L'ENEIDE

di Virgilio

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  1. gheagabry
     
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    Libro XI



    Dopo le celebrazioni per la vittoria su Mezenzio, Enea riporta il corpo di Pallante nella sua città per le esequie, e il padre Evandro chiede che sia vendicato. Il re Latino domanda una tregua ai Troiani e si giunge ad un accordo per dodici giorni di sospensione delle ostilità. Enea, che rispetta Latino e ricorda come gli avesse offerto la mano della figlia, propone di porre fine alla guerra e di risolvere la questione con un duello tra lui e Turno. La guerra però riprende e in aiuto delle forze latine interviene la cavalleria dei Volsci con a capo la guerriera Camilla. Nel corso dei combattimenti l'etrusco Arunte, insidia la vergine che compie stragi, e, dopo averla vista inseguire il troiano Cloreo che attirava l'attenzione per le sue armi d'oro, scaglia l'asta e la coglie in pieno petto; Camilla muore e l'esercito rutulo è costretto a ritirarsi lasciando Enea padrone del campo.


    Libro XII



    Vista la difficile situazione, Turno accetta la sfida lanciatagli da Enea, nonostante l'opposizione di Latino e della moglie Amata. Giunone interviene nuovamente, convincendo la sorella di Turno Giuturna a radunare l'esercito e mandarlo all'attacco. Il duello è così rinviato e i due eroi si rituffano nei combattimenti. Enea e Turno, infuriati, fanno insieme macello di Troiani ed Italici. Memorabili sono le uccisioni di alcuni di essi: il rutulo Sucrone, che Enea ferma colpendolo al fianco con la lancia per poi spezzargli con la spada le costole intere una volta caduto al suolo; i fratelli Troiani Amico e Diore, uccisi da Turno e poi appesi, con le teste recise, al loro carro; il masso scagliato contro Murrano da Enea che lo catapulta giù dal cocchio e lo fa morire dilaniato dai suoi stessi cavalli che, dimenticatisi di lui, credevano si trattasse di un nemico caduto. Intanto Amata, credendo che Turno sia morto, si toglie la vita. Quando Turno vede che è la sorella ad aizzare i soldati a spezzare la tregua interviene, ordinando alle truppe di fermarsi. La mischia si scioglie e finalmente i due eroi si trovano faccia a faccia per il duello. Gli dei decidono di non intervenire ed anche Giunone è costretta a interrompere le sue trame. Enea, scagliata una lancia contro Turno, vince facilmente lo scontro e ferisce il nemico: poi sguaina la spada affilata da entrambe le parti e sta per affondarla nel petto del vinto, ma si arresta. Quando però vede il cinturone che il re dei Rutuli aveva strappato a Pallante dopo averlo ucciso, la pietà viene meno. Enea affonda la spada nel petto di Turno, lasciandolo privo di ogni esequia funebre al suolo, e si riappacifica con gli Italici risparmiando dalla fine definitiva la città di Laurento; i Troiani possono così finalmente stabilirsi nel Lazio e trascorrere la loro esistenza nella nuova terra conquistata.
    Così ha termine il poema. Tuttavia, secondo autori posteriori, Enea, dopo la morte di Turno, combatté contro gli Etruschi stessi per cacciarli via dalla sua terra, dopo che essi gli ebbero chiesto con la prepotenza di stare con lui definitivamente e, improvvisamente, scomparve dal campo di battaglia e la madre lo portò con se in cielo, all'Olimpo, dove infine fu onorato dai suoi discendenti, i Romani, che come un Dio lo chiamarono per sempre con il nome di Giove Indigete; la città di Roma vivrà così fino alla deposizione, nel 476 d.C., dell'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo Augusto, che segnerà la definitiva sconfitta della città e la sua caduta in mano ai Barbari: la città, costruita nel 753 a.C., dal nipote di Enea Romolo, che la eresse dopo aver ucciso il fratello suo Remo, sorgerà sul Palatino, dopo la morte del nonno che fu proprio Enea e che continuerà a vivere per sempre sotto le sembianze di un immortale, di un essere divinizzato dagli Dei.


     
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  2. gheagabry
     
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    I VOLSCI







    I Volsci erano un antico popolo italico. Il nome dei Volsci deriva dalla radice vols che si ritrova già nel nome di due città etrusche: dei Volsini Veteres e dei Volsini Novi. Attraverso le valli appenniniche (ad es.: la valle del Liri fra il VI ed il V secolo a.C.) raggiunsero il mar Tirreno dando luogo a due entità: Volsci Ecetrani (all'interno) e Volsci Anziati (lungo la costa tirrenica).
    All’epoca del primo secolo della Repubblica romana la capitale del territorio comandato dai Volsci era Antium (Anzio). In quel periodo abitavano un'area parzialmente collinosa e parzialmente paludosa del sud del Latium, limitata dagli Aurunci e dai Sanniti a sud, dagli Ernici ad est e all'incirca dalla linea che da Norba e Cora a nord andava ad Antium nel sud.
    I Volsci parlavano Volsco, un linguaggio italico sabellico, che era strettamente collegato all'osco e all'umbro, ma anche, più alla lontana, al latino. Il documento linguistico più importante è un breve testo inciso su una accetta miniaturistica rinvenuta a Satricum, datata alla prima metà del V secolo.
    Furono fra i nemici più pericolosi di Roma ed alleati frequentemente con gli Equi, mentre gli Ernici dal 486 a.C. in poi furono alleati di Roma. Secondo Tito Livio erano «ferocior ad rebellandum quam bellandum gens» (7, 27, 7).
    Nel territorio volsco si trovava la città di Velitrae (la moderna Velletri), luogo di provenienza della famiglia di Ottaviano Augusto. Da questa città abbiamo una breve iscrizione, comunque molto interessante, databile probabilmente intorno all'inizio del III secolo a.C.; è incisa su una piccola piastra di bronzo (ora al museo di Napoli), che una volta doveva essere fissata a qualche oggetto votivo, dedicato al dio Declunus (o la dea Decluna).
    Oltre a Velletri altri centri erano Atina, Frùsino, Satricum, Arpinum (la città di Gaio Mario e Cicerone), Arx fregellana, Sora (la città di Marco Attilio Regolo), Anxur, Setia, Privernum, Fabrateria Vetus (l'attuale Ceccano), Casinum, quest'ultima nata però molto dopo rispetto alle altre e situata al confine tra il territorio volsco e aurunco.
    Il personaggio virgiliano della vergine guerriera Camilla nell'Eneide è una volsca, figlia di Metabo, re della città di Privernum.






    CAMILLA




    Camilla è la figlia di Metabo, tiranno della città volsca di Priverno. Quando il padre viene cacciato dalla sua città, Camilla viene cresciuta da questo nei boschi in maniera virile, mantenendo tuttavia bellezza e leggiadria.
    Alleata di Turno, re dei Rutuli, viene uccisa dall'etrusco Arunte; durante la guerra contro Enea guida il suo popolo combattendo a cavallo, accompagnata da una schiera di vergini guerriere, simili alle amazzoni; la sua morte viene poi vendicata dalla dea Diana. Le vicende di Camilla vengono narrate nel libro XI dell'Eneide.
    Dante la colloca nel primo cerchio dell'Inferno, nel Limbo, tra gli Spiriti Magni.



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  3. gheagabry
     
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    TURNO






    « ... avanti agli altri
    la chiedea Turno, un giovine il più bello,
    il più possente e di più chiara stirpe
    che gli altri tutti; e più ch'a gli altri, a lui,
    anzi a lui sol la sua regina madre
    con mirabil affetto era inchinata. »
    (Virgilio, Eneide, VII, 83-88)


    Turno (in latino Turnus) è l'antagonista di Enea nell' Eneide



    Giovane re dei Rutuli, Turno è anche semidio, essendo figlio di Dauno e della ninfa Venilia; ha due sorelle: la più giovane è sposata con un rutulo di nome Numano, mentre l'altra è Giuturna, che amata a suo tempo da Giove è stata da lui resa immortale. Il nome mitologico di Turno viene fatto derivare dal greco antico Touros, che ha significato di animo impetuoso; secondo talune fonti potrebbe invece intendersi come Turrenos; la versione in lingua etrusca sono molteplici e vengono date come Tursnus, Turosnus, o ancora Turannus.[senza fonte]
    Secondo il racconto virgiliano, quando Enea giunge nel Lazio, il re Latino, volendo sancire con lui un'alleanza, gli dà in sposa la figlia Lavinia, peraltro già promessa a Turno. A ciò s'oppone decisamente Amata, madre di Lavinia e moglie di Latino, che aveva sempre prediletto il giovane rutulo come futuro sposo della fanciulla. A nulla servono le proteste della donna, aizzata follemente dalla furia Aletto per ordine di Giunone, che scatena orge bacchiche e canta le nozze di Lavinia e Turno.
    Turno, per rappresaglia, decide di dichiarare guerra ai troiani di Enea, con il quale si batte in duello mortale nell'ultimo libro, venendone sconfitto; nella drammatica scena finale, quando egli è già stato ferito, Enea si accorge che l'avversario indossa ancora il balteo del giovane amico Pallante, ed è per questo che l'eroe troiano, dopo l'iniziale intenzione di risparmiarlo, spinto da un'ira vendicativa infligge dunque al Rutulo il colpo di grazia, e "la sua vita con un gemito svanisce indignata tra le ombre" (...vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras).
    Nel poema virgiliano, Turno è presentato come l'alter ego di Enea, un eroe segnato dal fato. È un sovrano molto amato dai suoi guerrieri e anche da quelli alleati, tra i quali ci sono i suoi due più grandi amici, il re italico Ramnete, che è anche l'augure dell'accampamento, e Murrano, un giovane di Laurento imparentato con la famiglia del re Latino. Il suo unico detrattore è il vecchio cortigiano latino Drance, sostenitore di un accordo di pace tra gli italici ed Enea. Nei combattimenti si batte con passione e ardore, cedendo occasionalmente alla ferocia (come nel noto episodio dell'uccisione di Pallante, al cui cadavere sottrae il balteo: per la qual cosa, come si è detto, Enea non avrà pietà di lui nella sfida finale).
     
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    Diomede eroe della civilizzazione

    Diomede





    Diomede decise di abbandonare la città, imbarcandosi per l'Italia. Entrando in Adriatico si fermò nei porti insegnando alle popolazioni locali la navigazione e l'allevamento del cavallo. La diffusione della navigazione, arte sotto la protezione di Afrodite, forse aveva l'intento di ottenere il perdono dalla dea nata dalla spuma del mare. In ogni caso si realizza così una straordinaria trasformazione: da campione della guerra Diomede diventa l'eroe del mare e della diffusione della civiltà greca. Era infatti venerato come benefattore ad Ancona, città nella quale è nota la presenza di un suo tempio, a Pola, in Dalmazia a Capo San Salvatore (detto in lingua croata Planka), a Vasto, a Lucera e all'estremo limite dell'Adriatico: alle foci del Timavo. In questi luoghi il culto di Diomede si era sovrapposto a quello del Signore degli Animali, un'antichissima divinità dei boschi.
    La caratteristica di civilizzatore viene rafforzata dalla fondazione di molte città italiane, tra cui Vasto (Histonium) Andria, Brindisi, Benevento, Argiripa (Arpi), Siponto presso l'attuale Manfredonia, Canusio (Canosa di Puglia), Equo Tutico, Drione (San Severo), Venafrum (Venafro) e infine Venusìa (Venosa). La fondazione di quest'ultima città coincide con il perdono ottenuto da Afrodite, in seguito al quale si stabilì in Italia meridionale e si sposò con una donna del popolo dei Dauni: Evippe.
    Stretto il rapporto tra l'eroe e la Daunia. Infatti il primo contatto tra Diomede e la Daunia si ebbe con l'approdo alle isole che da lui avrebbero preso il nome di Insulae Diomedee (le isole Tremiti). Sbarcò quindi nell'odierna zona di Rodi, sul Gargano alla ricerca di un terreno più fecondo e si spostò a sud dove incontrò i Dauni, che prendevano il nome dal loro re eponimo, Dauno, figlio di Licaone e fratello di Enotrio, Peucezio e Japige.
    Diomede si guadagnò le simpatie di Dauno il re che "pauper aquae agrestium regnavit populorum" e dopo avergli prestato valido aiuto nella guerra contro i Messapi, per il sua alto valore militare - victor Gargani - ebbe in sposa la figlia Evippe (secondo alcuni si chiamava Drionna, secondo altri Ecania) ed in dote parte della Puglia - "dotalia arva"-, i cosiddetti campi diomedei, "in divisione regni quam cum Dauno". Quindi fondò Siponto, dal nome greco SIPIUS, a motivo delle seppie sbalzate sulla riva dalle gigantesche onde; siamo nel 1182 a.C. - più di quattro secoli prima della fondazione di Roma. Il calcolo cronologico della fondazione di Siponto è desunto dall'opera di Dionisio Petavio, che comunque oscilla tra il 1184 e il 1182 a.C.
    A tal proposito nel libro VI della Geografia di Strabone, il geografo storico fine conoscitore del territorio dauno, viene anche affermato che Siponto "a Diomede greco conditum". Virgilio nell'Eneide ci racconta che i Latini, bisognosi di alleati per scacciare Enea dalla loro terra, chiesero aiuto a Diomede, ricordando dell'antica inimicizia tra i due eroi. Diomede, però sorprende gli ambasciatori a lui pervenuti, rifiutando di combattere il suo antico nemico ed anzi invocando la pace tra i popoli.
    Una spiaggia delle Isole Tremiti, l'isola di San Nicola, fu il luogo della sua sepoltura, e i suoi compagni vennero trasformati da Afrodite in grandi uccelli marini, le diomedee, allo scopo di bagnare sempre la tomba dell'eroe.


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  11. gheagabry
     
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    la morte di didone.........


    Didone
    mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano
    a stare aperti sviene; la ferita profonda
    nel petto stride: Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,
    tre volte ricadde sul letto: nell'alto cielo cercò
    con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette.
    Allora Giunone, pietosa del suo lungo dolore
    e della straziante agonia, mandò giù dall'Olimpo
    Iride, che liberasse l'anima che lottava
    invano per svincolarsi dai legami del corpo.
    Poiché lei non moriva di giusta morte, decisa
    dal Fato, ma anzitempo in un accesso d'ira,
    Proserpina non le aveva ancora strappato di testa
    il biondo fatale capello e non aveva ancora
    consacrato il suo capo all'Inferno e allo Stige.
    La rugiadosa Iride con le sue penne di croco
    brillanti contro sole di mille varii colori
    volò attraverso il cielo e si fermò su di lei.
    "Questo capello - disse - porto consacrato a Dite
    per ordine divino, e ti sciolgo da queste
    tue membra ". Con la destra strappò il capello: insieme
    si spense il calore nel corpo, la vita svanì nel vento




    da L'"Eneide"
     
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    Riassunto La morte di Didone....Eneide.

    All'alba, Didone si accorge che Enea ha lasciato Cartagine e si dispera, imprecando tra odio e ironia contro l'eroe Dardano. Piange, grida, ha una reazione delirante e alla fine maledice prima Enea per quello che ha fatto condannandolo a essere insepolto (cosa molto grave all'epoca perché non si sarebbe mai raggiunto la pace nel regno dell'Ade) e poi estende la fattura a tutti i suoi discendenti giurando che mai amicizia potrà esserci tra i due popoli, e che dalle sue ossa sorgerà un vendicatore ora, domani, in futuro, al momento giusto, che la vendicherà. Storicamente la maledizione serviva a giustificare le guerre puniche e la figura di Annibale Barca rappresenterebbe il vendicatore. Lei si uccide con la spada che aveva casualmente dimenticato Enea nella sua stanza, e prima di morire ordina alle ancelle di far chiamare la sorella Anna in modo che prepari il tutto già per il funerale.
    In seguito, lei agonizza perché nn può morire in quanto non si tratta di morte naturale ma di suicidio. Indi Giunone, protettrice di Didone, invia la sua messaggera Iride dalla regina affinché le strappi il capello d'oro. Si credeva infatti che togliendo il capello dorato avrebbe smesso di agonizzare e si sarebbe ricongiunta al marito sicheo nell'Ade.
    fonte:http://www.skuola.net

     
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