IMPERATORI ROMANI

civiltà romana

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    LA MORTE DI CESARE

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    Durante i giorni che seguirono le Idi di marzo, il corpo di Cesare prese un inusitato valore politico. I cospiratori avevano pianificato di gettarlo nel Tevere, ma lo abbandonarono invece nell’atrio della Curia, ai piedi della statua di Pompeo. Tre schiavi del defunto poterono avvicinarlo, lo distesero su una lettiga e lo trasportarono nella sua dimora. Ne nacque la questione di come si sarebbe dovuto seppellire Cesare. Suo suocero, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, esigeva che le onoranze funebri fossero almeno all’altezza della sua carica di pontefice massimo, mentre i congiurati pretendevano che venisse sepolto segretamente senza onori, come meritava un tiranno. Antonio sostenne che quest’ultima soluzione avrebbe potuto irritare la popolazione, e Bruto, contravvenendo al parere di Cassio, si lasciò convincere, un errore che avrebbe pagato molto caro. Antonio si preparò a organizzare funerali spettacolari, molto lontani dalle austere cerimonie tradizionali. Era sua intenzione trasformare il rito in una grande operazione di propaganda per predisporre il popolo a favore di Cesare e contro i suoi assassini. Il corpo del dittatore venne collocato su un cataletto d’avorio, ricoperto di porpora e oro, ed esposto per qualche giorno nel Campo di Marte, all’interno di un’edicola dorata la cui forma ricordava il tempio di Venere Genitrice. Nel frattempo, a casa di Pisone, fu aperto il testamento di Giulio Cesare, scritto sei mesi prima e affidato alla Vestale Maggiore affinché lo custodisse. Il dittatore nominava suo primo erede il pronipote diciottenne Gaio Ottavio Turino, che avrebbe poi preso il nome di Ottaviano (il futuro Augusto), il quale inoltre veniva adottato. Al popolo vennero lasciato gli Horti Tiberini, una vasta tenuta ai piedi del Gianicolo dai confini incerti e 300 sesterzi a ogni cittadino. Il 20 marzo, il feretro di Cesare fu portato a braccia nel Foro da diversi magistrati e collocato di fronte alla tribuna degli oratori.[..] Il punto culminante venne raggiunto quando Antonio afferrò il telo che copriva la bara: era la toga che Cesare indossava nel momento in cui era stato assassinato e che presentava gli strappi prodotti dalle pugnalate e le macchie di sangue. [..] Durante il funerale, Antonio fece leggere il testamento di Cesare. La gratitudine del popolo per il lascito del dittatore si unì all’ira quando si udì menzionare, fra gli eredi che Cesare aveva compreso nelle sue ultime volontà, Decimo Giunio Bruto Albino, uno dei suoi assassini. In quel momento, alcuni magistrati si stavano apprestando a sollevare il feretro per portarlo vicino alla tomba della figlia di Cesare, Giulia, per poi cremarlo.Ma la folla non lo permise: cesare sarebbe stato cremato all’interno della città, nel cuore del Foro. Quando due veterani di Cesare diedero fuoco alla pira con delle torce, il popolo la alimentò gettandovi tutto ciò che aveva a disposizione. La cerimonia si trasformò così in un rito collettivo .. Gli attori che avevano partecipato alle onoranze funebri rappresentando gli antenati di Cesare, si stracciarono le vesti e ne fecero brandelli per alimentare il fuoco, le truppe di Cesare vi gettarono le armi e le matrone i gioielli. A Cesare resero omaggio anche i Giudei, riconoscenti per essere stati liberati da Pompeo.[..] Cesare era solito dire che la sua sopravvivenza non gli interessava tanto quanto quella della Repubblica; perché se gli fosse successo qualcosa, la Repubblica sarebbe stata coinvolta in guerre molto più gravi di quelle che avevano affrontato i suoi sostenitori contro quelli di Pompeo. E così fu. Marco Antonio intraprese immediatamente un devastante conflitto con Ottaviano. Ciò portò al definitivo fallimento della cospirazione contro Cesare: Bruto e i suoi avevano solamente assassinato l’uomo; il potere e il modo di governare di Cesare sarebbero sopravvissuti in Ottaviano Augusto.

    (Jaun Pablo Sanchez, tratto da Storica, National Geographic, luglio 2015)

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    (Jerome)


    «Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

    Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido»


    Sventonio, CESARE, 81-82



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    Edited by gheagabry1 - 26/6/2023, 18:05
     
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    «Che il ricordo dell'assassino e del gladiatore sia cancellato del tutto. Lasciate che le statue dell'assassino e del gladiatore siano rovesciate. Lasciate che la memoria dell'osceno gladiatore sia completamente cancellata. Gettate il gladiatore nell'ossario. Ascolta o Cesare: lascia che l'omicida sia trascinato con un gancio, alla maniera dei nostri padri, lascia che l'assassino del Senato sia trascinato con il gancio. Più feroce di Domiziano, più turpe di Nerone. Ciò che ha fatto agli altri, sia fatto a lui stesso. Sia da salvare invece il ricordo di chi è senza colpa. Si ripristinino gli onori degli innocenti, vi prego.»

    (Senato di Roma alla morte di Commodo -
    Historia Augusta, Commodo, 19.1.)

     
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    Nel 48 d.C. Claudio propose di far entrare anche i notabili galli in senato. Alle rimostranze dei senatori - I senatori reagirono sdegnati, asserendo che i nonni di quei galli combattevano Cesare - l'imperatore rispose con un discorso tramandato da Tacito e rinvenuto in uguale copia su una tavola di bronzo a Lione:


    ” I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri […] non ignoro che i Giuli vennero da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non risalire ad epoche più antiche, furono tratti in Senato uomini dall’ Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia […] A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri? Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri presso di noi ottennero il regno […] O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime furono nuove un tempo […] Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi.”
    Tacito, Annales, XI, 24
     
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    Dopo la morte di Cesare

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    Bruto muore suicida il 23 ottobre 42 a.C.

    Ma il suo grande demone, di cui frui durante la vita, lo seguì in morte come vendicatore della sua uccisione, perseguitando per tutta la terra i suoi uccisori fino a non lasciarne in vita alcuno, anzi colpendo tutti coloro che in qualche modo avevano messo mano all'azione o avevano avuto parte al disegno. Dei fatti umani, il più straordinario fu quello che riguardò Cassio: sconfitto a Filippi, si uccise con quel pugnale con il quale aveva colpito Cesare; dei fatti divini il più segnalato fu l'apparizione di una stella cometa, che apparve visibile per sette notti dopo l'uccisione di Cesare e poi scomparve, e l'oscuramento del sole. Infatti per tutto quell'anno il disco del sole si levò pallido e senza bagliori, e ne veniva un calore languido e tenue, cosicché l'aria circolava nebbiosa e pesante per la fiacchezza del calore che la scioglie, e i frutti restavano incompiuti e semimaturi, o marcivano per il freddo dell'atmosfera. Ma fu soprattutto quel fantasma che apparve a Bruto che rivelò che l'uccisione di Cesare non era stata ben accetta agli dei. Capitò così. Quando stava per far passare l'esercito da Abido sull'altra sponda, di notte, secondo il suo solito, riposava nella tenda, non dormendo, ma pensando al futuro. Dicono che quest'uomo dormiva meno di tutti i condottieri, e per natura poteva star sveglio moltissimo tempo.
    Gli sembrò di sentire un rumore presso la porta, e guardando alla luce della lanterna già fioca, ebbe la terribile visione di un uomo di eccezionale grandezza e di aspetto spaventoso. Ne rimase dapprima sbigottito, ma quando vide che quello né diceva né faceva alcunché, ma se ne stava in silenzio presso il suo letto, gli chiese chi fosse. L'apparizione rispose: «Il tuo cattivo demone, o Bruto: mi vedrai a Filippi». E Bruto coraggiosamente rispose: «Ti vedrò». E subito l'apparizione sparì.
    A tempo debito, schieratosi a Filippi contro Antonio e Ottaviano, in un primo momento ebbe il sopravvento dalla sua parte e volse in fuga gli avversari e si spinse a saccheggiare il campo di Ottaviano; ma nel secondo scontro, ancora di notte gli venne lo stesso fantasma, e non disse nulla; Bruto capì il suo destino e si buttò nel pericolo. Non cadde però in battaglia, ma nella fuga si rifugiò in luogo dirupato, e appoggiato il petto alla spada nuda mori, aiutato, come dicono, da un amico che rese il colpo più forte.
    Plutarco, Vite Parallele - Cesare, 69, 2 - 14.
     
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    "Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, [Cesare] fu fatto prigioniero dai pirati presso l’isola di Farmacusa e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all’inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo."
    (Svetonio, Vita dei Cesari)


    CESARE e i pirati

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    Uno degli episodi più noti della vita di Gaio Giulio Cesare riguarda la sua cattura da parte di pirati della Cilicia,
    una regione della costa sudorientale dell’Asia Minore, e la vendetta che si prese dopo essere stato liberato. Di
    quest’episodio si sono occupati gli storici Svetonio (75-140) e Plutarco (ca. 46-ca. 120), che vissero nello stesso
    periodo.


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    Non passò però molto tempo che [Cesare] s’imbarcò
    di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacusa
    fu catturato dai pirati, che già allora dominavano
    il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato
    di imbarcazioni. I pirati chiesero venti talenti per
    il riscatto e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete
    chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta».
    Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città
    a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due
    servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più
    sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo
    che quando voleva riposare gli ordinava di fare
    silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse
    circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo,
    giocando e facendo ginnastica insieme con loro,
    scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare,
    e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente,
    chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando
    e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli,
    attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica
    dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro.
    Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto
    e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle
    navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia
    dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle
    vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò
    i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini
    nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal
    governatore d’Asia, I’unico, che in qualità di pretore
    aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello,
    messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo,
    in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo
    dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora,
    tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere
    i pirati li impalò tutti quanti così come nell’isola con
    l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato."

    Plutarco, Vite parallele


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    LA MORTE DI CALIGOLA




    Nel nono giorno prima delle calende di febbraio, quando le ombre dell'antica Roma si allungavano sotto il peso di segreti e complotti, l'imperatore noto al mondo come Caligola, si trovava nel portico che collegava un teatro al palazzo imperiale. La sua mente era intrisa di sogni di grandezza, eppure quel giorno sarebbe stato il suo ultimo atto sulla scena di Roma.
    Verso la settima ora del mattino, alcuni amici, o meglio, coloro che si fingevano tali, lo persuasero a uscire dalle mura protettive del palazzo. Caligola, eccentrico e impulsivo, accettò l'invito senza sospettare l'inganno che si celava dietro.
    Percorrendo un corridoio lievemente illuminato da fiaccole, si avvicinò a dei giovani attori provenienti dall'Asia che erano in attesa. L'imperatore si fermò a parlare con loro, perdendo un poco di tempo.
    Fu in quel momento cruciale che l'orrore si scatenò. Il tribuno Cherea, il capo del complotto, tradì Caligola. Con un colpo micidiale, Cherea affondò la sua spada nel collo dell'imperatore, tradendo un'amicizia che un tempo sembrava solida come le mura di Roma stessa.
    Il tribuno Cornelio Sabino, anch'egli un congiurato, sferrò un attacco diretto, trafisse il petto di Caligola e le sue azioni segnarono il destino di un uomo che era stato un giorno l'incarnazione del potere.
    Ci sono due versioni di quegli istanti sanguinosi: nella prima, mentre Caligola si intratteneva con quei giovani nobili, Cherea lo colpì alle spalle, gridando con ferocia: "Tieni questo!"
    Nella seconda, Sabino, con calma, chiese a Caligola la parola d'ordine, e quando il Princeps rispose "Giove!" Cherea, allora, urlò: "Giusto!" e spezzò la mascella dell'imperatore con un pugno.
    Nonostante le ferite mortali, Caligola giacque a terra, le membra contorte dal dolore, ma la sua voce echeggiava ancora tra i corridoi del potere, ma i suoi assassini implacabili non ebbero pietà. Con trenta colpi feroci posero fine al suo regno.
    Il tumulto attirò l'attenzione degli spettatori, dei portatori della lettiga armati di bastoni e dei leali Germani della sua guardia personale. In un frenetico scontro, alcuni dei traditori caddero sotto le lame.

    Svetonio, Vita di Caligola, 58
     
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