FIABE DI Gianni Rodari

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    Pesa-di-più e Pesa-di-meno




    Una mattina il Re di quel Regno si svegliò con una gran voglia di andare a caccia.
    - Ho sognato dei cervi – disse al suo ministro – e venivano a mangiarmi nella mano. Buon sogno.Buon segno. Date l’ordine nelle stalle che si selli il mio Morello.

    Lo stalliere incaricato di accudire a Morello era Gelindo, un giovane diligente e laborioso che teneva il cavallo pulito e senza un insetto dalla criniera alla coda. Ma quando Gelindo, quella mattina, andò a sellarlo, morello era scomparso. Chiama di qua, chiama di là, non ci fu verso di trovarlo. Qualcuna l’aveva sentito nitrire, verso mezzanotte. A qualcuno era parso di aver udito sbattere una porta.
    - Debbono averlo rubato
    - E adesso, chi lo dice al Re?

    Il Re si infuriò terribilmente e ordinò di mettere Gelindo ai ferri per tre giorni; il quarto giorno, se non si ritrovava morello, Gelindo doveva morire.
    Il ministro ridiscese nelle stalle per far imprigionare Gelindo, ma lo stalliere era scomparso anche lui.
    - Qualcuno la deve pagare, - decise il ministro – Metterò in prigione il capostalliere e la sorte di Gelindo sarà la sua.

    Gelindo si era nascosto in città, da un oste suo amico, temendo la collera del Re. Quando seppe che un altro era in pericolo di morte per colpa sua, avrebbe voluto correre a costituirsi, la l’oste lo dissuase:
    - Piuttosto – gli disse, - va alla ricerca del cavallo. Se o troverai, salverai la vita del capostalliere e anche la tua.
    - Ma dove cercarlo?
    - Mia moglie ha sognato che un cavaliere usciva al galoppo dalla porta d’Oriente.

    Camminò tutta la mattina. Verso mezzogiorno si sedette all’ombra di una quercia per fare colazione. Ed ecco si sentì chiamare da una voce che diceva: - Tirami furori! Tirami Fuori!
    Si guardò in giro e vide una buca. Dentro la buca stava un ometto alto un mezzo metro, secco come uno stecco, dall’aria imbronciata.
    - Che fai lì dentro?
    - Do la caccia alle talpe! Tirami fuori e ti dirò ogni cosa.



    Gelindo gli tese una mano, ma per tirarlo fuori dovette tendergli anche l’altra e far forza sulle ginocchia.
    - Ma lo sai che sei pesante?
    - Per forza, lo so. Mi ero addormentato qui all’ombra e il mio peso ha scavato questa buca.
    - Come ti chiami?
    - Pesa-di-più.
    - E’ proprio il nome che fa per te. A vederti, non peseresti di un uccellino.
    - E tu chi sei?
    - Sono Gelindo, così e così, sono in giro per questo e per quello.
    - Verrò con te, tanto non ho niente da fare

    Gelindo e Pesa-di più camminarono tutto il pomeriggio e verso il tramonto si sedettero all’ombra di un fico per far merenda. Mentre mangiavano, udirono una voce che implorava:
    - Tiratemi giù! Tiratemi giù!
    - Dove sei?
    - Qui sul fico

    Alzarono gli occhi e videro una specie di gigante, grasso come due botti, appollaiato su un ramo dell’albero. Era il ramo più sottile, ma sosteneva quell’omaccione senza nemmeno piegarsi di tanto così.
    - Perché non salti giù da solo?
    - Perché sono troppo leggero. Mi ero addormentato all’ombra del fico e l’aria mi ha spinto in alto.
    - Come ti chiami?
    - Pesa-di-meno

    Lo tirarono giù dal fico e divisero con lui il pane e il vino
    - Dove siete diretti?
    - Così e così, - gli raccontarono tutta la storia.
    - Verrò con voi, tanto non ho niente da fare.

    Si rimisero in cammino tutti e tre: Pesa-di più e Pesa di meno si tenevano per mano, così il primo era sicuro di non sprofondare e il secondo di non volare via
    Al calar della notte giunsero davanti a un castello tutto nero senza finestre.
    - Non ha un bell’aspetto, - disse Gelindo – ma è troppo tardi per andare a cercare un albergo.
    Ci faremo dare da dormire qui.

    Mentre si avvicinavano per chiamare il portinaio, il ponte levatoio cominciò a salire cigolando.
    - Ci vogliono lasciar fuori, - disse Gelindo – pensateci un po’ voi

    Pesa-di-meno spiccò un salto e acchiappò l’ultima trave del ponte: Pesa-di-più si attaccò ai piedi di Pesa-di-meno e col suo peso lo fece ridiscendere. Passarono tutti e tre sul ponte levatoio, mentre una voce sgarbata li insolentiva:
    - Pitocchi! Pezzenti! Siete in cerca di guai? Andate a dormire nel letamaio.

    Sulla porta del castello stava un’alta figura vestita di nero, con un berretto a punta ornato di strani segni.
    - Sta attento, -bisbigliò Pesa-di meno a Gelindo, - dev’essere un mago.



    Ma Gelindo tendeva l’orecchio, col cuore in gola: gli era parso di sentire un nitrito, lontano, lontano; gli era parso di riconoscere la voce di Morello. Finse di nulla e salutò gentilmente il castellano, inchinandosi fino a terrà.
    - Siamo tre poveri viandanti, vi domandiamo soltanto un piatto di minestra e un pagliericcio
    - Mi avete scambiato per un albergatore? Sono Mago Magone, per vostra norma, e da me non ci sono pagliericci,
    ma solo materassi di lana.

    Il Mago li accompagnò in cucina e offrì loro, brontolando, gli avanzi di una zuppa di cipolle. Poi li accompagnò in cima ad una torre, mostrò loro i letti e se ne andò chiudendo la porta con tre chiavi.
    I tre amici si sdraiarono per dormire. Pesa-di meno si legò una mano al letto per non volar via, Pesa-di-più si legò una mano al soffitto per non sprofondare. Dopo un minuto russavano tutti e due. Ma Gelindo vegliava e tendeva l’orecchio. Nel cuore della notte udì nuovamente il lontano nitrito e capì che veniva dal sotterraneo. “E’ Morello senza dubbio. Come fare per liberarlo?”. Passò tutta la notte a pensare, ma non riusciva a immaginare il modo di costringere il Mago a rendere il cavallo. La mattina Mago Magone li svegliò per tempo.
    - Alzatevi, - ordinò – e andatevene per i fatti vostri, perché ho da fare:
    - Qualche incantesimo? –si informò Gelindo - Vossignoria dev’essere un Mago dei più potenti.
    - Puoi ben dirlo, - ridacchiò Magone, rabbonito dal complimento. – Chi altro avrebbe risaputo riconoscere in un cavallo qualunque, chiuso in una stalla reale, la stoffa del cavallo volante?
    - Che bellezza, - disse Gelindo, - così ora Morello volerà….
    - Volerà, volerà, - rispose il Mago, - l’operazione è quasi finita. Debbo solo strappagli un pelo dalla criniera e uno dalla coda…Ma tu…Come sai di Morello? Chi sei? Chi siete voi tre? Ora capisco, siete entrati a tradimento nel mio castello per derubarmi! Bene, bene. Ora vi accomodo io.
    E già stava per pronunciare contro di loro chissà quale incantesimo, quanto Pesa-di-più gli saltò su un piede con tutto il suo peso, strappandogli un grido di dolore.
    - Ho capito, - disse il Mago, - volete lottare. In questo caso lotteremo.
    - Una sfida leale? – domando Gelindo.
    - Una sfida leale. Chi vincerà, si prenderà Morello.

    Scesero nel salone del Mago, chiamato un servo, si fece portare una bilancia.
    - Faremo a chi pesa di più – annunciò con un sogghigno.
    - D’accordo, - disse Gelindo. – Scegliete pure tra noi tre il vostro avversario.

    Il Mago guardò Gelindo, guardò il gigante che stava alla sua sinistra, guardò il nanerottolo che stava alla sua destra.
    - Scelgo quello, - disse, indicando il piccolo Pesa-di-più.

    Gelindo si inchinò. Il Mago salì sulla bilancia, bisbigliò un incantesimo e il servo cominciò a mettere pesi sull’altro piatto. Un quintale, due quintali, tre quintali.. Quando fu dieci quintali, il Mago saltò giù dalla bilancia e scoppiò a ridere.
    - Vediamo quello che sapete fare voi.

    Pesa-di-più. Senza neanche guardare la bilancia, vi posò sopra un piede solo. Un quintale, due quintali, dieci quintali…quando fu a quindici quintali tolse il piede dalla bilancia e si soffiò il naso.
    Mago Magone sprizzava scintille dagli occhi.
    - Avete vinto la prima prova, - disse, - vedremo che cosa saprete fare nella seconda. Ora faremo a chi pesa di meno.

    Fece portare un’altra bilancia. Su un piatto posò un piuma, sull’altro si sdraiò egli stesso: la piuma risultò più pesante.
    - Ora tocca a te, - disse il Mago, indicando il grassone.

    Stavolta era sicuro di farcela. Ma pesa-di-meno prese la piuma, la tagliò in dieci pezzi, ne buttò via nove e posò sulla bilancia soltanto il decimo. Poi saltò sull’altro piatto e quel pezzettino di piuma risultò tanto più pesante di lui che Pesa-di-meno fu sollevato fino al soffitto e si fece bernoccolo sul cucuzzolo. Il Mago che a quel gioco di incantesimi non era mai stato sconfitto, si gettò in ginocchio tremando e domandando pietà.
    - Vi darò metà dei miei tesori, - piangeva
    - Voglio soltanto Morello, - rispondeva Gelindo.
    - Vi darò il mio castello, le mie terre, - offriva il Mago
    - Dammi Morello e me ne andrò contento.
    - Vi darò la mia bacchetta magica.

    Non ci fu niente da fare. Magone dovette consegnare il cavallo e rinunciare alle speranze che aveva fondato su di lui: con un cavallo volante a sua disposizione, sarebbe diventato l’uomo più potente e più ricco del mondo.
    Gelindo e Pesa-di-meno montarono in groppa a Morello: Pesa-di-più si accontentò di trotterellargli dietro la coda e così, passo passo, i tre amici presero la via del ritorno. Nella loro contentezza, avevano dimenticato che, con una piccola operazione avrebbero potuto trasformare Morello, in un cavallo volante.
    Alla Reggia furono accolti con grandi feste. Il Re fece liberare il capostalliere, abbracciò Gelindo che gli disse: - Voglio ricompensarti come meriti. Vedo che hai due amici. Uno di loro è grosso come due botti.
    Ti darò tanto oro quanto pesa. Sei contento?
    - Maestà – disse Gelindo – siete troppo buono con me. Io non ho bisogno di tanto oro. Datemene appena quanto pesa il mio piccolo amico.




    Il Re lo abbracciò di nuovo, perché era piuttosto avaro già gli pareva di aver promesso troppo. Fece portare una bilancia. Pesa-di-più si sedette su un piatto e la gente, al vederlo scoppiò a ridere. Molti dicevano che Gelindo era un povero sciocco, che al posto suo avrebbero saputo approfittare della fortuna molto meglio di lui, eccetera eccetera.
    Ma quando il tesoriere del Re cominciò a mettere l’oro sull’altro piatto della bilancia, la gente scoppiò a ridere di nuovo: però, per tutt’altro motivo. Ci volle metà del tesoro reale, per smuovere appena il piatto di Pesa-di-più. Il Re era diventato pallido e si tirava la barba.
    Finalmente non si tenne – Prendete quei tre imbroglioni – gridò – e buttateli in prigione.
    Gelindo si ricordò proprio in quel momento delle parole del mago. Strappò un pelo alla criniera di Morello, ne strappò un altro dalla coda, balzò su cavallo e via, a volo nel cielo. Pesa-di-meno, lesto lesto gli si attaccò ai piedi per raggiungerlo. Pesa-di-più gli si attacco ai piedi. E la gente rimase lì con un palmo di naso a vedere il cavallo volante che si portava via, ben più in alto dei tetti, Gelindo, Pesa-di-meno, Pesa-di-più e la bilancia carica d’oro.

    (Gianni Rodari)

     
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  2. gheagabry
     
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    Teresìn che non cresceva



    Teresa era tanto minuta e graziosa che pareva un giocattolo e tutti la chiamavano Teresìn. Viveva col babbo, la mamma e la nonna in un paese di montagna. Era sempre contenta. Camminava ballando e parlava cantando.
    - Sei contenta Teresìn?

    Era contenta di stare al mondo.
    Col tempo le nacque un fratellino, che fu chiamato Anselmo, ed era sempre Teresìn che lo portava in braccio a vedere i fiori, a toccare la mucca, che è grossa grossa ma non fa male a nessuno, a cercare l’uovo fresco nel pollaio. Un giorno scoppiò la guerra, il babbo di Teresìn dovette partire soldato e non tornò più. La mamma e la nonna si disperavano, abbracciandosi, e Teresìn domandò:
    - Perché piangete?
    - Povera Teresìn – rispose la nonna – povero Anselmuccio, il vostro papà non tornerà mai più.
    - Ma io non voglio! – gridò Teresìn – Papà è tanto buono e io gli voglio tanto bene. Scriverò al Re che lo faccia tornare, perché io voglio vederlo ancora e che stia sempre con noi.
    - Il Re non può fare più niente per il tuo papà, - disse la nonna.
    - Il Re lo ha mandato in guerra, la guerra è finita e il Re l’ha vinta. Ma noi l’abbiamo perduta, perché il tuo papà è morto.
    - Non è giusto – protesto Teresìn, rossa d’indignazione. – Questo mondo non è giusto, e io non ci voglio stare.
    - Bambina mia – disse la mamma, - quando crescerai, capirai tante cose che adesso non puoi capire.
    - Non voglio capire, non voglio sapere niente, - gridò Teresìn tra i singhiozzi, - anzi non voglio nemmeno crescere. Resterò piccola per sempre.

    E difatti, da quel giorno non crebbe più. Restò com’era, piccola, graziosa e triste. Anselmo le arrivò al cuore, poi alla spalla. Ormai camminava e correva da solo e cresceva ogni giorno un pochino. Ma Teresìn non cresceva più.
    - Non voglio averci a che fare con questo mondo così ingiusto.

    La gente cominciò a chiamarla “Teresìn-che-non-cresce”. Le bambine che erano state piccole con lei erano diventate delle belle ragazze, alte e forti, e cominciavano a cucirsi le lenzuola per quando si sarebbero sposate.
    - Teresìn – le dicevano – se resterai piccola non ti poserai.
    - Non voglio sposarmi
    - Se resterai piccola, i giovanotti non ti faranno la serenata.
    - Non voglio serenate.
    - Non potrai mettere i tacchi alti.
    - Non voglio i tacchi alti, mi piacciono i miei zoccoli.



    Le ragazze ridevano, e Teresìn scappava a nascondersi in fienile. Ci passava le giornate intere a pensare, fin che le veniva il mal di testa. Ma non trovava il motivo di cambiare la sua decisione di restare piccola per sempre. Intanto la mamma, un po’ per il dolore, un po’ per la fatica si ammalò gravemente e dovettero portarla all’ospedale. In casa tutto il lavoro toccava alla nonna, che era già tanto vecchia. Che pena, per Teresìn, vederla andare curva sotto il fascio della legna per il camino.
    - Povera me – diceva la nonna portando l’acqua dalla fontana, - non ce la faccio più con queste secchie. Se almeno tu Teresìn, fossi un po’ più grande mi potresti aiutare.

    Teresìn , di nascosto ci provò a sollevare una secchia piena d’acqua, ma non ci riuscì. Provò a caricarsi sulle spalle una fascina, ma cadde e si sbucciò un ginocchio.
    - Pazienza, - disse allora, - bisognerà che mi rassegni a crescere un pochino. Ma un pochino soltanto, abbastanza per aiutare la nonna. Non un centimetro di più. E poi mi fermerò di nuovo.

    E così fece. Si lasciò crescere una spanna, prese le secchie e andò alla fontana. La nonna, quando la vide tornare con le secchie colme, leggera e svelta come se fosse a mani vuote, le diede un gran bacio.
    -Ti ringrazio Teresìn: sei proprio brava. Vedi un po’ se ti riesce di buttare un po’ di fieno alla mucca. Ogg le braccia mi fanno tanto male e il forcone è tanto pesante.
    Teresìn andò nella stalla, che stava proprio sotto il fienile, e prese il forcone a due mani. Pareva di piombo e Teresìn non riusciva a sollevarlo abbastanza per prendere il fieno nel fienile.
    - Pazienza crescerò ancora un pochino, abbastanza per occuparmi della stalla in vece della nonna, povera vecchi. Ma poi mi fermerò e non crescerò più nemmeno di un centimetro.

    E così fece. Adesso era quasi alta come le sue compagne, ma la gente, per abitudine, la chiamava ancora “Teresin-che-non cresce”. La gente, quando inventa un soprannome, lo dimentica malvolentieri.
    Per quella volta del resto, la gente aveva ragione. Teresin dopo essere cresciuta di due spanne, si era fermata di nuovo, e il soprannome le sta sempre a meraviglia.
    La mamma era ancora all’ospedale, quando la nonna morì. Teresin rimase sola con Anselmo, che adesso faceva la prima elementare. Essa doveva svegliarlo alla mattina, stare attenta che si lavasse le orecchie, preparagli la cartella e la colazione, accompagnarlo a scuola, fare la spesa, cucinare il pranzo, pulir la casa, rifare i letti, badare alla mucca e alle galline, zappare l’orto…Troppe cose, per le sue deboli forze. A metà giornata era già stanca, e aveva davanti a sé ancora parecchie ore di lavoro. Di sera gli occhi le si chiudevano per il sonno, ma doveva ancora lavare i piatti, stirare il grembiule di Anselmo, rammendagli i calzoni.
    - Bisognerà che mi rassegni, decise Teresin, - crescerò un altro pochino, abbastanza per poter aiutare Anselmo fino a che la mamma non torni. Non c’è nessuno a occuparsi di lui, se non ci penso io. E per far da solo è ancora troppo piccolo.

    E così fece. Crebbe un’altra spanna, e i lavori le sembrarono subito leggeri. Qualche volta vedendosi nello specchio dell’armadio quanto si era fatta alta, si rattristava moltissimo, brontolando tra sé:
    - Che bella fermezza di carattere, Teresina! Avevi deciso di restare piccola, ed eccoti lì, a momenti non ci stai più nello specchio

    Subito dopo, però, cacciava il malumore e si rimetteva al lavoro, pensando: - Sono cresciuta, ma non l’ho fatto per me. Non ho niente da rimproverarmi.
    La mamma tornò dall’ospedale completamente guarita. Trovò la casa in ordine, Anselmo senza strappi ai pantaloni. Teresin così cresciuta che non la riconosceva, e fu tanto contenta. Ma Teresin non le permise di muovere un dito: - Resta lì a goderti il sole, - diceva – per fare quel che va fatto, ci son qua io. Rimettiti in forze, e se proprio a far niente ti annoi, vai a fare una bella passeggiata nel bosco. Ma in casa, adesso che di nuovo in tre, il lavoro era cresciuto e Teresin non riusciva a fare tutto.
    - Pazienza – decise – bisogna che cresca ancora un tantino. Non lo faccio per me, lo faccio per aiutare la mamma, perché non si ammali di nuovo.

    E così fece. E ora era alta come le sue compagne: anzi era tra le più alte e belle ragazze del paese. Se fosse cresciuta ancora di un centimetro, la gente le avrebbe subito trovato un altro soprannome: magari “La pertica”, oppure Bastone da fagioli.
    Le sue compagne glielo dicevano ridendo:
    - O “Teresin-che-non-cresce”, adesso devi proprio fermarti. Se cresci ancora diventerai più alta dei giovanotti, e nessuno ti vorrà come moglie.
    - Ne avete delle belle, voi! Io non ci penso nemmeno, ai giovanotti.

    Teresin non pensava ne ai giovanotti ne a se stessa: pensava soltanto, come aveva sempre fatto, ad aiutare chi aveva bisogno di lei. Ora era contenta di essere cresciuta perché poteva aiutare tanta gente. Quando la mamma riprese il governo di casa, e lei fu un po’ più libera. Teresin cominciò a occuparsi di una vecchia vicina, che non aveva nessuno che l’aiutasse. Un po’ alla volta, tutta la gente del paese che aveva bisogno di aiuto imparò a rivolgersi alla Teresin-che-non-cresce. Chi la chiamava per una cosa, chi per un’altra: Teresin, sempre pronta e di buon umore, non diceva mai di no a nessuno.
    Un giorno si seppe che, sulla montagna, si era stabilito un feroce brigante. Fu lui stesso a farlo sapere. Comparve in paese, armato di tutto punto, ordinò che gli fosse consegnato un kilo d’oro e si sedette sui gradini della chiesa ad aspettarlo. – Se mancherà un solo grammo, - minacciava. – brucerò le vostre case ad una ad una. Nessuno aveva il coraggio di affrontarlo. Le donne cominciarono a raccogliere anelli, orecchini, catenine d’oro per mettere insieme il peso giusto. La moglie del droghiere aveva prestato la sua bilancia per pesare l’oro, e si sgolava a spiegare che lei, avendo prestato la sua bilancia, aveva già fatto il suo dovere e si sarebbe tenuta i suoi gioielli.
    Teresin, invece, girava per le case e per i campi a incoraggiare gli uomini – Su! Mettetevi tutti insieme, l’unione fa la forza! Voi siete tanti, e il brigante è uno solo.
    - E’ uno solo ma è armato – rispondevano gli uomini tremando – E’ meglio accontentarlo

    Teresin insisteva, disperata: - Ma siete uomini o pecore? Nessuno le dava retta. Uno dopo l’altro, gli uoini voltavano la faccia per non lasciar vedere che arrossivano di vergogna.
    - Va bene, - disse Teresin – ci penserò io.



    Rientrò i casa e si mise davanti allo specchio. “Voglio crescere ancora, - pensò con tutte le sue forze, voglio diventare gigantesca”. Subito cominciò a crescere. Crebbe fino a che toccò il soffitto con la testa, ma questo, ma non le bastava, e uscì in cortile per poter crescere liberamente. Quando fu alta fino al tetto si fermò, si diede un’occhiata e non fu ancora contenta. - Crescerò fino al camino, - e così fu.
    Adesso era sicura e pronta per quel che voleva fare. Fu una cosa molto semplice. Le bastò arrivare in piazza e mostrarsi al brigante. Il quale, quando si vide venire incontro un gigante, lasciò cadere lo schioppo e se la diede a gambe. Ma Teresin lo raggiunse in quattro salti, lo agguantò per la collottola, lo mise seduto sul campanile e gli ordinò: - Fermo lì, fin che le guardie ti verranno a prendere. Il brigante, per paura di cascare, chiuse gli occhi e tenne il fiato.
    Teresin si guardò in torno, vide la gente uscire correndo dalle case, udì le grida di gioia, gli “evviva” delle donne e dei ragazzi, si voltò e si avviò verso casa. “Stavolta l’ho fatta grossa – pensava – per aiutare gli altri mi sono messa in un bel pasticcio. Una gigantessa! U mostro, sono diventata. Pazienza qualcuno doveva farlo”
    Ma proprio allora successe una cosa straordinaria. A ogni passo, Teresin perdeva un buon pezzo della sua tremenda statura. Un passo dopo l’altro, la gigantessa rimpicciolì, lasciò il posto alla bela Teresin di prima, tanto che essa potè entrare in casa senza battere la testa e potè sedersi a prendere fiato senza schiacciare la seggiola. Era la Teresin di sempre, era una delle più belle e più alte ragazze del villaggio. La gente che accorreva per farle festa non credeva ai suoi occhi.
    - Come ha fatto “Teresin-che-non-cresce?”

    Teresin sorrideva senza rispondere. Era una ragazza troppo semplice per sapere che chi si batte contro l’ingiustizia diventa un gigante, senza cessare di essere una creatura normale. Ma era contenta, e si sentiva in pace col mondo perché aveva potuto fare qualcosa per cancellare un po’ della cattiveria!

    (Gianni Rodari)

     
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    FAVOLE AL TELEFONO



    di Gianni Rodari

    C’era una volta……
    …il ragionier Bianchi di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera, a Est, a Ovest, a Sud, a Nord e in mezzo, vendendo medicinali. La domenica tornava a casa sua, e il lunedì mattina ripartiva. Ma prima che partisse la sua bambina gli diceva: - Mi raccomando, papà: tutte le sere una storia.
    Perché quella bambina non poteva dormire senza una storia, e la mamma, quelle che sapeva, gliele aveva già raccontate tutte anche tre volte. Così ogni sera, dovunque si trovasse, alle nove in punto, il ragionier Bianchi chiamava al telefoo Varese e raccontava una storia alla sua bambina. Qiesto libro contiene le storie del ragionier Bianchi. Vedrete che sono tutte un po’ corte: per forza, il ragioniere pagava il telefono di tasca sua, non poteva mica fare telefonate molto lunghe. Solo qualche volta, se aveva concluso buoni affari, di permetteva qualche “unità “ in più. Mi hanno detto che quando il signor Bianchi chiamava Varese, le signorine del centralino sospendevano tutte le telefonate per ascoltare le sue storia. Sfido: alcune sono proprio belline.



    Il cacciatore sfortunato



    - Prendi il fucile, Giuseppe, prendi il fucile e vai a caccia, - disse una mattina al suo figliolo quella donna. – Domani tua sorella si sposa e vuol mangiare polenta e lepre.

    Giuseppe prese il fucile e andò a caccia. Vide subito una lepre che balzava da una siepe e correva in un campo. Puntò il fucile, prese la mira e premette il grilletto. Ma il fucile disse: PUM!, proprio con voce umana, e invece di sparar fuori una pallottola la fece cadere a terra.
    Giuseppe la raccattò e la guardava meravigliato. Poi osservò attentamente il fucile, e pareva proprio lo stesso di sempre, ma intanto invece di sparare aveva detto: PUM! Con una voce allegra e fresca. Giuseppe scrutò anche dentro la canna, ma com’era possibile, andiamo, che ci fosse nascosto qualcuno? Difatti dentro la canna non c’era niente e nessuno.
    - E' la mamma che vuole la lepre. E’ mia sorella che vuole mangiarla con la polenta…

    In quel momento la lepre di prima ripassò davanti a Giuseppe, ma stavolta aveva n velo bianco in testa, e dei fiori d’arancio sul velo, e teneva gli occhi bassi, e camminava a passetini passettini
    - Toh – disse Giuseppe – anche la lepre va a sposarsi. Pazienza, tirerò a un fagiano

    Un po’ più in là nel bosco, difatti vide un fagiano che passeggiava sul sentiero, per nulla spaventato, come il primo giorno di caccia, quando i fagiani non anno ancora che cosa sia il fucile. Giuseppe prese la mira, tirò e il fucile fece : PAM! Disse PAM! PAM!, due volte, come avrebbe fatto un bambino di legno. La cartuccia cadde in terra e spaventò le formiche rosse, che corsero a rifugiarsi sotto al pino.
    - Ma benone – disse Giuseppe che cominciava ad arrabbiarsi, - la mamma sarà contenta davvero se torno con il carniere vuoto.

    Il fagiano, che a sentire quel PAM PAM, si era tuffatonel folto, ricomparve sul sentiero, e stavolta lo seguivano i suoi piccoli in fila, con una gran voglia di ridere addosso, e dietro tutti camminava la madre fiera e contenta come se le avessero dato il primo premio.
    - Ah tu sei contenta, tu – borbottò Giuseppe – Tu ti sei già sposata da un pezzo. E adesso a che cosa tiro?

    Ricaricò il fucile con gran cura e si guardò intorno. C’era soltanto un merlo su un ramo, e fischiava come per dire: Sparami, sparami!...E Giuseppe sparò. Ma il fucile disse BANG!, come i bambini quando leggono i fumetti. E aggiunse un rumorino che pareva un risatina. Il merlo fischiò più allegramente di prima, come per dire: Hai sparato, hai sentito, hai la barba lunga un dito!
    - Me l’aspettavo – disse Giuseppe – Ma si vede che oggi c’è sciopero dei fucili.
    - Ha fatto una buona caccia, Giuseppe? – gli domandò la mamma al ritorno.
    - Si, mamma. Ho preso tre arrabbiature belle grasse. Chissà come saranno buone con la polenta.



    Il palazzo di gelato




    Una volta, a Bologna, fecero un palazzo di gelato proprio sulla Piazza Maggiore, e i bambini venivano da lontano a dargli una leccatina. Il tetto era di panna montata, il fumo dei comignoli di zucchero filato, i comignoli di frutta candita. Tutto il resto era gelato: le porte di gelato, i muri di gelato, i mobili di gelato.
    Un bambino piccolissimo si era attaccato a un tavolo e gli leccò le zampe una per una, fin che il tavolo gli crollo addosso con tutti i piatti, e i piatti erano di gelato al cioccolato, il più buono.
    Una guardia del Comune, a un certo punto, si accorse che una finestra si scioglieva. I vetri erano di gelato alla fragola, e si squagliavano in rivoletti rosa.
    - Presto – gridò la guardia, - più presto ancora!

    E giù tutti a leccare più presto, per non lasciar andare perduta una sola goccia di quel capolavoro.
    - Una poltrona! – implorava una vecchiettina, che non riusciva a farsi largo tra la folla, - una poltrona per una povera vecchi. Chi me la porta? Coi braccioli, se è possibile.

    Un generoso pompiere corse a prenderle una poltrona di gelato alla crema e pistacchio, e la povera vecchietta, tutta beata, cominciò a leccarla proprio dai braccioli.
    Fu un gran giorno, quello, e per ordine dei dottori nessuno ebbe il mal di pancia.
    Ancora adesso, quando i bambini chiedono un altro gelato, i genitori sospirano: - Eh già, per te ce ne vorrebbe un palazzo intero, come quello di Bologna



    La passeggiata di un distratto



    - Mamma. Vado a fare una passeggiata.
    - Va pure, Giovanni, ma sta attento quando attraversi la strada.
    - Va bene, mamma. Ciao mamma.
    - Sei sempre tanto distratto.
    - Si mamma. Ciao mamma.

    Giovannino esce allegramente e per il primo tratto di strada fa attenzione. Ogni tanto si ferma e si tocca.
    - Ci sono tutto? Si – e ride da solo.

    E’ così contento di stare attento che si mette a saltellare come un passero, ma poi s’incanta a guardare le vetrine, le macchine, le nuvole, e per forza cominciano i guai.
    Un signore, molto gentilmente, lo rimprovera:
    - Ma che distratto che sei. Vedi? Hai già perso una mano.
    - Uh è proprio vero. Ma che distratto, sono

    Si mette a cercare la mano e invece trova una barattolo vuoto. Sarà proprio vuoto? Vediamo. E cosa c’era dentro prima che fosse vuoto? Non sarà mica sempre stato vuoto fin dal primo giorno…
    Giovanni si dimentica di cercare la mano, poi si dimentica anche del barattolo, perché ha visto un cane zoppo, ed ecco per raggiungere il cane zoppo prima che volti l’angolo perde tutto il braccio. Ma non se ne accorge nemmeno, e continua a correre. Una buona donna lo chiama: - Giovanni, Giovanni, il tuo braccio! Macché non sente
    - Pazienza – dice la buona donna – glielo porterò alla sua mamma.

    E va a casa della mamma di Giovanni.
    - Signora, ho qui il braccio del suo figliolo.
    - Oh quel distratto. Io non so più cosa fare e cosa dire.
    - Eh, si sa, i bambini sono tutti così

    Dopo un po’ arriva un’altra brava donna
    - Signora, ho trovato un piede. Non sarà mica del suo Givanni?
    - Ma si che è il suo, lo riconosco dalla scrpa col buco. Oh che figlio distratto mi è toccato. Non so più cosa fare e cosa dire.
    - Eh, si sa, i bambini sono tutti così

    Dopo un altro po’ arriva una vecchietta, poi il garzone del fornaio, poi il tranviere e perfino una maestra in pensione, e tutti portano qualche pezzetto di Giovanni: una gamba, un orecchio, il naso.
    - Ma ci può essere un ragazzo più distratto del mio?
    - Eh, si sa, i bambini sono tutti così

    Finalmente arriva Giovanni, saltellando su una gamba sola, senza più orecchie ne braccia, ma allegro come sempre, allegro come un passero, e la sua mamma scuote la testa, lo rimette a posto e gli da un bacio.
    - Manca niente, mamma? Sono stato bravo, mamma?
    - Si, Giovanni, sei stato proprio bravo

     
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  4. gheagabry
     
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    FAVOLE AL TELEFONO



    di Gianni Rodari


    IL PALAZZO DA ROMPERE


    ill Jon Foster

    Una volta, a Busto Arsizio, la gente era preoccupata perché i bambini rompevano tutto. Non parliamo delle suole delle scarpe, dei pantaloni e delle cartelle scolastiche: rompevano i vetri giocando alla palla, rompevamo i piatti a tavola e i bicchieri al bar, e non rompevano muri solo perché non avevano martelli a disposizione. I genitori non sapevano più cosa fare e cosa dire e si rivolsero al sindaco.
    - Mettiamo una multa? – propose il sindaco.
    - Grazie tante, - esclamarono i genitori, - e poi la paghiamo con i cocci.

    Per fortuna da quelle parti ci sono molti ragionieri. Ce n’è uno ogni tre persone e tutti ragionano benissimo. Meglio di tutti ragionava l ragionier Gamberoni, un vecchio signore che aveva molti nipoti e quindi in fatto di cocci aveva una vasta esperienza. Egli prese carta e matita e fece il conto dei danni che i bambini di Busto Arsizio cagionavano fracassando tanta bella e buona roba a quel modo. Risultò una somma spaventevole: millanta tamanta quattordici trentatré.
    - Con la metà di questa somma – dimostrò il ragionier Gamberoni, - possiamo costruire un palazzo da romper e obbligare i bambini a farlo a pezzi: se non guariscono con questo sistema non guariscono più.

    La proposta fu accettata, il palazzo fu costruito in quattro e quattro otto e due dieci. Era alto 7 piani, aveva 99 stanze, ogni stanza era piena di mobili e ogni mobili zeppo di stoviglie e soprammobili, senza contare gli specchi e i rubinetti. Il giorno dell’inaugurazione a tutti i bambini venne consegnato un martello e a un segnale del sindaco le porte del palazzo da rompere furono spalancate.
    Peccato che la televisione non si arrivata in tempo per trasmettere lo spettacolo. Chi l’ha visto con i suoi occhi e sentite con le sue orecchie assicura che pareva – mai non sia! – lo scoppio della terza guerra mondiale. I bambini passavano di stanza in stanza come l’esercito di Attila e fracassavano a martellate quanto incontravano sul loro cammino. I colpi si udivano in tutta la Lombardia e in mezza Svizzera. Bambini alti come la coda di un gatto si erano attaccati ad armadi grossi come incrociatori e li demolirono scrupolosamente fino a lasciare una montagna di trucioli. Infanti dell’asilo, belli e graziosi nei loro grembiulini rosa e celesti, pestavano diligentemente i servizi da caffè riducendoli in polvere finissima, con la quale si incipriavano il viso. Alla fine del primo giorno non era rimasto un bicchiere sano. Alla fine del secondo giorno scarseggiavano le sedie. Il terzo giorno i bambini affrontarono i muri, cominciando dall’ultimo piano, ma quando furono arrivati al quarto, stanchi morti e coperti di polvere come i soldati di Napoleone nel deserto, piantarono baracca e burattini, tornarono a casa barcollando e andarono a letto senza cena. Ormai si erano davvero sfogati e non provavano più gusto a rompere nulla, di colpo erano diventati delicati e leggeri come le farfalle e avreste potuto farli giocare a calcio su un campo di bicchieri di cristallo che non ne avrebbero scheggiato uno solo.
    Il ragionier Gamberoni fece i conti e dimostrò che la città di Busto Arsizio aveva realizzato un risparmio di due stramilioni e sette centimetri. Quello che restava in piedi da rompere, il Comune lasciò liberi i cittadini del palazzo di farne ciò che volevano. Alloro si videro signori con cartella di cuoio e occhiali a lenti bifocali – magistrati, notai, consiglieri delegati – armarsi di martello e correre a demolire una parete o a smantellare una scala, picchiando con tanto gusto che a ogni colpo si sentivano ringiovanire.
    - Piuttosto che litigare con la moglie, - dicevano allegramente, - piuttosto di spaccare i portacenere e i pianti del servizio buono, regalo della zia Mirina…
    E giù martellate
    Al ragionier Gamberoni, in segno di riconoscenza, la città di Busto Arsizio decretò una medaglia con buco d’argento.

    -------------

    La donnina che contava gli starnuti




    A Gavirate, una volta c’era una donnina che passava le giornate a contare gli starnuti della gente, poi riferiva alle amiche i risultati dei suoi calcoli e tutte insieme ci facevano sopra grandi chiacchiere.
    - Il farmacista ne ha fatti sette, - raccontava la donnina
    - Possibile!
    - Giuro, mi cascasse il naso se non dico la verità, li ha fatti 5 minuti prima di mezzogiorno.

    Chiacchieravano, chiacchieravano e in conclusione dicevano che il farmacista metteva l’acqua nell’olio di ricino.
    - Il parroco ne ha fatti 14, - raccontava la donnina, rossa per l’emozione.
    - Non ti sarai sbagliata?
    - Mi cascasse il naso se ne ha fotto uno di meno
    - Ma dove andranno a finire?

    Chiacchieravano, chiacchieravano e poi in conclusione dicevano che il parroco metteva troppo olio nell’insalata.
    Una volta la donnina e le sue amiche si misero tutte insieme, ed erano più di sette, sotto le finestre del signor Delio a spiare. Ma il signor Delio non starnutiva per nulla, perché non fiutava tabacco e non aveva il raffreddore.
    - Neanche uno starnuto, - disse la donnina. – Qui gatta ci cova. – Sicuro, - dissero le amiche.

    Il Signor Delio le sentì, mise una bella manciata di pepe nello spruzzatore del moschicida e senza farsi scorgere lo soffiò addosso a quelle pettegole, che se ne stavano rimpiattate sotto il davanzale.
    - Etcì - fece la donnina. – Etcì! Etcì! – fecero le amiche. E giù tutte insieme a fare uno starnuto dopo l’altro.
    - Ne ho fatti di più io – disse la donnina
    - Di più noi – dissero le amiche. Si presero per i capelli, se le diedero per diritto e per traverso, si strapparono vestiti e persero un dente ciascuna.

    Dopo quella volta la donnina non parlò più con le sue amiche, comprò un libretto e una matita e andava in giro tutta sola soletta, e per starnuto che sentiva faceva una crocetta. Quando morì trovarono quel libretto pieno di croci e dicevano: - Guardate, deve aver segnato tutte le sue buone azioni. Ma quante ne ha fatte! Se non va in Paradiso lei non ci va proprio nessuno.

     
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  5. gheagabry
     
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    Due bambini, nella pace del cortile, giocavano a inventare una lingua speciale
    per parlare tra loro senza far capire nulla agli altri.
    "Brif, braf" disse il primo. "Braf, brof"- rispose il secondo. E scoppiarono a ridere.
    Su un balcone del primo piano c'era un vecchio buon signore intento a leggere il giornale
    e affacciata alla finestra dirimpetto c'era una vecchia signora nè buona nè cattiva.
    "Come sono sciocchi quei bambini" disse la signora .
    "Io non trovo".
    "Non mi dirà che ha capito quello che hanno detto"
    "E invece ho capito tutto. Il primo ha detto : che bella giornata.
    Il secondo ha risposto : domani sarà ancora più bello."
    La signora arricciò il naso ma stette zitta, perchè i bambini
    avevano ricominciato a parlare nella loro lingua:
    "Maraschi, barabaschi, pippirimoschi"-disse il primo.
    "Bruf" - rispose il secondo.
    E giù di nuovo a ridere tutti e due.
    "Non mi dirà che ha capito anche adesso" - esclamò la vecchia signora.
    "E invece ho capito tutto"- rispose sorridendo il vecchio signore.
    "Il primo ha detto : come siamo contenti di essere al mondo.
    E il secondo ha risposto : il mondo è bellissimo".
    "Ma è poi bello davvero? - insistè la vecchia signora.
    "Brif, bruf, braf"- rispose il vecchio signore.

    (Gianni Rodari- favole al telefono)

     
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  6. gheagabry
     
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    BATTAGLIA IN CIELO



    Oggi battaglia grossa
    tra una nuvola grigia
    e una nuvola rossa,
    tra una nuvola bianca
    e una nuvola nera
    battaglia tra l'inverno e la primavera.

    A un colpo di tuono il vento
    fugge sui campi sgomento.
    Ma noi sappiamo già chi vincerà:
    ce lo ha detto una rondine
    arrivata iersera,
    e una primula d'oro appena fiorita:
    "Vittoria, vince la vita,
    vince la primavera!".

    Da "Filastrocche lunghe e corte" - Gianni Rodari

     
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  7. gheagabry
     
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    FILASTROCCA CORTA E GAIA

    Filastrocca
    corta e gaia,
    l'abbaino
    non abbaia,
    la botte più grossa
    non è un bottone,
    la mela più rossa
    non è un melone,
    ed il mulo
    più piccino
    non sarà mai un mulino.






    FILASTROCCA CORTA E MATTA

    Filastrocca corta corta,
    il porto vuole sposare la porta,
    la viola studia il violino,
    il mulo dice: - Mio figlio è il mulino;
    la mela dice: - Mio nonno è il melone;
    il matto vuol essere un mattone,
    e il più matto della terra
    sapete che vuole? Vuol fare la guerra!


    (da "Filastrocche lunghe e corte" - Gianni Rodari)

     
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  8. gheagabry
     
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    I nani di Mantova




    Nel Palazzo Ducale di Mantova, reggia di Gonzaga, c'è un curioso appartamento che sembra stato ideato e costruito per ospitare un popolo di bambole. Stanzine, salottini, corridoietti, tutto in miniatura, tutto come in un giocattolo.
    Capricci di signori del tempo andato, capricci di architetti; ma non è una casa per le bambole, è l'appartamento dei nani di corte. Qui, una volta, sostarono insieme un gruppo di ragazzi e uno scrittore. Insieme immaginarono una storia di nani, ma anche di uomini e di giganti. La scrissero, la illustrarono con grandi disegni, come fanno i cantastorie.
    Poi la portarono in corteo per le strade di Mantova, cantando e recitando accompagnati da un'orchestra di tamburi,
    di padelle e coperchi, di latte e di bidoni.

    Questa è la storia scritta - alla maniera dei cantastorie - parte in versi e parte in prosa.

    Signori e buona gente,
    venite ad ascoltare:
    dei nani le avventure
    vi andremo a raccontare.
    A Mantova sul Mincio,
    nel Palazzo Ducale,
    vivono i gran signori
    in cinquecento sale.

    I nani stanno sotto,
    in un appartamento
    dove il soffitto quasi
    toccava il pavimento.

    Vivono là sepolti
    come animali in gabbia
    e d'essere nati nani
    provano immensa rabbia.



    Spesso la sera, prima di addormentarsi, i nani parlavano sottovoce della loro sventura:

    - Ah, perchè siamo così piccoli mentre il Duca è tanto alto?
    - Anche il capitan Bombardo, che comanda le guardie, è alto, altissimo.
    - Perfino Rigoletto, il buffone di corte, è più alto di noi.
    - Ah, perchè siamo tanto piccoli...
    - Forse per colpa di una stregoneria...
    - Forse perchè ci danno poco da mangiare...
    - Potrebbe pure essere colpa nostra: noi non facciamo mai ginnastica.
    - E dormiamo con la berretta da notte in testa.



    Per tentare di aumentare la loro statura cominciarono a fare vari esperimenti.

    Uno provò a mangiare
    un parmigiano intero:
    gli crebbe assai la pancia,
    ma la statura, zero.
    Uno provò a dormire
    senza la cuffia in testa:
    si busca il raffreddore, ma sempre nano resta.

    Provano la ginnastica,
    la danza sulle mani,
    l'acrobazia, l'atletica...
    ma son rimasti nani.


    A volte il buffone di corte, il famoso Rigoletto, li scherniva e beffeggiava:

    - Volete diventare più alti? Ma è facile: tutte le sere prima di andare a letto dovete innaffiarvi i piedi,
    crescerete come piante di fagioli.
    Il più piccolo dei nani, chiamato per l'appunto Fagiolino, prese una coraggiosa decisione e disse ai suoi compagni:
    - Ci dev'essere un segreto per crescere, andrò in città a cercarlo e non tornerò se non l'avrò trovato.

    Ecco l'intrepido nanetto che va in esplorazione per le strade della città di Mantova. Va e va, egli capita in un edificio chiamato Palazzo Tè ed entra nella sala dei Giganti. Al chiarore della luna che penetra dal cortile, egli vede dipinti sulle pareti uomini molto, molto più grandi del Duca e di Capitan Bombardo. Sono i giganti della vecchia leggenda, che stanno dando la scalata all'Olimpo, dove siede Giove, re degli dèi. Ma Fagiolino non ha studiato la mitologia greca. Egli si rivolge fiducioso ai giganti e dice loro:

    Signori, per favore,
    vogliatemi spiegare
    per diventare grandi
    cosa bisogna fare.



    Per un po' le grandi figure lo ascoltano in silenzio. Invano il nanetto le prega di rivelargli il loro segreto.
    Uno di loro finalmente si muove a compassione e parla così:

    - Amico, vuoi sapere perchè tu e i tuoi compagni siete dei nani? Perchè vivete nell'appartamento dei nani. Hai capito?
    - No. Ho sentito ma non ho capito.
    - Molta gente sente e non capisce. Va' e rifletti. Forse capirai.

    Fagiolino corre a casa per riferire ai suoi compagni lo strano messaggio, ma non fa in tempo ad aprir bocca perchè sta arrivando capitan Bombardo facendo tintinnare la spada e schioccare la frusta.

    Venite all'adunata,
    buffissime creature
    il Duca vuole ridere
    e la duchessa pure.



    Alla presenza dei Sovrani il buffone Rigoletto, faccia ed anima cattiva, propone che i nani, per divertire la corte, facciano la lotta tra di loro. Ma guai a chi non si batterà sul serio, guai a chi fingerà soltanto di colpire.

    Oggi per dar nuovissimo
    spettacolo alla corte
    si vuole qui vedere
    chi di voi sia il più forte.



    I nani, costretti a combattere l'uno contro l'altro, provano tanta rabbia e umiliazione che la sera stessa decidono di fuggire dal palazzo. Mentre si aggirano per strade e stradine buie e deserte, senza saper che fare e dove andare, odono passi affrettati, frastuono di armi e la voce tonante del capitan Bombardo che ordina ai suoi uomini di frugare tutta Mantova per rintracciare i fuccitivi:

    Cercateli, scovateli, stanateli,
    prendeteli, legateli, picchiateli!
    Se non li troverete,
    tutti in prigione andrete.



    I poveri nani tremano di paura, ma ecco che si sentono chiamare dalla voce gentile di una fanciulla:

    Venite in casa mia,
    io vi darò ricetto.
    Sono la bella Gilda,
    figlia di Rigoletto.



    Così avvenne che quella notte i nani si nascosero proprio in casa del loro nemico, il buffone di corte.
    Gilda è così dolce con loro che essi non le dicono nulla delle cattiverie di suo padre. Una nana un po' indovina, però, non riesce a prendere sonno e canta fra sé:

    Su questa casa sento
    odore di sventura,
    per Gilda e Rigoletto
    provo una gran paura.



    (Tanti anni dopo, difatti... Ma questa è un'altra storia, che non c'entra con la nostra. Se vi capita, andate a sentire l'opera "Rigoletto", di Giuseppe Verdi, e saprete tutto).

    La mattina seguente i nani ringraziano la bella Gilda e si spargono in cerca di lavoro nei quartieri della povera gente, dove in generale sono accolti come fratelli, anche se un po' piccoli. Sul lavoro, poi, non si nota nemmeno, perchè sanno lavorare esattamente quanto gli uomini e le donne più alti di loro.

    Il coraggioso nanetto Fagiolino che aveva girato il mondo comincia a capire le misteriose parole del gigante:

    - Ecco, egli pensa, da quando abbiamo lasciato la casa dei nani siamo già un po' meno nani di prima... La gente ci rispetta. Ho trovato perfino una ragazza che mi chiama "signor Fagiolino"...

    Quando capitan Bombardo fruga le case per cercarli e punirli, la gente li nasconde sotto la cappa del camino e nei cassetti del comò, senza dar retta al bando del tonante capo delle guardie, che dice:

    "Udite, udite, udite!
    I nani di Sua Altezza il Duca sono stati rapiti da ignoti malandrini. A chiunque darà informazioni che possano condurre alla loro liberazione, il nostro Serenissimo sovrano regalerà un paiolo per la polenta pieno di zecchini d'oro.
    Chiunque li nasconda, invece, riceverà cento volte il paiolo sulla testa, ma senza zecchini".


    A sentire quella voce terribile i nani tornano a tremare come la notte della loro fuga. Ma la buona gente li protegge e dice alle guardie:

    - I nani? Li abbiamo visti che nuotavano nel lago.
    - I nani? Ne abbiamo visto uno che scappava travestito da topo, ma il gatto l'ha mangiato.

    Ci sarebbe pure un vecchietto che brontola, accarezzandosi i vecchi baffi:

    - Però, un paiolo pieno di zecchini... Chi sa quante belle bevute...
    - Buono, - gli dicono i suoi figli - buono e zitto. Bevete questo, che è vino onesto.

    Avuto il suo bicchierino, il bravo vecchietto si acquieta. I nani se la cavano con la paura. Passato il capitano Bombardo, come passano i temporali, anche quelli che fanno più fracasso, i nani riprendono pacificamente il loro lavoro:

    Uno fa il pescatore
    e piglia i pesci assai,
    perchè lui sa i proverbi,
    Perciò non dorme mai.
    Questo fa l'ombrellaio,
    mestire un po' curioso
    che per farlo contento
    ci vuol il ciel piovoso.

    La nana fa la sarta,
    è molto ricercata:
    lei fa una veste nuova
    con una veste usata.

    Questo fa il panettiere
    e piace ai bambinetti
    perchè nelle pagnotte
    ci mette anche i confetti.

    Il noto Fagiolino
    studia per ingegnere:
    l'altezza dei giganti
    misurerà a dovere.


    Un brutto giorno capitano Bombardo seppe da uno dei suoi spioni dove avevano trovato rifugio i nani. E una brutta mattina, con cento guardie, egli diede l'assalto al quartiere in cui essi vivevano mescolati alla povera gente.
    Mentre dirigeva le operazioni si mostrava tanto sicuro del successo che cantava, accompagnandosi con una chitarra scordata:

    Scusatemi signori,
    se arrivo un po' in ritardo
    E' giunta la vendetta
    di capitano Bombardo.




    Ma i nani, stavolta non ebbero paura. In altezza erano rimasti come erano, ma in cuore erano cresciuti. Tutti avevano un cuore da uomini coraggiosi.
    Essi affrontarono senza tremare il capo delle guardie, usando come armi i loro strumenti di lavoro: il pescatore gli dava la canna in testa e pescava le guardie con la sua bilancia, come fossero trote o lucci; l'ombrellaio ficcava la punta dell'ombrello nella pancia di chi gli si parava davanti, mentre la sarta gli bucava il di dietro con i suoi aghi; il panettiere aveva preso dal suo forno tizzoni ardenti che lanciava come fossero razzi; Fagiolino, poi, maneggiava la riga, il compasso e la squadra come fossero sciabole e spade. Al capitano Bombardo, che anche la gente del quartiere bersagliava da tutte le parti per dar man forte ai nani, non rimase che battere in ritirata. E fu la nana sarta, la quale oltre ad essere un po' indovina era anche un po' canterina, a intonargli l'ultima strofetta, che diceva:

    Va' Capitan Bombardo
    riporta a tutti quanti
    che uniti pure i nani
    diventano giganti.
    E tutti, nani e no, fecero coro, là nella bella città di Mantova.

    La favola è finita,
    noi ce ne andiamo via,
    di cuore salutiamo
    tutta la compagnia.

    G.Rodari

     
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  9. gheagabry
     
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    FAVOLE AL TELEFONO



    di Gianni Rodari


    Alice cascherina



    Questa è la storia di Alice Cascherina, che cascava sempre dappertutto. Il nonno la cercava per portarla nei giardini: - Alice! Dove sei, Alice?
    - Sono qui nonno.
    - Qui dove?
    - Nella sveglia.

    Si aveva aperto lo sportello della sveglia per curiosare un po’, ed era finita tra gli ingranaggi e le molle, ed ora le toccava di saltare continuamente da un punto all’altro per non essere travolta da tutti quei meccanismi che scattavano facendo tic-tac.
    Un’ altra volta il nonno la cercava per darle la merenda: - Alice! Dove sei, Alice?
    - Sono qui nonno
    - Dove qui?
    - Ma proprio qui, nella bottiglia. Avevo sete, ci sono cascata dentro.

    Ed eccola là che nuotava affannosamente per tenersi a galla. Fortuna che l’estate prima , a Sperlonga, aveva imparato a fare la rana.
    - Aspetta che ti ripesco.

    Il nonno calò una cordicina dentro la bottiglia, Alice vi si aggrappò e vi si arrampicò con destrezza. Era brava in ginnastica.
    Un ‘altra volta ancora, Alice era scomparsa. La cercava il nonno, la cercava la nonna, la cercava la vicina che veniva sempre a leggere il giornale del nonno per risparmiare 40 lire.
    - Guai a noi, se non la troviamo prima che tornino dal lavoro i suoi genitori, - mormorava la nonna, spaventata
    - Alice! Dove sei, Alice?

    Stavolta non rispondeva. Non poteva rispondere. Nel curiosare in cucina era caduta nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli e ci si era addormentata. Qualcuno aveva chiuso il cassetto senza badare a lei. Quando si svegliò, Alice si trovò al buio, non ebbe paura: una volta era caduta in un rubinetto, e là dentro sì che faceva buio. “Dovranno pur preparare la tavola per la cena – rifletteva Alice – E allora apriranno il cassetto”. Invece nessuno pensava alla cena, proprio perché non si trovava Alice. I suoi genitori erano tornati dal lavoro e sgridarono i nonni: - Ecco come la tenete d’occhio!
    - I nostri figli non cascavano dentro i rubinetti, - protestavano i nonni, - ai tempi nostri cascavano solamente dal letto e si facevano qualche bernoccolo in testa.

    Finalmente Alice si stancò di aspettare. Scavò tra le tovaglie, trovò il fondo del cassetto e cominciò a batterci sopra con il piede. Tum, Tum, Tum.
    - Zitti tutti – disse il babbo, - sento battere da qualche parte.

    Tum, Tum, Tum, chiamava Alice.
    Che abbracci, che baci quando la ritrovarono. Ed Alice ne approfittò subito per cascare nel taschino della giacca del papà e quando la tirarono fuori aveva fatto in tempo a impiastricciarsi tuta la faccia giocando con la penna a sfera.
     
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  10. gheagabry
     
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    FAVOLE AL TELEFONO



    di Gianni Rodari

    La strada di cioccolato



    Tre fratellini di Barletta una volta, camminando per la campagna, trovarono una strada liscia liscia e tutta marrone.
    - Che sarà? –disse il primo
    - Legno non è – disse il secondo
    - Non è carbone – disse il terzo

    Per saperne di più si inginocchiarono tutti e tre e diedero una leccatina. Era cioccolato, era una strada di cioccolato. Cominciarono a mangiarne un pezzetto, poi un altro pezzetto, venne la sera e i tre fratellini erano ancora lì che mangiavano la strada di cioccolato, fin che non ce ne fu più neanche un quadrattino. Non c’era più né il cioccolato né la strada.
    - Dove siamo? – domandò il primo
    - Non siamo a Bari – disse il secondo
    - Non siamo a Molfetta, disse il terzo

    Non sapevano proprio come fare. Per fortuna ecco arriva dai campi un contadino col suo carretto.
    - Vi porta a casa io – disse il contadino. E li portò fino a Barletta, fin alla porta di casa.

    Nello smontare dal carretto si accorsero che era fatto tutto di biscotto. Senza dire né uno né due cominciarono a mangiarselo, e non lasciarono né ruote né stanghe.
    Tre fratellini così fortunati, a Barletta, non c’erano mai stati prima e chissà quando ci saranno un’altra volta.
     
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  11. gheagabry
     
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    LA DOMENICA MATTINA

    Il signor Cesare era molto abitudinario. Ogni domenica si alzava tardi, girellava per la casa in pigiama e alle undici si radeva la barba, lasciando aperta la porta del bagno.
    Quello era il momento atteso da Francesco, che aveva solo sei anni, ma mostrava già molta inclinazione per la medicina.
    Francesco, infatti, prendeva il pacchetto del cotone idrofilo, la bottiglietta del disinfettante, la busta dei cerotti, entrava in bagno e si sedeva sullo sgabello ad aspettare.
    Che c'è? - domandava il signor Cesare, insaponandosi la faccia con la schiuma da barba.
    Francesco si torceva sul seggiolino, senza rispondere. Dunque?
    Be' - diceva Francesco - può darsi che tu ti tagli. Allora io farò la medicazione.
    Già! - diceva il signor Cesare.
    Ma non tagliarti apposta come domenica scorsa diceva Francesco, severamente altrimenti non vale.
    Sicuro! - diceva il signor Cesare.
    Ma a tagliarsi senza farlo apposta non ci riusciva. Tentava di sbagliare senza volerlo, ma era difficile e quasi impossibile.
    Faceva di tutto per essere disattento, ma non poteva.
    Finalmente, qui o là, il taglietto arrivava e Francesco poteva entrare in azione.
    Asciugava la goccia di sangue, disinfettava, attaccava il cerotto.
    Così ogni domenica il signor Cesare regalava una gocqa di sangue a suo figlio e Francesco era sempre più convinto di avere un padre distratto.

    (Gianni Rodari)

     
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  12. gheagabry
     
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    Il cielo è di tutti

    Qualcuno che la sa lunga
    mi spieghi questo mistero:
    il cielo è di tutti gli occhi,
    di ogni occhio è il cielo intero.
    È mio, quando lo guardo.
    È del vecchio e del bambino,
    dei romantici e dei poeti,
    del re e dello spazzino.
    Il cielo è di tutti gli occhi,
    e ogni occhio, se vuole,
    si prende la Luna intera,
    le stelle comete, il sole.
    Ogni occhio si prende ogni cosa
    e non manca mai niente:
    chi guarda il cielo per ultimo
    non lo trova meno splendente.
    Spiegatemi voi dunque,
    in prosa o in versetti,
    perché il cielo è uno solo
    e la Terra è tutta a pezzetti.
    (Gianni Rodari)

     
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  13. gheagabry
     
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    Teste fiorite


    Se invece dei capelli sulla testa
    ci spuntassero i fiori, sai che festa?
    Si potrebbe capire a prima vista
    che ha il cuore buono, chi la menta trista.
    Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
    non può certo pensare a brutte cose.
    Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
    gli crescono le viole del pensiero.
    E quello con le ortiche spettinate?
    Deve avere le idee disordinate,
    e invano ogni mattina
    spreca un vasetto o due di brillantina.

    Gianni Rodari

     
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  14. gheagabry
     
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    L' OROLOGIAIO

    O vecchio orologiaio
    che ascolti come un dottore
    il tic-tac dei vecchi orologi
    un po' deboli di cuore,
    che ti dice, segretamente,
    l'orologio del tuo cliente?

    "Mi racconta la storia
    del tempo che ha contato,
    del minuto felice e
    di quello sciupato.
    Cosa strana, mi dice,
    non ha segnato mai
    un giorno senza guai.
    Ci dev'essere un guasto...Io lo riparerò:
    e nella molla nuova
    ore nuove ci metterò:
    le più belle del mondo
    dal primo
    fino all'ultimo secondo"

    Da "Il secondo libro delle filastrocche" - Einaudi

     
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  15. gheagabry
     
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    La vecchia zia Ada


    La figura gentile e tenera di questa vecchina, che vive in ospizio e non sa più nemmeno dove siano i propri figli ma che non inaridisce e trova dentro di sé nuovi motivi di interesse, suscita un'ondata di commozione: la sua ricchezza interiore le consente di sopravvivere e di donare ancora e, solo quando se ne andrà in silenzio, ci si accorgerà del grande vuoto che lascia la vecchia zia Ada, quando fu molto vecchia, andò ad abitare al ricovero dei vecchi, in una stanzina con tre letti, dove già stavano due vecchine, vecchie quanto lei. La vecchia zia Ada si scelse subito una poltroncina accanto alla finestra e sbriciolò un biscotto secco sul davanzale.
    Brava, così verranno le formiche, - dissero le altre due vecchine, stizzitel
    Invece dal giardino del ricovero venne un uccellino, beccò di gusto il biscotto e volò via.
    Ecco, - borbottarono le vecchine, - che cosa ci avete guadagnato?
    Ha beccato ed è volato via. Proprio come i nostri figli che se ne sono andati per il mondo, chissà dove, e di noi che li abbiamo allevati non si ricordano più.
    La vecchia zia Ada non disse nulla, ma tutte le mattine sbriciolava un biscotto sul davanzale e l'uccellino veniva a beccarlo sempre alla stessa ora puntuale come un pensionante, e se non era pronto bisognava vedere come innervosiva.
    Dopo qualche tempo l'uccellino portò anche i suoi piccoli, perché fatto il nido e gliene erano nati quattro, e anche loro beccarono di gusto biscotto della vecchia zia Ada, e venivano tutte le mattine, e se non lo trovavano facevano un gran chiasso.
    Ci sono i vostri uccellini, - dicevano allora le vecchine alla vecchia Ada, con un po' d'invidia. E lei correva, per modo di dire, a passettini, fino al suo cassettone, scovava un biscotto secco tra il cartoccio del caffè e quello delli caramelle all'anice e intanto diceva:
    Pazienza, pazienza, sono qui che arrivo.
    Eh, - mormoravano le altre vecchine, - se bastasse mettere un biscotto sul davanzale per far tornare i nostri figli.
    E i vostri, zia Ada, dove sono i vostri?
    La vecchia zia Ada non lo sapeva più: forse in Austria, forse in Australia; ma non si lasciava confondere, spezzava il biscotto agli uccellini e diceva loro:
    Mangiate, su, mangiate, altrimenti non avrete-; abbastanza forza per volare.
    E quando avevano finito di beccare il biscotto:
    Su, andate, andate. Cosa aspettate ancora? Le ali sono fatte per volare
    Le vecchine crollavan il capo e pensavano che la vecchia zia Ada fosse un po' matta, perché vecchia e povera com'era, aveva ancora qualcosa da regalare e non pretendeva nemmeno che le dicessero grazie.
    Poi la vecchia zia Ada morì, e i suoi figli lo seppero solo dopo un bel po' di tempo, e non valeva più la pena di mettersi in viaggio per il funerale.
    Ma gli uccellini tornarono per tutto l'inverno sul davanzale della finestra e protestavano perché la vecchia zia Ada non aveva preparato il biscotto.




    da Favole al telefono
    Gianni Rodari
     
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101 replies since 22/8/2010, 17:49   49557 views
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