ALBERI e ARBUSTI DA FRUTTO e a volte ....

PESCO, CILIEGIO,PERO, ALBICOCCO ECC

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline

    Fico


    Ficus carica L.




    Foglie di Fico



    Generalità


    Il Fico (Ficus carica L.) è un albero frutto originario dell'Asia occidentale, introdotto da tempo immemorabile nell'area mediterranea. In Italia è presente sia in forma specializzata che consociata, soprattutto in Puglia, Campania e Calabria.
    Appartiene alla famiglia delle Moraceae, genere Ficus, specie: Ficus carica L., di cui esistono due subspecie: Ficus carica sativa (fico domestico) e Ficus carica caprificus (caprifico o selvatico).
    E' una pianta molto resistente alla siccità e vegeta nelle regioni della vite, dell'olivo e degli agrumi. Non resiste a -10°C; teme i ristagni idrici e ama i terreni freschi, profondi e ben dotati di sostanza organica.
    Il fico domestico è caratterizzato da un apparato radicale molto espanso e superficiale, tronco robusto, con corteccia liscia grigiastra, che può raggiungere gli 8 metri di altezza, rami deboli, con gemme terminali di forma appuntita portanti foglie tri-pentalobate, rugose. All'ascella di quelle poste all'apice del ramo sono inserite le gemme a fiore che, schiudendosi, danno origine a un'infiorescenza, detta siconio, formata da un ricettacolo carnoso, al cui interno sono inseriti solo fiori unisessuali, provvista di un foro, detto ostiolo, in posizione opposta rispetto all'inserzione del ramo. Il fico domestico presenta solo fiori femminili longistili e produce due tipi di frutti:
    - fioroni o fichi primaticci: si formano in autunno, maturano nella tarda primavera dell'anno successivo e presentano fiori femminili sterili;
    - fichi veri: si formano in primavera, maturano a fine estate dello stesso anno e portano fiori femminili fertili o sterili a seconda della varietà.
    La formazione del frutto può avvenire sia per partenocarpia che mediante fecondazione; in quest'ultimo caso la fecondazione, detta "caprificazione", è assicurata dall'imenottero Blastophaga psenes.
    Nel caprifico, invece, sono presenti sia fiori maschili che femminili e, a seconda del periodo, si possono formare:
    - mamme (prodotti nel periodo invernale con solo fiori femminili abortiti;
    - profichi (prodotti in primavera con fiori femminili abortiti e fiori maschili in prossimità dell'ostiolo);
    - mammoni (presentano all'interno fiori femminili sterili e fertili oltre a quelli maschili).
    Gli acheni, cioè i veri frutti, sono riuniti in un siconio carnoso. Il comune frutto edule è il siconio delle sole cultivar femminili. La forma è variabile, da sferico appiattita a piriforme-allungata. Il colore della buccia è bianco-verdastro e nero.



    frutti di fico




    altro tipo di frutti di fico



    Tecnica colturale


    L'impianto, in genere, è effettuato a fine inverno ed è preceduto da apporto di sostanza organica e concimi fosfo-potassici.
    Il sesto d'impianto varia da m 6x6 a m 10x10 in funzione della natura del terreno e della vigoria della pianta. Dopo l'impianto questa viene capitozzata ad 1 metro e lasciata crescere in forma libera.
    La potatura, effettuata in inverno, deve mirare all'eliminazione dei rami mal disposti, secchi e malati, e di eventuali polloni. La concimazione può essere fatta ricorrendo al sovescio di leguminose. La pianta inizia a produrre intorno al 5° anno dall'impianto, raggiunge la massima produzione (40-60 kg di frutti) dai 30 ai 40 anni e poi, gradualmente, inizia ad avere una resa minore; può sopravvivere sino ai 60 anni e oltre.



    pianta di fico inserita nel paesaggio del sud


    varietà di fichi giunti a matuzazione




    Produzioni


    Periodo di raccolta: prima decade di giugno (Sud) - inizio di Agosto (Nord) per le cultivar precoci; fine luglio-fine settembre (Sud) od ottobre (Nord) per le cultivar principali “forniti”; novembre-aprile per le cultivar tardive “cimaruoli”.
    Grande attenzione va posta nella individuazione del migliore periodo per la raccolta, data la scarsa serbevolezza dei frutti e l'arresto dei processi di maturazione dopo il distacco dei siconi.
    Altro aspetto delicato riguarda la manipolazione dei siconi in quanto sono molto delicati, per cui durante la raccolta bisogna staccare il frutto con il peduncolo evitando di lacerare la buccia.
    I frutti freschi possono essere refrigerati per 10-30 giorni (1-2°C e 90% di U.R).
    L'essiccazione dei fichi può essere iniziata sull'albero oppure dopo la raccolta. In condizioni di buon soleggiamento l’essiccazione dei siconi interi viene completata in 4-8 giorni nel primo caso; nel secondo caso i fichi tagliati longitudinalmente in due metà richiedono 12-16 giorni per essere essiccati. Si ricorre all'essiccazione in stufa per completare il processo o per avviarlo (ciò consente di avere un prodotto più chiaro).
    Fin dai tempi antichi i frutti di fico freschi sono usati per il consumo fresco e recentemente il loro valore nutritivo è stato ulteriormente esaltato (le sostanze pectiche prevengono le ostruzioni delle vene, il calcio è utilizzato per la produzione di latte per bambini, ecc). I fichi sono usati ampiamente come prodotto essiccato (unito con altra frutta secca, aromatizzato in vari modi, ricoperto con cioccolato o glassato, ecc). Anche i fichi selvatici sono usati per produrre fichi caramellati, dolci, insalate di frutta e marmellate. E’ possibile ottenere anche alcool. La ficina è estratta dalle foglie ed usata per scopi farmaceutici.
    In cucina il frutto di fico si utilizza al naturale, essiccato, trasformato in succo o sciroppo, come contorno al prosciutto o ai formaggi, tostato e macinato per surrogare il caffè, guarnito con noci e mandorle, per estrarre alcool, ecc.




    varietà di fico vezzoso




    varietà di fico monaco




    dal latino ficus



    Avversità


    Il fico risente molto delle avversità climatiche, in particolare delle basse temperature e della grandine che possono distruggere completamente la produzione.
    Danni possono essere provocati da una virosi (mosaico) e dai marciumi radicali; tra gli insetti risultano dannose alcune cocciniglie, la mosca della frutta (Ceratitis capitata) e la psilla del fico (Homotoma ficus).


    Alcuni degli usi alimentari del frutto del fico




    chiocciole di fichi secchi




    fichi al cioccolato ripieni di pinoli




    crocette di fichi secchi




    ingredienti per la marmellata di fichi




    liquore ai fichi





    focaccia ai fichi



    confettura di fichi bianchi e neri

    Edited by gheagabry - 15/5/2015, 00:02
     
    Top
    .
  2.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline

    Ciliegio


    Prunus spp.



    Ramo di Ciliegio dolce in fiore



    Generalità

    Del ciliegio fanno parte due specie: l'avium, cioè il dolce, molto diffuso in Italia, con portamento assurgente, e il cerasus (amarena) , l'acido, più cespuglioso e pollonifero, diffuso più nel nord Europa.
    Altra specie è il Prunus mahaleb, noto come magaleppo o ciliegio di S. Lucia, albero piuttosto piccolo, con foglie di forma variabile rotondo-ovata, di colore verde chiaro e fiori piccoli, bianchi, e frutti piccoli, non eduli, gialli o rossi, talvolta molto scuri. L’'origine è collocata tra il Mar Nero e il Mar Caspio; il dolce è prodotto più che altro in Europa, ed USA anche, mentre l'acido è della zona ad est, (anche qui gli Stati Uniti tra i maggiori produttori).
    In Italia si trova un po' ovunque, ma principalmente in Campania, Puglia, Veneto, Emilia-Romagna.
    Appartiene alle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae, pertanto l'albero presenta rami a legno e rami a frutto e il frutto è una drupa; la corteccia si presenta come costituita da una serie di anelli. Del ciliegio dolce si distinguono la varietà juliana che fornisce le tenerine e la varietà duracina che produce i duroni. Del ciliegio acido vi sono: la varietà caproniana, con amarene o morasconi, la austera, con le viscole, la marasca, con le marasche.
    Limiti pedoclimatici: ha un elevato fabbisogno in freddo, la sensibilità a ristagni idrici si ha con Prunus avium e mahaleb; il grosso problema del ciliegio dolce, non l'acido, è la pioggia che porta a spaccature del frutto oltre ad essere vettore di Monilia. Oltre a ciò una siccità prolungata danneggia la formazione dei fiori.




    Frutti di Ciliegio dolce e di Ciliegio amarena


    Varietà e portinnesti

    Per la scelta delle cultivar ci si riferisce alle Liste di orientamento varietale - Progetto finalizzato MiPAF.
    Si ricordano: Early lory, Giorgia, Adriana, Van, Ferrovia, tipica meridionale, Lapins, precoce, Sweet Heart, tardiva del centro-nord. Inoltre esistono varietà atte alla raccolta meccanica come Katilin.
    I portinnesti sono:
    - Franco di ciliegio dolce, sensibile a calcare, siccità, stanchezza del terreno e dà elevata vigoria;
    - Colt, ibrido più resistente al calcere ed alla stanchezza;
    - Magaleppo, da Prunus mahaleb, adatto per zone calde;
    - CAB 6P, che è un cerasus, unico per la resistenza all'asfissia, meno vigoroso ma più pollonifero;
    - MaxMa 14, ibrido mahaleb x avium con media resistenza all'asfissia, elevata ramificazione.
    La propagazione avviene per talea principalmente, mentre da seme e propaggine si ottengono portinnesti.



    Ciliegi in fiore



    Tecnica colturale

    L'impianto è inerbito controllato sull'interfila; l'irrigazione è assente ma bisogna assicurarsi della presenza di drenaggio necessario per l'eliminazione del ristagno. La concimazione (eventuali calcolo delle asportazioni ed analisi fogliare) si basa su considerazioni relative all'ambiente alla frequenza di malattie e quant'altro, comunque si tenga presente di fare attenzione all'eccesso di N (40-60kg/ha/anno), cui si aggiunge poco P. E' in aumento la fertirrigazione. Le forme di allevamento si diversificano in funzione del tipo di raccolta effettuato: con quella meccanica si usano vaso (sesto: 6-7 x 6 m) o monocono (6-7 x 4-5 m); per la raccolta manuale vi sono forme a parete come la palmetta (5,5 x 6 m) con densità bassa di 500-600 piante/ha, oppure bandiera, ventaglio semplificato, mentre per le forme in parete c'è il vaso a tre branche (6-7 x 6-7 m). La tendenza di oggi è verso impianti ad alta densità, tra 800-1.000 piante/ha utilizzando ad esempio un vasetto basso (4 x 3 m), simile al vaso ritardato nel pesco.
    La potatura mira a contenere lo sviluppo vegetativo (specie in P. avium che tende a crescere troppo verso l'alto), soprattutto con la potatura verde, rinnovare le formazioni fruttifere che hanno già prodotto e portare luce nella chioma.



    Ciliegia di Bracigliano



    Produzioni
    Il rendimento si aggira sui 10 t/ha, limite che viene superato con la raccolta meccanica a discapito della qualità.
    La raccolta si svolge in maggio-luglio e si basa sugli indici del colore della buccia e del residuo secco rifrattometrico.
    La conservazione è poca.


    Avversità
    La più grave è data dalla pioggia, tuttavia come tutte le drupacee c'è il pericolo della Sharka (PPV), e del cancro batterico delle drupacee; tra le crittogame si ricorda la già citata Monilia che colpisce rami fiori e frutti.
    Diversi sono i parassiti animali che possono provocare danni sia alla pianta che al prodotto: tra gli afidi l'afide nero (Myzus cerasi F.); tra le cocciniglie Comstockaspis perniciosa Comst.e Lepidosaphes ulmi L.; la mosca delle ciliege (Rhagoletis cerasi L.), le falene dei fruttiferi, i rodilegno (Cossus cossus L. e Zeuzera pyrina L.) e altri insetti e acari (ragno rosso, ragnetto giallo del melo, ecc.). Anche gli uccelli possono provocare danni ai fiori e ai frutti sia in fase di sviluppo che a maturazione.




    Primi piani di fiori di ciliegio






    Ramo carico di frutti



    Uso delle ciliegie in cucina



    Marmellata di ciliegie




    Ratafià liquore a base di ciliegie




    Ciliegie sotto spirito




    Miele di ciliegio




    Plum cake




    Birra belga a base di ciliegie



    Uso delle ciliegie in cosmetica





    Edited by giuliascardone - 27/2/2011, 19:23
     
    Top
    .
  3. tappi
     
    .

    User deleted


    grazie Giulia
     
    Top
    .
  4. gheagabry
     
    .

    User deleted


    da tappi


    L'ALBICOCCO O PRUNUS ARMENIACA










    ORIGINE E DIFFUSIONE


    L'albicocco è una pianta originaria della Cina nordorientale al confine con la Russia. La sua presenza data più di 4000 anni di storia. Da lì si estese lentamente verso ovest attraverso l'Asia centrale sino ad arrivare in Armenia (da cui prese il nome) dove, si dice, venne scoperta da Alessandro Magno. I Romani la introdussero in Italia e in Grecia nel 70-60 a.C., ma la sua diffusione nel bacino del mediterraneo fu consolidata successivamente dagli arabi, infatti Albicocco deriva dalla parola araba Al-barquq.







    LE VARIETA'


    Pindos. Varietà precoce, la si può iniziare a raccogliere verso la fine di maggio. Ha un portamento poco vigoroso. Produce frutti di buona pezzatura purché si pratichi il diradamento.
    Diavole. Varietà molto coltivata in Campania, caratterizzata da un portamento vigoroso e da una spiccata longevità. Produce frutti con pigmentazione rossastra e di discreta pezzatura previo diradamento.
    Preole. Varietà coltivata soprattutto in Campania, con portamento poco vigoroso e frutti di piccola pezzatura.
    Reale di Imola. Varietà coltivata in Emilia-Romagna, matura in questa regione nel mese di luglio. Il frutto è di pezzatura medio piccola, di color oro e con polpa gialla.
    Valleggina. Chiamata anche "Albicocca di Valleggia", viene coltivata nell'entroterra savonese. Il maggior centro produttivo si colloca nella piana di Valleggia (da cui prende il nome), situata alle spalle dei comuni di Savona e Vado Ligure e terminante nel comune di Quiliano. Il frutto è riconoscibile per il colore arancione brillante, pigmenti rosso acceso con una spiccata mascheratura rossa, grossa pezzatura. Il periodo di raccolta varia a seconda delle condizioni climatiche avute nella prima primavera, ma possono essere facilmente collocate tra la fine di giugno e l'inizio di luglio.
    Amabile Vecchioni. Albero che produce frutti grandi che maturano solitamente negli ultimi dieci giorni di giugno. La fioritura avviene nel mese di marzo e precede quasi tutti gli altri alberi da frutto. Non teme i climi e le temperature più rigide ma prospera come ogni albicocco in climi caldi e asciutti.
    Thyrintos. È un'ottima varietà precoce, che fruttifica al Nord Italia nella prima settimana di Giugno. Il sapore dei frutti è particolarmente intenso, simile a quello delle albicocche secche. Risulta abbastanza sensibile alla moniliosi, benché la malattia non abbia solitamente cause letali sulla pianta.




    CLIMA NECESSARIO


    La pianta in sé non patisce il freddo e sopporta temperature davvero rigide, tuttavia fiorisce molto presto rispetto a quasi tutti gli altri alberi da frutto e questo rende la produzione di albicocche vulnerabile alle gelate primaverili. Inoltre l'albicocco è soggetto a funghi se troppo bagnato e le albicocche stesse possono marcire sulla pianta: questi fattori hanno determinato la sua diffusione in climi caldi e asciutti, dove il rischio di gelate è minore e minori sono le precipitazioni




    RACCOLTO


    Il frutto, detto drupa, ha una dimensione tra i 3,5 e i 6 cm, un colore giallo uovo-arancio con lievi sfumature rosse e una buccia leggermente vellutata. Presenta un seme singolo, che somiglia ad una mandorla. Gli albicocchi sono abbastanza precoci e cominciano a fruttificare già dal secondo anno, ma la piena produzione non inizia prima del terzo/quinto ed è più abbondante su alberi piccoli, e rami corti. Le albicocche necessitano di un periodo dai 3 ai 6 mesi per svilupparsi e maturare e sono prevalentemente raccolte a mano dai primi di maggio alla metà di luglio.







    Oggi è diffuso in oltre 60 paesi e viene coltivato in climi caldi o temperati e relativamente asciutti




    L'ALBERO E IL FRUTTO


    Si presenta come alberello perenne (vive, cioè, per più di due anni consecutivi), che può raggiungere i 12-13 metri allo stato selvatico. Nelle coltivazioni, tuttavia, la pianta viene tenuta sotto i 3,5 metri. Ha una chioma a ombrello e tronco e rami sottili e leggermente contorti. Le foglie sono ellittiche, con punte acuminate e bordo seghettato e piccioli rosso violaceo. La larghezza media è di 7-8 cm, ma varia da una cultivar (varietà) all'altra, pur restando più larga di altre piante della medesima famiglia. I fiori sono molto simili ai loro cugini ciliegio, pruno e pesco. I fiori sono singoli, ma sbocciano a gruppetti che si situano all'attaccatura delle foglie. Hanno 5 sepali e petali, molti stami eretti e variano dal bianco puro ad un lieve rosato. La pianta viene impollinata usualmente dagli insetti (api) e non richiede impollinatura manuale.










    L'ALBICOCCA IN CUCINA


    Le albicocche vanno scelte ben mature e consumate entro pochi giorni dall'acquisto poiché sono frutti deperibili. Proprio per questa loro fragilità vengono conservate o trattate in numerosi modi: essiccate (specie negli USA), sciroppate e conservate in lattine o congelate. Altrettanto comuni sono i prodotti derivati: il succo, la marmellata e la gelatina di albicocca, molto usata in pasticceria per apricottare torte e pasticcini. Apricottare (da Apricot, albicocca in francese e in inglese) indica l'azione di spennellare la superficie di una torta di gelatina di albicocche prima di glassarla. Un esempio classico di questa tecnica, molto diffusa, è la famosa torta Sacher.

    Le albicocche vengono impiegate solitamente in preparazioni dolci di vario tipo come gelati, sorbetti, marmellate e gelatine, succhi e sciroppi, torte e pasticcini. Tuttavia il loro gusto lievemente acidulo le rende adatte anche ad accostamenti salati, come le salse di accompagnamento alle carni rosse.

    Il seme dell'albicocca quanto quello della Pesca viene detto armellina. Le Armelline hanno usualmente un retrogusto gradevolmente amarognolo e vengono usate in pasticceria come essenza, come ingrediente negli amaretti, in sciroppi o liquori e in generale in abbinamento alle mandorle dolci per renderne più interessante il gusto. Tuttavia il loro consumo viene limitato ad un uso aromatico poiché, come le foglie e i fiori dell'albicocco, contengono un derivato dell'acido cianidrico che, ad alte dosi, risulterebbe altamente tossico. Sebbene nel tessuto delle piante questa sostanza sia presente in percentuali molto basse e non pericolose, le Armelline vanno mangiate con parsimonia ed è sconsigliabile farle mangiare ai bambini.




    L'ALBICOCCA NELLA NUTRIZIONE


    L'albicocca è ricca di vitamina B, C, PP, ma soprattutto di carotenoidi, precursori della vitamina A. Due etti di albicocche fresche forniscono il 100% del fabbisogno di vitamina A di un adulto. La vitamina A protegge le superfici dell'organismo, interne ed esterne. La sua carenza provoca secchezza della pelle e delle mucose respiratorie, digerenti e urinarie. La sua carenza può portare alla facile rottura delle unghie, alla presenza di capelli fragili e opachi, a certe difficoltà nella cicatrizzazione delle ferite, addirittura a un arresto nella crescita e a un'aumentata fragilità ossea. Ma le più note conseguenze della carenza di vitamina A sono le alterazioni dell'occhio e della vista: diminuzione della capacità visiva (specialmente notturna), lesioni della cornea fino alla cecità, infiammazioni delle palpebre con formazione di croste e caduta delle ciglia.

    L'albicocca è ricca di magnesio, fosforo, ferro, calcio, potassio e questo ne fa un alimento irrinunciabile per chi è anemico, spossato, depresso, cronicamente stanco. Si raccomanda ai convalescenti, ai bambini nell'età della crescita e agli anziani, ma è sconsigliato a chi soffre di calcoli renali. Il frutto fresco è astringente, se essiccato lassativo.

    Valori nutrizionali medi: carboidrati: 6,5; proteine: 0,4; grassi: 0,1; acqua: 86,3; calorie: 28. Parte edibile: 94%; calorie al lordo: 26




    ETIMOLOGIA


    Sull'etimologia della parola "albicocca" esiste qualche perplessità. La maggioranza degli studiosi concorda tuttavia sul fatto che la parola di riferimento sia araba ( al-barqūq ) e che questa sia stata adottata poi nel tardo latino praecox, nel senso di "precoce". Da essa deriverebbe la parola "percocca", usata essenzialmente per indicare una varietà di pesca e per un ibrido fra pesco e albicocco









    .
     
    Top
    .
  5. gheagabry
     
    .

    User deleted


    da lussy


    Ciliegio

    image

    Generalità

    Del ciliegio fanno parte due specie: l'avium, cioè il dolce, molto diffuso in Italia, con portamento assurgente, e il cerasus (amarena) , l'acido, più cespuglioso e pollonifero, diffuso più nel nord Europa.
    Altra specie è il Prunus mahaleb, noto come magaleppo o ciliegio di S. Lucia, albero piuttosto piccolo, con foglie di forma variabile rotondo-ovata, di colore verde chiaro e fiori piccoli, bianchi, e frutti piccoli, non eduli, gialli o rossi, talvolta molto scuri. L’'origine è collocata tra il Mar Nero e il Mar Caspio; il dolce è prodotto più che altro in Europa, ed USA anche, mentre l'acido è della zona ad est, (anche qui gli Stati Uniti tra i maggiori produttori).
    In Italia si trova un po' ovunque, ma principalmente in Campania, Puglia, Veneto, Emilia-Romagna.
    Appartiene alle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae, pertanto l'albero presenta rami a legno e rami a frutto e il frutto è una drupa; la corteccia si presenta come costituita da una serie di anelli. Del ciliegio dolce si distinguono la varietà juliana che fornisce le tenerine e la varietà duracina che produce i duroni. Del ciliegio acido vi sono: la varietà caproniana, con amarene o morasconi, la austera, con le viscole, la marasca, con le marasche.
    Limiti pedoclimatici: ha un elevato fabbisogno in freddo, la sensibilità a ristagni idrici si ha con Prunus avium e mahaleb; il grosso problema del ciliegio dolce, non l'acido, è la pioggia che porta a spaccature del frutto oltre ad essere vettore di Monilia. Oltre a ciò una siccità prolungata danneggia la formazione dei fiori.

    image
    Frutti di Ciliegio dolce e di Ciliegio amarena


    image
    Ramo di Ciliegio dolce in fiore


    Varietà e portinnesti

    Per la scelta delle cultivar ci si riferisce alle Liste di orientamento varietale - Progetto finalizzato MiPAF.
    Si ricordano: Early lory, Giorgia, Adriana, Van, Ferrovia, tipica meridionale, Lapins, precoce, Sweet Heart, tardiva del centro-nord. Inoltre esistono varietà atte alla raccolta meccanica come Katilin.
    I portinnesti sono:
    - Franco di ciliegio dolce, sensibile a calcare, siccità, stanchezza del terreno e dà elevata vigoria;
    - Colt, ibrido più resistente al calcere ed alla stanchezza;
    - Magaleppo, da Prunus mahaleb, adatto per zone calde;
    - CAB 6P, che è un cerasus, unico per la resistenza all'asfissia, meno vigoroso ma più pollonifero;
    - MaxMa 14, ibrido mahaleb x avium con media resistenza all'asfissia, elevata ramificazione.
    La propagazione avviene per talea principalmente, mentre da seme e propaggine si ottengono portinnesti.



    Tecnica colturale
    L'impianto è inerbito controllato sull'interfila; l'irrigazione è assente ma bisogna assicurarsi della presenza di drenaggio necessario per l'eliminazione del ristagno. La concimazione (eventuali calcolo delle asportazioni ed analisi fogliare) si basa su considerazioni relative all'ambiente alla frequenza di malattie e quant'altro, comunque si tenga presente di fare attenzione all'eccesso di N (40-60kg/ha/anno), cui si aggiunge poco P. E' in aumento la fertirrigazione. Le forme di allevamento si diversificano in funzione del tipo di raccolta effettuato: con quella meccanica si usano vaso (sesto: 6-7 x 6 m) o monocono (6-7 x 4-5 m); per la raccolta manuale vi sono forme a parete come la palmetta (5,5 x 6 m) con densità bassa di 500-600 piante/ha, oppure bandiera, ventaglio semplificato, mentre per le forme in parete c'è il vaso a tre branche (6-7 x 6-7 m). La tendenza di oggi è verso impianti ad alta densità, tra 800-1.000 piante/ha utilizzando ad esempio un vasetto basso (4 x 3 m), simile al vaso ritardato nel pesco.
    La potatura mira a contenere lo sviluppo vegetativo (specie in P. avium che tende a crescere troppo verso l'alto), soprattutto con la potatura verde, rinnovare le formazioni fruttifere che hanno già prodotto e portare luce nella chioma.
    Produzioni
    Il rendimento si aggira sui 10 t/ha, limite che viene superato con la raccolta meccanica a discapito della qualità.
    La raccolta si svolge in maggio-luglio e si basa sugli indici del colore della buccia e del residuo secco rifrattometrico.
    La conservazione è poca.
    Avversità
    La più grave è data dalla pioggia, tuttavia come tutte le drupacee c'è il pericolo della Sharka (PPV), e del cancro batterico delle drupacee; tra le crittogame si ricorda la già citata Monilia che colpisce rami fiori e frutti.
    Diversi sono i parassiti animali che possono provocare danni sia alla pianta che al prodotto: tra gli afidi l'afide nero (Myzus cerasi F.); tra le cocciniglie Comstockaspis perniciosa Comst.e Lepidosaphes ulmi L.; la mosca delle ciliege (Rhagoletis cerasi L.), le falene dei fruttiferi, i rodilegno (Cossus cossus L. e Zeuzera pyrina L.) e altri insetti e acari (ragno rosso, ragnetto giallo del melo, ecc.). Anche gli uccelli possono provocare danni ai fiori e ai frutti sia in fase di sviluppo che a maturazione.




    .




    Il ciliegio...

    E' il fiore nazionale giapponese

    Secondo una leggenda giapponese il colore dei fiori del ciliegio in origine era candido ma, in seguito dell’ordine di un imperatore di far seppellire i samurai caduti in battaglia sotto gli alberi di ciliegio, i petali divennero rosa per aver succhiato il sangue di quei nobili guerrieri. Anche quelli che, tra i samurai, secondo il loro codice d’onore, decidevano di suicidarsi, sembra fossero solito farlo proprio sotto gli alberi di ciliegio.


    Sotto il mio come appare dal colore dei fiori non è seppellito nessuno


    Coincidendo con l’equinozio di primavera, la fioritura del ciliegio per i giapponesi rappresenta la rinascita, il rinnovamento, la forza vitale insita in tutte le cose di questo mondo. Un simbolo di vita, dunque, ma anche del suo naturale “opposto”: il fiore di ciliegio, appena raggiunge il massimo del suo splendore, si stacca e muore, viene portato via dal vento e con esso si disperde.
    Il fiore di ciliegio è testimone del fatto che la vita è un dono meraviglioso, ma anche che dura poco.
    Dunque la tradizione giapponese, altamente simbolica, trova nella fioritura dei ciliegi la sublimazione dell’esperienza della vita, della sua caducità e della sua effimera bellezza.

    “Siam fatti della stessa natura che è dei sogni,
    ed i sogni spalancano gli occhi così come
    bambini piccoli sotto alberi di ciliegio.”





    La Festa dei Ciliegi (in giapponese Hanami) si celebra nei primi giorni di Aprile: i giapponesi si riversano nei parchi delle loro città per ammirare la fioritura dei ciliegi.
    Sotto gli alberi in fiore, riuniti con la famiglia o con gli amici, i giapponesi cantano, ballano, mangiano molto e soprattutto bevono; la festa dura per tutti i giorni in cui la fioritura è al suo massimo splendore, di solito uno o due (mentre sugli alberi i fiori restano per quasi un mese).

    Il fiore del ciliegio (Sakura) rappresenta l'anima del Giappone: la delicatezza, il colore pallido, la brevità della sua esistenza sono per i giapponesi il simbolo della fragilità, ma anche della bellezza dell'esistenza.


    dal web


    da lussy

    Mandorlo

    image



    Il Mandorlo (Amygdalus communis L. = Prunus amygdalus Batsch; Prunus dulcis Miller) e' una pianta originaria dell'Asia centro occidentale e, marginalmente, della Cina.
    Venne introdotto in Sicilia dai Fenici, proveniente dalla Grecia, tanto che i Romani lo chiamavano "noce greca". In seguito si diffuse anche in Francia e Spagna e in tutti i Paesi del Mediterraneo. In America giunse nel XVI secolo.
    Appartiene alla Famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae.
    Alla specie Amygdalus communis appartengono tre sottospecie di interesse frutticolo: sativa (con seme dolce ed endocarpo duro; comprende la maggior parte delle specie coltivate), amara (ha seme amaro per la presenza di amigdalina) e fragilis (con seme dolce ed endocarpo fragile).
    Pianta a medio sviluppo, alta 8-10 m, molto longeva.
    L'apparato radicale è molto espanso. I rami, di colore grigiastro o marrone, portano gemme a legno e a fiore; le gemme possono essere isolate o a gruppi di 2-3 e diversamente combinate.
    image

    Le foglie sono lanceolate, seghettate, piu' strette e piu' chiare di quelle del pesco, portanti delle ghiandole alla base del lembo e lungamente peduncolate.
    I fiori, ermafroditi, sono bianchi o leggermente rosati nell'Amygdalus communis L. ssp. amara, costituiti da 5 petali, 5 sepali e da 20-40 stami. L'ovario presenta 2 sacchi embrionali contenenti, ognuno, 1-2 ovuli. Il frutto e' una drupa che presenta esocarpo carnoso, di colore verde, a volte con sfumature rossastre, piu' spesso peloso ma anche glabro, ed endocarpo legnoso contenente il seme o mandorla; questo e' ricoperto da un tegumento (episperma) liscio o rugoso, di colore variabile dal marrone all'ocra. In alcune cultivar e' possibile riscontrare con una discreta frequenza la presenza, all'interno dell'endocarpo, di due semi (Fenomeno dannoso ai fini commerciali). Il mandorlo e' caratterizzato da una fecondazione entomofila, per cui nel mandorleto si rende necessaria la presenza di un certo numero di arnie durante la fioritura. La maggior parte delle cultivar e' autosterile, ed inoltre sussistono casi di eteroincompatibilita'; cio' risulta estremamente importante ai fini della scelta delle cultivar. L'epoca di fioritura, pur variando fra i diversi ambienti (da gennaio a marzo) e' alquanto precoce. Negli ultimi decenni la mandorlicoltura è complessivamente mutata sia per quanto riguarda il comparto produttivo che quello commerciale. Pur essendo molto diffuso nel bacino del Mediterraneo, il mandorlo ha avuto in questo ambiente periodi di stasi, se non di regressione, a causa dell’inadeguatezza degli impianti, spesso obsoleti e con tecniche di coltivazione tradizionali. Viceversa negli USA si è verificato un deciso sviluppo grazie alle nuove piantagioni specializzate eseguite con portinnesti capaci di adattarsi alle condizioni pedologiche e con buona affinità d’innesto e all'introduzione di moderni sistemi di raccolta meccanizzata.
    Le migliori condizioni pedoclimatiche per la coltivazione del mandorlo sono le aree temperate dove meno frequenti sono le brinate tardive.

    image

    Varietà
    I portinnesti di disponibili in Italia sono pochi e non sempre i più razionali per adattabilità, affinità e resistenza alle avversità.
    Franco: ottenuto da semi di mandorle dolci o amare, non è indicato per la coltura irrigua o per terreni soggetti ad asfissia; si comporta bene nei suoli poveri e siccitosi anche con tenore di calcare attivo superiore al 12%. Sensibile a tutte le fisiopatie radicali, presenta ottima affinità e induce vigore medio, buona produttività con frutti di qualità elevata.
    GF 677: propagato in vitro è al momento il solo portinnesto utilizzabile per impianti industriali stante l’adattabilità ai vari tipi di suolo, tranne quelli molto argillosi, sia in coltura irrigua che asciutta; presenta ottima affinità, buon ancoraggio, resistenza al calcare attivo fino al 12%, all’asfissia radicale ed alla siccità. Induce forte vigore, rapida entrata in produzione ed elevata produttività.
    image

    PS A6: è al momento il solo pesco meritevole di essere provato quale portinnesto del mandorlo nelle piantagioni estese per il più ridotto vigore che induce rispetto al GF 677; in confronto a questo è però meno resistente alla siccità e al calcare; è sensibile all’"Agrobacterium" e, al pari del GF 677, ai nematodi galligeni; induce una più precoce fioritura e maturazione anticipata rispetto al GF 677.
    Per le varietà autoincompatibili si rende necessaria la presenza di altre varietà a fioritura contemporanea atte a favorire l’impollinazione incrociata.
    Varietà autofertili a fioritura tardiva: Filippo Ceo, Genco, Tuono, Supernova.
    Varietà autosterili a fioritura tardiva: Ferragnes, Fra Giulio, Falsa Barese.
    Altre varietà sono: Fascionello, Ferraduel, Jordanolo, Pizza d’Avola, Texas.
    Tecnica colturale
    Per i nuovi impianti si deve adottare soltanto la forma a vaso a 4 - 5 branche o comunque una forma in volume con l’impalcatura ad una altezza minima di 70 cm da terra per permettere la raccolta meccanica.
    Normalmente l’impianto viene fatto con astoni; questi vanno spuntati prima del germogliamento a 80 - 90 cm per la formazione dell’impalcatura. Nel caso di piante poco lignificate o comunque deboli, è preferibile ribattere l’astone poco sopra il punto d’innesto, scegliendo il miglior germoglio che si sviluppa il quale verrà spuntato al verde per ottenere le branche dell’impalcatura.
    Il sesto da adottare è il rettangolo che risponde bene alle esigenze delle forme di allevamento in volume con distanza fra le file di 5 - 6 m, a seconda delle macchine che si intendono adottare per la raccolta, e fra le piante di 4 - 5 m in base al portinnesto, al tipo di terreno e se con irrigazione o meno.
    Le esigenze nutrizionali e quindi le concimazioni si possono ritenere abbastanza simili a quelle del pesco per quanto riguarda l’azoto, mentre sono superiori quelle per il potassio ed il fosforo.
    image

    La potatura in allevamento deve essere contenuta, per favorire un rapido sviluppo delle piante ed una precoce entrata in produzione.
    Il mandorlo allevato in modo intensivo necessita di una corretta gestione del suolo. La non lavorazione del terreno e l’inerbimento tra le file sono le tecniche utilizzate nei mandorleti specializzati: per il primi due o tre anni successivi all’impianto il terreno viene lavorato poi dal terzo anno viene seminata una coltura erbacea o vengono lasciate sviluppare le erbe spontanee. Dopo che le erbe sono andate a seme, a cominciare da luglio, il tappeto erboso viene sfalciato basso per ottenere un manto pulito, al fine di effettuare la raccolta. Sotto le file si eseguono diserbi.
    Oltre alla concimazione organica d’impianto, generalizzata o localizzata sulla fila o nella buca, si dovra' effettuare anche quella minerale che dovrà tener conto delle dotazioni rilevate con le necessarie analisi. Come per il pesco, la concimazione di produzione deve prevedere: 30-50 unità di azoto in autunno, e altrettante unità durante la primavera-estate distribuite in modo frazionato nel periodo compreso fra la fioritura e l’accrescimento dei frutti evitando apporti in prossimità della maturazione. Gli altri elementi vanno distribuiti per lo più in autunno o con la fertirrigazione. In condizioni normali o scarse di dotazione si preveda: 20-40 Kg/ha di fosforo, 100-200 Kg/ha di potassio, 5-20 Kg/ha di magnesio più microelementi ed in particolare zinco, boro, calcio e ferro.
    Le esigenze idriche del mandorlo dipendono dalle condizioni pedoclimatiche e dal portinnesto. A parte la coltura tradizionale in secco con l’utilizzo del franco di mandorlo, la mandorlicoltura specializzata prevede altri portinnesti e l'uso di impianti di irrigazione localizzata.
    Produzioni
    La raccolta si attua tra la fine di agosto e la fine di settembre, in relazione alla cultivar. Tradizionalmente i frutti caduti sono raccattati da terra o mediante raccattatura diretta o dopo caduta entro le reti. La raccolta meccanica, gia' attuata negli Stati Uniti, non e' ancora entrata nell'uso corrente in Italia. Dopo la raccolta i frutti vengono fatti asciugare all'aria e successivamente viene praticata la smallatura, operazione attuata meccanicamente.
    I frutti smallati devono essere successivamente essiccati. Ultimata tale operazione, prima di predisporre i frutti per la conservazione, e' possibile effettuare l'imbianchimento con anidride solforosa per migliorare l'aspetto esteriore; e' possibile anche effettuare una disinfezione e disinfestazione contro alcuni parassiti particolarmente dannosi durante la conservazione. I frutti vengono utilizzati per la maggior parte dall'industria dolciaria (confetti, torroni, ecc.) e in piccola parte consumati come frutta secca.
    Avversità
    La lotta alle avversità deve essere attuata con uso limitato o nullo di insetticidi, favorendo la sopravvivenza degli insetti utili con l’inerbimento controllato, l’uso del "Bacillus thuringiensis" e la distribuzione o il ripopolamento di predatori mediante le pratiche consigliate dalla lotta biologica. I danni causati da ragnetti, cocciniglie, tignole, ed altri insetti, vengono contenuti facilmente a livelli trascurabili (1-5%), anche senza l’uso indiscriminato di pesticidi.
    Nel nostro meridione merita particolare attenzione il "Capnodis tenebrionis", coleottero che danneggia i mandorleti in asciutto scavando gallerie nei tronchi.


    .
     
    Top
    .
  6. gheagabry
     
    .

    User deleted


    IL CASTAGNO






    Pianta originale della zona del Mediterraneo, diffusa in Italia nelle Alpi e negli Appennini tra i 300 e i 1000 metri, costituisce una delle presenze principali dei boschi di latifoglie puri (castagneti) o misti.
    Albero ad alto fusto, fino a 30 metri, dicotiledone, con foglie larghe, lanceolate, margini seghettati e nervature prominenti.

    Lo sviluppo del castagno è inizialmente molto lento e raggiunge il suo splendore vegetativo intorno ai 50 anni.
    Può vivere oltre i mille anni...Predilige i terreni acidi profondi, fertili.
    La castanicoltura da frutto, ebbe un grande impulso nel Medioevo per volere della contessa Matilde di Canossa, come riportato in numerosi documenti.
    Nell'economia della montagna ha avuto un ruolo fondamentale fino a pochi decenni fa, tanto che il castagno era chiamato "albero del pane" e la castagna "pane dei poveri".
    Il legno di castagno è di lunga durata, semi duro, poco sensibile alle variazioni di umidità e di temperatura, è molto usato per la costruzione di travi, tavoli, mobili e infissi, ha poco valore come legna da ardere ".... perchè scoppia, sfavilla, rende poco calore, e il carbone si estingue facilmente" (dal Trattato degli Alberi della Toscana)
    Il legno e la corteccia sono ricchi di tannino (sostanza conciante) che ha azione protettiva nei confronti dei tarli e delle degenerazioni del tempo.


    "... I Castagni salvatici tenuti a bosco ceduo, si chiamano paline, e si adoprano principalmente per farne pali e cerchi...Quelli che si allevano per aver dei lunghi pezzi di legno da costruzione, si tengono folti perchè allunghino molto, e non si disperdino in rami; e al contrario i Castagni coltivati per il frutto devono tenersi radi, perchè la quantità di fiori è proporzionale ai rami esposti alla luce......Oltre l'esser di grandissima utilità, è il Castagno anche un albero di molta bella apparenza, ed un Castagneto ben tenuto dà un bel colpo d'occhio, ed è deliziosissimo per l'ombra amena e fresca che ci si gode..."
    (dal Trattato degli Alberi della Toscana, di Gaetano Savi)




    .....l'origine del castano....



    Il castagno ha rappresentato per lungo tempo un’importante risorsa produttiva per molti popoli dell’Asia, del Nord America e dell’Europa, quindi anche della Media Valle del Serchio. Il luogo d’origine del genere Castanea, così come l’etimologia del nome, è tutt’ora incerto. Fino a qualche anno fa si riteneva che fosse di provenienza asiatica. Secondo il De Candolle proviene dal mondo antico e avrebbe avuto origine nella regione mediterranea. Lo Zambaldi sostiene che fu portato in Italia dalla Lidia e aggiunge che gli antichi ricordano il nome di Kastanis, città del Ponto, e quello di Kastanie, villaggio della Tessaglia. L’introduzione e l’acclimazione debbono comunque risalire ad un’epoca remotissima.
    Alcune fonti fanno derivare l’albero da un ceppo originatosi nell’Era Cenozoica (da 65 a 3 milioni di anni fa - Periodo Terziario), espansosi in Europa, Asia e Americhe in periodo di clima caldo (nel Miocene). L’ipotesi è supportata dai resti fossili di polline, foglie e frutti risalenti a 10 milioni di anni fa. Altre fonti testimoniano che il castagno era presente in Italia anche prima dell’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa.
    Sull’indigenato della pianta nei paesi alpini, un tempo ammesso senza riserva, sono stati sollevati dubbi che sembrano fondati: nella stessa regione appenninica i consorzi di castagno si addensano non lontano da paesi e città, non lasciando dubbi sul fatto che l’intervento dell’uomo nella diffusione di questa utile pianta sia stato determinante.
    Studi paleobotanici hanno dimostrato che in Italia centrale verso il 1000 a.C. si registrava una presenza di pollini di castagno pari all’8% del totale della flora arborea, che aumentò fortemente con la romanizzazione fino a raggiungere addirittura il valore del 48% all’inizio dell’era cristiana. Molte foglie fossili in strati di marne del Pliocene sono state ritrovate nella zona di Salmour in provincia di Cuneo. Nella zona adiacente il lago di Bourget in Savoia,
    presso un’insediamento umano dell’età del ferro, sono state ritrovate castagne conservate insieme a ghiande all’interno di vasi. Nelle province di Brescia, Varese e Bergamo, in alcuni depositi glaciali, sono state trovate impronte di foglie di castagno.
    In Garfagnana sono state trovate foglie fossili all’interno di argille risalenti a un milione di anni fa; nella torbiera di Fociomboli sulle Alpi Apuane sono stati rinvenuti pollini fossili di epoca postglaciale.
    Nell’ultima epoca glaciale il castagno subì una notevole regressione, il successivo miglioramento del clima portò ad una nuova espansione.
    In epoca storica il castagno è stato, particolarmente dai Romani, portato al di fuori del proprio areale naturale, giungendo ad essere coltivato fino nella Germania settentrionale e nella Svezia meridionale. Plinio, nel XV e XVII libro della “Naturalis Historia”, scrive a proposito delle castagne descrivendone le varietà. Virgilio cita il castagno nella I e VII Egloga delle Bucoliche, e lo descrive come un albero da frutto comune e ben coltivato (prima della nascita di Cristo), le cui foglie venivano utilizzate per fare i materassi dei letti mentre le castagne erano considerate
    frutti comuni e di pregio.
    Tra il 35 e 45 d.C. Lucio Giunio Moderato Columella, grande agronomo e proprietario terriero latino, la cui figura di scrittore eccelle per la compiutezza delle trattazioni e l’originalità dell’insegnamento, disserta nel suo trattato “De re rustica” sulla piantagione del castagno, sull’innesto e l’uso della paleria per le viti e della semina delle castagne.



    ........castagneti.........



    Giganteschi castagni dal tronco enorme si ergono massicci e poderosi, fieri del loro testimoniare, orgogliosi di aver visto secolo dopo secolo il passare della storia, contenti di aver sfamato anno dopo anno intere generazioni.

    Di rimando il montanaro li considerava oro puro perché erano la sua ricchezza ed aveva cura del castagneto come della famiglia: li potava e conosceva diverse tecniche come la scacchiatura o scacchimatura (la scacchiatura consiste nell'asportazione di germogli finalizzata al loro diradamento ed al riequilibrio dell'apparato aereo) ed esistevano veri propri maestri scacchiatori che potavano la pianta senza rovinarla, toglievano i polloni (la spollonatura è una operazione che riguarda i germogli sterili che possono sviluppare dal selvatico o dalla base del tronco, tali germogli vengono rimossi precocemente) nuovi cresciuti alla base della pianta impedendone così l’indebolimento che avrebbero provocato. Teneva pulito il terreno circostante da rovi, erba o nuove piante che crescendo avrebbero potuto soffocare i castagni (rimondatura) , ma soprattutto creava le roste, lunghi solchi scavati nel poco terriccio, paralleli alla fila del castagni, che avevano lo scopo di convogliare le acque piovane nel fossi impedendo così il formarsi di frane ma anche quello di rendere più agevole la raccolta delle castagne in quanto cadendo si fermavano nel solco invece di rotolare a valle. Nel solco si fermavano anche i cardi e le foglie cadute che marcendo durante 1'inverno concimavano il suolo mantenendo sani e in buono stato i castagni. Nella tarda primavera successiva si tornava a mettere a posto le roste rifacendo qui argini, togliendo i sassi e rastrellando verso i bordi foglie e cardi non marciti. L'arte di curare il castagneto è nel DNA del montanaro perché imparata al tempi di Matilde è stata tramandata di generazione in generazione fino al nostri tempi come scuola di vita.

    Il castagno era così importante che per lui si litigava e si moriva.

    Il racconto.

    Mi raccontava il nonno che due confinanti si contendevano un ramo che si estendeva sulla proprietà del vicino. Un giorno il proprietario della pianta vinto dall'ira segò il ramo. I confinanti erano due fratelli, uno era il parroco l'altro accudiva alle proprietà di famiglia, e non presero la cosa molto bene.

    Così il sacerdote disse all'altro:

    - Uccidlio tu. Così, poi, dopo in confessione ti assolvo.

    E così fu.

    Tutto questo per far capire come era importante il castagno, considerato la vita o la morte di una famiglia.




    ......una leggenda....



    Passammo poi per Sant'Alfio e Praiano, dove gli alberi sono diffusi, dove si trovano dei superbi esempi di castagni.
    Giungono così raramente degli stranieri in questo paese che il nostro arrivo causa una grande sorpresa e suscita molta curiosità.
    La guida ci conduce presso il vigneto di alcuni suoi amici: la moglie e le due figlie non riuscivano a staccarci gli occhi di dosso, tanto gli apparivamo strani.
    Non essendo ancora giunta la notte andammo a vedere il famoso castagno, oggetto del nostro viaggio. La grandezza di questo antico albero era tale che non si può esprimere a parole la sensazione che si prova guardandolo.
    Dopo averlo ben esaminato, cominciai a disegnarlo ma la notte costrinse a sospendere il mio lavoro e a tornare presso il vigneto.
    Le giovani fanciulle non osavano ancora parlarci e risponderci tanto che ci vollero circa due giorni per familiarizzare con noi. Tutti i vicini , tutte le persone del paese vennero per vederci: eravamo per loro uno spettacolo nuovo e interessante. La loro curiosità non ci infastidì e la cena fu molto allegra. Ci fecero dormire nel posto migliore che si possa trovare, si trattava del luogo dove si fil vino che quell'anno non era stato usato; ci misero della paglia fresca e dormimmo piuttosto profondamente.
    L'indomani andammo a visitare tutti gli alberi che hanno una certa reputazione nel paese. Ci fecero vedere una grande quantità di giovani castagni belli e dritti, Tondi come colonne.
    C'è un altro albero che si chiama "La Nave": non perché sia come una nave, ma perché, essendo piegato, la disposizione dei suoi rami che si sollevano gli danno una forma un po' somigliante allo scafo di un battello; ha un diametro di più di 25 piedi che fa supporre una circonferenza di almeno 75 piedi.
    In questa vasta campagna si trovano alberi di varia età e dimensioni. La vista di tutti questi alberi prepara lo spirito a farsi trovare naturale la stupefacente grandezza del Castagno dei Cento cavalli, a causa della vasta ampiezza del suo fogliame.
    Mi dissero che Giovanna d'Aragona andando dalla Spagna a Napoli, si fermò in Sicilia e venne a visitare l'Etna accompagnata da tutta la nobiltà di Catania; ma mentre lei e il suo seguito erano a cavallo furono sorpresi da un temporale; lei fu messa al riparo sotto questo albero, il cui ampio fogliame fu sufficiente anche per riparare dalla pioggia tutti i cavalieri della Regina. Poi mi dissero che fu per questa memorabile avventura che l'albero prese il nome di "Castagno dei 100 cavalli" ma gli studiosi sostengono che nessuna Giovanna D'Aragona ha visitato l'Etna, e sono convinti che questa storia non sia altro che un favola popolare.
    Essendo la cavità dell'albero davvero immensa, gli abitanti del paese hanno costruito una casa dove si conservano le castagne, le nocciole, le mandorle e altri frutti per farli seccare: è un'usanza normale in Sicilia.
    Ho rappresentato in questa carta la casa ed è possibile vederne le dimensioni. Spesso la gente di qui quando ha bisogno di legna prende un'accetta e taglia dei rami: percio questo castagno è in uno stato non ottimale.
    Alcuni ritengono che quest'albero sia formato da più castagni cresciuti l'uno accanto all'altro, sembrando, ad un occhio non attento, un solo albero: si sono sbagliati ed è per dissipare questo errore che ne ho tracciato il piano geometrico.
    Mentre disegnavo questo albero e ne scrivevo le dimensioni, gli abitanti accorrevano e contemplavano questo spettacolo nuovo per loro e si domandavano a cosa servisse il mio lavoro.
    Coloro, il cui desiderio di vedere questo grande albero li conducesse in questo luogo, abbiano la precauzione di arrivarci di buon'ora ...
    Tratto da: J. Houel, Voyage de la Sicilie, de Malta e Lipari - (1784 II 76-80)

     
    Top
    .
  7. gheagabry
     
    .

    User deleted




    IL PUMMELO



    Il pummelo, detto anche pomelo o pampaleone, appartiene alla famiglia delle Rutacee, al genere Citrus ed alla specie grandis o maxima; sembra essere l’agrume più ancestrale, infatti dovrebbe risalire al 2200 A. C. nella Cina meridionale. È un albero meno vigoroso del pompelmo, può raggiungere un’altezza di 10 m, con una chioma ampia e tondeggiante, i germogli sono pelosi, quando lignificano diventano spinescenti; le radici si sviluppano in profondità. Le foglie sono sempreverdi, grandi, ovali, appuntite, di color verde scuro sulla pagina superiore e pelose inferiormente. I fiori sono di grosse dimensioni, di colore bianco, singoli o aggregati in piccole infiorescenze.

    La pianta del pomelo è resistente al gelo, ma cresce meglio in climi caldi e piovosi. Ideali sono le zone tropicali e subtropicali, con terreni umidi e paludosi. In alcune zone del mondo si trovano spesso allo stato selvatico lungo le rive dei fiumi e dei torrenti. La pianta è molto vigorosa, spinosa, con germogli angolari, foglie grandi, ellittico-ovali, con picciolo alato. I fiori sono grandi disposti sia in grappoli che isolati. Il pomelo si propaga soprattutto per innesto.
    Diversamente da ogni altro agrume, il pomelo non è sferico o leggermente schiacciato, e si presenta spesso con una forma a pera. La buccia è liscia, verdina, alle volte rosata, mentre la polpa raggiunge i colori dal giallo paglierino al rosa fino al rosso.

    È il più grande tra i frutti dei citrus, cresce fino ai 30 cm di diametro e può pesare fino ai 10 kg. Tipica per questa specie è l’abbondante presenza della sostanza bianca spugnosa sotto la buccia detta albedo; di albedo è costituita addirittura tutta la parte superiore del frutto, cioè la parte stretta della forma a pera.
    Se il frutto è maturo il gusto è piacevole, più dolce di quello dell’arancio amaro e senza alcuna acidità. Ogni spicchio del frutto è piuttosto grande, presenta piccoli semi e una spessa buccia facile da togliere.
    Molto diffuso in Cina, dove viene consumato fresco, è impiegato anche per produrre succhi (in Israele) e per condire insalate di frutta o di legumi, oppure candito. L’industria ricava olii essenziali dalla buccia.
    Il pomelo è nativo del sud dell’Asia e della Malesia dove è conosciuto da più di quattromila anni. Fu introdotto in Cina attorno al 100 d.C., dove si è diffuso e continua a sopravvivere, anche spontaneamente in riva ai fiumi, fino ai giorni nostri. È coltivato in Cina, e specialmente in Thailandia. Oltre che in Asia, il pomelo è coltivato in California e soprattutto in Israele.
    Da non confondere il pomelo con il pompelmo, sembrano molto simili e i due frutti affini ma si tratta in realtà di due agrumi ben distinti!
    Dal momento che il pomelo non è mai entrato nel circolo del commercio, è conosciuto per lo più con nomi e varianti locali-regionali, lo si conosce come: pampaleone, pummelo, sciadocco, cedrangolo (o cetrangolo), in Israele semplicemente jaffa, in Spagna pomelo.
    ..... è uno dei tre illustri antenati degli agrumi…

    Le principali sostanze contenute nel pomelo sono: vitamina C, beta-carotene, vitamine del gruppo B compresa la B9 "acido folico" particolarmente importante per le giovani mamme durante la gravidanza.
    E' ricco in potassio che ha la poprietà di tonificante per il cuore; inoltre aumenta la vitalità, migliora l’umore, rafforza le energie e la capacità lavorativa.
    Fornisce una sensazione di sazietà e accelera la sintesi delle proteine e dei grassi, nell’organismo, utile per coloro che desiderano o devono mantenere una dieta ipocalorica per migliorare l’aspetto fisico.
    Contribuisce a regolare la pressione arteriosa e a prevenire l’arteriosclerosi. Il Pomelo è ottimo nelle diete per il trattamento e la prevenzione dell’asma.

    - Nelle Filippine e nel Sud-Est asiatico si fanno decotti di foglie, fiori e scorza utili per il loro effetto sedativo nei casi di epilessia e tosse forte.
    - Il decotto caldo delle foglie si applica su gonfiori e ulcere.
    - Il succo di frutta viene usato come febbrifugo.
    - I semi sono utilizzati contro la tosse, dispepsia e lombaggine.
    - La gomma che trasuda dagli alberi si raccoglie in Brasile e si usa come rimedio naturale per la tosse.

    E' considerato un frutto di buon auspicio. In Malaysia, in coincidenza con il Nuovo Anno Cinese (verso febbraio, periodo di raccolta), il pomelo viene offerto come dono.


    Una ricetta dello chef Davide Oldani



    image





    BIGNE' SOFFIATI E DORATI, FINFERLI, UVA SBUCCIATA ED ARABICA

    Ingredienti per 4 persone
    Per i bignè:
    125 ml latte intero
    50 gr burro dolce
    75 gr farina
    35 gr parmigiano grattugiato
    150 gr uova intere
    10 gr olio di semi di girasole
    Sale fine, noce moscata grattugiata
    Per la salsa:
    200 ml panna
    50 gr Cointreau
    50 gr succo di pomelo
    5 gr maizena diluita in 1 ml acqua fredda
    Sale fine
    Per la finitura:
    80 gr funghi finferli puliti e cotti per 40 secondi a vapore e salati
    2 gr polvere di caffè
    12 acini di uva bianca "Italia", sbucciati e privati dei semi

    Preparazione dei bignè soffiati:
    Fare bollire il latte con il burro, aggiungere la farina ed il parmigiano, cuocere per 5 minuti a fuoco dolce. Mettere l’impasto in una sbattitrice, aggiungere le uova una alla volta, la noce moscata ed il sale. Con l’aiuto di una sacca da pasticceria, fare cadere piccoli cilindri (Lunghi 2 cm. larghi ½ cm.) in acqua bollente e salata cuocendoli per 2 minuti, raffreddarli in poca acqua e ghiaccio, scolarli, asciugarli ed arrostirli in padella con un goccio d’olio di semi di girasole.
    Preparazione della salsa:
    In un pentolino, a fuoco dolce, fare ridurre della metà del peso iniziale il Cointreau con il succo di pomelo, aggiungere la panna, fare bollire per un 4 minuti ed addensare con la maizena. Salare.
    La finitura:
    Disporre la salsa in una fondina (Mom, Assiette D’O), adagiare i bignè soffiati e dorati terminare con i finferli, gli acini d’uva e la polvere di caffè.






    dal web
     
    Top
    .
  8.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie
     
    Top
    .
  9. tappi
     
    .

    User deleted


    il noce











    Il noce (Juglans regia L.) è una pianta originaria dell'Asia (pendici dell'Himalaya), introdotta in Europa in epoca antichissima per i suoi frutti eduli.
    Diffusa in tutto il mondo, in Italia la coltura della noce da frutto, in genere promiscua, ha una certa rilevanza solo in Campania.
    Il noce può essere coltivato anche per la produzione di legno o per entrambi gli scopi. Il noce è un albero vigoroso, caratterizzato da tronco solido, alto, diritto, portamento maestoso; presenta radice robusta e fittonante.
    Le foglie sono caduche, composte, alterne (formate da 5-7-9 e, più raramente, 11 foglioline).
    È una pianta monoica in cui i fiori maschili sono riuniti in amenti penduli, lunghi 10-15 cm, con numerosi stami, che appaiono sui rami dell'anno precedente prima della comparsa delle foglie.
    I fiori unisessuali femminili schiudono da gemme miste dopo quelli maschili (proterandria), sono solitari o riuniti in gruppi di 2-3, raramente 4, appaiono sui nuovi germogli dell'anno, contemporaneamente alle foglie. Il frutto è una drupa, composta dall'esocarpo (mallo) carnoso, fibroso, annerisce a maturità e libera l'endocarpo legnoso, cioè la noce vera e propria, costituita da due valve che racchiudono il gheriglio con elevato contenuto in lipidi.
    Limiti pedoclimatici: sensibile ai ristagni idrici e stress idrici conseguenti a terreni sciolti; non tollera i terreni pesanti, asfittici, mentre resiste anche ad elevato tenore in calcare. Teme gli eccessi termici (caldo e freddo).











    Varieta'






    Tra le varietà di interesse generale vi sono:
    - Sorrento: è la varietà più diffusa in Italia, di vigore elevato, portamento assurgente, a duplice destinazione (frutto e legno), produce frutti medi, di forma ovale, di buona qualità; la maturazione è medio-tardiva (fine settembre al Sud);
    - Franquette: di vigore elevato, a duplice destinazione (frutto e legno), produce frutti grossi, di forma ovale, di ottima qualità; è consigliabile al Centro-Nord e al Sud nelle zone più fredde per il suo fabbisogno di freddo;
    - Hartley: di vigore medio, ad una sola destinazione (da frutto), produce frutti grossi, di forma subovale, di buona qualità, è adatta bene sia al Nord che al Sud.
    - Altre interessanti sono: Malizia, selezione di Sorrento, Feltrina, Bleggiana, Cerreto e Midland.
    Il noce viene propagato sia per seme che per innesto, così come tutte le specie a frutto secco.
    Tra i portinnesti si ricordano: franchi di varietà locali ed il selvatico; poco usato il J.Nigra, talvolta con fenomeni di disaffinità dopo una trentina d’anni, sensibile al virus CLRV, che induce rottura nel punto d’innesto; infine il Paradox, ibrido di prima generazione di J.hindsii x J.regia. tutti i portimmesti da seme hanno il problema della disformità.











    Tecniche colturali






    Il noce, pur adattandosi a diversi ambienti, predilige la media collina, esposta a sud o a ovest, protetta dai venti.
    La forma di allevamento è identificabile in un vaso a 3 branche per cv europee, mentre vi è un asse centrale con brindilli fruttificanti laterali per cv californiane. Negli impianti specializzati possono essere adottati sesti variabili da m 7 x 7 per cultivar poco vigorose e in terreni con bassa fertilità e non irrigui e per la prevalente produzione di frutti a m 12 x 12 qualora, oltre ai frutti, si voglia produrre legname da opera; in questo caso le piante devono essere impalcate alte (almeno 3,5 m). si raggiungono densità fra 100/200 piante/ha. L’irrigazione è comunque necessaria per la produzione: 1500-2000 m3/ha/anno con sistema localizzato. La concimazione prevede s.o. all’impianto 40-60 t/ha, molto N fino al quinto anno, 100-400 g/pianta, P e K in minore quantità, 250 kg/ha e 300 kg/ha rispettivamente, dopodiché il rapporto di concimazione è 2:1:2.






    Potatura






    Le piante devono essere poste a dimora a poca profondità (solo 12-15 cm di terra sopra la radice). Fin dal primo anno si devono eseguire due interventi di potatura verde: il primo quando i germogli raggiungono i 20-25 cm per scegliere quello destinato a costituire il prolungamento del fusto, eliminando i polloni e raccorciando tutti gli altri a 1-2 foglie dall’asse centrale; il secondo intervento in luglio, durante la seconda ripresa vegetativa, sempre per favorire il germoglio centrale. Deve essere previsto un tutore di legno di 2,5-3 m al quale legare il germoglio di prolungamento. Nel secondo anno si ripetono i due interventi in verde fino al raggiungimento dell’altezza ove formare l’impalcatura, circa 2,5 m da terra.
    Negli anni successivi gli interventi di potatura debbono essere contenuti, è un albero che si autocontrolla; si eliminano i secchioni, i rami male inseriti e secchi, semmai qualche taglio di ritorno






    Produzioni






    Una pianta in piena produzione è in grado di fornire 50-70 kg di frutti; nell’impianto si raggiungono i 40 qli/ha, mentre 60-80 qli/ha in U.S.A.
    La raccolta dei frutti, da metà settembre a fine ottobre, è totalmente meccanizzata mediante l’uso di scuotitori, andanatrici e raccattatrici meccaniche. In Italia, di norma la raccolta viene fatta raccattando i frutti caduti naturalmente, o con l’ausilio di pertiche, su reti appositamente distese sotto gli alberi. I frutti sono ricchi di olio e zuccheri vengono impiegati anche nell'industria della cosmesi e farmaceutica.
    Prima di essere posti in commercio, i frutti devono essere sottoposti a:
    - smallatura, per evitare l'annerimento del guscio;
    - lavaggio, per eliminare ogni residuo del mallo;
    - imbiancatura con anidride solforosa;
    - essiccazione graduale allo scopo di abbassare l'umidità al 4-5%;
    - selezione, calibratura e confezionamento;
    - è possibile la conservazione a 0°C con UR di 60-75% sicura contro l’irrancidimento.
    Il legno è molto pregiato, duro, compatto, resistente e di facile lavorazione.






    Avversita'






    Per la pianta vi sono batteriosi tra cui la Maculatura batterica, Xantomonas, crittogame quali Marciume del colletto e radicale, insetti quali Carpocapsa e Rodilegno; nematodi, funghi Armillaria.
    Per il frutto vi è il baco delle noci Cydia pomonella.






    Poesie relative al Noce











    Il ceppo del vecchio noce






    Avvolto da un niveo fumo,
    tu scoppietti ardente;
    mentre, lingue di fuoco,
    attorno ti si agitano
    volubili, in fiamme rossastre.

    Seduto presso il camino,
    abbagliato e riscaldato,
    io t’osservo mentre bruci
    e da viva brace ti trasformi
    in cenere morta.

    A tale trasformazione fatale,
    rivedo l’annosa tua storia,
    rimembrando
    le verdi tue fruttifere annate,
    quand’eri l’orgoglio indiscusso
    della mia casa contadina,
    per tante stagioni estive
    in te avevamo riposto fiduciosi
    in ogni tua estrema risorsa.

    Poi, avanzato oramai negli anni
    non più in grado di dare frutti,
    ecco che alla terra genitrice
    tu dovevi tornare,
    per rendere ancora a noi
    il suo ultimo prezioso servigio:
    riscaldando la mia casa
    con il tuo necessario sacrificio.

    autore:riccardo2.co











    Albero di noce amico mio






    Eri bambina,
    vicino casa tua una fattoria dove spesso la mamma ti portava,
    nell'aia un albero si ergeva fino al cielo
    mostrando con orgoglio i folti rami.
    Sia l'altura che l'immenso verde,
    lo sguardo e la tua fantasia attirava.
    Del tronco la statura secolare come un gigante
    agli occhi tuoi appariva.
    T'incuriosivano le formichine che sul tronco
    passeggiavano serene
    col ditino tentavi di contare,
    ma eran tante! Quando non riuscivi
    fra le braccia materne a rifugiarti andavi.
    Gli anni avanzavano, diventavi donna,
    spesso tornavi in quella fattoria
    sotto il tuo albero di noce un dì hai incontrato
    quel grande amore a cui tanto anelavi
    e che purtroppo non sarà mai tuo,
    perchè proibito, molto contrastato!
    Rinunciare dovrai a quel sentimento,
    che nel cuore sempre porterai,
    vivendo la vita intera nel tormento.
    Bimba di ieri, anziana donna! mentre in discesa vai senza ritorno,
    pensi ancora il tuo perduto amore, se visse la vita sua
    serenamente oppure ti ha pensato con rimpianto.
    Sognando vedi l'alberone amico
    e vorresti saper se fu abbattuto, oppure impone ancor la sua presenza
    serbando in cuore le tue confidenze, ingenuità
    della tua adolescenza.


    Rosarossa



    Edited by tappi - 30/3/2011, 11:31
     
    Top
    .
  10. gheagabry
     
    .

    User deleted



    "Lega un albero di fico nel modo in cui dovrebbe crescere,
    e quando sarai vecchio potrai sederti alla sua ombra."

    Charles Dickens



    IL FICO





    Originario dell'Asia, il fico è una pianta tipica delle zone con clima subtropicale, e la sua diffusione è oggi estesa anche alla maggioranza dei paesi del bacino mediterraneo.
    Il fico comune (Ficus Carica) appartiene alla famiglia delle Moraceae, è una pianta tipica dei climi subtropicali e da tempo immemorabile diffusasi anche nell'area mediterranea. L'appellativo “Carica” sembra far riferimento a una regione dell'Asia Minore - la Caria - che si trova in Anatolia, l'odierna Turchia. Apprezzato fin dai tempi biblici, le foglie di fico furono il primo “indumento” della storia. Si legge infatti nella Genesi 3,7 «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». Il Fico è una pianta molto resistente alla siccità, vive nella stessa area della vite e dell'olivo, ma non sopporta temperature inferiori a -10° C, terreni argillosi ed eccessivamente umidi. Il fico ama climi caldi, terreni calcarei, sassosi e ben drenati. La pianta si presenta con un apparato radicale molto espanso e assai invasivo, particolarmente efficace nel ricercare l'acqua.
    Il robusto tronco grigiastro può far arrivare la pianta fino a otto metri di altezza. Esistono due subspecie: ficus carica sativa (fico domestico) e ficus carica caprificus (caprifico o fico selvatico). Il fico domestico produce due tipi di frutti: i “fichi primaticci” che si formano in autunno e maturano in tarda primavera e i “fichi veri” quelli che si formano in primavera e maturano in estate. Le cultivar del caprifico sono limitate a qualche decina, mentre quelle del fico domestico qualche centinaia; molte di queste sono antichissime e si contano inoltre varietà locali e spesso poco note. La produttività di un albero dipende dal clima, dall'umidità e dal terreno su cui vegeta. Il fico inizia a produrre frutti dopo il quinto anno di vita e continua fino al sessantesimo, quando la pianta muore rapidamente.
    La più importante monografia sul fico scritta da Condit nel 1955 descrive 720 varietà di fico comprendendo anche 129 varietà di caprifico in un lavoro monumentale che rappresenta tutto il panorama varietale di questa specie nel Mondo...In Italia, nel periodo rinascimentale, se ne conoscevano più di cinquecento varietà diverse.
    Giorgio Gallesio, nella sua monumentale opera sulle varietà di piante da frutto: Pomona Italiana (1820), ne descrive quattrocentocinquanta e, per alcune di queste, ne fa ricavare delle stupende illustrazioni botaniche.




    ...nella storia....



    La scoperta dei ricercatori Ofer Bar-Yosef dell'Università di Harvard, Mordechai E. Kislev e Anat Hartmann della Bar-Ilan University, sembra riscrivere le origini dell'agricoltura. La scoperta è stata fatta in Israele, in un sito archeologico situato nella bassa valle del fiume Giordano, pochi chilometri a nord di Gerico e denominato “Gigal I”, abitato circa 11.400 anni fa. Questi ricercatori hanno scoperto in questo luogo nove piccoli fichi e 313 piccole parti di frutto ormai carbonizzati dal tempo ma, secondo gli studiosi, questi erano in realtà preparati per essere consumati in seguito. La scoperta dimostra che i fichi erano coltivati circa cinquemila anni prima di quanto si pensasse e un migliaio d'anni prima di grano e orzo.
    L'origine del fico sembra essere l'Asia Occidentale oppure, secondo altri, il Medio Oriente. È comunque una pianta dalle origini remote, molto apprezzata da tutte le popolazioni dell'antichità, non solo per il suo gusto particolare, ma anche per il suo valore simbolico. La storia è infatti ricca di testimonianze artistiche, religiose e letterarie riguardanti il fico. Nel vecchio Testamento viene citato spesso come simbolo di abbondanza. In India è un albero sacro, l'Asvattha (albero cosmico), tuttavia è bene ricordare che si tratta di un'altra pianta, il “Ficus Religiosa”. Esistono numerose varietà dell'albero di fico e non tutte producono frutti, come ad esempio il “Ficus Benjamin” (Ficus Benjamina), la nota pianta d'appartamento dalle grandi foglie lucide.
    Nell'antica Grecia il fico era protagonista di molti miti, spesso a carattere erotico. Era considerato un albero sacro in quanto albero primordiale, pianta sacra al dio Dioniso, poiché i greci attribuirono a questo dio la nascita del fico. Nel V Secolo a.C. il medico greco Ippocrate cita nei suoi scritti il caglio animale come alternativa a quello di fichi. Lo stoico Zenone di Cizio era un grande estimatore di fichi, lo era anche Platone, tanto da vedersi attribuito il soprannome di “mangiatore di fichi”. Oltre ad esserne particolarmente ghiotto, Platone li raccomandava infatti anche ad amici e studenti per rinvigorire l'intelligenza. I Greci utilizzavano il lattice di fico per far cagliare il formaggio. Omero scrive che il ciclope Polifemo produceva formaggi nella sua grotta, probabilmente utilizzando anche succo di fico per far cagliare il latte. Aristotele documenta la tecnica della coagulazione del latte con il succo di fico e con caglio di origine animale.
    La virtù e la gradevolezza del fico sedussero gli antichi Romani, anche per loro diviene pianta sacra così come l'ulivo e la vite. Publio Ovidio Nasone racconta che in occasione del capodanno era usanza offrire, ad amici e parenti, frutti di fico e del miele come augurio per il nuovo anno. Secondo Plinio mangiare fichi «aumenta la forza dei giovani, migliora la salute dei vecchi e riduce le rughe». I fichi erano un alimento amato da atleti e convalescenti, grazie all'apporto calorico e alla facile digeribilità. Fra le antiche popolazione che si nutrivano di fichi si ricordano inoltre Etruschi e Fenici.





    ......nella mitologia......



    Nella mitologia egizia, ci riferiamo al sicomoro (ficus sycomorus), pianta presente in particolare nell'Africa Orientale e, soprattutto, in Egitto. Con l'arrivo della primavera, l'Uovo cosmico (plasmato da Ptah e da lui deposto sulle rive del Nilo) si apriva e ne usciva Ra/Osiride, il Sole. Il fiume viveva in simbiosi col dio del sole. Recita infatti il "Libro dei Morti" (celebrando il perpetuo rigenerarsi della vita, la resurrezione di tutte le cose caduche): "Cresce, io cresco; vive, io vivo". Finalmente cessava il pianto di Iside (sempre alla ricerca del suo amato Osiride) e, per festeggiare la fine del suo dolore, si mettevano in scena gli episodi del mito di Osiride, culminanti nella resurrezione del dio, che avveniva quando dalle zolle alla base del sicomoro sacro iniziavano a spuntare i germogli di grano e orzo. Il fico sicomoro era insomma considerato un albero cosmico assimilato alla fenice. Era reputato quindi simbolo di immortalità, di vittoria sulla morte, di rinascita dalla distruzione. Era, in altre parole, l'Albero della Vita. Il suo succo, inoltre, era prezioso perché si riteneva donasse poteri occulti e il suo legno era usato per la fabbricazione dei sarcofagi: seppellire un morto in una cassa di sicomoro significava reintrodurre la persona nel grembo della dea madre dell'albero, facilitando così il viaggio nell'aldilà. Nel "Libro dei Morti", infine, il sicomoro è l'albero che sta fuori dalla porta del Cielo, da cui ogni giorno sorge il dio sole Ra. Esso inoltre era consacrato alla dea Hathor, chiamata anche la "dea del sicomoro". La dea Hathor appare sotto forme diverse. Dea madre, feconda e nutrice, Hathor abita gli alberi ed è la "signora del sicomoro del sud", a Menfi; ma è anche la "signora dell'occidente", ossia la signora del regno dei morti...Un ultimo accenno infine al fico sicomoro nella numerologia. Il sicomoro è legato al numero 9, il numero tre volte sacro (3x3=9), il numero dell'Amore Universale. Rappresenta l'immagine completa dei 3 mondi: materiale, psichico e animico ed è simbolo di verità totale e completa (il 9 moltiplicato per qualsiasi altro numero dà un prodotto le cui cifre sommate tra loro danno ancora 9).

    In Grecia, il fico era sacro a Dionisio e, soprattutto, a Priapo, il dio lubrico della fecondità.
    A Roma era sacro a Marte, vero fondatore della città eterna in quanto si sostiene che Romolo e Remo siano nati proprio dalla sua unione con Rea Silvia, dopo che il dio della guerra aveva posseduto con la forza la giovane vestale di Alba Longa. Essendo prole illegittima, i gemelli vennero quindi strappati alla madre per essere uccisi. Ma un servo pietoso li sottrasse a morte sicura adagiandoli in una cesta, che fu affidata alle acque del Tevere. Trasportata dallo straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto un fico selvatico, all'ombra del quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa. Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale, mentre nell'iconografia è spesso rappresentato con un picchio appollaiato sui suoi rami. Esso fu chiamato "fico ruminale". L'etimologia dell'epiteto "ruminale" non è chiara e su di essa fin dall'antichità molti autori classici (tra cui Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso) hanno formulato varie interpretazioni. Secondo alcuni deriverebbe dal latino "ruma" (mammella); secondo altri, al contrario, il fico prese il nome da Romolo, tant'è che gli stessi autori latini lo chiamavano talvolta "ficus Romularis". Altri, infine, ipotizzano un'etimologia etrusca. Ad ogni modo, fin dall'antichità, il fico fu collegato alla fondazione di Roma e considerato un albero fausto. Era venerato soprattutto dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. Più tardi vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Rumina, la dea dei poppanti presso i Romani. Essa veniva venerata in un tempio vicino al fico sotto cui (seconda la leggenda appunto) Romolo e Remo vennero allattati dalla lupa. Sebbene il fico ruminale fosse, in origine, solamente quello in riva al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli abbandonati, nel corso dei secoli successivi (e fino in epoca imperiale) altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta con l'epiteto di "ruminale".
    Tra questi il fico navio (Ficus navia), che (secondo la leggenda) sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine (Plinio, Nat. Hist. 15.77). Oppure nacque da un virgulto del fico ruminale, ivi piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito dal sito originario al Comitium.
    La Repubblica Romana - giova ricordarlo - investiva i poteri formali di governo in quattro separate assemblee: i Comitia Curiata, i Comitia Centuriata, i Comitia Populi Tributa e il Concilium Plebis. E se Tito Livio afferma che nel 296 a.C. gli edili Gneo e Quinto Ogulnio avevano eretto "ad ficum ruminalem" un monumento che rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che alla sua epoca (43 a.C. - 18 a.C.) del fico non rimanevano che le vestigia. Plutarco e Plinio narrano invece che un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di buon auspicio e che, ogni qual volta la pianta moriva, veniva prontamente rimpiazzata con una nuova. Tacito aggiunge che nel 58 d.C. l'albero "ruminale" iniziò a inaridire. Ciò fu visto come un cattivo presagio, ma la pianta risorse con gran sollievo della popolazione. Se la pianta infatti si seccava, ci si potevano aspettare le peggiori sciagure pubbliche (per questo i sacerdoti avevano cura di piantarne sempre una nuova).



    ....una favola...



    C'era una volta un fico che non aveva frutti. Tutti gli passavano accanto, ma nessuno lo guardava. A primavera spuntavano anche a lui le foglie, ma d'estate, quando gli altri alberi si caricavano di frutti, sui suoi rami non compariva nulla.
    - Mi piacerebbe tanto esser lodato dagli uomini - sospirava i fico. - Basterebbe che riuscissi a fruttificare come le altre piante.
    Prova e riprova, finalmente, un'estate, si trovò pieno di frutti anche lui. Il sole li fece crescere, li gonfiò, li riempì di dolce sapore.
    Gli uomini se ne accorsero. Anzi, non avevano mai visto un fico così carico di frutti: e subito fecero a gara a chi ne coglieva di più. Si arrampicarono sul tronco, con i bastoni piegarono i rami più alti, col loro peso ne stroncarono parecchi: tutti volevano assaggiare quei fichi deliziosi, e il povero fico, ben presto, si ritrovò piegato e rotto.
    (Leonardo da Vinci)





    .
     
    Top
    .
  11. gheagabry
     
    .

    User deleted




    Io non ti avevo visto,
    giallo limone così nascosto
    nel fogliame brunito della limonaia,
    io non ti avevo visto.
    Ma al bambino
    scaturì un fuoco nuovo di avidità negli occhi
    e tese le due mani.
    Dove non arrivavano
    giunse il suo grido.


    Adesso è notte e,
    come frutto compiuto del giorno,
    ti tengo tra le mani,
    nitido, limone nascosto,
    nitido, limone scoperto.


    (Il bambino è già assopito).


    [ Pedro Salinas ]



    .
     
    Top
    .
  12. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Braccia nodose, vestite di un sussurro verde argento accarezzano il cielo senza tempo.
    Lo stormire delle foglie racconta degli uomini, della fatica, del lavoro
    mentre fili di perle ondeggiano al vento,
    ricca promessa di oro verde.
    (Anna, dal web)


    L' ULIVO




    L'olivo appartiene alla famiglia delle Oleaceae. La pianta comincia a fruttificare verso il 3º-4º anno, inizia la piena produttività verso il 9º-10º anno; la maturità è raggiunta dopo i 50 anni. È una pianta molto longeva: in condizioni climatiche favorevoli un olivo può vivere anche mille anni. Le radici, per lo più di tipo avventizio, sono molto superficiali ed espanse, in genere non si spingono mai oltre i 60–100 cm di profondità.
    Il fusto è cilindrico e contorto, con corteccia di colore grigio o grigio scuro, il legno è molto duro e pesante. La ceppaia forma delle strutture globose, dette ovoli, da cui sono emessi ogni anno numerosi polloni basali. La chioma ha una forma conica, con branche fruttifere pendule o patenti (disposte orizzontalmente rispetto al fusto) secondo la varietà.
    È una pianta sempreverde, la cui attività è pressoché continua con attenuazione nel periodo invernale. Le foglie sono opposte, coriacee, semplici, intere, ellittico-lanceolate, con picciolo corto e margine intero, spesso revoluto. La pagina inferiore è di colore bianco-argenteo per la presenza di peli squamiformi. Il fiore è ermafrodito, piccolo, con calice di 4 sepali e corolla di petali bianchi. I fiori sono raggruppati in numero di 10-15 in infiorescenze a grappolo, chiamate mignole, emesse all'ascella delle foglie dei rametti dell'anno precedente. La mignolatura ha inizio verso marzo-aprile. La fioritura vera e propria avviene, secondo le cultivar e le zone, da maggio alla prima metà di giugno.
    Il frutto è una drupa globosa, ellissoidale o ovoidale, a volte asimmetrica, del peso di 1-6 grammi secondo la varietà, la tecnica colturale adottata e l'andamento climatico.





    ....storia, miti e leggende...



    La storia dell'ulivo è profondamente legata a quella dell'umanità; nelle origini di questo prezioso liquido dorato storia e mitologia si intrecciano strettamente, fino a confondersi. Comparsa per la prima volta probabilmente nell'Asia occidentale, la pianta dell'ulivo si diffuse in tutta l'area mediterranea, dove il suo culto fu consacrato da tutte le religioni.
    Fin dai tempi più remoti l'ulivo fu considerato un simbolo trascendente di spiritualità e sacralità. Sinonimo di fertilità e rinascita, di resistenza alle ingiurie del tempo e delle guerre, simbolo di pace e valore, l'olivo rappresentava nella mitologia, come nella religione, un elemento naturale di forza e di purificazione. E' ormai accertato che la coltivazione dell'ulivo ha origini ad almeno 6.000 anni fa: ne fanno fede racconti tradizionali, testi religiosi e rinvenimenti archeologici. Probabilmente la pianta ebbe il suo habitat originario in Siria ed i primi che pensarono a trasformare una pianta selvatica in una specie domestica furono senza dubbio popoli che parlavano una lingua semitica. Dalla Siria facile fu il suo trapianto in Grecia dove trovò una inaspettata fortuna e applicazione che la resero, poi, indispensabile ai popoli antichi del Mediterraneo.
    Pianta sacra da tempo immemorabile, l'ulivo è protagonista di diverse leggende che ne hanno attribuito questa sua origine divina.

    La tradizione ebraica racconta che dai semi portati da un angelo e posti tra le labbra di Abramo, sepolto sul monte Tabor, nacquero tre piante: un cipresso, un cedro e un olivo.
    Nell'Antico Testamento, la colomba che annuncia a Noè la fine del diluvio e la ricomparsa delle terre emerse porta nel becco un ramo d'ulivo.
    Stesse origini l'ulivo ha anche nella mitologia greca. Da una contesa tra Poseidone e Atena sorta per il possesso dell'Attica, Atena fece germogliare un ulivo accanto al pozzo che aveva donato Poseidone e il tribunale composto da tutte le divinità olimpiche, convocato per decidere chi doveva governare l'Attica, decise che il dono migliore era stato fatto da Atena.
    Sempre dalla mitologia greca, Apollo nacque a Delo sotto una pianta di ulivo e Aristeo, figlio di Apollo e Cirene, apprese dalle Ninfe del mirto come innestare l'olivastro per ottenere l'olivo.
    Anche i primi cristiani, che combatterono tutti i culti pagani degli alberi, rispettarono invece l'ulivo, il cui olio sacro serviva per la cresima, la consacrazione dei sacerdoti, l'estrema unzione.
    La storia racconta che, originario della parte orientale dell'area mediterranea, l'olivo si diffuse in Egitto, in Palestina, a Creta, a Rodi, nell'Attica, in Italia e poi in tutto il bacino del Mediterraneo. Il codice Babilonese di Hammurabi, che risale a circa 2500 anni prima di Cristo, cita l'olio di oliva e ne regolamenta la compravendita.

    In Egitto, ai tempi della XIX dinastia, intorno al 1300 a.C., rami d'ulivo erano posti sulle tombe dei sovrani. Fenici, Greci e Cartaginesi commerciarono olio e contribuirono a diffondere la coltivazione dell'ulivo, utilizzato non solo come alimento, ma anche per le cure del corpo e per l'illuminazione.
    In Italia, portato dai coloni greci, l'ulivo fu coltivato dagli Etruschi, che già nel VII secolo a.C. ne possedevano vaste piantagioni. Più tardi i Romani organizzarono razionalmente la distribuzione e il commercio dell'olio. A Roma costituirono l'arca olearia, una sorta di borsa dell'olio d'oliva, dove collegi di importatori, "negotiatores olearii", trattavano prezzi e quantità.
    Secondo i più illustri naturalisti romani, esistevano ben dieci varietà diverse di ulivi e l'olio prodotto era classificato in cinque categorie. Il più pregiato era l'Oleum ex albis ulivis, ottenuto da olive verde chiaro, cui seguivano il Viride, ottenuto da olive che stanno annerendosi, il Maturum, frutto della spremitura di olive mature, il Caducum, ottenuto da olive raccolte da terra, e il Cibarium, prodotto con olive bacate e destinato solo agli schiavi.

    Nelle culture occidentali la parola olio può sicuramente essere ricondotta alla parola latina oleum e alla greca elaion, sin ancora all'antica semitica ulu.
    In un pur breve excursus storico non possiamo dimenticare che la cultura dell'olio di oliva è giunta sino a noi, attraverso il Medioevo, per opera di alcuni Ordini religiosi, fra cui in particolare i Benedettini ed i Cistercensi.
    Benedettini, devoti al credo della preghiera e del lavoro, persuadevano contadini ed operai agricoli a non abbandonare le terre ma a dedicarsi a colture redditizie quali l'olivo.
    Il grande animatore dei Cistercensi fu Bernardo Chiaravalle, detto: "l'ultimo dei padri della Chiesa". I suoi monaci insegnarono ai contadini, delusi dallo stato di semi-schiavitù in cui si trovavano, a dissodare i campi, a piantare colture da reddito, a rendersi indipendenti come fattori di produzione.
    Non si videro forse mai tanti oliveti e vigne come dal Mille al Quattrocento, gli anni d'oro dei monaci Benedettini e Cistercensi.
    Più tardi, nel XII secolo, vennero stipulati contratti "ad infinitum", cioè senza limiti di tempo, per cui i contadini si impegnavano alla coltivazione in cambio di un fitto, sovente pagato in olio.
    Gli oliveti ripresero a diffondersi, Firenze divenne un centro importante per la coltivazione ed emanò severe leggi che regolamentavano la coltivazione dell'olio e il suo commercio; Venezia e Genova cominciarono a commerciare quantità sempre maggiori di olio proveniente da Corinto, Tebe, Costantinopoli e dalla Romania, Provenza, Spagna e Africa del nord.
    All'inizio del XIV secolo, la Puglia divenne un enorme oliveto e piantagioni sorsero in Calabria, Abruzzo, Campania e Sicilia. Tale divenne l'importanza di questo alimento per queste regioni che, nel 1559, Parafran De Riveira, vicerè spagnolo, fece costruire una strada che collegava Napoli alla Puglia, alla Calabria e all'Abruzzo per agevolare il trasporto dell'olio.
    L'olio italiano venne diffuso in tutta Europa, e la stessa Caterina di Russia ricevette campioni di olio italiano racchiusi in un cofano in legno d'olivo. Nel 1830 papa Pio VII garantiva un premio in denaro per ogni olivo piantato e curato sino all'età di 18 mesi. Persino re Umberto, nel 1944, emanò un decreto, ancora oggi in vigore, che vieta l'abbattimento delle piante d'olivo.





    L' olivo si potrebbe quasi definire una pianta immortale grazie alla sua capacità di rigenerarsi dalla ceppaia. Le caratteristiche botaniche, l' aspetto, le varietà diffuse nel Mediterraneo, il portamento, il ciclo vegetativo annuale, l' impianto e le pratiche colturali di un oliveto ci permettono di apprezzare le peculiarità per molti versi eccezionali di questo albero. L' utilizzo dell' ulivo e dei suoi prodotti è una testimonianza dell' ingegnosità umana oltre che delle straordinarie caratteristiche di questa pianta. Reperti rari e sorprendenti di ogni epoca e paese, descrizioni e passi tratti dalla Bibbia, da Omero, da poeti e scrittori del passato illustrano l' importanza di questo albero nella vita dell' uomo.
    L' ulivo ha costituito un contributo ed un elemento indispensabile al benessere quotidiano e ad un raffinato modo di vita. Luce, medicamenti, unguenti e profumi, lubrificanti, alimento, condimento, calore e legno sono i preziosi doni dell'ulivo all'uomo.
    Come gli antichi, anche noi possiamo dire che il Mediterraneo inizia e finisce con l'olivo. L' olivo si potrebbe quasi definire una pianta immortale grazie alla sua capacità di rigenerarsi dalla ceppaia. Le caratteristiche botaniche, l' aspetto, le varietà diffuse nel Mediterraneo, il portamento, il ciclo vegetativo annuale, l' impianto e le pratiche colturali di un oliveto ci permettono di apprezzare le peculiarità per molti versi eccezionali di questo albero.
    L' utilizzo dell' ulivo e dei suoi prodotti è una testimonianza dell' ingegnosità umana oltre che delle straordinarie caratteristiche di questa pianta. Reperti rari e sorprendenti di ogni epoca e paese, descrizioni e passi tratti dalla Bibbia, da Omero, da poeti e scrittori del passato illustrano l' importanza di questo albero nella vita dell' uomo.
    L' ulivo ha costituito un contributo ed un elemento indispensabile al benessere quotidiano e ad un raffinato modo di vita. Luce, medicamenti, unguenti e profumi, lubrificanti, alimento, condimento, calore e legno sono i preziosi doni dell'ulivo all'uomo.
    Come gli antichi, anche noi possiamo dire che il Mediterraneo inizia e finisce con l'olivo. L'olio d'oliva è da millenni uno dei prodotti e delle merci più preziose del Mediterraneo.
    (pisciotta.net)




    ........simbolo.......



    Sia i popoli orientali che quelli europei hanno sempre considerato questa pianta un simbolo della pace.
    I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il suo progenitore selvatico l’oleastro. Secondo il mito ci pensò Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità. Per i Romani era simbolo insigne per uomini illustri.
    Per gli Ebrei l'olivo era simbolo della giustizia e della sapienza.
    Nella religione cristiana la pianta d'olivo ricopre molte simbologie. Nella Bibbia si racconta che calmatosi il diluvio universale, una colomba portò a Noè un ramoscello d'olivo per annunciargli che la terra ed il cielo si erano riconciliati. Da quel momento l’olivo assunse un duplice significato: diventò il simbolo della rigenerazione, perché, dopo la distruzione operata dal diluvio, la terra tornava a fiorire; diventò anche simbolo di pace perché attestava la fine del castigo e la riconciliazione di Dio con gli uomini. Ambedue i simboli sono celebrati nella festa cristiana delle Palme dove l’olivo sta a rappresentare il Cristo stesso che, attraverso il suo sacrificio, diventa strumento di riconciliazione e di pace per tutta l’umanità. In questa ottica l’olivo diventa una pianta sacra e sacro è anche l’olio che viene dal suo frutto, le olive. Infatti l'olio d'oliva è il Crisma, usato nelle liturgie cristiane dal Battesimo all'Estrema Unzione, dalla Cresima alla Consacrazione dei nuovi sacerdoti.
    La simbologia dell'olivo si ritrova anche nei Santi Vangeli: Gesù fu ricevuto calorosamente dalla folla che agitava foglie di palma e ramoscelli d'olivo; nell'Orto degli Ulivi egli trascorse le ultime ore prima della Passione.


    Rigoglioso tra pietre
    L’ulivo mai cede alla forza del vento
    vigoroso, enorme, rimane attaccato saldamente ostinato
    alla terra da cui è sempre nato,
    All’ essere umano s’accosta si incurva, si piega ..non nega
    d’esser vecchio. Ma ancora “resiste”.
    Da millenni il suo fusto persiste
    Dona frutti verdastri le olive che diventano nere, son vive.
    Agli anni .. stagioni…che vanno
    Del buon vecchio scultura faranno.
    (Cristy2008)





    .
     
    Top
    .
  13. gheagabry
     
    .

    User deleted




    Forte come la terra che ti nutre...Vasto come il cuore di ogni uomo.
    Resistente come gli anni che ti porti appresso
    Prezioso come il frutto che racchiudi
    Hai una forma così piena
    Che a guardarti ci rasserena.
    (dal web)


    Il NOCE



    Juglans è un termine latino coniato in onore di Giove: "Jovis glans" cioè la "ghianda di Giove" poiché presso gli antichi Romani il noce era l'albero consacrato al re degli dei. L'aggettivo "regia" che significa "regale" rivela che l'albero fu introdotto in Occidente dai re di Persia. Il genere comprende una quindicina di specie arnericane, europee, asiatiche. Si tratta di alberi decidui, resistenti, dalle foglie grandi,composte e pennate. I fiori maschili e i fiori femminili sono sullo stesso albero, fioriscono in aprile-maggio e sono impollinati dagli insetti. I frutti consistono in una drupa con un epicarpo ricchissirno di tannino, comunemente detto mallo. Il seme,carnoso, è edule ed infatti è racchiuso in un endocarpo legnoso. ll legno di queste specie è molto apprezzalo per mobili: è pesante, duro,compatto, omogeneo, di colore bruno chiaro. Sono alberi piuttosto longevi, la cui vita media si aggira intorno ai trecento anni.
    Specie coltivate: Juglans cinerea, noce bianco; alto fino a m 10, dalle foglie grandi e dai rametti caratteristicamente appiccicosi, è originario della parte nordorientale degli Stati Uniti d'America. Juglans nigra, noce nero, è un bellissimo albero ornamentale alto più di m 30, che cresce molto bene nei climi temperati : coltivato esclusivamente in Europa per motivi ornamentali, e solo in rari casi per il legname, è originario degli Stati Uniti Orientali , Juglans regia, noce comune, arriva fino a m 20-25 d'altezza ed ha un diametro di un metro e più. È l'unico rappresentante europeo della famiglia delle Juglandaceae, originario dell'Asia centro-occidentale e probabilmente
    anche dell'Europa sud-orientale: è coltivato da molto tempo in tutta Europa ed in molti paesi si è ormai naturalizzato. Specie tipica del Castanetum esce facilnrente da questa fascia, ma non arriva mai a grandi altezze essendo molto sensibile al freddo. Esige terreno profondo, fertile, sciolto e ben drenato,ed una notevole disponibilità idrica. È molto bisognoso di luce per cui entra di rado a far parte dei boschi, a meno che non sia spiccatamente dominante.
    Viene coltivato in regioni di collina e di bassa montagna un po' in tutta ltalia,ma specialmente in Campania, Piemonte,Emilia, Abruzzo, Toscana e Lazio. Di solito si trova nelle vallette fresche,sui prati e sui pascoli delle Alpi e degli Appennini dove è considerato una pianta fondamentale per le alberature campestri. Assume importanza nel campo della frutticoltura, soprattutto in Campania dove viene coltivato in modo da formare una copertura rada sopra colture di ortaggi, vigneti e frutteti. Proprio in Campania vengono poi prodotte le migliori varietà da frutto come la famosa Noce di Sorrento.


    La parola “noce” deriva da latino “nocere” che significa nuocere, probabilmente ciò è dovuto al fatto che l’odore della pianta, se intenso, può generare emicrania. Ancora, si osserva che sono molto poche le piante nascono all’ombra di un Noce, come se il contatto con questo albero non fosse benigno.
    Il noce è un albero alto da 10 a 20 m, a chioma folta, espansa e tondeggiante. Ha tronco eretto, dritto, con diametro basale fino a 1-2m, coperto da una corteccia liscia grigio-biancastra nei primi anni, più scura quella del tronco adulto, fessurata longitudinalmente...Il noce è pianta monoica con fiori diclini, cioè i sessi sono distinti, ma presenti nello stesso individuo. I fiori maschili sono raccolti in amenti penduli,cilindrici,alla base dei rami dell'anno precedente, hanno un piccolo perigonio di 3-4 pezzi,10-40 stami e resti di un pistillo atrofizzato; quelli femminili sono solitari o raggruppati a 2-4, hanno un perigonio di 4 tepali saldati alle brattee e alle bratteole,formante un involucro che nel frutto diviene carnoso avvolgendolo,ovario infero bicarpellare e uniloculare,sono inseriti all'estremità dei rami dello stesso anno. Fiorisce da aprile a maggio.
    Il frutto è una drupa, la cui parte commestibile si trova all'interno di un guscio legnoso, il quale è ricoperto da un mallo carnoso di color verde che, quando il frutto è maturo, annerisce e si stacca. La raccolta dei frutti avviene nei mesi di ottobre-novembre, appena il mallo inizia a staccarsi.
    Il noce predilige terreni profondi, freschi e ben drenati, teme i ristagni d'acqua, i quali possono favorire l'insorgere di marciumi alle radici, causando un generale indebolimento della pianta, con danni anche alla produzione dei frutti. Resiste bene al freddo pur prediligendo climi miti e non troppo umidi. La zona ideale è la collina con altitudini non superiori ai 600-800 metri, è molto diffusa anche la coltivazione in pianura, dove la maggior parte delle piante è destinata alla produzione del pregiatissimo legno.



    Non è dato sapere come nacque il noce, come crebbe e si fortificò, come fu distrutto, come e dove rinacque, eterno simbolo di libertà e liberazione.
    Certo è che lo spirito di tutte le donne/janare/streghe ripudiate e uccise aleggia a Benevento, città femminile, di Iside, della Madonna delle Grazie, delle immagini eteree e affascinati create dalla nebbia tra i due fiumi, l’umidità avvolge come liquido amniotico, portatore di vita, e alzando lo sguardo, le colline della Bella dormiente del Sannio distesa gentilmente a circondare e proteggere la città, abbracciano, raccolgono i pianti antichi, consolano e custodiscono tra le fronde dei noci, sussurri e incanti.
    (Antonella Cavuoto)


    ......storia, miti e leggende......


    Dione, re della Laconia , aveva sposato Anfitea che gli aveva dato tre figlie: Orfe, Lico e Caria. Un giorno la moglie accolse con i più grandi riguardi Apollo che viaggiava per quelle terre. Per ricompensa questi promise alle fanciulle doni profetici purché non tradissero mai gli dei e non cercassero di sapere quel che non le riguardava.
    Qualche tempo dopo capitò in quei luoghi Dioniso che, ospite nella casa di Dione, non seppe resistere al fascino di Caria, di cui si innamorò, riamato. Poi ripartì per il suo viaggio intorno alla Terra.
    Quando finalmente lo concluse, tornò nella casa di Dione, spinto dall’amore per quella giovane. Fu allora che Orfe e Lico, incuriosite, cominciarono a spiarlo, infrangendo il voto. A nulla valsero gli avvertimenti di Dioniso: le due curiose non riuscivano a resistere alla tentazione; sicché il dio decise di punirle facendole impazzire per poi mutarle in rocce. Caria ne morì per il dolore; ma Dioniso, che l’aveva tanto amata, la trasformò in un noce dai frutti fecondi. Spettò ad Artemide, sorella di Apollo, raccontare questa storia ai Laconi che, successivamente, eressero in suo onore, chiamandola Artemide Cariatide, un tempio dalle colonne scolpite in legno di noce modellato in sembianze femminili, che furono dette cariatidi.
    Il legame del noce con divinità femminili si tramandò anche nella cultura medioevale, come testimonia la leggenda del noce di Benevento.
    Si favoleggiava che nella notte di San Giovanni le streghe, a capo delle quali vi era Diana, la dea che in Grecia con il nome di Artemide aveva ereditato le funzioni di Caria, sciamassero a migliaia nei cieli recandosi al gran sabba che si teneva, appunto sotto il noce di Benevento. Quell’albero pare fosse molto vecchio perché nel VII secolo, sotto il regno di Costante II, il vescovo Barbato l’aveva fatto sradicare per troncare alcune pratiche pagane che vi si celebravano in onore di qualche dea lunare.
    La convinzione che streghe e demoni prediligessero il noce per i loro sabba era diffusa in tutta l’Italia. A Roma una leggenda narra che la chiesa di Santa Maria del Popolo fu costruita per ordine di Pasquale II nel luogo in cui precedentemente vi era un noce intorno al quale migliaia di diavoli danzavano nel cuore della notte. Anche a Bologna si credeva fino al secolo scorso che le streghe si riunissero sotto queste piante, specialmente nella notte di San Giovanni.
    Nelle campagne si dice ancora oggi che non conviene riposare e tanto meno dormire all’ombra di un noce perché è facile risvegliarsi con una forte emicrania se non addirittura con la febbre. E si crede che, se le radici dell’albero penetrano nelle stalle faranno deperire il bestiame. Effettivamente le sue radici, come le sue foglie, contengono una sostanza tossica, la iuglandina,capace di provocare la morte di molte piante che crescono nelle vicinanze.


    Nella Roma del tempo di Catullo le noci simboleggiavano virilità e forza proliferatrice (le “ghiande di Giove” eran dette…), tanto che durante i banchetti di nozze venivano distribuite come oggi i confetti, da consumare con apposite focaccine: per questo si dice “pane e noci, mangiare da sposi”. Nel medioevo invece venne ritenuto l’”albero della notte”, sotto le cui fronde si radunavano gli spiriti maligni; famoso era il “noce di Benevento” ove si diceva che la vigilia della festa del Battista (24 giugno) si radunassero tutte le streghe italiane per un sabba infernale. La credenza durò a lungo, tanto che nel 1861 Nino Bixio, per interrompere le chiacchiere, lo fece abbattere. Ma la mala nomea rimase; in Sicilia si pensa che dormire sotto un noce faccia risvegliare storpi; in Calabria con l’emicrania, nelle Marche con la febbre. In realtà l’unico pericolo possono essere i fulmini; è un albero talmente bello, alto e maestoso, che spesso purtroppo li attira. Invece i frutti di questo meraviglioso albero sono sempre di buon augurio; mangiati a Capodanno portano ricchezze, mescolati ad altri cibi infondono coraggio e il liquore ottenuto dai malli, il celeberrimo nocino, avrà virtù magiche solo se raccolto il 23 o il 24 di giugno (sempre per le credenze legate a San Giovanni). L’unico avvertimento è mangiarne pochi, e sempre in numero dispari.
    (M. Vigliero)



    ....La noce e il campanile.....


    Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro, per quella grazia che Dio li aveva dato dell'essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole sono, che la dovessi soccorrere; perché, poi che le non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra, ricoperta dalle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch'ella trovandosi nel fiero becco della cornacchia, ch'ella si botò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua 'n un picciolo buso. Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu contento ricettarla nel loco ov'era caduta. E infra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli in brieve levati sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de' loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte delle sua membre.
    (Leonardo da Vinci)


    Schiuma su schiuma, la mia testa è una nuvola
    Il mio interno esterno è un mare.
    Io sono un albero di noce del parco Gulhane.
    nodo su nodo, pezzo su pezzo un vecchio noce
    ma né la polizia né tu lo sapete.
    Io sono un albero di noce del parco Gulhane.
    Le mie foglie brillano di uno scintillio
    come un pesce nell’acqua.
    Le mie foglie sono immacolate
    come un fazzoletto di seta
    strappale, o mia rosa, e asciuga
    le lacrime dei tuoi occhi.
    Le mie foglie sono le mie mani,
    esattamente io ho centomila mani
    e ti tocco con centomila mani, Istanbul.
    Le mie foglie sono i miei occhi, e vedo con meraviglia
    e ti guardo con centomila occhi, Istanbul.
    Le mie foglie battono, battono come centomila cuori.
    Io sono un albero di noce del parco Gulhane
    ma né la polizia né tu lo sapete.
    (Nazim Hikmet)




    .
     
    Top
    .
  14. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo.
    Noi li abbattiamo e li trasformiamo in carta per potervi registrare, invece, la nostra vuotaggine.
    (Kahlil Gibran)


    La PALMA



    Il nome Palme (Palmae) indica una grande famiglia di piante che Linneo chiamò “principi delle piante” (Principes plantarum) in omaggio alle loro straordinarie doti di utilità e di bellezza. E’ una famiglia numerosa, perché comprende circa 200 generi e 2000 specie. Sono diffuse nelle regioni tropicali e sub-tropicali di tutti i continenti, dove vivono spontanee ma sempre più coltivate; alcune si adattano anche alle zone temperate con clima più mite.. In Italia nasce spontanea solo la “palma di S. Pietro (Chamaeropsis humilis) già nota a Teofrasto; tutte le altre che ammiriamo nei parchi o lungo i viali nella Riviera, in Sicilia ecc. sono importate in epoca più o meno remota (in Europa le palme furono particolarmente di moda ai tempi dell’impero napoleonico).
    L’aspetto delle palme può presentare una grande varietà di forme e dimensioni: ci sono alberi alti fino a 50 metri, piante nane, cespugli, rampicanti. Le foglie coriacee e resistenti hanno forma varia, secondo due modelli principali: “pennate” (come nelle palme da datteri) o”palmate” (come nelle palme di S. Pietro). I piccoli fiori sono riuniti in voluminose inflorescenze, tutte le palme sono “dioiche” cioè hanno fiori maschili e femminili su individui diversi.
    L’impollinazione naturale avviene per mezzo del vento o di insetti, ma in alcune regioni, l’uomo fino da tempo antichissimo ha imparato a praticare le “fecondazione artificiale” salendo sugli alberi e trasportando manualmente il polline (oggi si usano altre tecniche, ma il principio è lo stesso).
    Tutte le palme sono sia belle che utili. C’è, com’è noto, una categoria di palme coltivate a scopo ornamentale, (da serra o da appartamento) che alimenta un notevole commercio internazionale.

    Ma è forse più interessante sapere che nella famiglia di quelle prevalentemente utili alcune si sono “specializzate” nella produzione di materiali destinati agli usi più diversi, a livello sia artigianale che industriale.
    C’è la “palma di sago” (o sagù) dal cui frutto si ottiene una fecola alimentare; ci sono palme “da olio” o “da cera” che producono un grasso usato nell’industria dei saponi; le palme “da avorio”, nei semi contengono una sostanza durissima (avorio vegetale) destinato alla fabbricazione di bottoni e oggetti vari ; palme “da giunco” o “ rattam” che hanno fusti lavorati per i tipici mobili leggeri; palme “da bastone” per fare i bastoncini di Malacce e quelle “da cappello” da cui i famosi “panama”...Ma l’elenco sarebbe lungo. Il botanico Fenaroli riferisce che secondo un antico carme in lingua Tamil i “Borassi” (palme dell’India meridionale simili al cocco) avrebbero ben 800 utilizzazioni.
    Senza dubbio, in questa numerosa famiglia i personaggi più importanti sono due: la palma da cocco “re degli alberi”, la palma da datteri “regina del deserto”.
    (Elena Pavari)



    .....la Palma da Cocco...storia, miti e leggende.....


    La palma da cocco è fra le dieci piante più importanti del nostro pianeta. Nelle zone tropicali, milioni di persone attingono alle noci di cocco come principali fonti di grassi e proteine. La pianta intera è essenziale in ogni sua forma ed costituisce base di vita di intere popolazioni. Alle soglie del terzo millennio, il suo centro genetico d'origine è ancora un mistero irrisolto, sia perché i frutti si disperdono per mezzo delle correnti, sia perché è stata diffusa dai popoli che colonizzarono le isole oceaniche. Negli ultimi 250 anni gli studiosi hanno proposto teorie diverse: America Centrale, Polynesia, Malaya, Fiji.
    Il nome scientifico di noce di cocco è Cocos nucifera. I primi esploratori spagnoli la chiamarono Coco, che significa "faccia di scimmia", perché le tre tacche (occhi) sul dado peloso assomiglia alla testa e alla faccia di una scimmia. Nucifera significa "dado-cuscinetto".
    Il suo luogo d’origine, infatti, permane un mistero, persiste alle scoperte scientifiche del terzo millennio, come uno degli ultimi grandi enigmi insoluti della biologia vegetale. Poiché le fasi di diffusione, le vie migratorie, l’età e il luogo d’origine della palma da cocco non sono ricavabili con sicurezza partendo dalla distribuzione attuale, la sua patria d’origine è controversa...Si ritiene che sia originaria dell'arcipelago indonesiano e che nell'antichità si sia diffusa in tutta l'area del Pacifico, con numerose varietà (alcune a portamento nano) che si differenziano per il colore, la grandezza e la forma del frutto. Gli europei (portoghesi e spagnoli) scoprirono il cocco esplorando le coste occidentali dell'America centro-meridionale, e dal 1525 cominciarono a coltivarlo diffondendolo anche sulle coste orientali.
    Una leggenda racconta.. "un frutto dalle grandi responsabilità fin dalle epoche più remote; per far si che un matrimonio riuscisse occorreva agitare una noce di cocco attorno alla testa dello sposo e, dopo averla rotta, i suoi pezzi venivano lanciati in tutte le direzioni, affinchè gli spiriti maligni non potessero esercitare la loro malignità sullo sposo. Regalare una noce di cocco nel corso di una cerimonia nunziale è tutt'ora considerato di ottimo auspicio. La leggenda considera questo frutto sacro per la somiglianza nella forma al cranio, così anticamente, veniva offerto agli dei come sacrificio al posto di una testa umana. Non solo, facendo ruotare una noce di cocco si poteva avere il responso per una persona malata: se si fermava verso oriente sarebbe guarita, verso occidente invece poteva anche morire. In Nepal il cocco è il simbolo della fertilità. I suoi frutti venivano messi in una brocca piena d'acqua per invocare la benevolenza degli dei e la pianata era talmente venerata da essere considerata il simbolo di Dio."
    (ACQUADICOCCO.NET)



    ......la Palma da Datteri...storia, miti e leggende.....


    La palma da datteri è una pianta antichissima, una delle più antiche conosciute e coltivate dall’uomo nell’area mesopotamica e in alcune zone dell’Africa...Noccioli di datteri risalenti ad oltre mille anni a.C. sono stati trovati in una tomba in Egitto e in alcuni siti archeologici in Palestina e Siria...La palma stilizzata è un motivo presente in una ceramica cretese (circa 1550 a.C.), in un bassorilievo assiro, in alcune colonne egiziane e – secondo i testi biblici – decorava il tempio di Salomone. Tra le numerose citazioni letterarie, forse la più antica è una novella in lingua accadica (circa 2000 – 1500 a.C.) in cui una palma e una tamerice vantano i propri meriti (ovviamente vince la palma)...
    La lunga storia di questo albero è sempre accompagnata da una serie di significati simbolici, immagini, leggende, tradizioni che, come sempre, nascono dall’esperienza di una realtà concreta, interpretata secondo una o più modelli culturali.
    Nei territori abitati dalle palme (dove oggi i venti di guerra sembrano più pericolosi di quelli del deserto) si sono avvicendate nel corso dei millenni popolazioni e civiltà diverse: Sumerica, Akkadica, Babilonesi, Egiziani, ebraica, greca, latina, cristiana, araba, medievale....Il nome botanico di questa pianta “Phoenix dactylifera” già dimostra un intreccio di lingue e di significati. Infatti la parola greca “Phoenix” - in italiano Fenice – potrebbe riferirsi alla regione Fenicia come luogo di origine (ma in genere i botanici indicano la provenienza delle piante con un aggettivo): più suggestiva è l’ipotesi che si alluda all’”Araba Fenice”, il mitico uccello capace di risorgere dalle ceneri, di cui favoleggiano Erodoto ed altri scrittori greci.
    La palma ha diverse caratteristiche naturali che si prestano a questa interpretazione. E’ anzitutto un simbolo di vita, di rinascita: cresce, come dicono gli Arabi, “con la testa al sole e i piedi nell’acqua” e se gli Egiziani – adoratori del dio Sole – ammiravano la sua chioma, per chi attraversava le immense distese di sabbia del Sahara la palma delle oasi significava soprattutto la presenza di acqua, indispensabile per la vita degli uomini e degli animali.
    Questa pianta riesce infatti a raggiungere con una fitta rete di radici una falda acquifera nel profondo sottosuolo e tutta la sua struttura è organizzata per permettere la sopravvivenza sua (e anche dei suoi vicini), in un ambiente difficile. Il tronco, lungo ma elastico, resiste senza spezzarsi al forte vento del deserto. I lunghi rami hanno foglie inserite lateralmente sul rachide come le penne degli uccelli e sono capaci di orientarsi verticalmente per difendersi dal sole, curvarsi verso il basso per raccogliere l’umidità; se piove, le foglie concave a doccia fanno scorrere l’acqua verso il suolo.

    Tamar era l’antico nome della città chiamata dai Romani Palmira (oggi in Siria) dove regnò la famosa regina Zenobia.
    Abbiano già ricordato l’uso rituale delle foglie di palma nelle feste; il valore alimentare dei datteri era certamente noto a Mosè, che li nomina tra i frutti della “Terra promessa” (Deut. 8,7-8) qui “miele” è il succo dei datteri. Sempre lodata la sua bellezza:nel Cantico dei Cantici la palma diviene un paragone per la bellezza della sposa.

    “Quanto sei bella, quanto sei graziosa
    o amore, piena di delizie
    la tua statura assomiglia a una palma
    e i tuoi seni ai grappoli” (Ci. 7,7-8)


    La palma è anche un segno di Giustizia (Salmo 92191): “il giusto fiorirà come palme”, attributo della Sapienza (Siracide 24, 14)...Nella cultura greca (quella che ha lasciato maggiori tracce nel mondo occidentale) la palma assume il significato di vittoria, sia sul campo di battaglia che nelle gare atletiche...La tradizione è rimasta nel linguaggio dei nostri tempi, che ancora usa il termine “palma della vittoria” per il vincitore di una competizione sportiva (o anche di altro tipo)...Tuttavia nella cultura greca, essenzialmente antropocentrica, l’elemento vegetale è sempre secondario rispetto alla figura umana: la vittoria è raffigurata da una figura femminile munita di ali, che talvolta porta in mano un ramo di palma o una corona di alloro (le ali potrebbero derivare da immagini di antiche divinità mesopotamiche).
    (Elena Pavari)



    La palma ...
    Eruditi e poeti famosi l'hanno cantata. Linneo la definì “regina delle piante”; Davide così pronunciò “La ragione dell'uomo progredirà come una palma”.
    San Giovanni, nell'Apocalisse, promuove ed ammira la foglia di palma come segno di purificazione e di premio per le sofferenze e tribolazioni subite …“Ed al cospetto di Dio si presenteranno vestiti di bianco tenendo nella mano destra una foglia di palma”.
    70 sono le palme che rappresentano i discepoli del Salvatore.
    70 sono le palme sotto le quali ad Elin si ristorarono Mosè e il suo popolo fuggiti dall'Egitto ...
    Dal Vangelo dell'Infanzia.
    Quando fu prossimo il momento del parto, Ella uscì in piena notte dalla casa di Zaccaria e si incamminò fuori Gerusalemme. Vide una palma secca e quando si fu seduta ai piedi di quest'albero, immediatamente esso rifiorì e si ricoprì di foglie di verzura e portò una grande abbondanza di frutta, per opera della potenza di Dio. E Dio fece sgorgare li a fianco una sorgente di acqua viva, e quando i dolori del parto tormentarono Maria, Ella serrava strettamente la palma con le sue mani.
    (Franco Zoccoli)




    .
     
    Top
    .
  15. gheagabry
     
    .

    User deleted




    Una mattina il vecchio ciliegio disse alle foglie: Care figlie, è venuto il tempo di preparare il fantastico vestito della festa ornato di fiori bianchi.
    Le foglie presero a lavorare tutto il giorno, e intanto guardavano di qua e di là, sui rami, se spuntavano i fiori.
    E i fiori presero a spuntare dappertutto. Alla fine il ciliegio era vestito come una sposa.
    Arrivarono le rondini, fecero tanti girotondi attorno al ciliegio, cantando nella loro lingua gioiosa.
    Anche una nuvola, che andava diritta e superba verso il mare, a vedere lo spettacolo del grande albero in fiore frenò la sua corsa, fece una deviazione e passò sul ciliegio in silenzio, stupefatta di tanta bellezza.
    Alla sera le lucciole accesero i lumi, uscirono dai loro nascondigli in esplorazione, girarono attorno al a ciliegio e lo illuminarono come un albero di Natale.
    I grilli e le rane, intanto, facevano festa cantando e «cri cri» e «gra gra» tutta la notte.

    Mario Lodi




    .
     
    Top
    .
118 replies since 13/2/2011, 11:34   75767 views
  Share  
.