello degli altri olmi per essere lungamente peduncolato e finemente ciliato sui bordi: questo fatto gli conferisce il nome di "olmo ciliato". Ogni samara contiene un unico seme rotondo, di circa 5 mm. Anche le samare appaiono precocemente sulla pianta, appena prima dell'apertura delle gemme o insieme alle prime foglioline, e prima di maturare sono di colore verde. Questo fa sì che a un esame superficiale possano essere scambiante per foglioline.
    I rametti, molto fini e privi di peluria (a differenza di quelli di Ulmus glabra), hanno piccole gemme alterne.
    E' un albero molto longevo, infatti può superare i 600 anni di vita.
    Nella vita agricola l’olmo ha rappresentato fino a non molti anni fa un’insostituibile risorsa alimentare per il bestiame perché quando si diceva genericamente “fare la foglia” significava raccogliere questo tipo di foglie. Le foglie d’olmo erano considerate un ottimo integrativo ai foraggi verdi per l’alimentazione dei bovini soprattutto per le vacche in lattazione.



    Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia, un cupo immenso olmo ove a torme albergano,
    si dice, i fallaci sogni che alle foglie sono sospesi.
    (Da: "Eneide", VI, Publio Virgilio Marone)



    jpg


    ......storia, leggende e miti........


    In antichità l'Omo, sacro a Morfeo aveva il compito di apparire ai dormienti con sembianze umane. Gli si attribuiva la facoltà di stimolare il sogno ed anche un potere oracolare. Nel medioevo divenne l'albero sotto il quale si amministrava la giustizia....Gli antichi avevano consacrato l'Olmo a Morfeo, aveva la facoltà di evocare sogni e gli fu attribuito anche un potere oracolare. Nel Medioevo divenne, assieme alla quercia, l'albero dove si amministrava la giustizia. E' stato sfruttato fin dall'antichità per sostenere la vite come un marito che sorregge la moglie, anche per questo simboleggiava anche l'amicizia eterna...Un tempo si poteva leggere che “la vite si maritava con l’olmo”. Le prime testimonianze scritte in proposito sono quelle di Columella e di Catullo che chiamava “vedova” la vite disgiunta dall’olmo. Catullo non è rimasto il solo fra i poeti latini ad usare l’unione fra l’olmo e la vite come metafora di “unione necessaria” all’amore: Marziale, poeta diseguale per l’intonazione varia dei suoi versi, dal salace al nostalgico, dal lascivo al didascalico, descriveva così l’affetto degli sposi....Una corona di vite, un ramo d’olmo ed un alcione poggiato sul braccio sono gli ornamenti con cui il mito classico ha rappresentato in forma di figura l’unione matrimoniale ed un amore indivisibile.


    Oneiros, figlio della Notte, dio dei sogni, o Morfeo, figlio del Sonno e nipote della Morte, dio delle chimere capace di assumere la forma umana per apparire nei sogni degli uomini addormentati erano legati all'olmo che per entrambi era pianta sacra.
    Virgilio ci parla dell’olmo dei sogni o ulmus somniorum alle cui foglie sono appese torme di sogni fallaci.
    Il Petrarca, sicuramente conosceva quei versi, ci parla di un olmo che dalle “fronde sogni piove” mescolando ad arte verità e menzogna.Sonno, sogni, e morte collegati ad uno stesso albero simbolico non potevano non creare un punto focale, un oracolo capace di interpretare e dare segni del volere degli dei....Plinio riporta un evento eccezionale accaduto quando i Cimbri minacciavano i confini e si temeva un loro ingresso nelle pianure italiche. Da quattro anni gli eserciti romani conducevano in modo assai tribolato una campagna militare segnata da gravissime perdite, ultimo atto l’annientamento di un intero esercito nel 105 a.C.. Nel bosco di Niceria, consacrato a Giunone, si provvide a cimare la cima di un olmo che si protendeva sull’altare. Subito, senza l’aiuto di alcuno, l’albero tornò ad ergersi e immediatamente fiorì.
    Le fortune del popolo romano, accompagnate dagli agognati successi militari, si risollevarono.
    Nel periodo medioevale, soprattutto in Francia, si era soliti piantare fuori dalla porta del castello un olmo. Al riparo delle sue fronde veniva amministrata la giustizia direttamente dal signore del maniero o dai giudici da lui designati. I giudici che non possedevano un tribunale stabile si chiamavano, per estensione, giudici sotto l’olmo.
    Francese è anche l’espressione, un tempo assai comune, “aspettare sotto l’olmo”: significa che uno fra i contendenti non ha intenzione di presentarsi al confronto e lascia l’altro ad aspettare nel luogo prestabilito; sotto l’olmo, appunto.
    Dopo l’usanza medioevale altri sovrani in tempi più vicini vollero circondarsi di olmi. Enrico IV chiese che le strade del regno fossero fiancheggiate da olmi e ne incoraggio la diffusione così che è possibile datare con una certa precisione, intorno ai quattrocento anni, gli esemplari più vecchi sopravvissuti in Francia.
    Per un lungo periodo è rimasta l’usanza relitta di piantare un olmo di fronte alla porta delle case coloniche.
    Nel 1526, o intorno a quegli anni, quindi ancora prima, Enrico VIII fece mettere a dimora gli olmi che fiancheggiano il viale del castello reale di Hampton Court.
    Fra gli olmi storici ricordiamo l’olmo irlandese di Kildare schiantato da un uragano nel 1776 con una circonferenza di dieci metri capace di coprire con la sua chioma un’area di oltre trenta metri di diametro pari, ricondotta ad un ipotetico cerchio perfetto, a circa 900 metri quadrati.
    (giardini.biz)



    La corteccia di olmo era usata dal pellerossa per cicatrizzare le ferite, contro numerose malattie della pelle, per curare le mucose infiammate sia dell'apparato respiratorio... In Europa, Teofrasto conferma l'uso dell'olmo già nel 111 secolo A.C., per le proprietà cicatrizzanti e lenitive in piaghe e malattie della pelle. Plinio lo cita nella sua "Storia naturale" sempre come cicatrizzante delle ferite. Discoride ne raccomanda l'uso nelle malattie cutanee, Galeno cita le foglie come importante astringente. Nel tardo Medioevo lo si riteneva utile per febbri intermittenti, dolori reumatici, scrofola (processo infiammatorio di natura tubercolare a carico dei linfonodi), cancro, malattie nervose. Nel Rinascimento il Mattioli riconferma molte proprietà del passato e afferma che il decotto di corteccia di radice è utile nelle contrazioni e convulsioni nervose.


    jpg


    .......curiosità......


    Un legno particolarmente resistente.....La tradizione vuole che il legno dell’olmo sia destinato non solo a mobilio di buona fattura, ma anche alla costruzione di quelle parti sottoposte a sforzi di torsione e trazione che più di altre potrebbero andare soggette al difetto dello spacco. Veniva, infatti, impiegato nella costruzione dei vecchi mulini ad acqua.
    Questa sua caratteristica di particolare resistenza lo faceva scegliere anche per la fabbricazione dei ruzzoloni quando non fosse possibile trovare un pezzo di radica di noce disponibile e delle dimensioni richieste. Il ruzzolone altro non è che un disco di legno attorno al quale viene arrotolata una fune piatta così da poter essere lanciato con forza dal giocatore lungo un percorso prestabilito. Il disco di legno oltre all’impatto iniziale col terreno e all’usura è destinato ad urtare pietre, tronchi d’albero, paracarri di strade e tutto quanto si trovi sul proprio cammino: per questa ragione è richiesta una resistenza particolare. Rispetto alla radica di noce i ruzzoloni così ottenuti potevano mostrare nel tempo una certa tendenza ad imbarcarsi disassandosi.

    In quest’ottica deve essere inserito il progetto di salvataggio del patrimonio genetico dell’olmo storico di Montepaone, provincia di Catanzaro, portato a termine con successo lo scorso anno. Ad interessarsi in prima persona è stato l’Architetto Aurelio Tuccio.
    L’olmo di Montepaone è considerato da molti l’ultimo Albero della Libertà ed è in condizioni tali da non lasciare prevedere una lunga sopravvivenza. Proprio per salvaguardare e conservare per i posteri il patrimonio genetico di un albero di indubbio valore storico e monumentale il C.N.R. di Firenze ha ricevuto il materiale appositamente raccolto (talee raccolte dall’ultimo accrescimento dell’anno) per inserirlo nella banca genetica, per crio-conservarlo, per riportare i dati dendrometrici e topografici in una banca dati europea che raccoglie tutti gli olmi di particolare interesse del continente, e per procedere alla clonazione così da poter disporre di “piante copia” del vecchio olmo con cui poter procedere alla sostituzione quando finiranno i suoi giorni.
    (Alessandro Mesini)



    Stando il fico vicino all'olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il sole a' sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: "O olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta ch'e mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti troverai". I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale stando poi così storpiato delle sue membra, l'olmo lo dimandò dicendo:" O fico, quanto era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato".
    (Leonardo da Vinci)


    Ulmus_minor_4



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    Edited by gheagabry1 - 15/2/2022, 18:07
     
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  10. gheagabry
     
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    Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero;
    e tra mezzo e fine vi è esattamente lo stesso inviolabile nesso che c'è tra seme e albero.
    (Gandhi)


    L'albero di Giuda
    Cercis siliquastrum



    Il nome, Albero di Giuda, condanna nella nostra cultura a radici cristiane il Cercis siliquastrum ad essere guardato con eterno sospetto: le colpe di Giuda, infatti, il peccato estremo del tradimento per trenta denari, non sono facili da dimenticare e si associano immediatamente a chi ne porta il nome anche se la leggenda non attribuisce nessuna colpa a questo indiscusso protagonista della flora ornamentale mediterranea.
    Originario dell’area orientale del Mediterraneo si è col tempo diffuso lungo le coste di tutto il bacino e, per opera dell’uomo, in tutte le regioni il cui clima ne consente la sopravvivenza all’interno di parchi e giardini. Ricercato per le sue dimensioni non eccessive, per la fioritura precoce che accende i viali e i giardini a primavera quando ancora manca un tripudio di vegetazione, per il colore vivissimo. Ricordiamo, ad esempio, a testimonianza della sua importanza e della sua fortuna non certo dell’ultima ora, che figurava tra le piante esotiche messe originariamente a dimora nell’Orto botanico di Reggio Emilia fondato dal professor Claudio Fossa.
    Il suo nome è probabilmente frutto di un errata trasposizione così come più volte è accaduto nella storia; basti ricordare il famoso “busillis” assurto a termine autonomo nato dall’errata separazione ad opera del trascrittore emanuense in un codice medioevale della locuzione “in diebus illis”, o l’origine del nome con cui oggi designiamo il più famoso e amato fra i marsupiali, il canguro.
    In altre parole molte fonti sono concordi nell’asserire che in origine si trattava dell’albero della Giudea e non di Giuda. A favore di quest’ipotesi sono appunto l’area d’origine della pianta e la sua larga diffusione nei territori d’Israele.
    (Alessandro Mesini)

    l cercis siliquastrum è un albero deciduo che può arrivare fino a 10 mt, anche se la tradizione lo vuole potato a “cazzotto” tutti gli anni. Una potatura drastica che permette sempre di avere nuove fronde ricche di fiori l’anno successivo.
    L’albero di Giuda, ha foglie verde scuro a forma di cuore, i fiori compaiono in aprile, e dopo la fioritura si sviluppano dei piccoli baccelli allungati e piutosto schiacciati che contengono i semi. Esiste anche il cercis siliquastrum “Alba“, dai caratteristici fiori bianchi.



    ...storia, miti e leggende....


    Sono diverse le leggende che legano Giuda al Cercis siliquastrum, o, meglio, esistono diverse varianti che arricchiscono di particolari un legame di base fra l’albero e l’apostolo traviato.
    La prima e più semplice vuole che sotto le fronde di quest’albero Giuda diede il bacio a Gesù segno per le guardie di quale uomo arrestare e trascinare davanti al sinedrio.
    Questa versione suggerisce un’immagine pittorica di grande effetto perché è proprio nel tempo di Pasqua, ad Aprile, che il Cercis si riempie di fiori, ancor prima di mettere le foglie.
    La seconda vuole che Giuda si sia impiccato con una corda ai rami di quest’albero. Questa versione si carica di possibili significati allegorici: il tronco da quel giorno avrebbe assunto un andamento contorto; la fioritura improvvisa non preceduta dall’aprirsi delle foglie vorrebbe figurare le lacrime di Cristo; il colore acceso dei fiori la vergogna dell’albero o la perfidia di Giuda.
    Alcune versioni integrano la prima con la seconda così che Giuda tradisce Gesù sotto ai rami di un Cercis e successivamente, tornato sul luogo del peccato, s’impicca ai suoi rami.
    In provincia di Bologna è rintracciabile un’altra tradizione che pone comunque il Cercis fra gli alberi maledetti: sarebbe stato suo il legno della croce.



    ....curiosità......


    Il legno dell’Albero di Giuda è un legno di colore rosso caratterizzato da abbondante venatura che lo rende idoneo a lavori di ebanisteria, di intaglio, o, per la sua elevata resistenza, per piccoli oggetti al tornio.
    Dalla pianta, e in particole dai giovani rami, si ricava un principio tintorio di colore giallo.
    Non viene menzionato nei più diffusi testi di erboristeria e nessun medico dell’antichità se ne è occupato.
    Le api possono giovarsi non poco di queste fioriture precoci e imponenti che assicurano un buon nutrimento all’inizio di stagione. I fiori del Cercis sono indicati per ottenere come prodotto d’alveare il miele di melata.
    Dai frutti che persistono sulla pianta tutto l’inverno si possono trarre i semi di colore bruno nerastro che sottoposti a macinatura danno uno sfarinato molto energetico, ma di nessun interesse pratico nelle nostre regioni dato l’uso ornamentale del Cercis, la limitata diffusione, la concorrenza di fonti alimentari di ben altra entità.


    Esistono altri alberi ed altre piante che col Cercis dividono il non poco lusinghiero nome di Giuda o la responsabilità di aver offerto i loro rami alla corda del suicida..
    Sono il fico selvatico che per diretta conseguenza non riuscirebbe più a fruttificare.
    Il carrubo selvatico chiamato in Sicilia “arvulu di Giudeo” o “arvulu di Giuda”.
    Il pioppo tremulo che ancora non riesce a fermare le sue foglie.
    La Vruca condannata a divenire, da albero imponente, un arbusto di nessuna importanza, derelitto e senza più forma.
    La rosa canina, ma solo secondo i popoli germanici che la chiamano Judasbeeren
    Ultimo arrivato è lo spino di Giuda che originario degli Stati Uniti centro-orientali e giunta in Europa oltre 1600 anni più tardi non può avere avuto parte alcuna nelle leggende. Le acuminate spine presenti sia sul tronco sia sui rami lo rendono pianta idonea per siepi e recinzioni.
    (Alessandro Mesini)



    "C’è un’usanza siciliana o forse meridionale o forse solo dei piccoli centri, dove tutti si conoscono e si identificano nell’appartenenza familiare, che è quella di chiamare le persone non tanto con il cognome anagrafico ma piuttosto con un soprannome, un nomignolo, una ‘ngiuria” appunto, affibbiata all’intera famiglia da chissà quali tempi e generazioni e che di padre in figlio si tramanda a tutti i componenti del nucleo familiare. L’etimologia del nome non sempre è di facile individuazione: luoghi ( i “Mazzarino”); piante (i “Ceusi”); difetti fisici (“Popò”, “Balluzze”) o mestieri come “Panazzo” (panettieri) o “Puntina” a ricordare il lavoro di scalpellino fatto chissà da quale trisavolo. Altri ancora non hanno un apparente significato come “Paparita” o “Ninnirinnì."
    Non penso sia piacevole venire etichettato a vita per un evento indipendente dalla propria volontà. E siccome io parlo di piante ho fatto questa lunga premessa per introdurre una specie vegetale, Cercis siliquastrum che di ‘ngiurie se ne intende se fin dai tempi della sua classificazione botanica, avvenuta ad opera di Linneo nel 1758, è stata bollata con il non gradevole nome di “Albero di Giuda” o Juda's Tree. Il cercis a ben guardare non ha niente di sinistro o tragico o drammatico nell’aspetto; è un gradevole albero di medie dimensioni a foglia caduca, diffuso sulle sponde del Mediterraneo come specie ornamentale per piccoli spazi a verde o giardini di città. Il nome botanico deriva dalla forma arcuata dei frutti, tipici delle leguminose e, dunque, da Cercis “navicella” e siliquastrum “simile ad un baccello”.
    L’ attribuzione del nome “Albero di Giuda” penso derivi da molteplici concomitanti, sfortunate coincidenze: la specie è spontanea sulle alture del Golan, della Samaria e sulle montagne della Giudea; la fioritura avviene in aprile, tradizionale mese della Pasqua e si realizza in modo peculiare; essa avviene, infatti, prima della ricomparsa delle foglie quando i fiori papilionacei, a sepali rossi e petali di un bel colore rosato intenso, sono portati in fitti racemi direttamente sulla corteccia dei rami e del tronco, arrossandone la superficie. Non è molto ma bastevole per associare il suo destino e quindi la ‘ngiuria ad un poco simpatico individuo, suicida, preda di tardivi quanto inutili rimorsi. Una reputazione botanica compromessa per sempre. Subito dopo la fioritura compaiono le foglie che sono intere e a margine arrotondato. I frutti sono legumi prima verdi poi marroni che rimangono attaccati a lungo alla pianta anche un anno per l’altro, senza aprirsi fino a che il vento non se li porta via. La pianta è esteticamente gradevole e adatta alle città in quanto perdendo le foglie è resistente all’inquinamento da polveri e fumi. Con tanti pregi vi sembra giusto ricordarla a vita come "Albero di un Giuda"? Propongo da oggi in poi di adottare a livello planetario la denominazione alla francese: “Arbre de Judée”, “Albero di Giudea”..."
    (verdeinsiemeweb.blogspot)




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  11. gheagabry
     
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    Un albero secco
    fuori dalla mia finestra
    solitario
    leva nel cielo freddo
    i suoi rami bruni:
    Il vento sabbioso la neve e il gelo
    non possono ferirlo.
    Ogni giorno quell'albero
    mi dà pensieri di gioia,
    da quei rami secchi
    indovino il verde a venire.
    (W.Ya-p'ing)



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  12. gheagabry
     
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    Le CONIFERE



    Conifera è un nome greco che significa letteralmente “portatrice di coni”. Il cono è la forma di molti frutti delle conifere, ossia le pigne. Le conifere sono piante prevalentemente delle zone montane, come i pini, con aghi invece di foglie (per resistere anche ai climi rigidi) e sono sempreverdi, ciò significa che non perdono mai le foglie, nemmeno d’inverno: questo le rende piante particolari, che colorano anche le stagioni solitamente più tristi e neutre.Le conifere sono alberi antichi, come dimostrano i fossili che risalgono circa a 280 milioni di anni fa. Si tratta di piante che caratterizzano i nostri paesaggi praticamente da sempre e che quindi in qualche modo fanno parte del nostro DNA. Le conifere comprendono una vasta gamma di specie diverse (50 generi e circa 550 specie), ed alcune possono anche presentare caratteristiche differenti dalla maggior parte (come i ginepri e i tassi che producono bacche invece di pigne, o il pino marittimo e il cipresso che sono adatte a climi marittimi invece che montani). Ma, oltre al fatto di essere quasi tutte sempreverdi, c’è una caratteristica che accomuna ogni specie: la rusticità o versatilità.
    Tutte le conifere attuali sono piante legnose e molte sono alberi, la maggioranza dei quali ha un tronco singolo con rami laterali. La misura delle conifere mature può variare da meno di un metro a oltre 100 metri. Gli esseri viventi più alti, più grossi, più massicci e antichi sono conifere. Il più alto è una sequoia della California (Sequoia sempervirens) alta 112,34 metri. Il più grosso è una sequoia gigante (Sequoiadendron giganteum), con un volume di 1486,9 metri cubici. Il più massiccio, con il tronco più largo in assoluto, è un Taxodium mucronatum con un diametro del tronco di 11,42 metri. Il più vecchio è un Pinus longaeva che ha 4700 anni.



    Il genere Pinus, che da nome alla famiglia pinacee conta oggi un’ottantina di specie e riveste una grande importanza non solo come entità botanica ma anche dal punto di vista economico per il legname, la pasta da cellulosa, i sottoprodotti (trementina,acqua ragia,ecc…)
    La preziosa ambra è resina fossile di antichissime conifere, che spesso racchiude testimonianze di una vita risalente a milioni e milioni di anni fa.
    Le prime piante con semi sono apparse sulla terra circa 300milioni di anni fa. Erano piante così ben adattate a vivere sulla terra ferma che, durante il lunghissimo arco di tempo intercorso, sono rimaste quasi immutate.
    Queste piante sono le conifere, che da sole coprono circa un terzo delle aree a foresta del globo. Vivono ove altre piante non resisterebbero, sulle più alte catene montuose, nelle zone artiche, ai limiti dei deserti.
    Le conifere attuali,dalle tipiche foglie aghiformi,contano pini,abeti rossi e bianchi,larici,cipressi, tassi, ginkgo.
    Nel genere Pinus le foglie aghiformi, sono sottili e coriacee così da ridurre l’evaporazione e resistere negli ambienti aridi e freddi. Sono riunite in mazzetti di due ( pini bini), di tre ( pini trini) o cinque unità ( pini quini ), avvolti alla base da una guaina scarlosa.
    Le infiorescenze maschili e femminili sono poco appariscenti: amenti globosi, rosei o rossastri, le prime;amenti cilindrici giallini,le seconde. I granuli di polline sono uniti di due minuscole sacche di gas che, riscaldato dal sole si dilata e trasforma il granulo in una sorta di “ mongolfiera “ in miniatura.



    Tutte le specie di pini appartengono al gruppo degli alberi definiti cosmici. La loro presenza è documentata in ogni epoca. Nel periodo dell’ antica Grecia il Pino era consacrato a Rea, la Grande Madre. Successivamente si è affermato il mito di Attis, il pino sacro, che moriva e resuscitava. La mitologia greca intorno al Pino ha creato un simbolismo complesso legato ad alcune caratteristiche dell'aspetto e della vita di questa pianta: se da un lato veniva considerato come simbolo di morte, (questo perché una volta tagliato non è più in grado di ricrescere) dall’altro era visto come simbolo di immortalità (questo grazie alla sua capacità di vivere anche in ambienti sfavorevoli).
    Durante i primi secoli del Cristianesimo il pino è annoverato tra le piante sacre. Si pensi che in Giappone tutt’oggi il pino evoca il senso dell'immortalità, per questo è utilizzato nella costruzione dei templi shintoisti e degli strumenti rituali.
    Simbolo di potenza vitale, fecondità e segno di buon augurio, fino a qualche decennio fa compariva nella cerimonia nuziale, quale augurio di continuità dell'amore coniugale e di prosperità del genere umano.


    Come tutte le conifere il pino essendo sempreverde simboleggia l’immortalità. Gli aghi di questa pianta, essendo a coppie, rappresentano la fertilità e la felicità coniugale. Ci racconta il poeta Virgilio che erano di legno di pino le fiaccole per le nozze. Nelle leggende greche, oltre ad avere il significato di eternità, appare come albero sacrificale, l’albero del supplizio iniziatico. Anche in oriente il pino simboleggia l'immortalità. Per questo motivo in Giappone si usa il legno di pino per costruire templi e strumenti legati alle celebrazioni religiose. Anche in Giappone, come nella Roma antica, il pino è presente nei riti nuziali: era usanza fino a pochi anni fa che gli sposi bevessero del tè davanti ad un alberello di pino, simbolo dell'amore eterno, come sempreverdi sono i suoi aghi.
    In Cina il pino fa parte dell'insieme dei simboli che ricordano la longevità.




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  13. gheagabry
     
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    C'è qualcuno seduto all'ombra oggi perché qualcun
    altro ha piantato un albero molto tempo fa.
    (Warren Buffett)


    Il FAGGIO



    Il Faggio (fagus sylvatica) vive tra i 900 e i 1500 metri di quota, può raggiungere i 35 metri di altezza. E' facilmente riconoscibile per la sua corteccia grigia e liscia, le foglie sono ovali fiorisce verso aprile/maggio. I suoi frutti, le faggiole, sono simili a piccolo castagne piramidali, che grantiscono la sussistenza agli animali del bosco. Ama i versanti ombrosi. Il Faggio è una pianta tipicamente europea e genera spesso boschi puri, entrare in uno di questi boschi da veramente l'idea di entrare in un luogo sacro, è l'albero della meditazione. Bellissimo in tutte le stagioni, raggiunge il suo aspetto più imponente negli esemplari isolati.
    II nome scientifico Fagus ha un’origine molto incerta; alcuni botanici ritengono che il nome derivi dal greco phagò, ossia , con il significato di «albero di cui si può mangiare il frutto». Altri studiosi, invece, affermano che il vocabolo fagus provenga dal greco phag ossia dispensare, il che darebbe alle piante il significato di «albero dispensatore di cibo».... i frutti dei faggi, detti «faggiole», costituiscono un prezioso alimento per il bestiame.


    Secondo i botanici, la storia del faggio ebbe inizio molti milioni di anni fa addirittura in Giappone, da dove raggiunse l'Europa occidentale passando per l'Asia centrale, il Caucaso e l'Asia minore. Qui trovò alberi come il tasso e l'agrifoglio. A ogni glaciazione il faggio scomparve, o quasi, dall'Italia per tornare ogni volta che il clima ridivenne favorevole. Così avvenne anche 10.000 anni fa, al termine dell'ultima glaciazione. Il successo del faggio fu così brillante che i suoi antichi competitori, il tasso e l'agrifoglio, compaiono solo occasionalmente, e raramente con grandi esemplari, nel fitto delle faggete appenniniche.

    ... il Faggio, longevo anche fino a 300 anni, ha sempre sussurrato messaggi di eternità agli uomini, fin dall’antichità, quando era considerato uno di quegli alberi cosmici che congiungono terra, cielo ed inferi portando le sue linfe vitali al cosmo intero, che nutre e dal quale è nutrito.
    Vecchie leggende britanniche e del nord della Francia narrano che dentro agli alberi si nascondano le anime intrappolate di chi deve pagare pegno di qualcosa.



    .......il faggio di San Francesco......


    La tradizione popolare narra che il Poverello si trovasse sui monti attorno a Rivodutri quando scoppiò un forte temporale. Francesco allora cercò riparo sotto un faggio, che per volontà di Dio piegò i suoi rami come fosse un ombrello. Così la saggezza popolare ha spiegato la forma unica dell'albero. Il faggio è, quindi, famoso per la sua forma straordinaria, con i rami che s’intrecciano sinuosi a creare onde e nodi dalla bellezza inusuale. Questa particolarità rende unico il Faggio di San Francesco. Gli altri esemplari della specie tendono a estendersi verso l'alto, mentre il faggio di Cepparo ha subito una rarissima mutazione, ad oggi nota solo in altri due esemplari in tutto il pianeta: in Inghilterra e in Nord America.
    La tradizione locale associa al faggio un altro episodio. Per spostarsi Francesco usava un asino, che il Santo fece ferrare da un maniscalco, ripagando l'artigiano con mille ringraziamenti. Ci volle un po' al nostro maniscalco per capire che non aveva ricevuto denari, tanto era sorpreso dai ringraziamenti. Quando si rese conto, rincorse Francesco e loraggiunse nei pressi del faggio, chiedendo o il denaro o la restituzione dei ferri. Francesco allora chiese all'animale di restituire i ferri, cosa che
    l'asino miracolosamente fece. Ancor oggi è visibile l'orma del piede del Santo impressa al suolo al momento della discesa dall'asino.
    Le dimensioni dell'albero che coprì San Francesco sono notevoli: raggiunge 8 m di altezza, la circonferenza massima 4 m. L'età oscilla tra i 200 e i 250 anni.



    ......il faggio della contessa......



    Sulle pendici del Monte Amiata, tra Castel del Piano e Santa Fiora (in provincia di Grosseto), vi è un grande pianoro, noto come Prato della Contessa, il quale ospita una pianta secolare detta il Faggio della Contessa. Ebbene questo luogo fu teatro di una vicenda sorprendente e meravigliosa che, fin dai tempi medievali, viene ancora oggi ricordata nella leggenda...
    Gherarda degli Aldobrandeschi, contessa di Cana, era una giovane fanciulla che amava fare lunghe passeggiate e spesso vagava per la foresta sopra il suo cavallo (bianco, si dice...), andandosi sovente a riposare sotto un giovane faggio che si trovava al centro di una minuscola radura. E fu proprio lì che un giorno incontrò Adalberto, giovane feudatario di Chiusi, del quale subito si innamorò. Da quel momento quel faggio divenne il luogo d’incontro dei frequenti convegni d’amore dei due giovani.
    Un triste giorno, tuttavia, il padre disse a Gherarda che sarebbe dovuta andare in sposa a Orsino, conte di Pitigliano... vane furono le lacrime, le supplice, le preghiere e inutili i lamenti della fanciulla, la quale presto partì per Pitigliano e, suo malgrado, sposò quell’uomo che non amava e che mai avrebbe amato.
    Tuttavia Gherarda non dimenticò mai il suo primo ed unico amore e così, sia pure raramente, quando tornava nelle sue terre, la donna continuava a incontrare Adalberto sotto il faggio, fuggendo di notte dal sul castello e tornandovi subito prima dell’alba.
    Una di queste fughe, però, fu purtroppo notata da una spia di Orsino che non esitò ad informare il suo signore, e questi decise di vendicarsi.
    Così, una notte, il conte si appostò con i suoi sgherri tra gli alberi intorno alla radura e attese gli amanti, quando questi si incontrarono sotto la loro pianta Orsino dette il segnale e i suoi armigeri appiccarono il fuoco alla boscaglia. Le fiamme dilagarono rapidamente da ogni parte, bruciando piante ed arbusti e riducendo ben presto un gran tratto di bosco ad un rogo.
    Orsino allora, visto il fuoco divampare, si ritirò con i suoi in una casa di caccia, in attesa che la notizia del rogo si spargesse e che qualcuno venisse ad annunciargli la morte della contessa. Ma nessuno venne dalla montagna, né si udiva in giro parlare dell’incendio.
    Orsino tornò allora al suo castello e qui, sorprendentemente, trovò la moglie intenta alle sue abituali faccende in compagnia delle sue ancelle. Non sapendosi spiegare l’accaduto il conte, qualche giorno dopo, tornò quindi sul monte e qui trovò, con suo enorme stupore, che il luogo era ormai nient’altro che una conca di cenere, pietre annerite e carboni, dove il vento faceva ancora volare le scintille e l’aria era nebbiosa... però, al centro di quella desolazione, il faggio delle contessa si alzava ancora verde e affatto toccato dal fuoco.
    Orsino tornò al suo palazzo, ma mai si dette pace dell’onta e in breve tempo morì.
    Gherarda dette ordine che nessun albero venisse ripiantato in quel luogo ma che, invece, un grande prato venisse lasciato intorno al suo faggio.
    La leggenda narra che ancora oggi, in certe notti speciali, si possa incontrare nel Prato della Contessa l’ombra di Gherarda che passeggia nell’oscurità e, dicono alcuni, con lei si vede camminare un bellissimo giovane che la tiene per mano e la conduce presso il faggio.
    (dal web)


    Un giovane faggio sanguigno era testimone del mio primo amore,
    e quando inventai la mia prima poesia,
    stette a guardare ciò che scrivevo.
    Come il faggio sanguigno nessun albero può abbandonarsi allo sfarzo della primavera,
    nessuno ha un sogno d'estate così vivace e nessuno un avvizzire così brusco.
    Un giovane faggio sanguigno sta in tutti i miei sogni,
    un magico passato soffia intorno al mio albero prediletto.
    (Hermann Hesse)




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  14. gheagabry
     
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    Ginkgo biloba



    Il Ginkgo biloba è probabilmente il più antico albero della storia del mondo. Si distingue da tutti gli altri alberi per la struttura e forma delle sue foglie: hanno la forma di un ventaglio con nel mezzo una cesura più o meno profonda. Per questa forma caratteristica delle foglie a due lobi la botanica ha aggiunto al nome tradizionale dell’albero l’epiteto “biloba”. Quasi fossile vivente, è l’unico sopravvissuto della sua famiglia, perché non appartiene né al genere delle conifere, né a quello delle latifoglie.

    Le noci sono il nucleo di un frutto dell’albero femminile di Ginkgo carnoso, simile a una susina. Il Ginkgo è un albero dioico, c’è dunque una pianta femminile e una maschile. Entrambi, e questa è un’altra particolarità di questo albero, Èdiventano sessualmente maturi solo all’età di circa 30-40 anni. Questa crescita lenta gli ha procurato il soprannome di “albero del nonno e del nipote”, perché ci vogliono tre generazioni prima che dia i frutti.

    I Ginkgo attirano l’attenzione specialmente in autunno quando le foglie brillano al sole come oro puro, mentre gli altri
    alberi si tingono di caldi colori rugginosi....



    ....storia, miti e leggende....


    Fossili ritrovati in molte parti del mondo, rimandano a un’età di circa 280 milioni di anni. Questo albero dunque esisteva già milioni di anni fa, prima della comparsa dell’uomo sulla terra. I dinosauri lo conoscevano e forse si sono cibati delle sue gustose foglie! Le glaciazioni - un milione di anni fa - tuttavia lo avevano cacciato dall’Europa e aveva trovato un clima adatto alla sopravvivenza solo nella più tiepida Asia Orientale. Qui, specialmente in Cina e in Giappone, è stato ed è considerato ancor oggi un albero sacro e lo troviamo spesso nelle vicinanze di templi buddisti e taoisti. In uno spazio così protetto questi alberi “sacri” possono anche raggiungere un’altezza di 60 metri e un diametro del fusto di conseguenza enorme. Ne sono una testimonianza due alberi di Ginkgo in una area sacra
    presso Seul, nella Corea del Sud, dei quali uno deve avere intorno ai 1.100 anni!
    Le prime tracce nella letteratura il Ginkgo le ha lasciate in Cina. Un poeta cinese dell’XI secolo descrive la particolarità e lo straordinario apprezzamento dell’albero in questo modo:

    Quando venne il primo raccolto, gli alberi portarono solo tre, quattro noci.
    In una tazza d’oro furono portati al trono.
    I dignitari e i ministri non le conoscevano.
    E il Figlio del Cielo diede loro un compenso di cento monete d’argento.
    Ora dopo qualche anno, gli alberi portano sempre più noci,
    sono cresciuti rami rigogliosi.
    Il padrone dell’albero, per onorare un caro ospite, mi ha fatto dono di queste noci come fossero perle.


    In un libro di medicina cinese dell’anno 1578, che si occupa diffusamente di piante medicinali, vengono descritte le qualità terapeutiche
    della foglia e della noce dell’albero Ginkgo. Da tempi antichissimi, nella medicina popolare asiatica e nella medicina tradizionale cinese noci di Ginkgo ed estratti delle foglie vengono usati come rimedio contro tosse, asma, stati d’ansia; l’estratto dalle foglie specialmente contro i disturbi della circolazione, l’alta pressione sanguigna e l’angina pectoris. Un viaggio trionfale in tutto il mondo, come pianta curativa, è iniziato però solo dopo la seconda guerra mondiale, dopo che un gruppo di ricercatori tedeschi ha dimostrato l’effetto particolarmente stimolante sulla circolazione sanguigna dell’estratto delle sue foglie.
    Circa 300 anni fa, il medico tedesco Engelbert Kaempfer, su incarico della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, visitò diverse regioni dell’Estremo Oriente. Era uno degli uomini più colti del suo tempo, parlava greco e latino, inglese, francese, russo, polacco, persiano e giapponese e, in più, era esperto in scienze naturali e in medicina e un bravissimo disegnatore. Kaempfer fu il primo a descrivere il Ginkgo e introdurlo così nella botanica moderna occidentale. Aveva notato quello strano albero a Nagasaki, dove si era trattenuto per qualche tempo. Da qui, per mezzo di mercanti olandesi, mandò alcuni semi in Europa e nel 1712 pubblicò il suo libro Amoenitates exoticae, nel quale descrive per la prima volta il Ginkgo o Gyn yan (che in cinese significa albicocca d’argento).
    I primi tentativi di coltivazione furono poi intrapresi nei giardini botanici delle città olandesi di Utrecht e Leida.
    Dall’Olanda l’albero del Ginkgo si diffuse poco a poco nei giardini botanici di tutte le università europee, anche nell’orto botanico di Padova c’è un esemplare dal 1750. La moda della Cina e l’interesse per le piante esotiche alla fine del XVIII e inizio del XIX secolo favorì inoltre la coltivazione del Ginkgo come prezioso solitario nei giardini privati. Ma fu apprezzato ugualmente come albero per gli ampi viali delle grandi città.



    "Vorrei ricordare la distruzione della città di Hiroshima nel 1945.
    Qui cresceva un Ginkgo in un monastero buddista a soli
    800 metri dal centro dell’esplosione della bomba atomica, completamente arso come tutto il resto in questa zona.
    Un anno dopo il lancio della bomba, nella primavera del 1946,
    dalla vecchia radice germogliò un timido ramoscello nuovo.
    Questa notizia incredibile ha conferito al Ginkgo, simbolo di fertilità, di longevità,
    un ulteriore significato simbolico: quello dellasperanza e invincibile forza della vita"
    (Martina Brunner-Bulst)




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  15. gheagabry
     
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    L' albero delle Scimmie

    Auraucania del Cile



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    L'Araucaria araucana (Molina) K. Koch, 1873 è la specie più rustica nel genere Araucaria. La conifera è nativa del Cile centrale e dell'Argentina centro-occidentale ed è un albero sempreverde alto fino a 50 m, con un tronco dalla circonferenza massima di 2 m. Viene considerato l'albero nazionale del Cile.
    Si tratta di una pianta dioica, con gli sporofilli maschili e femminili posti su piante diffrenti, anche se si conoscono esemplari con entrambi. Gli sporofilli maschili contengono polline e hanno una forma oblunga, simile a un cetriolo, lunghi 4 cm all'inizio e poi ingrandendosi fino a 8-12 cm di lunghezza per 5-6 cm di larghezza quando viene rilasciato il polline. Come tutte le conifere, l'impollinazione avviene tramite il vento. Gli sporofilli femminili sono riuniti in infiorescenze sferiche. Quando sono impollinati, producono uno strobilo legnoso grande, del diametro di 12-20 cm con semi simili a noci posti alla base di ogni scaglia. Lo strobilo può contenere fino a 200 semi: si disintegra a maturità per rilasciare i semi che vengono poi dispersi dagli animali.

    araucaria_fru


    ......storia, miti e leggende.....



    II nome scientifico di queste particolari piante rivela una storia abbastanza strana, che si riferisce al viaggio compiuto dal naturalista A. Menzies, nel 1792, in Cile. Durante questa spedizione, a Menzies, vennero offerti al naturalista e alla sua equipe, dei semi come frutta secca ed il loro sapore parve tanto insolito al botanico da indurlo a voler conoscere la pianta che produceva gli insoliti frutti. Fu così che Menzies, conquistato dall’esotica forma dell’albero, decise di portarne qualche seme in Europa, ed esattamente a Kew, nei floridi giardini reali inglesi dove nacque la prima araucaria del nostro continente. Il nome della nuova pianta fu scelto in ricordo della provincia cilena Arauco, dove Menzies aveva fatto la conoscenza della bella conifera.

    L'A. araucana è soprannominata "Puzzle della scimmia" perchè una leggenda vuole che nel 1850 un signore inglese, proprietario di uno di questi alberi, mentre faceva ammirare a degli amici un esemplare giovane, uno di essi disse che "sarebbe stato difficile anche per una scimmia arrampicarsi", vedendolo così articolati e con le foglie spinose e taglienti e da qui il nome. Prima che questo nome diventasse popolare veniva chiamata "Pino del Cile" in quanto nativo delle Ande cilene, oltre che dell'Argentina.



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    Edited by gheagabry1 - 17/4/2020, 18:00
     
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