FABRIZIO DE ANDRÉ NELLE PAROLE DI DORI GHEZZI. E CON SORRISI ARRIVANO TUTTI I SUOI TOUR IN 8 DOPPI CD
Con i bellissimi capelli biondi e il dolce sorriso, Dori Ghezzi parla di Fabrizio De André. A volte è come bevesse un bicchier d’acqua, altre volte sceglie con cura le parole, perché lui, Fabrizio, alle parole ci stava molto attento. Ricorda. E racconta il De André de «I concerti», 23 anni a cantare sul palco con una voce profonda e scura. La sua. Inconfondibile.
Il primo concerto fu alla Bussola nel ’75. Non voleva cantare.
«Fu un concerto che fece rumore, in quel momento di contestazioni».
Perché le contestazioni?
«Non era l’habitat giusto per Fabrizio, secondo i benpensanti. E si sa che, a sua volta, lui era un contestatore».
Lei era presente?
«Il nostro rapporto era già consolidato, ma non volevamo che il pettegolezzo distraesse. Lo aspettavo in albergo senza sapere niente. Ce la fa, non ce la fa…».
E poi ce l’ha fatta.
«Lui non amava farsi vedere, si negava anche sulle copertine del disco, sosteneva che l’immagine dell’artista avrebbe distratto l’attenzione dall’opera».
Che cosa l’ha convinto?
«In parte seguendo i miei concerti, ben lontani dai suoi, si è convinto dell’importanza di confrontarsi con il proprio pubblico, un mezzo molto efficace di mettersi in discussione con se stesso». Le ha mai detto: «Stasera non salgo sul palco»?
«Spesso, anche nell’ultimo tour. Aveva delle perplessità, o pudore, non so come definirlo. Non era paura, ma preoccupazione di deludere il pubblico. Le aspettative erano altissime». La preoccupazione maggiore?
«Per lui cantare era faticoso. Le corde vocali devono essere allenate e spesso quegli sforzi improvvisi lo mettevano in difficoltà e rimaneva senza voce».
Aveva fama di perfezionista.
«Era molto meticoloso e quando riproponeva con un tour un disco appena uscito voleva che suonasse in quel modo, come l’aveva inciso».
Non ha mai abbandonato il palco?
«Una volta al Palalido di Milano evacuarono il locale perché era arrivata la telefonata che c’era una bomba. Lui non ci aveva creduto e in effetti non era vero. Poi riprese il concerto».
Lei lo seguiva in tournée?
«Fino al ’90 ho continuato a lavorare. Nel tour di “Crêuza de mä” in tutta l’estate non ci siamo incontrati una volta».
Poi nel tour «Uomini e donne» del ’92 gli fece da corista.
«Con grande orgoglio. Mi sono trovata molto bene, ero a mio agio, anche se sempre con il sospetto che potesse prendermi in giro. Lui spesso giocava». Ha giocato anche con lei?
«Era un tipo imprevedibile, un paio di volte se n’è uscito presentando la band: “Questo viene da Brescia, questo da Ferrara, e poi Dori Ghezzi da casa mia!”».
La presentava sempre per ultima.
«Con lui ti divertivi, c’erano momenti in cui parlava della difficoltà che aveva a capire le donne e allora stavo a pensare in che modo rientravo nel discorso».
Diceva che i concerti li faceva per denaro. Scherzava anche lì?
«In un primo momento lo ha fatto anche per questo, non era stato capace di sfruttare economicamente la sua fortuna con le case discografiche. Aveva dei sogni da realizzare, tornare a vivere in campagna, comprarsi un pezzo di terra».
Perché un solo tour all’estero?
«Fu nell’82, per l’album “dell’indiano”, in Germania, dove era abbastanza conosciuto. Peccato, forse in Francia avrebbe trovato terreno fertile, era un pubblico ideale per lui».
Con quali colleghi non ha voluto fare tour?
«Proprio all’inizio glielo chiese Mina. Più tardi avrebbe accettato, ma all’epoca non aveva superato la paura».
Poi Mina si è ritirata dalle scene.
«Con Mina sono riusciti a registrare solo la “Canzone di Marinella”, è stata l’ultima volta, nel ’97, in cui è entrato in studio. Un po’ come se si fosse chiuso il cerchio. Non sapeva di esser ammalato».
Fu l’anno dopo, durante un concerto ad Aosta, che Fabrizio si sentì male.
«Aveva dolori, fumava tanto, durante una prova si rese conto che qualcosa non funzionava, era scoordinato, non riusciva a posizionare la chitarra e l’aveva buttata via. Ha smesso lì».
Quando è morto lei ha detto: «Ad amarlo sono in tanti, sono un po’ gelosa».
«Mi ha fatto piacere che molti lo abbiano ricordato. Non me l’aspettavo. Finalmente oggi c’è più rispetto nella memoria e nel recupero di artisti che meritano di non essere dimenticati. Penso a Modugno, un grandissimo».
Su Modugno hanno fatto una fiction. Ce ne sarà anche una su De André?
«Me ne hanno proposte tante. Ora in Rai stanno lavorando su una sceneggiatura che mi pare buona. Ma non è facile trovare chi interpreterà Fabrizio. E neppure me».
C’è una canzone di Fabrizio che la fa piangere?
«“Preghiera in gennaio”. La scrisse per la morte di Tenco. Poi anche Fabrizio morì a gennaio…».
Fabrizio De André è il decimo album in studio dell'omonimo cantautore genovese, meglio conosciuto come L'indiano a motivo della copertina dove compare l'immagine di un nativo americano a cavallo. Si tratta di un'opera dell'artista statunitense Frederic Remington (1861 - 1909), The Outlier, del 1909. L'album è stato inciso nel 1981 ed è stato scritto in collaborazione con Massimo Bubola, con cui De André aveva già collaborato per l'album precedente, Rimini; come in Rimini, l'accordo tra i due cantautori prevedeva che le canzoni presenti nell'album avessero la firma di entrambi, pur essendo in realtà il contributo alla scrittura non sempre identico per i due autori (fa eccezione Ave Maria, che è un canto tradizionale sardo già noto nell'incisione di Maria Carta). L'album è stato pubblicato, nello stesso anno, in Germania Ovest dalla Metronome. Tra i coristi che hanno preso parte alla registrazione del disco vi è Mara Pacini, cantante beat nota negli anni sessanta come Brunetta.
Il disco
Il tema dell'album è il confronto tra due popoli per certi versi affini e per certi altri molto diversi, il popolo dei sardi e quello dei pellerossa, entrambi chiusi nei loro mondi.
Le canzoni
Quello che non ho
Il primo brano, dotato di un ritmo che richiama il blues, mette in evidenza le differenze tra i popoli autoctoni e quelli che rappresentano gli "oppressori", rappresentate dalle cose che non si hanno (quello che i popoli oppressi, a differenza degli oppressori, non hanno). Introdotto da spari e urla registrati durante una caccia al cinghiale in Gallura (come riportato nelle note sul retro di copertina), il pezzo è scandito dallo shuffle di una chitarra elettrica e accompagnato dall'armonica a bocca; nella parte finale entrano anche le tastiere di Mark Harris. Nel 2000 il varesino Kaso ha riproposto il brano in chiave rap nel disco Preso Giallo, riprendendo alcune rime dalla canzone di De André. Nel 2012 il gruppo rock Litfiba ha riproposto il brano in chiave rock in occasione dell'omonima trasmissione Quello che (non) ho di Fabio Fazio e Roberto Saviano.
Il canto del servo pastore
Nel brano la natura viene cantata in prima persona da un servo pastore, uomo semplice che non conosce neanche il proprio nome e le proprie origini, ma, vivendo separato dalla comunità umana e immerso nell'ambiente incontaminato, possiede una grande sensibilità per la realtà che lo circonda tanto da fondersi con essa («Mio padre un falco, mia madre un pagliaio»). La canzone è ambientata nelle lande dell'entroterra sardo; il cisto e il rosmarino, le sughere, le fonti e i rivi contribuiscono a delineare il paesaggio come spesse pennellate di colore.
Fiume Sand Creek
Nella terza canzone De André paragona i sardi agli indiani che fanno la loro comparsa in Fiume Sand Creek, che ha per tema un reale massacro di pellerossa, avvenuto il 29 novembre 1864, quando alcune truppe della milizia del Colorado, comandate dal colonnello John Chivington, attaccarono un villaggio di Cheyenne e Arapaho, massacrando molte donne e bambini; l'episodio è raccontato attraverso il linguaggio innocente e forse un po' surreale di un bambino vittima dell'avvenimento.
« Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso il lampo in un orecchio e nell'altro il paradiso »
(Fiume Sand Creek)
Lo stesso De André ha dichiarato di aver tratto i maggiori spunti per il brano da Memorie di un guerriero Cheyenne, libro/intervista che raccoglie le memorie del guerriero Cheyenne Gambe di Legno. Rispetto all'episodio storico, De André e Bubola cambiano il grado e l'età del quarantenne colonnello Chivington, che diventa "un generale di vent'anni". Il pezzo termina, in terza persona, nel modo più doloroso possibile:
« Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek »
Nel 2000 Luciano Ligabue interpreta il brano nel concerto omaggio Faber, amico fragile. Il brano sarà successivamente inciso nel doppio cd contenente le registrazioni dell'evento. Nel 2007 Shel Shapiro ha inciso nel suo album Storie, sogni e rock'n'roll una traduzione in inglese di questa canzone, intitolata River Sand Creek; il testo inglese, opera dello stesso Shapiro, è il frutto di una serie di traduzioni che l'ex leader dei Rokes ha realizzato per un progetto di Patti Smith legato alla sua incisione di canzoni italiane.
Ave Maria
L'attenzione torna sul popolo sardo con Ave Maria (da non confondersi con la canzone dallo stesso titolo ma del 1970, contenuta nell'album La buona novella), cantata da Mark Harris per la voce alta e potente, in lingua sarda. De André interviene solo come seconda voce nei cori. È un canto tradizionale sardo ispirato alla Ave Maria precomposto - in italiano - dal gesuita Innocenzo Innocenti (1624-1697) come strumento adatto alla catechesi tra i ceti popolari. Successivamente è stato tradotto in sardo e ne esistono varie versioni. Il brano di De André riprende, piuttosto fedelmente, tre di queste ultime.
Hotel Supramonte
Si tratta di un adattamento della canzone di Massimo Bubola Hotel Miramonti (scritta ad Alleghe all'Hotel Miralago, di cui era ospite); la versione originale viene a volte riproposta live dal cantautore veronese. Il brano parla del sequestro subìto da De André con la moglie Dori Ghezzi nell'agosto del 1979 per mano dell'Anonima sequestri. Il titolo è dato dal Supramonte, catena montuosa dell'entroterra sardo, nascondiglio dei più famosi latitanti dell'isola, inteso come una sorta di albergo in cui far soggiornare gli ospiti. Dal punto di vista musicale il pezzo è il più intimo dell'album: la strumentazione usata è perlopiù acustica (chitarra, basso, violino), con un leggero tappeto d'archi elettronici. In occasione del concerto in memoria di De André, Roberto Vecchioni ha interpretato una sua versione che poi sarà incisa, nel 2003, nell'album "Faber, amico fragile". Vecchioni inciderà nuovamente la canzone nel 2011 nel CD Chiamami ancora amore.
Franziska
Riguardo a questa canzone, De André affermò di essersi ispirato ai racconti dei suoi rapitori. Vi si narra la difficile storia vissuta da una giovane e dal suo uomo, un bandito che si è dato alla macchia. La vicenda è ancora una volta ambientata nella dura realtà sarda. La ragazza è costretta quasi alla clausura per la gelosia del fidanzato (i suoi occhi come due cani) ma, al contempo, è costretta alla solitudine perché lui è latitante. Il suo dolore si acuisce quando vede anche l'ultima delle sue sorelle sposarsi. D'altra parte, nemmeno il bandito ha un'esistenza serena, costretto a spostarsi di continuo, sempre lontano dalla sua amata: la notte, solo il rosario di lei gli fa compagnia, attorcigliato al suo fucile.
Se ti tagliassero a pezzetti
Se ti tagliassero a pezzetti una canzone d'amore e insieme un inno alla libertà. Quando veniva cantata dal vivo, il verso "signora libertà, signorina fantasia" veniva spesso modificato in "signora libertà, signorina anarchia", così come il verso "il polline di dio, di dio il sorriso" veniva spesso modificato in "il polline di un dio, di un dio il sorriso". La paternità della canzone è di Bubola, per quanto probabilmente il testo sia stato integrato e sicuramente reso proprio da De André.
Verdi pascoli
Questa canzone parla del paradiso secondo gli Indiani d'America, che viene descritto da De André con molta libertà e fantasia.
Tracce
Testi e musiche di Fabrizio De André e Massimo Bubola, tranne dove diversamente indicato
Lato A
Quello che non ho – 5:51 Canto del servo pastore – 3:13 Fiume Sand Creek – 5:37 Ave Maria (rielaborazione di un canto popolare sardo; adattamento di Fabrizio De André/Albino Puddu) – 5:30
Lato B
Hotel Supramonte – 4:32 Franziska – 5:30 Se ti tagliassero a pezzetti – 5:00 Verdi pascoli – 5:18
Hotel Supramonte E se vai all'Hotel Supramonte e guardi il cielo tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo e una lettera vera di notte falsa di giorno e poi scuse, accuse e scuse, senza ritorno e ora viaggi, vivi, ridi, o sei perduta col tuo ordine discreto dentro il cuore ma dove, dov'è il tuo amore... ma dove è finito il tuo amore... Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile grazie a te ho una barca da scrivere ho un treno da perdere e un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete passerà anche questa stazione senza far male passerà questa pioggia sottile come passa il dolore ma dove, dov'è il tuo cuore... ma dove è finito il tuo cuore... E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano cosa importa se sono caduto, se sono lontano perché domani sarà un giorno lungo e senza parole perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole ma dove, dov'è il tuo cuore... ma dove è finito il tuo cuore...
« Crêuza è stato il miracolo di un incontro simultaneo fra un linguaggio musicale e una lingua letteraria entrambi inventati. Ho usato la lingua del mare, un esperanto dove le parole hanno il ritmo della voga, del marinaio che tira le reti e spinge sui remi. Mi piacerebbe che Crêuza fosse il veicolo per far penetrare agli occhi dei genovesi (e non solo nei loro) suoni etnici che appartengono alla loro cultura. »
(Fabrizio De André in un'intervista.)
Crêuza de mä (il cui nome originale è Creuza de mä, 1984) è l'undicesimo album registrato in studio di Fabrizio De André. L'album, realizzato in collaborazione con Mauro Pagani, è interamente cantato in genovese, la lingua della Repubblica di Genova, tuttora viva, che è stata per molti secoli (approssimativamente dal Basso Medioevo fino al XVII secolo, il secolo dei genovesi) una delle lingue più usate per la navigazione e gli scambi commerciali nel Bacino del Mediterraneo. Il disco è stato considerato da parte della critica una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta e, in generale, della musica etnica tutta; David Byrne ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che Creuza è uno dei dieci album più importanti della scena musicale internazionale degli anni ottanta, e la rivista "Musica & Dischi" lo ha eletto migliore album degli anni ottanta. Inoltre è collocato al 4º posto della lista dei migliori 100 album italiani di sempre secondo Rolling Stone
Il disco
Tutte le canzoni sono in lingua ligure, idioma ricco di influenze mediterranee. Si tratta di una scelta che andava, nel 1984, contro tutte le regole del mercato discografico (all'epoca non vi erano album di media o elevata tiratura in ligure) e che - contro ogni aspettativa - ha segnato invece il successo di critica e di pubblico dell'album, il quale ha infatti segnato una svolta nella storia della musica italiana ed etnica in generale. De André ha deciso di utilizzare il ligure poiché riteneva che rappresentasse già un misto di parole derivanti da lingue diverse, facendo perno sull'enorme "malleabilità" ed eterogeneità di questo idioma, che, in secoli di commerci, scambi e viaggi si è arricchita di numerosissime parole provenienti dal greco, l'arabo, lo spagnolo, il francese, l'inglese ed altri. Al centro dei testi vi sono i temi del mare e del viaggio, le passioni, anche forti, e la sofferenza altrettanto forte; questi temi vengono espressi anche sul piano musicale attraverso il ricorso a suoni e strumenti tipici dell'area mediterranea, nonché all'aggiunta di contributi audio non musicali registrati in ambienti portuali o marinareschi, come le voci registrate dei venditori al mercato del pesce di Piazza Cavour a Genova. Il titolo dell'album e della canzone principale fa riferimento alla crêuza o crosa, termine che in genovese indica una stradina collinare (analoga ai celebri caruggi, che però sono perlopiù urbani), spesso sterrata o mattonata, in salita, delimitata da mura, e che porta in piccoli borghi, sia marinareschi che dell'immediato entroterra. In questo caso però la crêuza di mare si richiama poeticamente ed in maniera allegorica ad un fenomeno meteorologico del mare altrimenti calmo che, sottoposto a refoli e vortici di vento, assume striature contorte argentate o scure, simili a fantastiche strade da percorrere come vie, crêuze de mä appunto, per intraprendere dei viaggi, reali o ideali. L'album è stato letteralmente reinterpretato nel 2004 da Mauro Pagani, che ne ha rinnovato gli arrangiamenti: oltre alle tracce già presenti nel disco originale, in 2004 Creuza de mä sono contenute Al Fair, introduzione vocalizzata nello stile dei canti sacri della Turchia, Quantas Sabedes, Mégu Megùn (già incisa da De André su Le nuvole) e Neutte, ispirata dal poeta greco Alcmane.
Tracce
Crêuza de mä - 6:16 Jamín-a - 4:52 Sidún - 6:25 Sinàn Capudàn Pascià - 5:32 Â pittima - 3:43 Â duménega - 3:40 D'ä mê riva - 3:04
Testi e musiche di Fabrizio De André e Mauro Pagani.
Le canzoni
Crêuza de mä
« Ómbre de môri / môri de mainæ / dónde ne vegnî, / dôve l'é ch'anæ? »
(F.De André-M.-Pagani, da Creuza de mä)
È la canzone d'apertura e dà il titolo all'album. Come già accennato, la locuzione ligure crêuza de mä, nel genovesato, definisce un viottolo o mulattiera, talvolta fatto a scalinata, che abitualmente delimita i confini di proprietà privata e porta (come del resto fanno praticamente tutte le strade in Liguria) dall'interno verso il mare. La traduzione letterale è quindi "viottolo di mare" o, utilizzando un ligurismo, "crosa di mare". Il testo parla dei marinai che, tornati dal mare, poeticamente descritto come "un posto dove la Luna si mostra nuda" (non ombreggiata da colline, piante o case) e dove la notte ha puntato il coltello alla gola, vanno a mangiare alla taverna dell'Andrea, che sta in una casa di pietra, e pensano a chi vi potrebbero trovare. Il pezzo è interamente in lingua genovese (come l'intero album). Il testo è incentrato sulla figura dei marinai, e sulle loro vite da eterni viaggiatori e racconta appunto di un ritorno notturno dei marinai a riva, quasi come estranei. De André parla delle loro sensazioni, la loro narrazione delle esperienze provate sulla propria pelle, la crudezza d'essere in balìa reale degli elementi; poi affiora una ostentata scherzosa diffidenza, che si nota nell'assortimento dei cibi immaginati, accettabili e normali (o quasi, per un vero marinaio), contrapposti ad altri, come le cervella di agnello, o il pasticcio di "lepre di tegole" (il gatto spacciato per una sorta di coniglio), decisamente e volutamente meno accettabili, citati evidentemente per fare ironia sulla affidabilità e saldezza dell'Andrea e, forse, di tutto un mondo a cui sanno di non appartenere. Alla fine il "padrone della corda marcia d'acqua e di sale, finirà per legarli e riportarli al mare lungo una crêuza de ma, come dice il titolo.
Jamín-a
Tra le canzoni più cariche di sensualità di Fabrizio De André, è un vero e proprio inno o elogio all'erotismo, impersonato dalla "lupa di pelle scura" Jamín-a, capace di fare l'amore in modo travolgente e quasi insaziabile.
« ... Jamín-a non è un sogno, ma piuttosto la speranza di una tregua. Una tregua di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio. Voglio dire che Jamín-a è un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio. Jamín-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto »
(Fabrizio De André)
Sidún
È il canto di dolore di un padre di fronte alla morte violenta, a causa della guerra, del proprio figlio, travolto dai cingoli di un carro armato.
"Sidùn" è in genovese la città di Sidone, in Libano, teatro, all'epoca della stesura del disco, di ripetuti massacri durante la guerra civile che sconvolse il paese (campo di battaglia di Siria e Israele) dal 13 aprile 1975 fino al 1991. A farne le spese fu in massima parte la popolazione civile, soprattutto i numerosissimi rifugiati palestinesi. La canzone è introdotta dalle voci di Ronald Reagan e Ariel Sharon, alle quali fa da sfondo il rumore dei carri armati.
« Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea. » (Fabrizio De André)
Sinàn Capudàn Pascià
La canzone narra la storia, vera, di un semplice marinaio della flotta della Repubblica di Genova, noto come tale Scipione Cicala (Çigä in lingua genovese), catturato dai Mori durante uno scontro navale e in seguito, per aver salvato la vita al sultano, a mezzo del ripudio della propria fede e delle proprie origini, diviene alla fine fiduciario del sultano ed infine Gran visir con il nome di Sinàn Capudàn Pascià. Il personaggio, pur vedendo tutta la sua vita trasformata, non cambia intimamente e diventato importante dignitario, si giustifica dicendo che di fatto non molto è mutato nel flusso della sua vita, che continua erratica ed opportunista, (evidenziata dall'allegoria del pesce che quando le cose vanno bene sta a galla, ma quando vanno male si nasconde al fondo), e con la sola variante di proseguire giastemàndo Momâ òu pòsto do Segnô ("bestemmiando Maometto al posto di nostro Signore").
'Â pittima
'Â pittima rappresentava, nell'antica Genova, la persona a cui i privati cittadini si rivolgevano per esigere i crediti dai debitori insolventi. Il compito della pittima era di convincere, con metodi più o meno leciti, i debitori a pagare; ancora oggi a Genova la parola pittima è sinonimo di persona insistente, noiosa, appiccicosa.
« Il personaggio è la risultante di un'emarginazione sociale, almeno come io lo descrivo, dovuta principalmente alle sue carenze fisiche. "Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il vestito dietro ad un filo": questo è il lamento di chi è stato costretto da una natura tutt'altro che benevola a scegliersi, per sopravvivere, un mestiere sicuramente impopolare. [...] Così ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile. » (Fabrizio De André)
 duménega
« Fabrizio: Lì è stata la forza di Pagani: "Adesso scrivo un pezzo alla De André", e ti esce fuori con "Â duménega". Mauro: Io ho fatto "Â duménega" avvertendo Fabrizio che la gente avrebbe detto: "Eh, questo è il Fabrizio di una volta!" »
(Fabrizio De André e Mauro Pagani, riguardo alla musica di "Â duménega")
Al pezzo, suonato a ritmo di ballata popolare, contribuisce il mandolino di Franco Mussida, chitarrista della Premiata Forneria Marconi, che esegue, sul finale, anche un assolo di chitarra andalusa. Il brano racconta in maniera ironica il "rito" della passeggiata domenicale che il comune di Genova concedeva un tempo alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un quartiere della città. De André riporta le scenate dei cittadini al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dal finto moralismo: da chi grida loro qualsiasi epiteto sconcio ma poi le frequenta durante la settimana, al direttore del porto, felice di tutto quel ben di Dio a passeggio che porta tanti soldi nelle casse del Comune, finanziando la costruzione di un nuovo molo (sembrava che il Comune di Genova con i ricavi degli appalti delle case di tolleranza riuscisse a coprire per intero gli annuali lavori portuali) ma le insulta comunque "per coerenza", al rozzo bigotto, che, per legge di contrappasso, sbraita contro le prostitute e non sembra affatto accorgersi che fra di loro c'è anche sua moglie.
D'ä mê riva
Il brano chiude idealmente il discorso sull'eterno viaggiare dei marinai aperto ad inizio album con "Crêuza de mä". Qui infatti vediamo un marinaio al momento della partenza per un nuovo viaggio salutare con un triste canto d'addio l'innamorata che lo guarda dal molo e la sua città, Genova. « Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sotto specie magari di una moglie, custode del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva; il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone, e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso di basilico piantato lì sul balcone [...] . È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui l'imbarcato fa l'inventario del suo baule da marinaio preparatogli dalla moglie: tre camicie di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro [...] . [Della] compagna della vita resta al marinaio soltanto una fotografia di quando lei era ragazza, una fotografia sbiadita in fondo ad un berretto nero, per poter baciare ancora Genova sull'immagine di una bocca che io definisco "in naftalina". »
Le nuvole (1990) è il dodicesimo album registrato in studio di Fabrizio De André.
Il disco
Dopo il successo di Crêuza de mä (1984), Fabrizio De André ritorna, dopo un lungo periodo di silenzio, a collaborare con l'amico Mauro Pagani. Per quanto riguarda lo stile, se da un lato (la facciata B dell'LP) il nuovo lavoro continua sull'onda etnico/dialettale di Creuza, dall'altro (il lato A) l'opera assomiglia di più alla produzione deandreiana precedente a Creuza e ai dischi di influsso angloamericano con Massimo Bubola, Rimini (1978) e L'indiano (1981). I brani Mégu megún e 'Â çímma, in lingua ligure, inaugurano la collaborazione con Ivano Fossati, che proseguirà con l'album Anime salve; il testo di Don Raffae' è scritto a quattro mani con Massimo Bubola. Così Pagani spiega la genesi dell'album: « ...in Creuza in fondo ci eravamo divisi i compiti, lui i testi, io le musiche. Quando cominciammo a lavorare al disco nuovo ci rendemmo conto invece che con il passare degli anni il nostro rapporto si era fatto più profondo, che le nostre conoscenze sempre più si influenzavano e si intrecciavano a vicenda. Così stavolta tutto prese forma e identità davvero a quattro mani, chiacchierando, inventando, facendo e rifacendo. Soprattutto guardandoci intorno, con una attenzione al mondo del tutto diversa da quella del disco genovese. Il «dove» stavolta finì per essere l'Ottocento, l'Ottocento cattolico e borghese delle grandi utopie, del colonialismo e delle guerre senza senso, così simile per contenuti e scelte ai tempi odierni, in fondo solo un po' più veloci e molto più isterici. Tutto quello che avevamo tra le mani di nuovo trovò peso e collocazione, dai ricchi ateniesi di Aristofane, così simili ai nostri, all'ignavia di Oblomov, dall'incanto malinconico di Čajkovskij alla saggezza un po' guittesca e senza tempo del secondino Pasquale Cafiero. » (Mauro Pagani, 2006)
Il titolo dell'opera è ripreso dalla commedia di Aristofane, Le nuvole; il collegamento lo esplicita lo stesso De André:
« Le Nuvole, per l'aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare; in particolare Aristofane ce l'aveva con i sofisti che indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell'Atene di quei tempi. La Nuvola più pericolosa, sempre secondo Aristofane, era Socrate, che lui ha la sfacciataggine di mettere in mezzo ai sofisti. Ma a parte questo, e a parte il fatto che comunque Aristofane fu un grande artista e quindi inconsapevolmente un grande innovatore egli stesso, le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell'album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta. »
(Fabrizio De André, 1990)
Di questo album esistono due videoclip, i primi girati su canzoni di De André, diretti dal regista Gabriele Salvatores: La domenica delle salme e Mégu megún; in quest'ultimo appare anche l'attore Claudio Bisio.
Le canzoni
Lato A
In quest'opera di De André la cesura tra le due facce dell'album è molto sentita ed evidente. Il lato A, interpretato completamente in italiano (Don Raffae' compresa, trattandosi di un dialetto napoletano italianizzato e perfettamente comprensibile) inizia e termina con un canto di cicale, simbolo ironico del «coro di vibrante protesta» lanciato dal popolo italiano in risposta allo spadroneggiare dei potenti e alla perdita di identità e valori.
Le nuvole
È il brano che dà il titolo all'album. È un recitativo che parla in maniera poetica, appunto, delle nuvole, del loro aspetto e del loro comportamento nel cielo. Il testo non è interpretato da De André, ma da due donne, una più anziana dell'altra, che recitano sopra a un tappeto sonoro intenso e sognante. « Ho scelto Lalla Pisano e Maria Mereu perché le loro voci mi sembravano in grado di rappresentare bene «la Madre Terra», quella, appunto, che vede continuamente passare le nuvole e rimane ad aspettare che piova. È messo subito in chiaro che «si mettono lì / tra noi e il cielo»: se da una parte ci obbligano ad alzare lo sguardo per osservarle, dall'altra ci impediscono di vedere qualcosa di diverso o più alto di loro. Allora le nuvole diventano entità che decidono al di sopra di noi e cui noi dobbiamo sottostare, ma, pur condizionando la vita di tutti, sono fatte di niente, sono solo apparenza che ci passa sopra con indifferenza e noncuranza per nostra voglia di pioggia... » (Fabrizio De André)
Ottocento
È un pezzo volutamente anacronistico, un'opera buffa che è un misto di vari generi musicali, tra cui anche un pezzo di jodel alla tirolese. Anche l'interpretazione vocale di De André è piuttosto anomala: il cantautore sembra voler giocare a fare il cantante lirico, in linea con l'andamento pseudo-operistico predominante nel brano. De André riporta in un'intervista le motivazioni di questa scelta:
« È un modo di cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l'immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito. » (Fabrizio De André, 1990)
Nella sesta strofa della canzone, De André cita Iacopone da Todi della poesia Donna de Paradiso dove la Madonna piange la morte del "Figlio bianco e vermiglio", con questi versi: "Figlio figlio/povero figlio/eri bello bianco e vermiglio.."). La canzone prende di mira lo sfrenato capitalismo moderno paragonandolo appunto ai sistemi ottocenteschi. I toni farseschi sono rivolti sia verso il borghese rappresentato come colui che sa far tutto e dunque non sa proprio far nulla ("Figlio bello e audace/bronzo di Versace/figlio sempre più capace/di giocare in borsa/di stuprare in corsa e tu.."), sia ai consumatori pronti a farsi abbindolare da qualsiasi nuova trovata pubblicitaria, anche assurda ("..e quante belle triglie nel mar").
Lato B
Cantato interamente in varie lingue (due brani in genovese, uno in napoletano e uno in dialetto gallurese) è un po' la continuazione del viaggio etnico di riscoperta di un'identità culturale cominciato con Crêuza de mä.
Mégu megún
« E mi e mi e mi / e anâ e anâ / e a l'âia sciortî / e sûa sûa / e o cheu o cheu o cheu / da rebelâ / finn-a pigiâ, pigiâ / o tren o tren »
Brano in lingua genovese scritto con Ivano Fossati. La traduzione in italiano del titolo è "medico medicone". Il brano consiste nella lunga lamentela di un ammalato immaginario contro il suo medico, colpevole di volerlo far alzare dal letto. A spaventare il povero ipocondriaco è il contatto con la gente, la gente che fa domande, la gente sporca, la gente pronta a rubare i soldi con qualche stratagemma, la gente che, naturalmente, attacca le malattie, la gente che ti può far innamorare. Il tono è cupo: addirittura in un passaggio della canzone si riproduce il respiro affannoso del malato. Alla fine il paziente deciderà che per lui è meglio non uscire, e resterà, come un Oblomov, prigioniero del suo letto, intento a sognare.
La nova gelosia
Adattamento di una canzone napoletana del XVIII secolo, di autore ignoto. La gelosia sarebbe il serramento della finestra, la persiana nuova che impedisce all'amato di guardare la sua bella. « Fenesta co' 'sta nova gelosia [...] tu m'annasconne Nennella bella mia lassamela vedé sinnò me moro. »
De André aveva scelto di includerla nell'album in preparazione dopo averla ascoltata in un'interpretazione di Roberto Murolo che lo aveva affascinato.
A çimma
Vero capolavoro in lingua genovese di Fabrizio De André, scritto con Ivano Fossati. Il brano descrive poeticamente la preparazione di un tipico piatto ligure per un lauto pranzo, la cima alla genovese, incentrandosi però sull'aspetto rituale del fatto. Secondo De André, quando si prepara la cima, si mette una scopa di saggina in un angolo: se dalla cappa sbucasse la strega che maledice il cibo, essa dovrebbe contare le paglie della scopa, e nel tempo di fare questo la cima sarebbe già pronta. Poi la cima viene “battezzata” nelle erbe aromatiche, punzecchiata e servita. Sono gli scapoli a dover tagliare la prima fetta.
(LIJ) « Çê serèn, tæra scùa carne tennia no fâte neigra no tornâ dùa Bell’oëgê straponta de tutto bon primma de battezâla 'nto preboggion con doi agoggioin drïto in ponta de pê da sorvia in zù fïto ti â ponziggiæ » (IT) « Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non farti dura Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio prima di battezzarla nelle erbe aromatiche con due grossi aghi dritto in punta di piedi da sopra a sotto svelto la pungerai »
Monti di Mola
Nuovo omaggio di De André alla sua amata terra d'adozione, la Sardegna; "Monti di Mola" è infatti la denominazione in dialetto gallurese della Costa Smeralda. In tale lingua è cantato tutto il brano, che narra teneramente un amore insano e impossibile tra un giovane uomo e un'asina, che si incontrano appunto in tale zona. Il matrimonio tra i due è irrealizzabile, ma secondo De André il motivo di questo non è tanto la differenza di specie, quanto un problema "burocratico":
(SDN) « Ma a cuiuassi no riscisini l'aina e l'omu ché da li documenti escisini fratili in primu » (IT) « Ma non riuscirono a sposarsi l'asina e l'uomo perché dai documenti risultarono cugini primi »
Partecipa all'incisione del brano il gruppo sardo dei Tazenda, che effettua il controcanto nei ritornelli.
Tracce
Le nuvole (Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 2:16 Ottocento (Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 4:56 Don Raffaè (Fabrizio De André/Massimo Bubola - Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 4:08 La domenica delle salme (Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 7:35 Mégu megún (Fabrizio De André/Ivano Fossati - Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 5:22 La nova gelosia (Anonimo napoletano, XVIII secolo) - 3:04 'Â çímma (Fabrizio De André/Ivano Fossati - Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 6:18 Monti di Mola (Fabrizio De André/Mauro Pagani) - 7:45 Gli intermezzi prima e dopo Don Raffae' sono tratti da Le stagioni di P. I. Čajkovskij (Giugno opera 37b) ed eseguiti da Andrea Carcano.
Video
Le nuvole
Vanno vengono ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo sembra che ti guardano con malocchio Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell'airone o della pecora o di qualche altra bestia ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri Certe volte ti avvisano con rumore prima di arrivare e la terra si trema e gli animali si stanno zitti certe volte ti avvisano con rumore Vanno vengono ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai Vanno vengono per una vera mille sono finte e si mettono li tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.
Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino dalla bottiglia di orzata dove galleggiava Milano non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina la sua anima accesa mandava luce di lampadina gli incendiarono il letto sulla strada di Trento riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento. I polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est chi si convertiva nel novanta era dispensato nel novantuno la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutto il culo la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista. La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava le strade. La domenica delle salme si portò via tutti i pensieri e le regine del tua culpa affollarono i parrucchieri. Nell'assolata galera patria il secondo secondino disse a "Baffi di Sego" che era il primo si può fare domani sul far del mattino e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro d annunciare l'amputazione della gamba di Renato Curcio il carbonaro il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni - voglio vivere in una città dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo - a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile. La domenica delle salme nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale la domenica delle salme si sentiva cantare - quant'è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare -. Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare per una mezz'oretta poi ci mandarono a cagare -voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio con i pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti per l'Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avevate voci potenti lingue allenate a battere il tamburo voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo - La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia la domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c'erano segni di una pace terrificante mentre il cuore d'Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta.
Video
Mégu megún
E mi e mi e mi anà anà e a l'aia sciurtì a suà suà e ou coèu ou coèu ou coèu da rebellà fin a piggià piggià ou trèn ou trèn E 'nta galleria gentè 'a l'intra au scùu sciòrte amarutia loèugu de 'n spesià e 'ntu strèitu t'aguèitan te dumàndan chi t'è e 'nte l'àtra stànsia è bagàsce a dà ou menù e ti cu'na quàe che nu ti voèu a tià a bibbia 'nta miàgia serrà a ciàve ànche ou barcùn e arensenite sùrvia ou coèu Uh mègu mègu mègu mè megùn Uh chin-a chin-a zù da ou caregùn 'Na carèga dùa nèsciu de ' n turtà 'na fainà ch'a sùa e a ghe manca'a sa tùtti sùssa rèsca da ou xàtta in zù se ti gii 'a tèsta ti te vèddi ou cù e a stà foèa gh'è ou repentin ch'a te tùcche 'na pasciùn pe 'na faccia da madònna ch'a te sposta ou ghirindùn ùn amù mai in esclusiva sempre cun quarcòsa da pagà na scignurin-a che sùttu à cùa a gh'a ou gàrbu da scignùa Uh mègu mègu mègu mè megùn Uh chin-a chin-a zù da ou caregùn Uh che belin de 'n nolu che ti me faièsci fa Uh ch'a sùn de piggià de l'aia se va a l'uspià E mi e mi e mi nu anà nu anà stà chi stà chi stà chi durmì durmì E mi e mi e mi nu anà nu anà stà chi stà chi stà chi asùnàme.
Monti di Mola In li Monti di Mola la manzana un'aina musteddina era pascendi Sui Monti di Mola la mattina presto un'asina dal mantello chiaro stava pascolando in li Monti di Mola la manzana un cioano vantarricciu e moru era sfraschendi sui Monti di Mola la mattina presto un giovane bruno e aitante stava tagliando rami e l'occhi s'intuppesini cilchendi ea ea ea ea e l'ea sguttesida li muccichili cù li bae ae ae e gli occhi si incontrarono mentre cercavano acqua e l'acqua sgocciolò dai musi insieme alle bave e l'occhi la burricca aia di lu mare e l'asina aveva gli occhi color del mare e a iddu da le tive escia lu Maestrale e a lui dalle narici usciva il Maestrale e idda si tunchià abbeddulata ea ea ea ea e lei ragliava incantata ea ea ea ea iddu le rispundia linghitontu ae ae ae ae lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae - Oh bedda mea l'aina luna la bedda mea capitale di lana Oh bella mia l'asina luna la bella mia cuscino di lana oh bedda mea bianca foltuna - O bella mia bianca fortuna- - Oh beddu meu l'occhi mi bruxi lu beddu meu carrasciale di baxi O bello mio mi bruci gli occhi il mio bello carnevale di baci lu beddu meu lu core mi cuxi - oh bello mio mi cuci il cuore - Amori mannu di prima 'olta l'aba si suggi tuttu lu meli di chista multa Amore grande di prima volta l'ape ci succhia tutto il miele di questo mirto Amori steddu di tutte l'ore di petralana lu battadolu di chistu core amore bambino di tutte le ore di muschio il battacchio di questo cuore Ma nudda si po' fa nudda in Gaddura che no lu ènini a sapi int'un'ora Ma nulla si può fare nulla in Gallura che non lo vengono a sapere in un'ora e 'nfattu una 'ecchia infrasconata fea ea ea ea piagnendi e figgiulendi si dicia cù li bae ae ae e sul posto una brutta vecchia nascosta tra le frasche piangendo e guardando diceva fra sé con le bave alla bocca -Beata idda uai che bedd'omu beata idda cioanu e moru beata idda Beata lei mamma mia che bell'uomo beata lei giovane e bruno beata lei sola mi moru beata idda ià ma l'ammentu beata idda più d'una 'olta beata idda 'ezzaia tolta - io muoio sola beata lei me lo ricordo bene beata lei più d'una volta beata lei vecchiaia storta - Amori mannu di prima 'olta l'aba si suggi tuttu lu meli di chista multa Amore grande di prima volta l'ape ci succhia tutto il miele di questo mirto Amori steddu di tutte l'ore di petralana lu battadolu di chistu core amore bambino di tutte le ore di muschio il battacchio di questo cuore E lu paese intreu s'agghindesi pa' lu coiu lu parracu mattessi intresi in lu soiu Il paese intero si agghindò per il matrimonio lo stesso parroco entrò nel suo vestito ma a cuiuassi no riscisini l'aina e l'omu chè da li documenti escisini fratili in primu ma non riuscirono a sposarsi l'asina e l'uomo perché ai documenti risultarono cugini primi e idda si tunchià abbeddulata ea ea ea ea iddu le rispundia linghitontu ae ae ae ae. e lei ragliava incantata ea ea ea ea lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae.
Anime salve, è il tredicesimo e ultimo album registrato in studio dal cantautore genovese Fabrizio De André, pubblicato il 19 settembre 1996 dalla BMG Ricordi. L'album ha ottenuto un riscontro molto positivo sia da parte dalla critica musicale, che gli ha assegnato la Targa Tenco 1997, sia dal punto di vista commerciale, debuttando direttamente al primo posto della classifica FIMI e raggiungendo in seguito la certificazione di triplo disco di platino in Italia.
Il disco
Frutto di un lavoro a quattro mani di De André con il collega e concittadino Ivano Fossati, che era già stato suo collaboratore episodico in passato, Anime salve è considerato da molti il testamento non solo musicale di Fabrizio De André, ma anche spirituale, soprattutto per la presenza del brano di chiusura dell'opera, Smisurata preghiera. Attraverso i brani del disco, il cantautore intraprende un percorso ideale nell'anima del mondo degli umili, dei reietti e dei dimenticati, sempre molto caro al cantautore. Il tema prevalente è la solitudine in tutte le sue forme: quella della transessuale, del Rom, dell'innamorato, del misero pescatore di acciughe, anche (in positivo) quella scelta come condizione ideale. Lo stesso titolo dell'album deriva dall'etimologia delle parole "Anime" e "Salve", e sta a significare "spiriti solitari". L'intero disco può essere considerato un "elogio della solitudine", che permette di essere liberi e non condizionati dalla società come spiegato dallo stesso De André durante un live poi pubblicato nell'album Ed avevamo gli occhi troppo belli: « [Anime salve] trae il suo significato dall'origine, dall'etimologia delle due parole "anime" "salve", vuol dire spiriti solitari. È una specie di elogio della solitudine. Si sa, non tutti se la possono permettere: non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico: il politico solitario è un politico fottuto di solito. Però, sostanzialmente quando si può rimanere soli con sé stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l'universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.
Con questo non voglio fare nessun panegirico né dell'anacoretismo né dell'eremitaggio, non è che si debba fare gli eremiti, o gli anacoreti; è che ho constatato attraverso la mia esperienza di vita, ed è stata una vita (non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta d'identità), credo di averla vissuta; mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l'uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura. »
(Fabrizio De André, Elogio della solitudine, tratto da Ed avevamo gli occhi troppo belli) Lo stesso De André, nel corso del concerto tenuto al Teatro Brancaccio di Roma nel 1998, definirà Anime salve un «discorso sulla libertà». Le canzoni dell'album, arrangiate da Piero Milesi, sono caratterizzata da una ricerca sonora indirizzata verso ritmi e temi tipici della cultura musicale sudamericana, cari a Fossati ma che hanno appassionato anche De André stesso fin da giovane, e verso il tropicalismo di Caetano Veloso, ma vi sono anche chiari riferimenti alle atmosfere balcaniche e mediterranee. Due dei brani del disco, Prinçesa e Smisurata preghiera, hanno inoltre una precisa matrice letteraria per i rispettivi testi. Anche in quest'ultimo disco De André fa uso di dialetti ed altre lingue: i cori di Prinçesa sono in portoghese del Brasile, i cori di Dolcenera e l'intero testo di  cúmba sono in genovese, il finale di Khorakhané è in lingua rom, mentre il titolo della sesta canzone, Disamistade, è un termine sardo dalla forte connotazione sociale. L'apparente incongruenza dell'opera è dovuta alla disputa, avvenuta nei due anni passati in sala di registrazione, tra la "corrente paganiana" che prediligeva ritmi e sonorità mediterranee (sulla scorta di Crêuza de mä) e la "corrente fossatiana" che intendeva realizzare un unicum musicale sudamericano. Dopo innumerevoli facimenti e rifacimenti, De André ha poi optato per una miscellanea delle contrastanti posizioni. Per fare questo si è rivolto a Piero Milesi, che aveva avuto modo di conoscere bene durante la realizzazione del precedente album Le nuvole[senza fonte] . Nei crediti compare anche una dedica al percussionista Naco, al secolo Giuseppe Bonaccorso, scomparso pochi mesi prima della pubblicazione del disco, per un incidente stradale. Naco è presente in tutti i brani dell'album, contribuendo non poco alle sonorità con un gran numero di strumenti anche non canonici.
Tracce
CD (TCDMRL 392352) Testi e musiche di Fabrizio De André e Ivano Fossati. Prinçesa – 4:52 Khorakhané (A forza di essere vento) – 5:32 Anime salve – 5:52 Dolcenera – 4:59 Le acciughe fanno il pallone – 4:47 Disamistade – 5:13 Â cúmba – 4:03 Ho visto Nina volare – 3:58 Smisurata preghiera – 7:08
Le canzoni
Prinçesa
Il primo brano del disco trae spunto dall'omonimo libro autobiografico di Fernanda Farias De Albuquerque[senza fonte], scritto con l'ex brigatista romano Maurizio Iannelli, in cui viene narrata la storia della transessuale brasiliana Fernandinho, nata maschio, che abbandona l'infanzia contadina per seguire il suo desiderio di femminilità, trasferendosi in città per operarsi e quindi correggere chirurgicamente quello che considera un errore della natura, diventare finalmente donna e, citando il testo della canzone, correre "all'incanto dei desideri".
Khorakhané "A forza di essere vento"
Ballata incentrata sullo stile di vita e l'assoluta libertà del popolo Rom (la parola "Khorakhané" indica appunto una tribù orientale d'origine Rom). I Rom vengono qui dipinti come un popolo senza una vera casa e per questo totalmente liberi e privi di condizionamenti economico-sociali. Da qui la metafora, il senso del pezzo: la vita è come il viaggio di uno zingaro, che parte senza sapere la meta e senza soprattutto-curarsi di questa, perché il fine diventa solo un interessante particolare, non lo scopo dell'esistenza umana ("per la stessa ragione del viaggio, viaggiare")[senza fonte]. Nel corso del citato concerto al Teatro Brancaccio, Fabrizio De André aveva dichiarato a proposito dei Rom: «Sarebbe un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2000 anni». Il testo in coda a questo brano, alla cui stesura aveva collaborato appunto un amico rom di De André[senza fonte], è in romaní, lingua madre del popolo nomade qui protagonista. Nel disco questo finale è cantato da Dori Ghezzi; nelle riprese del pezzo dal vivo, è invece interpretato dalla figlia di De André, Luvi.
Anime salve
Il pezzo, che dà il titolo al disco, è cantato in duetto con Ivano Fossati, che presta la sua voce anche in  cúmba. Il testo è incentrato sulla solitudine, sui citati "spiriti solitari": la loro salvezza deriva forse proprio da questo essere diversi, solitari per scelta, liberi. Secondo un dato fornito dalla raccolta In direzione ostinata e contraria, il pezzo sarebbe dedicato alla memoria del bassista Stefano Cerri, circostanza però del tutto inverosimile essendo Cerri scomparso nel novembre 2000, cioè quattro anni dopo l'uscita dell'album e quasi due dopo la morte di De André.
Dolcenera
Durante un concerto a Treviglio, il 24 marzo 1997, De André affermò: « Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell'innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l'oggetto del desiderio. È una storia parallela: da una parte c'è l'alluvione che ha sommerso Genova nel '70, dall'altra c'è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l'assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l'amore, ma lei è con l'acqua alla gola. Questo tipo di sogno, purtroppo, è molto simile a quello del tiranno, che cerca di rimuovere ogni ostacolo che si oppone all'esercizio del proprio potere assoluto. » La canzone ha una musica profonda, un linguaggio ricco di rime e di assonanze e un ritmo ondeggiante e sinuoso. Inoltre una parte della canzone è stata scelta come sigla del programma di Rai Tre Che tempo che fa.
Le acciughe fanno il pallone
La spiegazione del titolo viene fornita direttamente dalle note del CD «Le acciughe fanno il pallone: così si usa dire in Liguria quando in autunno le acciughe inseguite dal grande pesce azzurro (l'alalunga) scappano verso la superficie. Nelle giornate senza vento si possono vedere dalla riva saltare a migliaia fuori dall'acqua a formare scintillanti semisfere.»[senza fonte].
Disamistade
"Disamistade" in sardo significa "inimicizia" e, per estensione, faida, lotta. Il brano racconta appunto il conflitto tra due famiglie probabilmente per motivi d'onore e promesse non mantenute ed è uno spaccato delle classiche "guerre" e inimicizie tra famiglie che spesso si potevano vivere soprattutto nella zone centro-meridionali italiane e in Sardegna fino a qualche decennio fa, dovute soprattutto ad un fortissimo senso dell'onore, dell'orgoglio e a una sorta di obbedienza a un codice non scritto (vedi Codice barbaricino) che imponeva come unica soluzione a un torto subìto o a un delitto, il diritto alla vendetta. Disamistade è anche il titolo dell'omonimo film del 1988 di Gianfranco Cabiddu, ambientato nella Sardegna del 1950, e che tratta appunto della vendetta sarda.
 cúmba
Il titolo tradotto è "La colomba". Nel pezzo il volatile è, metaforicamente, la ragazza che vola via dalla casa dei genitori per sposarsi e cambiare "nido", cioè abitazione. Il testo, interamente in lingua genovese, è incentrato sull'operazione di convincimento che il pretendente fa verso il padre della ragazza per convincerlo a cedergli la figlia in sposa. Il ragazzo promette di trattarla con rispetto e riverenza e riesce a convincere con buone parole il padre della ragazza, ma nel finale di canzone De André ribalta tutto e mostra la realtà proponendo l'immagine della ragazza a casa trascurata e del marito in giro a divertirsi.
Ho visto Nina volare
Lo spunto di questa canzone dovrebbe essere stato il primo amore d'infanzia di De André. Descrive la solitudine del ragazzo che deve disobbedire al padre, non trovando il coraggio di informarlo del suo amore per Nina, e se lo sapesse lui sarà costretto a scappare di casa, e cercare una nuova vita lontano. L'ombra è il rimorso del protagonista che si ribella all'autorità paterna, ma lui è ben pronto a cacciarlo, con il coltello (cioè con la violenza), e con la maschera di gelso, che vuol dire nascondersi. Elementi presenti nella canzone sono l'altalena su cui giocavano, il cortile della cascina e l'arnia («mastica e sputa, da una parte il miele, mastica e sputa, dall'altra la cera»). Ivano Fossati riferirà in seguito, in un'intervista, che il "masticare e sputare da una parte il miele e dall'altra la cera" è un'antichissima pratica osservata con stupore da De André e dallo stesso Fossati mentre veniva effettuata da alcune anziane contadine nel materano, in Basilicata. È un ricordo di De André bambino, quando con i loro genitori nei weekend andavano nella loro casa di campagna nell'Astigiano, Nina (veramente esistita e tuttora viva) era una bambina del posto che nei pomeriggi estivi era la compagna di giochi del futuro cantautore, il quale non raramente si fermava a vederla andare sull'altalena; da qui il titolo del brano. Smisurata preghiera
È tratta dal libro di poesie Saga di Maqroll - Il gabbiere di Álvaro Mutis (divenuto poi amico di De André) che racconta di un marinaio errante e delle sue considerazioni sui temi fondamentali della vita (il quale, al contrario della canzone in questione, prega: "Ricorda Signore che il tuo servo ha osservato pazientemente le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto"). Considerata, anche dal suo autore, l'epitome dell'intero disco e dei suoi temi, è una sorta di richiesta, da parte di quegli uomini che per la libertà hanno scelto la solitudine e per questo sono stati emarginati dalla maggioranza, di un riscatto impossibile, smisurato. Lo stesso De André afferma, durante un concerto: « L'ultima canzone dell'album è una specie di riassunto dell'album stesso: è una preghiera, una sorta di invocazione... un'invocazione ad un'entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l'invocazione è perché si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze. Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi... dire "Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni..." e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze. La preghiera, l'invocazione, si chiama "smisurata" proprio perché fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso. »
Smisurata preghiera potrebbe essere considerata quasi il sunto dell'intera opera di Fabrizio De André, il suo messaggio "definitivo". È un atto d'amore per le minoranze, «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione» contro una maggioranza incline a coltivare le sue meschinità. In questa canzone, di riuscitissima forza poetica, c'è in effetti tutto De André: quello che insegue la libertà «tra i vomiti dei respinti» con un titanismo che ricorda quello di Leopardi ne La Ginestra. C'è il De André che si rivolge al divino per invocare, con profonda umanità, la salvezza degli emarginati che «dopo tanto sbandare è appena giusto che Fortuna li aiuti come una svista, come un'anomalia, come una distrazione, come un dovere». Il pezzo si chiude con una coda orchestrale di oltre due minuti, eseguita da tastiere e organetto diatonico (suonato da Riccardo Tesi). « ..Smisurata preghiera è l'epitome del disco, la summa dei tracciati che lo percorrono. Ed è ancora un affresco sulle minoranze, sulla necessità di difendersi da parte di chi non accetta "le leggi del branco", su coloro insomma che devono pagare per difendere la propria dignità: gli unici che attraversando l'emarginazione e la solitudine riescono ancora a "consegnare alla morte una goccia di splendore". La musica » (Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, p. 77) « ..Smisurata preghiera [...] è una specie di salmo di invocazione e di imprecazione sulle minoranze. Ed è costruita a partire da testi di Alvaro Mutis, che in un'intervista televisiva ha dichiarato che occorre un talento straordinario per sintetizzare un'intera opera in una sola canzone. » (Alessandro Gennari, in Le mie note a margine (intervista a F. De André) « ... La canzone è tratta da un romanzo di Alvaro Mutis, che io purtroppo non conosco, ma so per esperienza come Fabrizio riesce a "migliorare", a elaborare i testi scelti come riesce a caricarli di significati un po' misteriosi, sempre legati alla sua antica polemica sociale, al suo problema morale. Qui la polemica è tra il suo eterno nemico, "la maggioranza", e i "disobbedienti alle leggi del branco", per i quali invoca l'attenzione del Signore. Il dolce menestrello della nostra adolescenza, che ci ha insegnato a scoprire la differenza tra la vita e la morte, e ora a respingere "lo scandalo metallico" delle armi, nella forza della sua maturità ci offre un blueprint di saggezza nell'indipendenza, nella "direzione contraria". »
(Fernanda Pivano, in occasione del "Premio Lunezia" 1997)
Premi e riconoscimenti
Targa Tenco 1997 per il Miglior Album Targa Tenco 1997 per la Miglior Canzone (Prinçesa ) Premio Italiano della Musica 1997 per il Miglior Album