PARAFRASI

tutte quelle che servono sono qui!!!

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  1. tomiva57
     
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    grazie lussy
     
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    Parafrasi: Il Conte di Carmagnola, Alessandro Manzoni


    S'ode a destra uno squillo di tromba;

    A sinistra risponde uno squillo:

    D'ambo i lati calpesto rimbomba

    Da cavalli e da fanti il terren.

    Quinci spunta per l'aria un vessillo;

    Quindi un altro s'avanza spiegato:

    Ecco appare un drappello schierato;

    Ecco un altro che incontro gli vien.

    Già di mezzo sparito è il terreno;

    Già le spade rispingon le spade;

    L'un dell'altro le immerge nel seno;

    Gronda il sangue; raddoppia il ferir. -

    -Chi son essi? Alle belle contrade

    Qual ne venne straniero a far guerra

    Qual è quei che ha giurato la terra

    Dove nacque far salva, o morir? -

    -D'una terra son tutti: un linguaggio

    Parlan tutti: fratelli li dice

    Lo straniero: il comune lignaggio

    A ognun d'essi dal volto traspar.

    Questa terra fu a tutti nudrice,

    Questa terra di sangue ora intrisa,

    Che natura dall'altre ha divisa,

    E ricinta con l'alpe e col mar.

    -Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando

    Trasse il primo il fratello a ferire?

    Oh terror! Del conflitto esecrando

    La cagione esecranda qual è?

    -Non la sanno: a dar morte, a morire

    Qui senz'ira ognun d'essi è venuto;

    E venduto ad un duce venduto,

    Con lui pugna, e non chiede il perché.

    -Ahi sventura! Ma spose non hanno,

    Non han madri gli stolti guerrieri?

    Perché tutte i lor cari non vanno

    Dall'ignobile campo a strappar?

    E i vegliardi che ai casti pensieri

    Della tomba già schiudon la mente,

    Ché non tentan la turba furente

    Con prudenti parole placar? -

    -Come assiso talvolta il villano

    Sulla porta del cheto abituro

    Segna il nembo che scende lontano

    Sopra i campi che arati ei non ha;

    Così udresti ciascun che sicuro

    Vede lungi le armate coorti,

    Raccontar le migliaja de' morti,

    E la piéta dell'arse città.

    Là, pendenti dal labbro materno

    Vedi i figli che imparano intenti

    A distinguer con nomi di scherno

    Quei che andranno ad uccidere un dì;

    Qui le donne alle veglie lucenti

    De' monili far pompa e de' cinti,

    Che alle donne diserte de' vinti

    Il marito o l'amante rapì. -

    -Ahi sventura! sventura! sventura!

    Già la terra è coperta d'uccisi;

    Tutta è sangue la vasta pianura;

    Cresce il grido, raddoppia il furor.

    Ma negli ordini manchi e divisi

    Mal si regge, già cede una schiera;

    Già nel volgo che vincer dispera,

    Della vita rinasce l'amor.

    Come il grano lanciato dal pieno

    Ventilabro nell'aria si spande;

    Tale intorno per l'ampio terreno

    Si sparpagliano i vinti guerrier.

    Ma improvvise terribili bande

    Ai fuggenti s'affaccian sul calle;

    Ma si senton piú presso alle spalle

    Scalpitare il temuto destrier.

    Cadon trepidi a piè dei nemici,

    Rendon l'arme, si danno prigioni:

    Il clamor delle turbe vittrici

    Copre i lai del tapino che muor.

    Un corriero è salito in arcioni;

    Prende un foglio, il ripone, s'avvia,

    Sferza, sprona, divora la via

    Ogni villa si desta al romor.

    Perché tutti sul pesto cammino

    Dalle case, dai campi accorrete?

    Ognun chiede con ansia al vicino,

    Che gioconda novella recò?

    Donde ei venga, infelici, il sapete,

    E sperate che gioja favelli?

    I fratelli hanno ucciso i fratelli:

    Questa orrenda novella vi do.

    Odo intorno festevoli gridi;

    S'orna il tempio, e risuona del canto;

    Già s'innalzan dai cori omicidi

    Grazie ed inni che abbomina il ciel. -

    Giú dal cerchio dell'alpi frattanto

    Lo straniero gli sguardi rivolve;

    Vede i forti che mordon la polve,

    E li conta con gioja crudel.

    Affrettatevi, empite le schiere,

    Sospendete i trionfi ed i giuochi,

    Ritornate alle vostre bandiere:

    Lo straniero discende; egli è qui.

    Vincitor! Siete deboli e pochi?

    Ma per questo a sfidarvi ei discende;

    E voglioso a quei campi v'attende

    Dove il vostro fratello perì. -

    Tu che angusta a' tuoi figli parevi,

    Tu che in pace nutrirli non sai,

    Fatal terra, gli estrani ricevi:

    Tal giudicio comincia per te.

    Un nemico che offeso non hai

    A tue mense insultando s'asside;

    Degli stolti le spoglie divide;

    Toglie il brando di mano a' tuoi Re.

    Stolto anch'esso! Beata fu mai

    Gente alcuna per sangue ed oltraggio?

    Solo al vinto non toccano i guai;

    Torna in pianto dell'empio il gioir.

    Ben talor nel superbo viaggio

    Non l'abbatte l'eterna vendetta;

    Ma lo segna; ma veglia ed aspetta;

    Ma lo coglie all'estremo sospir.

    Tutti fatti a sembianza d'un Solo;

    Figli tutti d'un solo Riscatto,

    In qual ora, in qual parte del suolo,

    Trascorriamo quest'aura vital

    Siam fratelli; siam stretti ad un patto:

    Maledetto colui che l'infrange,

    Che s'innalza sul fiacco che piange,

    Che contrista uno spirto immortal!



    Le prime strofe vi è un procede a coppia dei versi costruiti in antitesi (ode/risponde; destra/sinistra) ad evidenziare l’esatta specularità e intercambiabilità dei due fronti nemici.









    sparito = completamente coperto dalle due schiere che si stanno affrontando.



    Qual è dei due l’esercito straniero venuto a portare guerra alle belle terre (d’Italia)? Quale quello che invece difende la propria terra, che ha giurato di salvare dall’invasione o morire?

    Gli uni e gli altri parlano lo stesso linguaggio e sono figli della stessa Terra

    Fratelli li dice lo straniero = per lo straniero sono entrambi figli della stessa patria. Lignaggio = origine



    La natura ha separato l’Italia dalle altre nazioni con le alpi e il mare.



    (Ma se sono fratelli) chi per primo osò trarre il sacrilego brando?

    Sacrilego brando = la spada sacrilega perché diretta contro i propri fratelli.

    Cagione = la causa

    quei contendenti non hanno motivo di odiarsi e la cagione di quella guerra neppure la sanno



    Pugna = combatte







    Casti = sereni





    Come il contadino seduto alla porta della sua tranquilla abitazione (Cheto abituro), segue con lo sguardo i segni della tempesta che sta per scatenarsi sui campi degli altri (che non ha arato lui), così potresti udire quelli che si sentono al sicuro (Sicuro) per il passaggio lontano degli eserciti raccontare i morti e le angosce (Piéta) delle città colpite dalla guerra (con indifferenza per la sorte altrui).





    Là = tra gli sconfitti





    Qui = tra i vincitori



    Diserte = vedove









    Ordini manchi e divisi = schieramenti decimati e dispersi



    Volgo…amor = nei soldati che sentono vicina la sconfitta rinasce forte l’attaccamento alla vita.



    Ventilabro = strumento utilizzato per separare il grano dalla pula



    Ma… calle = ma sulla via della fuga si presentano di colpo le terribili frotte dei nemici poste in agguato.



    Trepidi = tremanti



    Vittrici = vittoriose

    I lai = lamenti



    Foglio = che annuncia la vittoria

    Villa = paese

    Pesto = calpestato









    Gioja favelli? = annunci un evento lieto?









    Abbomina il ciel = il cielo aborrisce





    Mordon la polve = cioè morti.









    Vincitor = detto con amara ironia



    Voglioso = sicuro di vincere



    Tu Italia che ai romani (tuoi figli) sembravi confine troppo esiguo.



    Giudicio = punizione













    Se anche a volte la giustizia divina non lo colpisce e abbatte durante la sua vita (superbo viaggio) lo osserva e aspetta per raggiungerlo nel momento della morte.



    Un solo = Dio

    Riscatto = l’incarnazione e passione di Cristo che con la sua morte ha riscattato l’umanità

    In qual ora…vital =In qualunque momento e luogo trascorriamo la vita (aura vital).

    Fiacco = oppresso

    Spirto immortal = un altro uomo (eterno nello spirito).



    Tema: La prima tragedia Manzoniana è rappresentata dal conte di Carmagnola composta tra il 1816 ed il 1819.

    Vi si narrano le vicende del condottiero Francesco Bussone al servizio della repubblica di Venezia, vincitore della battaglia di Maclodio, ma poi accusato di tradimento (a causa della liberazione di alcuni prigionieri) e condannato a morte dal governo. Manzoni inneggia all'innocenza del Carmagnola innalzandolo ad eroe, a modello di guerriero generoso ed ambizioso. Il punto più alto di tutta la tragedia è costituito dal coro sulla battaglia di Maclodio. La battaglia vi appare come una strage irrazionale, e fratricida tra Veneziani e Milanesi.

    Tutta la prima metà della composizione è dedicata alla descrizione analitica della battaglia, parte da qui per elevare il suo disappunto e la sua condanna alle lotte fratricide della storia italiana, viste come la principale causa della servitù del nostro paese. Da qui si sviluppa poi la ripulsa di ogni forma di violenza in nome di una coscienza intimamente religiosa.

    Precedono la tragedia una Prefazione, in cui Manzoni rende conto degli assunti teorici alla base delle scelte compositive del dramma (in particolare della inosservanza delle regole di unità di tempo e di luogo e del significato del coro). E brevi Notizie storiche.



    Schema metrico: endecasillabo sciolto.



    IL CORO: Una novità singolare nelle tragedie manzoniane è data dalla presenza dei Cori, uno al termine del secondo atto del “Carmagnola” (“S'ode a destra uno squillo di tromba”) e due nell’ “Adelchi. Questi cori non sono la riproposizione dei cori dell’antica tragedia greca, dai quali si differenziano nettamente, ma rappresentano come una pausa di raccoglimento durante lo svolgimento del dramma, un momento di riflessione sugli avvenimenti rappresentati, uno sforzo per penetrare nel significato più riposto delle vicende e trarne un insegnamento morale: è un mezzo per semplificare al lettore od allo spettatore la strada che conduce allo scopo morale che si ripropone l’Autore.
     
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    Parafrasi "Il lampo", di Giovanni Pascoli



    Nella natura sconvolta dal temporale, il lampo illumina fulmineamente la notte, rivelando all’osservatore cielo e terra, mostrando “d’un tratto” una casa nel buio.
    Il verso iniziale, isolato, ma introdotto da una congiunzione che sembra ricollegarlo a qualcosa di precedente, posto come fosse un titolo, assume il tono di una sentenza biblica. All’inizio cielo e terra appaiono uniti, ma dal secondo verso c’è come una frattura tra i due.
    La casa, che appare in quel breve attimo, può essere letta come un “porto sicuro”, circoscritto in un momento di stabilità nello sconvolgimento del paesaggio e della natura. Anche la stessa iterazione dell’aggettivo “bianca” contribuisce a dare questa momentanea valenza di tranquillità, anche perché appare contrapposta al “nera” del verso 7. ma il “porto sicuro” è un’immagine subito effimera, poiché dura solo un istante, per poi scomparire nell’oscurità.
    Rispetto al primo, i versi 2 e 3 sottolineano la scissione dei due elementi, rispettivamente la terra e il cielo, prima riuniti in un unico verso sentenzioso, caricandosi di un proprio forte valore, accentuato da 3 aggettivi concatenati, accompagnati ad essi. Questa terna di aggettivi non è usata dal Pascoli per descrivere od oggettivare la natura, ma piuttosto sono la proiezione dello stato d’animo dello stesso poeta. E l’immagine così umanizzata, ci rivela una terra agonizzante e un cielo abbattuto, puro caos. La concatenazione dei tre aggettivi, da dunque vita ad un climax ascendente, che dà alla realtà un carattere più umano ed anche sconvolto, quasi sofferente.
    E’ l’ossimoro, ovvero la contrapposizione di due termini opposti, che dà rilievo, anche con l’allitterazione della T, all’espressione “tacito tumulto”.
    Il “come” del verso 6 fa paragonare la casa ad un “occhio”, che si apre e chiude fulmineamente per ricevere una tragica realtà. L’occhio è dunque la metafora della vita umana che si svolge in modo inconsapevole, finché una disgrazia non offre, così, la coscienza della realtà. Lo stesso aggettivo “esterrefatto” ne evidenzia la negatività, mostrando lo stupore, ma anche il timore, per questa natura, negativa, rivelata.
    Le immagini usate dal poeta non sono di tipo logico-razionali, poiché sono utilizzate per dare una caratterizzazione psicologica e umana alla natura: infatti la terra appare “ansante” e il cielo “disfatto”. La stessa casa diviene occhio, che si apre e chiude nella notte.
    La lirica vuole apparire come una descrizione paesaggistica nello sconvolgimento naturale, ma è piuttosto lo specchio del sentire del Pascoli, l’immagine di come il poeta percepisce la natura. Ed è una visione negativa che si insinua tra i versi della poesia e che mostra come il poeta coglie la realtà.
    I versi impiegati sono endecasillabi con scema A BC BC CA. per questa organizzazione e struttura dei versi e per la presenza di un verso isolato dagli altri che rima con l’ultimo, appare evidente il riferimento alle ballate, forme metriche della produzione lirica delle origini.
    I versi 4 e 5 rivelano andamenti ritmici differenti: il verso 4 ha un ritmo lento, dovuto all’ iterazione dell’aggettivo “bianca”, mentre il verso 5, senza alcun segno di punteggiatura, è più scorrevole e veloce, questo grazie anche alla rima interna “apparì sparì”. Si può facilmente fare un confronto con il tuono”.
     
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    Parafrasi: Il Natale, Alessandro Manzoni



    Qual masso che dal vertice

    Di lunga erta montana,

    Abbandonato all'impeto

    Di rumorosa frana,

    Per lo scheggiato calle

    Precipitando a valle,

    Batte sul fondo e sta;

    Là dove cadde, immobile

    Giace in sua lenta mole;

    Né, per mutar di secoli,

    Fia che riveda il sole

    Della sua cima antica,

    Se una virtude amica

    In alto nol trarrà:

    Tal si giaceva il misero

    Figliol del fallo primo,

    Dal dì che un'ineffabile

    Ira promessa all'imo

    D'ogni malor gravollo,

    Donde il superbo collo

    Più non potea levar.

    Qual mai tra i nati all'odio

    Quale era mai persona

    Che al Santo inaccessibile

    Potesse dir: perdona?

    Far novo patto eterno?

    Al vincitore inferno

    La preda sua strappar?

    Ecco ci è nato un Pargolo,

    Ci fu largito un Figlio:

    Le avverse forze tremano

    Al mover del suo ciglio:

    All'uom la mano Ei porge,

    Che si ravviva, e sorge

    Oltre l'antico onor.

    Dalle magioni eteree

    Sporga una fonte, e scende

    E nel borron de' triboli

    Vivida si distende:

    Stillano mele i tronchi;

    Dove copriano i bronchi,

    Ivi germoglia il fior.

    O Figlio, o Tu cui genera

    L'Eterno, eterno seco;

    Qual ti può dir de' secoli:

    Tu cominciasti meco?

    Tu sei: del vasto empiro

    Non ti comprende il giro:

    La tua parola il fe'.

    E Tu degnasti assumere

    Questa creata argilla?

    Qual merto suo, qual grazia

    A tanto onor sortilla?

    Se in suo consiglio ascoso

    Vince il perdon, pietoso

    Immensamente Egli è.

    Oggi Egli è nato: ad Efrata,

    Vaticinato ostello,

    Ascese un'alma Vergine,

    La gloria d'Israello,

    Grave di tal portato:

    Da cui promise è nato,

    Donde era atteso uscì.

    La mira Madre in poveri.

    Panni il Figliol compose,

    E nell'umil presepio

    Soavemente il pose;

    E l'adorò: beata!

    Innanzi al Dio prostrata

    Che il puro sen le aprì.

    L'Angel del cielo, agli uomini

    Nunzio di tanta sorte,

    Non de' potenti volgesi

    Alle vegliate porte;

    Ma tra i pastor devoti,

    Al duro mondo ignoti,

    Subito in luce appar.

    E intorno a lui per l'ampia

    Notte calati a stuolo,

    Mille celesti strinsero

    Il fiammeggiante volo;

    E accesi in dolce zelo,

    Come si canta in cielo,

    A Dio gloria cantar.

    L'allegro inno seguirono,

    Tornando al firmamento:

    Tra le varcate nuvole

    Allontanossi, e lento

    Il suon sacrato ascese,

    Fin che più nulla intese

    La compagnia fedel.

    Senza indugiar, cercarono

    L'albergo poveretto

    Que' fortunati, e videro,

    Siccome a lor fu detto,

    Videro in panni avvolto,

    In un presepe accolto,

    Vagire il Re del Ciel.

    Dormi, o Fanciul; non piangere;

    Dormi, o Fanciul celeste:

    Sovra il tuo capo stridere

    Non osin le tempeste,

    Use sull'empia terra,

    Come cavalli in guerra,

    Correr davanti a Te.

    Dormi, o Celeste: i popoli

    Chi nato sia non sanno;

    Ma il dì verrà che nobile

    Retaggio tuo saranno;

    Che in quell'umil riposo,

    Che nella polve ascoso,

    Conosceranno il Re.

    -----

    L’uomo, condannato per l’antico peccato, giaceva in terra come un masso che, caduto dalla vetta (vertice) lungo il ripido pendio (lunga erta), resta immobile a valle senza aver la forza di risalire su.

    Là dove è caduto rimane immobile nella sua pesante (lenta) mole. Non accadrà (fia) nel tempo che egli possa ritornare dove stava se non per un intervento benevolo (virtude amica).

    Così giaceva l’uomo, erede del peccato originale (il fallo primo) dal giorno che un’inesprimibile (ineffabile – che non si può esprimere a parole secondo una concezione mistica) punizione promessa da Dio ad Adamo e Eva (ira promessa) oppresse l’uomo fino al fondo (imo) di ogni male.

    Superbo = perché l’uomo si era reso colpevole del peccato di superbia.

    Quale tra i nati dopo il peccato originale (nati all’odio) poteva rivolgersi a Dio (Santo inaccessibile) per chiedere perdono, fare un nuovo patto e strappare all’inferno vincitore la sua preda (cioè l’uomo).

    Annunzia la nascita del Salvatore attraverso la citazione di un passo biblico (Ecco…figlio –Isaia IX,6) e l’avvento della nuova speranza grazie all’incarnazione di Cristo.

    Avverse forze = dell’inferno.

    Dalle sedi celesti (magioni eteree) sgorga una fonte (della Grazia). Il paesaggio descritto è di origine mediorientale, dove esistono letti di fiumi perlopiù secchi e quindi pieni di rovi (bronchi) e che si riempiono solo nella stagione delle piogge.


    O figlio, tu che sei generato dall’eterno e sei eterno come lui.

    Nemmeno l’estensione del cielo più ampio (vasto empiro) ouò comprenderti. Il cielo stesso è creato dalla tua parola (la tua parola il fe’).


    E tu ti sei umiliato a incarnarti nell’uomo (creata argilla).

    Se nei giudizi di Dio il perdono vince sulla vendetta allora la sua pietà è veramente infinita.


    Efrata = Betlemme

    Vaticinato ostello = luogo indicato nella profezia.

    Salì (ascese – Betlemme era su un colle) una donatrice di vita (alma) vergine, gloria d’Israele, gravida di tale figlio (grave di tal portato). E’ nato come promesso dalla profezia.


    Mira = ammirabile

    L’angelo che annuncia l’evento,non si rivolge ai potenti ma ai pastori, ignorati dal mondo insensibile (al duro mondo ignoti).

    Vegliate = vigilate

    Subito = all’improvviso

    La compagnia fedel = i pastori devoti

    Stridere = sibilare

    Umil riposo = presepio.


    ------------
    Tema: Tra il luglio e il settembre del 1813 fu steso “Il Natale”, terzo in ordine di composizione. Il procedimento narrativo usato dal Poeta fa frequente ricorso a reminiscenze bibliche e liturgiche, spegnendo in parte lo slancio lirico iniziale.

    Tema dell’inno è l’evento della nascita di Cristo, e il suo carattere insieme di Grazia divina e di necessità di redenzione dell’umanità corrotta.

    L’inno può essere diviso in due segmenti:

    1. > Il tema dogmatico dell’intervento della grazia divina (tramite il sacrificio di Cristo) come unica possibilità di redenzione per l’umanità traviata dal peccato originario;

    2. > la descrizione dell’evento della nascita di Gesù.

    Le due componenti tematiche sono connotate nell’inno da un diverso trattamento stilistico:

    · - il tema dogmatico ha uno svolgimento più difficile con un frequente ricorso a figure retoriche (per esempio l’ampia similitudine iniziale) e riferimenti classici (danteschi e virgiliani soprattutto) evidenti sul piano lessicale per l’utilizzo di latinismi e arcaismi.

    · - La narrazione storica ha un andamento più facile e lineare, con una sintassi e un lessico di immediata lettura.



    Schema metrico: 16 strofe di settenari.
     
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    Parafrasi "Il passero solitario ", di Giacomo Leopardi



    Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu, passero solitario, erri per la campagna cantando finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle. La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui campi così vividamente che il cuore si intenerisce. Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli, non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il tuo costume al mio! Divertimento e spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro dell'età matura, io non curo, non so come; anzi fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo nativo, trascorro la primavera della mia vita. In questo giorno di festa, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese per tradizione. Senti per l'aria serena il suono delle campane, senti spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di paese in paese. La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e guarda ed è guardata, e in cuore si rallegra. Io, solitario in questa parte dimenticata della campagna, rimando a tempi migliori ogni gioco e divertimento: e intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata è ferito dal Sole che tramonta tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e cadendo, sembra dileguarsi e che dica che la gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, giunto alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti dorrai della tua vita certamente; perché ogni nostro desiderio è frutto della natura. A me, se non mi sarà concesso di evitare di varcare la detestata soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non susciteranno più nulla nel cuore delle altre persone, e il mondo apparirà loro vuoto, e il giorno futuro parrà più noioso e doloroso del presente, che sarà di questa voglia? Che sarà di questi anni miei? Che sarà di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi volgerò al passato sconsolato.
     
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    Parafrasi " Il Proemio e la Temepesta"

    PROEMIO
    Canto le imprese di guerra, canto dell'uomo che per primo da Tr. arrivò in Italia, sulle spiagge del Lazio, profugo a causa del Fato.
    Soffrì molto, prima durante la guerra, poi vagando per terre e per mari, a causa della tenace ira di Giunone, dea crudele, finchè finalmente fondò una città e nel Lazio pose gli dei Penati provenienti da Ilio e diede origine, insieme agli albani (di Alba), alla stirpe dei latini e alle fondamenta della superba città di Roma.
    Musa, ricordami tu i motivi per cui dovette soffrire così tanto; ricordami dell'offesa e del rancore della regina del cielo, per cui ella costrinse un uomo famoso per la sua bontà a soffrire così tanto, ad affrontare tutti questi affanni.
    Dunque gli dei sono capaci di odiare così tanto?

    LA COLLERA DI GIUNONE
    Esisteva un tempo una città, abitata dai Tiri, che da lontano osteggiava l'Italia e l foci del Tevere: era Cartagine, città ricca e terribile in guerra. Si dice che fosse la città favorita di Giunone, preferita persino a Samo (la terra nativa della dea) che lì teneva le sue armi e il suo carro divino. Già allora la dea si sforzava in ogni modo per dare a Cartagine l'impero sul mondo, se il destino mai conceda una cosa simile. Ma aveva saputo che dai troiani sarebbe nata una stirpe destinata a distruggere Cartagine, che un popolo con immensi dominii e molto forte in guerra sarebbe arrivato a distruggere la Libia. Le Parche tessevano questo destino.
    Temendo il futuro e memore della guerra che aveva combattuto a Ilio per i suoi amati Achei, Giunone aveva altri motivi per provare rabbia e serbare rancore: le resta nell'animo il giudizio di Paride che aveva disprezzato la sua bellezza, l'odio verso la razza troiana e il risentimento per gli onori dati a Ganimede.
    Risentita per tutti questi affronti la dea teneva lontani dal Lazio, sballottati tra le onde, i Troiani scampati al feroce Achille e ai Greci. E questi erravano per mare da moltissimi anni, in balia del destino. Era infatti così arduo e terribile, fondare la stirpe romana!

    EOLO E LA TEMPESTA
    I Troiani, lasciate indietro le coste della Sicilia, spiegarono le vele verso il largo, e si misero a remare lieti.
    Giunone, sempre rancorosa nei loro confronti, vedendoli pensò: " Dunque devo desistere dal mio intento e darmi per sconfitta, senza essere riuscita a tenere Enea lontano dall'Italia? Il Fato me lo vieta! Però Minerva ha potuto incendiare le navi greche e farle affondare, per punire soltanto Aiace Oileo! Scagliò lei in persona i fulmini di Giove, disperdendo le navi e facendo nascere una tempesta, travolse Aiace colpito dal fulime e lo gettò su uno scoglio uccidendolo. Ma io, io che cammino solennemente in testa a tutti gli dei, io sorella e moglie di Giove, io lotto da tanti anni contro un popolo e non riesco a sconfiggerlo! Chi, d'ora in poi, onorerà il nome di Giunone e farà sacrifici ai miei altari?"
    La dea, rimuginando furiosa su queste cose, giunse all'isola di Eolo, la patria dei venti furiosi. Qui re Eolo tiene prigionieri in un'immensa caverna i venti ribelli, incatenati, e da qui controlla le tempeste.
    I venti fremono nella loro prigione, urlando di rabbia e scuotendo la ontagna; Eolo, seduto in cima al monte con in mano lo scettro, calma il loro furore e tranquillizza i loro animi. Se non lo facesse, i venti distruggerebbero tutti i mari, le terre e i cieli.
    Proprio temendo ciò Giove li aveva rinchiusi in caverne buie, sovrastate da immense montagne, e aveva posto un re che, secondo gli ordini del dio, sapesse di volta in volta lasciarli liberi o tenerli rinchiusi.
    Giunone, con voce supplichevole, si rivolse a Eolo: " Eolo (dato che Giove, padre degli dei e re degli uomini, ti ha dato il potere sui venti con cui puoi calmare le onde o alzarle fino al cielo) una stirpe che odio naviga nel Tirreno, per portare in Italia gli sconfitti Penati e Ilio stessa; scatena su di loro la potenza dei venti, affonda le navi, disperdile per il vasto mare. Ho 14 ninfe stupende e a te darò Deiopea, la più bella di tutte loro, la renderò tua per sempre. Per il servigio che ti sto chiedendo, in cambio lei trascorrerà con te tutta la vita e ti donerà dei figli splendidi."
    Eolo rispose: " Regina, spetta a te scegliere ciò che desideri, io eseguirò i tuoi ordini. E' a te che devo il mio regno, il mio scettro e il benvolere di Giove. E' solo merito tuo se prendo parte ai banchetti divini, se sono il re dei venti."
    Detto questo Eolo battè il fondo del bastone contro il fianco della roccia cava e così i venti irruppero dalla porta, come un esercito, e uscirono per scatenarsi turbinosi su tutta la terra.
    Euro, Noto e Africo (venti dell'est, sud e di sud-ovest) si scatenarono contemporaneamente sul mare, sconvolgendolo fino in profondità e portando enormi onde sulle spiagge.
    Gli uomini presero a gridare di terrore, le sartie delle navi stridettero.
    Nuvole improvvise nascondono agli occhi dei Troiani il cielo e la luce: una notte nera si spande sul mare. Il cielo tuona,nell'aria balenano fulmini e tutto sia in acqua che in cielo fa pensare a una morte imminente per i marinai.
    Enea si sente congelare di paura, piangendo alza le mani verso le stelle e dice: " E' mille volte beato chi fu così fortunato da morire sotto le mura di Ilio, davanti agli occhi del padre! Se solo fossi morto sotto i tuoi colpi, Diomede, il più forte dei Greci, nei campi d'Ilio dove giace Ettore ucciso dal figlio di Teti (Achille), lì dove giace il grande Sarpedonte e dove il fiume Simoenta passa sopra a tanti scudi, elmi e cadaveri di eroi!"
    In quel momento una raffica dell'Aquilone (vento del nord) colpisce la vela della nave e solleva le onde fino al cielo. I remi si spezzano, la prua gira e la nave si mette di lato ai cavalloni; sopraggiunge una montagna d'acqua, impetuosa.
    I marinai stanno sospesi, sopra le onde, alcuni invece vedono il fondo di sabia, tra le onde impazzite: la tempesta sconvolge anche la sabbia.
    Tre navi, spinte da Noto, si schiantano contro gli scogli che gli italici chiamano Are (sono scogli immensi che sfiorano la superficie del mare); Euro sospinge altre tre navi verso banchi di sabbia e le circonda di terra da ogni lato.
    Un'onda immensa colpisce la poppa della nave su cui erano i Lici e il fidato Oronte, proprio davanti agli occhi di Enea; il timoniere viene preso e gettato tra i flutti; un vortice fa girare la nave per tre volte su se stesa, prima di inghiottirla.
    Pochi naufraghi nuotano nell'immensa distesa marina e tra le tavole di legno galleggiano, sparsi qua e là, le armi e i tesori dei guerrieri.
    Intanto la tempesta distrugge la solida nave di Ilioneo, quella del forte Acate, di Abante e del vecchio Alete; tutti hanno falle da cui entra l'acqua, nemica, e il fasciame non resiste più.

    Intanto Nettuno si accorse, dal fatto che il mare rumoreggiava molto, che era in atto una tremenda tempesta, che sconvolgeva il mare fino al fondo sabbioso.
    Ne fu molto sorpreso, così sollevò la testa placidamente di poco al di sopra delle onde e, guardandosi attorno, vide la flotta di Enea dispersa nell'oceano, vide i Teucri sopraffatti dalle onde e dalla rabbia dei venti.
    Capì subito che era stato un inganno di Giunone, chiamò a sè i venti Euro e Zefiro (in realtà chiama tutti i venti) e disse: " Tutta questa aroganza deriva dai Titani, stirpe ribelle da cui discendete? Come osate, venti, sconvolgere cielo e terra, sollevare ondate immense senza il mio permesso? Non sapete cosa vi farò! Ma ora è meglio calmare e acque. Vi punirò in seguito. Ora fuggite, in fretta, correte a riferire al vostro padrone che ho io il dominio del mare, ho io il tridente, non lui. Eolo governa i monti dove risiedete voi, venti! Faccia ciò che vuole a casa sua, nel suo palazzo, e che regni solo sul vostro carcere!"
    Neanche aveva finito di parlare che già i flutti si eramo calmati e le nubi si erano disperse, riportando il sole. Tritone e Cimotoe (aiutanti di Nettuno) liberarono le navi rimaste in secca sugli scogli, unendo i loro sforzi. Nettuno stesso alzò il tridente e creò una via d'uscita dalle secche, calmando intanto il mare. Poi, con le ruote leggere del suo cocchio, sfiorò le onde.
    Come succede spesso, quando in mezzo alla folla si è accesa una rivolta e la plebe scalpita, fa volare sassi e tizzoni ardenti, la rabbia muove le mani di tutti, ma poi ecco apparire un uomo illustre, famoso per i suoi meriti, e la folla si zittisce, si ferma. Ed egli calma gli animi con le sue parle e intenerisce i cuori. Ecco, così il fragore del mare finì, quando Nettuno, guardando le acque, lanciò al galoppo i suoi cavalli





    Parafrasi "Il sabato del villaggio", di Giacomo Leopardi


    La ragazza torna dalla campagna al tramonto con il fascio di erba da dare agli animali. Torna anche con un mazzo di rose selvatiche, dato che si vuole ornare il petto e i capelli per il giorno di festa.

    Davanti alla porta di casa siede con le vicine un’anziana con lo sguardo rivolto al sole che tramonta.

    Racconta la sua giovinezza, quando al giorno di festa si abbelliva e, ancora sana e snella, era solita ballare quelle sere con tutti gli amici.

    Già il cielo si scurisce e si tinge di blu e tornano le ombre giù dalle colline e dai tetti alla luce della luna appena sorta.

    Il suono di una campana dà il segno della festa che inizia e, a sentire quel suono, il cuore si conforta.



    I bambini gridano nella piazza, e saltano qua e là, fanno un rumore bello, e intanto alla tavola imbandita poveramente lo zappatore che pensa al suo giorno di riposo.



    Poi, quando tutte le luci sono spente, e tutto tace, senti ancora il falegname lavorare per ultimare il lavoro da consegnare l’indomani.



    Il sabato è il giorno più bello pieno di speranza e gioie; domani ci saranno tristezza e noia e si penserà al lavoro abituale.



    Ragazzo allegro, questa età fiorita è come un giorno di primavera, che precede la giovinezza.

    Fanciullo, apprezza questa tua età soave.

    Non voglio dirti altro, ma la tua età, anche se tardi a venire, non ti pesi.



    Parafrasi "Il tuono", di Giovanni Pascoli


    E nella notte buia come il nulla, ad un certo punto, con il rumore di una frana, il tuono rimbombò improvvisamente; rimbombò, si ripeté, si affievolì e poi tacque, poi tornò di nuovo a rumoreggiare, poi svanì. Allora si sentì il canto dolce di una madre, e il dondolare di una culla.



    Parafrasi "Imitazione", di Giacomo Leopardi


    ccata dal proprio ramo,

    povera foglia fragile (frale: debole, in balia del vento; foglia frale è un’allitterazione), dove vai?

    Il vento mi ha portato via dal faggio su cui sono cresciuta. Mi staccò (mi divise) il vento.

    Esso (il vento) cambiando di volta in volta direzione (tornando) volando sul bosco, sulla campagna, mi porta dalla valle alla montagna.

    Con il vento (seco) vado continuamente come un pellegrino, e non so nient'altro (e tutto l’altro ignoro: ignoro tutto ciò che sia diverso da questo essere portata dal vento; risponde all’interrogativo del v.3).

    Vado dove vanno tutte le altre cose, dove va naturalmente (naturalmente: per legge di natura) la foglia di rosa e la foglia d'alloro (forse si tratta di un riferimento alla fugacità della bellezza e della gloria).




    Parafrasi "In morte del fratello Giovanni", di Ugo Foscolo


    Testo
    Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
    di gente in gente, me vedrai seduto
    su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
    il fior de' tuoi gentil anni caduto.

    La Madre or sol suo dì tardo traendo
    parla di me col tuo cenere muto,
    ma io deluse a voi le palme tendo
    e sol da lunge i miei tetti saluto.

    Sento gli avversi numi, e le secrete
    cure che al viver tuo furon tempesta,
    e prego anch'io nel tuo porto quiete.

    Questo di tanta speme oggi mi resta!
    Straniere genti, almen le ossa rendete
    allora al petto della madre mesta.

    Parafrasi
    Un giorno se io non sarò sempre costretto a fuggire di paese in paese mi vedrai seduto sulla tua tomba a piangere per la tua morte.
    Ora solo nostra madre ormai vecchia parlerà di me e io non posso fare altro che porgere le mie braccia e salutare la mia città.
    Sento anch’io l’ostilità degli dei e le angoscie che hanno turbato la tua vita.
    Adesso mi resta solo il desiderio di morire!
    Dopo la mia morte, che avverrà lontano dalla mia città, vorrei solo che le persone portino a mia madre le mie ossa.
     
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    Parafrasi "La mia sera", di Giovanni Pascoli



    Durante il giorno ci furono molti lampi ma ora verranno le stelle, le silenziose stelle. Nei campi c’è un breve gre gre prodotto dalle rane. Una brezza leggera fa tremare, come un brivido di gioia, le foglie dei pioppi. Nel giorno, che lampi! Che scoppi! (Invece) che pace la sera!
    Devono sbocciare le stelle nel cielo così tenero e dolce. Là, vicino alle allegre rane, un ruscello scorre producendo un gorgoglio simile ad un singhiozzare sempre uguale. Di tutto quel rumore violento ,di tutta quell'impetuosa bufera, non resta che un dolce singhiozzo nella sera umida. Quella tempesta che sembrava non finire mai, è terminata in un ruscello che ora produce un suono melodioso. Al posto dei fulmini restano delicate nuvolette colorate di porpora e d'oro. O dolore stanco , placati! La nuvola che durante il giorno appare più carica di tempesta è la stessa che vedo più rosa quando la sera sta per finire. Che bello ammirare il volo delle rondini intorno! Che bello udire i rumori nell'aria serena! La fame patita durante il temporale rende la cena più lunga e festosa. La loro porzione di cibo,nonostante fosse così piccola, i rondinotti durante il giorno non l'ebbero per intero. Nemmeno io... e dopo le ansie e i dolori ,mia limpida sera! Don... Don... Le campane mi dicono, Dormi! Mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! Bisbigliano, Dormi!Là le voci del buio azzurro della notte... Mi sembrano canti di culla, che mi riportano all'infanzia... sentivo mia madre... poi nulla... sul far della sera.


    Parafrasi "La pioggia nel pineto", di Gabriele D'Annunzio



    Taci. All'inizio del bosco non sento parole che puoi definire umane,
    ma sento parole più nuove che vengono espresse dalle foglie e dalle gocce lontane.
    Ascolta. Piove dalle nuvole sparse.
    Piove sulle tamerici (la tamerice è una tipica pianta di pineta) salmastre e aride,
    piove sui pini dai tronchi a scaglie e dagli aghi pungenti,
    piove sui mirti divini (era un arbusto sacro a Venere),
    sulle ginestre brillanti di fiori a grappoli, sui ginepri pieni di bacche odorose,
    piove sui nostri volti silvestri (quest'oggettivo introduce la metamorfosi),
    piove sulle nostre mani nude, sui nostri vestiti leggeri,
    e sui pensieri freschi che l'anima rinnovata fa nascere sulla bella favola (da favola dell'amore)
    che ieri chi illuse (Illudere in questo caso è inteso come significato latino cioè di ludus, gioco). e che oggi illude me, o Ermione. (La ripetizione della parola piove è una metafora, allo scopo di dare cadenza la poesia, come in un rito; D’Annunzio conclude tutte le strofe col nome “Ermione”).
    Senti? La pioggia cade sulla vegetazione solitaria con uno scrosciare (termine onomatopeico) costante e varia che varia a seconda che cada su rami più o meno radi.
    Ascolta. Risponde a questo pianto (il pianto della pioggia) il canto delle cicale che nè la pioggia portata dall'austro (un vento del sud),
    nè il cielo grigio impauriscono.
    E il pino ha un suono, il mirto ha un altro suono, il ginepro un altro ancora,
    come strumenti diversi suonati da innumerevoli mani,
    e noi siamo immersi nell'anima del bosco partecipi della vita del bosco e il tuo volto inebriato è bagnato dalla pioggia come una foglia,
    i tuoi capelli profumano come le ginestre chiare, o creatura della terra, che hai nome
    Ermione. (Questa strofa descrive l'inizio dello metamorfosi).
    Ascolta. Ascolta.
    Il canto armonioso delle cicale nell'aria a poco a poco si attutisce sotto la pioggia che cresce; ma vi si mescola un'altro canto, più roco, che sale da laggiù,dalle profondità del bosco.
    Più attutito e più sottile (il canto delle cicale) si affievolisce, si spegne.
    Resta solo una nota (una cicala) a tremare, si spegne, poi riemerge, trema, si spegne.
    Non si sente la voce del mare.
    Ora si sente su tutti gli alberi lo scrosciare della pioggia argentea (l'aggettivo argentea è in grado di richiamare sia sensazioni visive che uditive), che purifica e questo scrosciare varia a seconda delle fronde degli alberi più o meno folte.
    La figlia dell'aria (la cicala) è in silenzio, ma figlia del fango, la rana, canta nell'ombra più profonda chissà dove, chissà dove.
    Piove sulle tue ciglia, o Ermione.
    Piove sulle tue ciglia nere così che sembra che tu pianga, ma di piacere, non bianca di carnagione,ma quasi divenuta verde sembra che tu esca dalla corteccia di un albero (la metamorfosiè nella sua fase più importante) e tutta la vita in noi è rinascita profumata,
    il cuore nel petto è come una pesca non toccata (perfetta), tra le palpebre gli occhi sono come delle sorgenti tra le erbe, i denti negli alveoli sono come mandorle acerbe (bianchissimi).
    E noi andiamo da una macchia di arbusti all'altra, ora uniti, ora separati, [e la forza resistente degli arbusti intricati ci avvinghia le caviglie, ci impiglia le ginocchia] chissà dove, chissà dove (si fanno trascinare dalla notura).
    Piove sulle nostre mani nude, sui nostri vestiti leggeri, sui pensieri freschi che anima rinnovata fa nascere, sulla bella favola che ieri mi illuse e che oggi illude te, o Ermione.


    Parafrasi "La Quiete dopo la Tempesta", di Giacomo Leopardi


    La tempesta è passata, sento gli uccelli far festa, e la gallina, tornata sulla strada che ripete il suo verso. Ecco che il sereno rompe le nuvole là da occidente, verso la montagna; la campagna si libera dalle nubi e lungo la valle appare chiaro e ben distinto il fiume. Ogni animo si rallegra, da ogni parte riprendono i soliti rumori e riprende il consueto lavoro. L’artigiano, con il lavoro in mano, si avvicina cantando verso l’uscio a guardare il cielo umido; esce fuori la giovane ragazza (la popolana) per vedere se sia possibile raccogliere l’acqua della pioggia da poco caduta; e l’ortolano ripete di sentiero in sentiero il consueto richiamo giornaliero. Ecco che ritorna nel cielo il sole, eccolo che sorride per i poggi e per i casolari. La servitù apre le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge: e dalla strada principale si sente un tintinnio di sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.
    Ogni animo si rallegra. Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo si dedica con così tanto amore alle proprie occupazioni come in questo momento? O torna al lavoro? O intraprende una nuova attività? Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali? Il piacere è figlio del dolore, è solo una gioia vana (un illusione), frutto del timore ormai passato, è frutto di quella paura che scosse chi odiava la vita ed ebbe terrore della morte; a causa della quale le persone fredde, silenziose, pallide sudarono ed ebbero il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento diretti a colpirci.
    O natura benevola, sono questi i tuoi doni, sono questi i piaceri che tu porgi ai mortali. Fra noi il piacere è uscire dalla paura, cessare di soffrire. Tu spargi in abbondanza dolore; il dolore nasce spontaneamente: e quel nostro piacere che ogni tanto per prodigio e per miracolo nasce dal dolore, è un gran guadagno. O genere umano caro agli dei! ti puoi ritenere molto felice se ti è concesso di tirare il respiro da qualche dolore: ti puoi ritenere beato se la morte ti guarisce da ogni dolore.
     
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    Parafrasi"La sera del dì di festa", di Giacomo Leopardi


    La notte è dolce, chiara e senza vento. La luna illumina i tetti, gli orti e fa vedere le ombre delle montagne lontane. O signora, i sentieri sono già deserti e si vedono poche lambade accese nelle case. Tu dormi, perché il sonno ti ha accolto nella tua tranquilla stanza. E non hai preoccupazioni, tu non sai quanto sto soffrendo per te. Tu dormi, io mi affaccio a salutare la natura onnipossente che mi ha negato anche la speranza e che mi ha condannato alla tristezza. Questo giorno è stato di festa e degli svaghi, riposati. Forse in sogno ricorderai i tuoi coetanei a cui piacevi e quelli che piacevano a te; io non sarò nei tuoi pensieri e manco ci spero. Intanto io chiedo quanto tempo mi resta da vivere e dal dolore mi butto per terra. Oh, che giorni orrendi ho in questa giovinezza. Non lontano per la via sento il canto solitario dell’artigiano che ormai a sera tardi torna alla sua povera casa. E con rabbia penso al tempo che passa senza lasciare orma. Ora è passato il giorno di festivo che lascia posto al giorno feriale. E il tempo porta con sé ogni faccenda umana. Dove sono andati a finire i tempi antichi e l’antica Roma? Tutto è in silenzio e il mondo è qui. Quando ero bambino aspettavo ansiosamente il giorno di festa che passava veloce e premevo la testa contro il cuscino per non piangere, già allora soffrivo.



    Parafrasi "La sera fiesolana", di D'annunzio, Gabriele


    Le mie parole siano per te fresche come il fruscio che fanno le foglie del gelso nella mano di chi le sta raccogliendo silenziosamente,
    e ancora indugia lentamente nel lavoro sull'alta scala che a poco a poco si scurisce appoggiata all'albero che diventa color argento con i suoi rami spogli,
    mentre la luna è vicino all'orizzonte ancora azzurro e sembra che davanti a sé distenda un velo dove il nostro sogno d'amore giace (si rivolge all’amata).
    E sembra che già la terra si senta sommersa da lei nel freddo notturno e da lei assorba lo sperato refrigerio senza vederlo (la rugiada). (notate le analogie,
    le allitterazioni 'fanno – foglie – fresche – fruscio', l’uso dei colori 'la scala, il gelso'
    e la personificazione della luna).
    Che tu sia lodata per il tuo viso del colore della terra, o sera,
    e per i tuoi grandi occhi umidi dove viene raccolta l'acqua del cielo.
    Le mie parole ti siano dolci (si rivolge all’amata) nella sera come la pioggia che bruiva (un verbo di derivazione francese che significa frusciare, è collegato al fruscio delle foglie presente nella prima strofa) tiepida e fuggitiva (la pioggia fuggitiva è una citazione di un verso di Leopardi) congedo lacrimoso della primavera.
    Ma sui gelsi, sugli olmi, sulle viti e sui pini, dai nuovi germogli rasati (rosei diti, è una personificazione) che giocano con l'aria che svanisce, e sul grano che non è ancora biondeggiante (maturo) e non è più verde (germoglio) e sul fieno che è già stato falciato (patì la falce, è una personificazione, D'Annunzio vuol far capire che la natura soffre se l'uomo fa violenza contro di lei) e per questo cambia colore, e sugli olivi, sui fratelli olivi (quest'umanizzazione è un richiamo al cantico delle creature di San Francesco), che fanno le colline argentee e sorridenti con la loro sacralità.
    Che tu sia lodata per le tue vesti profumate (la vegetazione), o sera, e per la cintura che ti cinge (la linea dell'orizzonte) come il ramo di salice cinge il fieno odoroso (in passato i rami di salice erano usati per legare le balle di fieno).
    Io ti dirò verso quali reami d'amore il fiume Arno ci chiamò, le cui fonti eterne all'ombra degli alberi antichi parlano del sacro mistero dei monti e ti dirò a causa di quale segreto (questa segreto è l'amore) le colline si incurvano sugli orizzonti limpidi come labbra chiuse per un divieto (il divieto di dire il segreto) e perché la volontà di svelarlo le faccia belle oltre ogni desiderio umano, e nel silenzio loro, sempre nuove fonti di consolazione, così che sembri che ogni sera l'anima le possa amare di un amore sempre più forte.
    Che tu sia lodata per il tuo naturale finire, o sera, per l’attesa (della notte) che in te fa a luccicare le prime stelle (quest'ultima strofa è un forte richiamo alla speranza, infatti nel panismo la morte non è la fine, semmai può essere un nuovo inizio poiché tutto può avere vita in un'altra forma).


    Parafrasi "Lavandare", di Giovanni Pascoli


    Nel campo arato a metà, è rimasto un aratro senza buoi, come dimenticato, tra la nebbia leggera. Dal canale arriva il rumore ritmato delle lavandaie con tonfi frequenti e lunghe canzoni: “Soffia il vento e cadono le foglie, e tu non sei ancora ritornato al tuo paese. Quando sei partito, sono rimasta come l’aratro abbandonato su un terreno a riposo (maggese).
     
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    Parafrasi:l'ira di giunone, Eneide

    Canto le armi e l'eroe, che per primo dalle spiagge di Troia,
    Racconto le guerre e le gesta dell''eroe, che per primo partì da Troia
    profugo per volere del destino, venne in Italia alle coste Lavinie,
    come profugo per volere del destino ed arrivo in Italia alle coste del Lazio
    quello molto sbattuto per terra e per mare a causa della forza degli Dei
    Enea subì varie peripezie sia sulla terra che quando era in mare a causa dell'ira degli déi
    e della memore ira di Giunone;
    e soprattutto a causa della antica ira che Giunone provava per lui
    e anche patì molte cose a causa della guerra
    e Enea subì molte sofferenze anche per colpa della guerra
    finchè fondò la città e portò gli Dei nel Lazio,
    finché non giunse nel Lazio dove fondo una città e vi portò gli déi
    da dove nacquerò la stirpe Latina,
    da questa città derivò la stirpe latina,
    i padri Albani e le alte mura di Roma.
    i padri Albani e furono edificate le mura della nuovo città: Roma
    O musa , ricordami le cause,
    Oh musa, ricordami le cause
    per cui la divinità offesa, o di cosa dolendosi,la regina degli Dei
    per cui Giunone si è offesa, o perchè, ella, per il suo dolore
    costrinse l'insigne uomo per la pietà ad affrontare tutte le disavventure
    costrinse Enea ad incorrere in varie peripezie
    e raggiungere tutte le fatiche.
    e ad afforntare tante fatiche
    Ci fu una città antica, i coloni di Tiro la possedevano, Cartagine,
    C'era una città, Cartagine, posseduta dai scoloni di Tiro
    lontano di fronte all'Italia e alle foci del Tevere,
    lontano davanti all'italia e alle foci del tevere
    ricca di mezzi e ferocissima nell'attività di guerra;
    tale citta era ricca e al tempo stesso ferocissima nelle guerre
    si dice che Giunone trascurata Samo preferisse questa tra tutte le altre terre;
    Tale terra era oltre a Samo, la preferita di Giunone rispetto a tutte le altre terre
    qui ci furono le sue armi, qui il carro,
    a questa terra Giunone aveva dato le armi e il suo carro
    la Dea già allora desiderava, se i fati lo avessero permesso,
    La déa desiderava, se il destino lo avesse permesso
    che questo fosse il regno dei popoli.
    che da questa zona nascessero tutti gli altri popoli
    Ma infatti aveva sentito che dal sangue Troiano sarebbe sorta una stirpe,
    Ella sapeva che una stirpe sarebbe derivata dal sangue troiano
    che un tempo avrebbe distrutto le rocche di Tiro;
    che avrebbe distrutto le mura di Tiro
    qui sarebbe venuto un popolo che avrebbe regnato su un vasto territorio
    da Troia sarebbe derivato un popolo che avrebbe poi regnato su un grande territorio
    e superbo per la guerra
    e che sarebbe stato grande in guerra
    e per l'eccidio della Libia: cosi volevano le Parche.
    e per l'eccidio della Libia: così avevano voluto le tre Parche (secondo i Greci le Parche avevano il destino degli uomini, una dava, l'altra tesseva e l'ultima spezzava il filo della vita degli uomini e ne decidevano il loro destino)


    Fonte: skuola.tiscali.it




    Parafrasi "Nella piazza di San Petronio", di Giosué Carducci



    sorge nel chiaro inverno la fosca bologna ricca di torri
    e il colle(colle della guardia)ride,al di sopra,ricoperto di neve.
    è l'ora nella quale il sole sta per tramontare e saluta
    le torri e la chiesa,san petronio,tuo;
    le torri i cui merli da tanto tempo la sfiorano
    e del solenne tempio la cima solitaria.
    il cielo brilla di un fulgore adamntino(simili a quelli del diamante)
    e l'aria come un velo d'argento giace
    sulla piazza,sfumando lievemente attorno agli edifici
    che tirò su il braccio armato agli avi.
    selle alte cime s'insinua il sole e guarda
    con un sorriso languido come una viola,
    che nella scura pietra nel fosco rossiccio mattone
    pare che risvegli l'anima(dormente)da secoli
    e un nostalgico desiderio per l'aria gelida sveglia
    di rossi tramonti di maggio,di calde e profumate sere,
    quando le donne gentili danzavano in piazza
    e con i re vinti tornavano i consoli.
    la musa ride fuggente al verso nel quale palpita
    il desiderio,ormai vano,della bellezza antica.

    se poi ti servono figure retoriche ecc fammi sapere





    Parafrasi "O iubelo de core", di Jacopone da Todi

    O giubilo(sentimento incontenibile di gioia)del cuore, che fai cantar d'amore quando ti riscaldi, così fai cantare l'uomo e gli fai balbettare la lingua, così che non sà più cosa dire.
    Non può nascondere dentro la tristezza, tanto questa è intensa!
    Quando il giubilo si è acceso nel cuore, fà gridare l'uomo, il cuore è così infiammato d'amore, tanto che non lo può più sopportare;
    stridendo, e non si vergogna allora.
    Quando il giubilo ha infiammato il cuore dell'innamorato, la gente lo deride, pensando al modo in cui si esprime, poichè parla senza misura di ciò di cui sente calore.
    O giubileo, dolce piacere che sei dentro!
    Il cuore sarebbe saggio nel nascondere la sua condizione, ma non può sopportare di non emettere grida.
    Chi non ha esperienza ti reputa impazzito, vedendo il tuo comportamento anomalo.
    Come quello di uno che ha perso la ragione.
    Dentro ha il cuore ferito(lacerato dall'esperienza mistica).
    Non ha percezione di ciò che c'è al di fuori della realtà.
     
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    Pararasi "Passa la nave mia colma d'oblio", di Francesco Petrarca



    La mia nave, piena di desiderio di dimenticare, attraversa il mare tempestoso, fra Scilla e Cariddi (stretto di Messina), d’inverno, nel mezzo della notte; e la guida il mio signore, anzi, il mio nemico (amore).Ad ogni remo (sta) un pensiero presente e doloroso, che sembra ignorare la tempesta e il suo esito: un vento umido, che in eterno trascina sospiri, speranze e desideri, lacera la vela.Una pioggia di pianto, l’immagine offuscata dello sdegno aggredisce i cordami, ed io sono avvolto dall’errore e dall’ignoranza.I due miei riferimenti abituali si nascondono: la ragione e l’arte sono morte fra le onde, tanto che io comincio a disperare di poter giungere al porto.



    Parafrasi "Pianto antico", Giosuè Carducci



    L'albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da' bei vermigli fior,

    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.

    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l'inutil vita
    Estremo unico fior,

    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol più ti rallegra
    Né ti risveglia amor.

    L'albero verso il quale orientavi la tua manina,
    il melograno dalle verdi foglie
    e dai rossi fiori,
    nel silenzioso e solitario orto,
    è nuovamente germogliato
    e l'estate lo matura
    con il suo calore e la sua luce.
    Tu figlio di questo povero corpo,
    invecchiato e sciupato dal tempo,
    tu unico dono di questa mia vita inutile,
    giaci nella fredda terra di un camposanto,
    non potrai più vedere la luce del sole,
    ne godere dell'amore.


     
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    Parafrasi "Qual rugiada o qual pianto", di Torquato Tasso


    quale rugiada o quale pianto, o quali lacrime erano quelle che vidi spargere dalla volta del cielo notturno e dal candido volto delle stelle? e perché la luna bianca seminò una pura nube di gocce cristalline in grembo all'erba fresca? perché nell'aria notturna si udivano le brezze, simili a lamenti, scorrere tutt'intorno fino al sorgere del giorno? forse erano presagi della tua partenza, o vita della mia vita?
     
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