CAVALLI, ASINI ..EQUINI

il più nobile fre gli animali

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  1. gheagabry
     
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    L'Asino è stato a noi accordato
    come l'istrumento più necessario,
    e come la guida indispensabile,
    per l'acquisto della virtù, e del sapere.
    D.Cirillo


    L'ASINO




    L’asino è un mammifero che appartiene alla famiglia degli Equidi e all’ordine dei Perissodattili. Vive prevalentemente nelle zone rocciose della Somalia e dell Etiopia, nella Siria, in Mesopotamia, nell Afghanistan, nella Persia, nella Russia meridionale, nel Tibet e nella Mongolia. A differenza del cavallo possiede delle orecchie più lunghe e gli zoccoli, invece, sono piccoli. La sua testa è più grande, le sue ganasce molto sviluppate, il ventre grande e le labbra grosse. I suoi arti sono sottili e la sua coda è rivestita da peli solo all’estremità.

    Il suo raglio è piuttosto rumoroso rispetto al nitrito del cavallo. Tra le diverse specie di asino distinguiamo quelli selvatici, suddivisi in africani e asiatici che si nutrono perlopiù di erbe e quelli domestici, che discendono secondo alcuni studi dal selvatico africano, caratterizzato dal particolare mantello grigio.Gli asini selvatici vivono generalmente in località povere di vegetazione, desertiche e rocciose, riuniti in branchi poco numerosi e guidati, a differenza dei cavalli, da una vecchia asina. Ciò che caratterizza gli asini selvatici sono le orecchie molto sviluppate, la maggior grossezza della testa, gli zoccoli alti e la criniera molto corta.





    Trenta monaci e il loro abate non possono
    far ragliare un asino contro la sua volontà.
    (Miguel de Cervantes)


    .....mitologia.....



    Nell'antichità l'asino appare frequentemente collegato con episodi delle diverse religioni.
    Nell'Egitto dei faraoni questo animale era sacro a Seth. Nella mitologia cinese si ricorda il magico asino di Chang-Kuo-lao, uno degli otto Immortali; l'animale conduceva il suo padrone per centinaia di miglia al giorno e la sera, quando non serviva più, poteva essere docilmente ripiegato e riposto, quasi si fosse trattato di un piccolo pezzo di carta.
    Anche nella mitologia greca e romana frequenti sono le citazioni riguardanti l'asino. Si ricorda Mida, re di Frigia, già noto per essere condannato a vedere diventare d'oro qualunque cosa da lui toccata; perdonato e riammesso alla comune vita di tutti i mortali, si permise, un giorno, di disapprovare il giudizio che un Dio aveva emesso in una gara musicale tra Pan ed Apollo e fu punito da quest'ultimo, che gli fece crescere le orecchie d'asino. Il re Mida vietò allora, a tutti coloro che erano in quotidiano contatto con lui, di spargere la notizia, ma il suo barbiere, nell'impossibilità di mantenere a lungo il segreto, scavò una buca nella quale, lontano da tutti, potè narrare la straordinaria notizia. Da questa buca nacquero delle canne che, percosse dal vento,ripetevano con il loro stormire che il re aveva le orecchie d'asino, così che la cosa finì con l'essere nota a tutti.
    Un asino era la cavalcatura di Sileno, il compagno di Dioniso, sempre ubriaco.
    Tradizionale è anche l'asino di Ocno , figlio del Dio Tiberino e di Manta, mitico fondatore di Mantova e forse anche di Bologna, famoso nell'antichità per la sua pigrizia. Si ricorda, e l'episodio è riportato anche in alcune antiche pitture, come egli passasse la giornata intrecciando una corda con tale lentezza che il suo asino, camminando dietro di lui, poteva man mano divorarsela tranquillamente.
    Nella tradizione ebraica l'asino ebbe una parte importante. Veniva usato come cavalcatura abituale negli spostamenti, in quanto la forma del suo zoccolo rendeva sicuro il cammino e serviva anche come bestia da soma e da tiro, in quanto animale molto vigoroso e poco costoso, che si nutriva di cardi e di piante spinose.
    Era designato con il termine di "Homer" che in origine significava il peso che questo animale poteva portare e che si aggirava, per i cereali, intorno ai 220 litri.
    Da ricordare anche il famoso asino di Balaam, che ebbe per primo il privilegio di vedere l'angelo che doveva parlare con il suo padrone. Gli antichi ebrei ritenevano, infatti, che questo animale, fatto da Dio nel sesto giorno della creazione, era destinato ad apparire nei momenti più solenni della loro vita religiosa. Fu così l'asino di Balaam che servì ad Abramo per portare sul monte la legna destinata al sacrificio del figlio e condusse nel deserto la moglie ed i figli di Mosè. Esso vivrebbe ancora in un luogo nascosto nell'attesa di condurre al popolo ebreo il Messia da esso atteso.
    E' quindi naturale come da queste tradizioni ebraiche sia derivato il significato, in parte sacro, della presenza dell'asino, in diversi momenti della vita terrena di Gesù. Un asino Lo riscalda nella grotta, un asino Lo trasporta durante la fuga in Egitto, un asino Lo porta quando entra trionfante in Gerusalemme. La tradizione vuole inoltre, che, per quest'ultimo episodio, da allora l'asino porti sulla schiena una specie di croce nera





    Asinus asinum fricat
    L'asino accarezza l'asino



    ....Il lungo cammino dell'asino......



    L’asino, dal latino asinus e dal greco ovos, sembra quasi aver un gran talento nell’ignorare le cose: è andato via da asino ed è tornato da somaro .
    L’asino, per secoli personificazione dell’ignoranza e della diabolica ostinazione, è al tempo stesso l’animale che sa di più, perché sa di non sapere. In effetti, il raglio è, fra le voci della natura, una fra le più drammatiche, espressione di un’urgenza irrimediabile e della volontà di non tacere più, dopo aver troppo taciuto.
    Secondo alcuni, l’asino porta con sé l’erotismo greco e la spiritualità biblica: «Esso occupa il primo posto fra gli animali della creazione nell’Antico e nel Nuovo Testamento e si trova effigiato in almeno cento chiese e cattedrali romaniche. La vicinanza degli asini è stata rappresentata, fra gli altri, da Apuleio a Cervantes, da Dostoievskj a Lawrence, da Stevenson a Bruno».
    Primo degli animali citati nella Bibbia, l’asino è l’animale per eccellenza anche per la straordinaria coincidentia oppositorum. Non casualmente si è detto dell’asinità in giustapposizione al volare alto del gabbiano Jonathan, e non per nulla l’asino, o meglio l’onagro, è una parola bifronte: organo/onagro, che significa sia asino che macchina da guerra. D’altra parte Bestiari medioevali, debitori di Apuleio e del suo Asino d’oro, sottolineano l’ottusità e la docilità dell’asino, al contrario del Bestiario di Cambridge che invece attribuisce proprio all’onagro, considerato simbolo dell’ignavia, significati demoniaci. L’onagro, animale del crepuscolo, «è il demonio che raglia ogni ora reclamando la sua preda».
    Nel racconto biblico un’asina che, durante il viaggio intrapreso dall’indovino arameo Balaam per andare a maledire gli ebrei, si fermò all’apparizione di un angelo e, picchiata, parlò lamentandosi: l’immagine è quella di un’asina solitaria che dà voce alla sua anima.
    Infatti alcuni glossatori hanno interpretato l’isolamento dell’animale quasi come una sorta di immagine spirituale di eremita che vive con la solitudine della sua anima. Valutazioni straordinariamente positive avvalorate in Francia, nel dodicesimo e tredicesimo secolo, dalla “festa dell’asino”, in ricordo della fuga in Egitto di Maria col piccolo Gesù. Il protagonista della festa era appunto l’asino, che veniva condotto in processione solenne ed era addestrato ad inginocchiarsi nei momenti topici e a ragliare tre volte in risposta al rituale Benedicamus Domine: «Alla fine della messa – è scritto in un codice del 1100 – il prete, anziché pronunciare Ite missa est, raglierà tre volte, e in luogo di Deo gratias il popolo risponderà tre volte hi-ha».
    Parimenti noto è il cosiddetto “asino di Buridano”, argomentazione para-sofistica attribuita al filosofo francese Giovanni Buridano (metà del ’300), per la quale un asino affamato, posto a egual distanza fra due mucchi di fieno uguali, sarebbe morto di fame non sapendo decidersi fra i due (si rammenti il riferimento nel Paradiso di Dante). L’esempio non si trova nelle opere di Buridano, ma si ricava dalla sua dottrina, secondo cui la volontà, nelle sue scelte, segue il giudizio dell’intelletto. Allorquando i beni da scegliere sono equivalenti, l’intelletto non fornisce indicazioni, la volontà permane indecisa, la scelta non ha luogo e si registra la fine dell’asino.
    Secoli dopo, Gottfried Leibniz ebbe però a osservare che, per quanto concerne l’uomo, il perfetto equilibrio fra due parti è impossibile, giacché infinite possono essere le ragioni interne ed esterne all’uomo che l’inducono ad andare in un senso piuttosto che in un altro. L’apologo dell’asino, infatti, è utilizzato da Leibniz per ribadire il rifiuto del meccanicismo e la necessità della scelta anche allorquando le motivazioni appaiono ignote a chi sceglie.
    In matematica, invece, l’espressione ponte dell’asino è usata per indicare punti di particolare difficoltà, come per esempio il 5° teorema del libro I di Euclide.
    L’asino viene poi sovente percepito, in senso traslato, come l’analfabeta per antonomasia. E tuttavia, non sono proprio gli analfabeti ad essere oggetto di un ben noto Elogio di Eugenio Montale? Invero, il poeta ligure sosteneva che dagli analfabeti c’è sempre da imparare, perché possiedono alcuni concetti fondamentali che, alla fin fine, sono quelli che più contano: «purtroppo pare che di analfabeti ne siano rimasti pochi».
    Anche per questi motivi potremmo osare di avvicinare l’asino a una figura come quella di Pulcinella, con la sua enciclopedica e misteriosa ignoranza, con la sua sopraffina cultura da analfabeta. Non casualmente Pulcinella è vestito interamente di bianco, ma la sua maschera è nera.
    Talune simbologie religiose propongono l’asino come un archetipo che affonda le sue radici in antiche culture, come attestato dalla famosa immagine satirica dell’asino che suona la lira. Marius Schneider ha osservato come il tamburo e l’arpa, due strumenti spesso connessi all’asino, siano per eccellenza strumenti di dolore e in rapporto con l’aldilà.
    Per i popoli dell’Anatolia l’asino era simbolo di regalità e di saggezza, mentre per gli Ittiti le lunghe orecchie asinine erano un segno sapienziale, al contrario delle caricature medievali che ritraevano laici ed ecclesiastici con grandi orecchie d’asino che stavano a segnalare il peccato d’orgoglio ostinato.
    La simbologia dell’asino tutto rassegnazione e umiltà viene invece capovolta da Fedro che, nelle sue favole, colloca l’asino fra il deviante e l’osceno, allorquando l’asino provoca il cinghiale mostrandogli il suo fallo smisurato. Mentre la provocazione dell’asino di Fedro non rientra nella cultura cristiana medievale e nella sua letteratura, nell’iconografia rinascimentale l’asino è avvicinato al diavolo, alludendo al peccato, alla sregolatezza ed alla bestialità. Ma l’asino non finisce di stupire perché Franco Cardini ricorda che l’asino rosso, che conosciamo anche attraverso il De Ostride et Iside di Plutarco, si collega a miti dell’antico Egitto con una valenza chiaramente malvagia.
    Ad ogni buon conto, quando Montaigne invoca la “vera misura”, elogia l’asino: «C’è forse qualcosa di più sicuro, deciso, sdegnoso, contemplativo, grave, serio come l’asino?»
    Non molto diversamente, il suo contemporaneo Giordano Bruno, in quegli anni, si identificava con l’asino, che per la sua ignoranza, pazienza e ostinazione veniva a costituire l’allegoria di chi ricerca la verità. Ne Lo spaccio de la bestia trionfante, Giordano Bruno, attraverso un’articolatissima allegoria, finisce per avvalorare l’esaltazione dell’asinità. L’asinità, secondo il filosofo nolano, altro non è che l’indice di appartenenza dell’uomo ad uno stato bestiale, servile e corrotto: è la “santa ignoranza”, è la “santa stolticia”, è la “pia divozione”, la fede contrapposta alla scienza:
    La santa asinità di ciò non cura,
    ma con man giunte e in ginocchion vuol stare
    aspettando da Dio la sua ventura
    .
    Per Bruno, che in ciò segue la scia di certe teorie cabalistiche, l’individuo, imbrigliato in un universo complesso, fra cielo e terra, da uomo si è trasformato in asino. Effettivamente, per tali gnoseologie dei cabalisti, gli individui possono manifestare tre tipi di ignoranza, rappresentati da tre tipi di asini. Per i primi sempre si nega e mai si afferma; per i secondi sempre si dubita e mai si definisce; per i terzi i princìpi sono conosciuti senza dimostrazione: «La prima è denotata per l’asino pullo, fugace ed errabondo; la seconda per un’asina che sta fitta fra due vie, non possendosi risolvere per quale delle due più tosto debbe muovere i passi; la terza per l’asina con il suo puledro portanti sulla schiena il redentor del mondo».
    Perciò il pensiero del grande Nolano è che l’uomo divenuto asino ritorni a pieno titolo se stesso. L’uomo può scegliere di essere divino o bestiale utilizzando gli strumenti che possiede, la mente e l’anima, per cui l’asino «potrà distinguere se colui che gli monta sopra è un dio o è un diavolo, è un uomo o è un’altra bestia».
    Credo, infine, che se mai vi è una creatura che rappresenti egregiamente il senso del dubbio, questa sia proprio l’asino. L’asino anzi, a mio modo di vedere, simboleggia l’essenza stessa del dubbio: l’umiltà del dubbio, non la vanità del dubbio. In realtà, l’anima che si risveglia per un dubbio è certamente migliore dell’anima che dorme sicura di sé.
    Ecco perché ora anche noi vogliamo ragliare… Non continuiamo forse a fare errori di grammatica persino quando pensiamo? Non siamo proprio noi a nascere senza saper parlare e, a volte, a morire senza aver saputo dire? (Pessoa).
    Nell’alveo della sua struggente solitudine, l’asino mi appare come una sorta di camminatore imperterrito fra gli sterpi del pensiero, al punto che si ode il rumore insistente di un passo dietro l’altro, tanto che sembra sollevare zolle e camminare fra le nuvole.
    Buon viaggio, allora, antico maestro!
    Giovanni Greco
    Università di Bologna





    Quando si avvicinarono a Gerusalemme, verso Befane e Betania, presso il monte degli Ulivi, [Gesù] mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio che vi sta di fronte, e subito entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito. Scioglietelo e conducetelo. E se qualcuno vi dirà: "Perché fate questo", rispondete: "il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito"». […] Essi condussero l'asinello da Gesù, e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed egli vi montò sopra. (Vangelo secondo Marco)



    "Platero è piccolino, peloso, soffice; morbido di fuori tanto che si direbbe fatto tutto di bambagia, senza ossi dentro. Soltanto gli specchi di giaietto degli occhi son duri come due scarabei di cristallo nero.Lo lascio sciolto, e se ne va sul prato, e accarezza tepidamente con il suo musetto, sfiorandoli appena, i fiori rosa, celesti e gialli... Lo chiamo dolcemente: "Platero?", e viene da me con un trotterello allegro che par che rida, in non so che tintinnìo ideale... Mangia quando gliene do. Gli piacciono i mandarini, l'uva moscatella, tutta d'ambra, i fichi violetti, con la loro gocciolina di miele cristallina... E' tenero, pieno di vezzi come un bimbo, come una bimba... Ma di dentro è forte e adusto come se fosse fatto di pietra".
    "Tu, se muori prima di me, non andrai, Platero mio, sul carretto del banditore, all'immensa laguna, né al burrone della strada dei monti, come gli altri poveri asinelli, come i cavalli e i cani che non hanno chi vuol loro bene. Vivi tranquillo, Platero. Ti seppellirò io ai piedi del pino grande e fronzuto dell'orto della Pigna, che tanto ti piace. Resterai accanto alla vita lieta e serena. I bambini giocheranno e le bimbette cuciranno sedute accanto a te sulle loro seggioline basse. Conoscerai i versi che la solitudine mi suggerirà. Udrai cantare le ragazze quando lavano i panni nell'aranceto, e il rumore della noria sarà gioia e frescura per la tua pace eterna. E per tutto l'anno i fringuelli, i lucherini, i verdoni faranno per te, nella perenne felicità dell'ampia chioma, un minuscolo tetto di musica tra il tuo sonno tranquillo e l'infinito cielo di sempiterno azzurro di Moguer".
    (Jimenez)






    Disse un asino: dal mondo .. Voglio anch'io stima e rispetto;
    Ben so come, e così detto, In gran manto si serrò;
    Indi a' pascoli comparve Con tal passo maestoso,
    Che all'incognito vistoso Ogni bestia s'inchinò.
    Lasciò i prati e corse al fonte, E a specchiarsi si trattenne;
    Ma sventura! Non contenne il suo giubilo, e ragliò.
    fu scoverto, e fino al chiuso Fu tra i fischi accompagnato;
    E il somaro mascherato In proverbio a noi passò
    Tu che base del tuo merto Veste splendida sol fai,
    Taci ognor, se no scoverto Come l'asino sarai
    - Aurelio de' Giorgi Bertola -





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  2. gheagabry
     
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    Vieni con me!
    Devi affrettarti però,
    sette lunghe miglia
    io faccio ad ogni passo.
    Dietro il bosco ed il colle
    aspetta il mio cavallo rosso.
    Vieni con me! Afferro le redini,
    vieni con me nel mio castello rosso.
    Lì crescono alberi blu
    con mele d'oro,
    là sogniamo sogni d'argento
    che nessun altro può sognare.
    Là dormono rari piaceri
    che nessuno finora ha assaggiato
    sotto gli allori baci purpurei.
    Vieni con me per boschi e colli!
    tieniti forte! Afferro le redini,
    e tremando il mio cavallo ti rapisce.

    Herman Hesse

     
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  3. deli99
     
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    amo i cavalli
     
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  4. gheagabry
     
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    “Non sono stretto da vincoli mondani né appesantito da mete prefissate. Io corro senza freni su sentieri vergini… Io sono il Cavallo”
    (Saul Arpino)



    Vitalità, velocità, resistenza, forza, intelligenza, bellezza, agilità, mitezza, pazienza, regalità: queste sono alcune caratteristiche del cavallo, una delle creature più belle del pianeta, vittima dell’egoismo e della cattiveria umana fin dai tempi più remoti.

    Coinvolto nelle battaglie in cui è rimasto mutilato dalle spade, dalle lance, dalle frecce, sventrato dalla bombe, ucciso dalle mitragliatrici, dai fucili, dalle pistole, e poi incornato nelle corride, azzoppato nei pali, frustato nel tiro dei carri, delle diligenze, nelle carrozzelle e nelle gare, imprigionato negli allevamenti, utilizzato nelle feste popolari, nel dressage, nei maneggi, nei rodei, nel duro lavoro dei campi, nel mondo del cinema, nei raids equestri, nell’esercito, nelle scuole militari, nel polo, esposto come oggetto ludico di prestigio sociale, utilizzato a pezzi come riserva di carne in caso di crisi alimentare, condannato ai viaggi della morte sui carri ferroviari piombati per migliaia di chilometri per arrivare a noi dalla Polonia, Ungheria, Ucraina ecc. dove trova la morte per stress, disperazione, per fame o sete prima di essere macellato.

    Oltre questo, in vari altri modi viene perpetuata la violenza sui cavalli per indurli ad essere totalmente sottomessi e ciecamente obbedienti al cavaliere: il riflesso condizionato legato ad un premio oppure prodotto dalla paura di ricevere una scossa di dolore. E in genere nell’addestramento i due i metodi vengono abbinati.

    C’è la ferratura che è tra i mezzi di costrizione più usata attraverso cui si impedisce il movimento elastico dello zoccolo, il suo ammortizzatore naturale. Una delle conseguenze di tale ferratura è la zoppia che coinvolge un gran numero di cavalli perché trasmette agli arti, senza attenuarle, tutte le asperità del terreno; in questo modo il danno ricade sulle articolazioni, sui tendini, sui muscoli.

    Anche la sellatura è un’imposizione innaturale per l’animale. La sella viene fissata al torace dell’animale con una cinghia che blocca in parte il movimento delle costole che è alla base della respirazione.

    Poi c’è il morso che serve a obbligare maggiormente il cavallo alla volontà del cavaliere, che può avvenire solo causandogli dolore, mediante una barretta di ferro trasversale tirata dalle redini con strappi, che spesso causano, oltre all’inevitabile dolore, lesioni e ferite alle labbra, ai denti, al palato, alle gengive, rottura di denti, ulcere ecc.. Se il cavallo non obbedisce gli si dà un colpo di morso metallico contro la mandibola con conseguente causa di dolore e lesioni spesso permanenti. Vi anche un tipo di morso, spesso utilizzato nelle scuole di equitazione palermitane, che ha lo scopo di comprimere le narici dell’animale impedendogli di respirare.

    Poi ci sono gli speroni che servono a far obbedire immediatamente il cavallo alla voce del cavaliere con la minaccia di procurargli un dolore acuto. Succede che i colpi degli speroni abbiano a volte rotto le costole e prodotto lesioni anche polmonari ai cavalli. In realtà come nei circhi equestri non è possibile assoggettare la volontà di una animale, destinato ad essere libero in natura e indipendente, se non con il terrore di una punizione.

    Nel dressage si costringe il cavallo a danzare a suon di musica come succedeva nella varie scuole di equitazione di Spagna, Vienna ed altre, allo scopo di divertire le corti annoiate di un tempo. Il dressage comporta atti di vera violenza e costrizione del cavallo (metodi spesso vietati dalla legge) per obbligarlo ad eseguire passi di danza antifisiologici per il cavallo. Nel concorso completo di equitazione delle Olimpiadi gli ostacoli fissi sovente sono la causa di fratture e morte del cavallo. Per fortuna l’imposizione del morso viene ancora attuata solo in alcuni paesi, in alcune attività e con diverse modalità che però feriscono il palato con uno spuntone (morso arabo o morso spagnolo).

    Anche il polo è un’attività che comporta costrizione, violenza e sofferenza per l’animale, come lo è il rodeo, il palio, il trotto, il salto ad ostacoli, le gare clandestine come quelle che ancora si svolgono di notte sulla tangenziale di Napoli e non solo, dove spesso si fa uso di doping, di frusta, speroni, antalgici contro la zoppia ecc.

    Gli incidenti nei pali sono riportati dalla cronaca e spesso testimoniano il poco amore dell’uomo verso il suo stesso cavallo. Nel 1989 nel palio di Sassari un cavallo azzoppatosi venne sgozzato sotto gli occhi inorriditi di migliaia di spettatori. Ma durante il palio non c’è solo la morte a seguito della rottura delle ossa per cadute (come in questi ultimi tempi la cavalla a Ronciglione) o scontro contro gli ostacoli o per calpestamento, ci sono le rozze e bestiali nerbate sul muso, sugli occhi, sulle orecchie per indurli a dare il massimo delle proprie possibilità fisiche fino allo sfinimento.

    In una quarantina di paesi in Italia si svolgono pali ad imitazione di quello di Siena, per sostenere e lanciare un vastissimo giro di interessi turistici ed economici. E la vittima è sempre la stessa: il cavallo (cioè la creatura che più di ogni altra ha contribuito al progresso della “civiltà” umana) al cui passaggio bisognerebbe in chinarsi.

    Franco Libero Manco



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  5. gheagabry
     
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    ......nella storia


    L'origine della specie equina risale a circa 60 milioni di anni fa.
    L'Eohippus discende dai Condilartri, un gruppo di animali che vissero sulla Terra circa 75 milioni di anni fa.
    I Condilartri avevano le dimensioni di un cane o di una volpe, e le zampe avevano cinque dita, ciascuna con un'unghia cornea.

    Circa quindici milioni di anni più tardi il piede del loro discendente cambiò, il piede anteriore aveva quattro dita e quella posteriore tre.
    Con il passare del tempo, cambiamenti e fattori legati all'ambiente determinarono l'evoluzione di questi animali.
    Il piede con le dita divise, come quelle di un cane e la somiglianza a un tapiro, indicano che l'Eohippus viveva in un ambiente con terreno morbido.
    Neppure gli occhi e i denti assomigliano a quelli del cavallo attuale, un tempo i denti erano più simili a quelli di una scimmia o di un maiale.
    All'Eohippus succedettero due animali simili ai cavalli contemporanei, il Mesohippus e il Miohippus: entrambi più grossi e con zampe più lunghe, inoltre avevano una dentatura più adatta a brucare. Le dita dei piedi si erano ridotte a tre.
    Il cambiamento radicale del cavallo si sviluppò circa 10-25 milioni di anni fa. Il cavallo sviluppò denti adatti a brucare l'erba, la posizione degli occhi cambiò per conferire all'animale un maggiore campo visivo, anche il collo si allungò e le zampe divennero più lunghe, svilupparono legamenti più elestici e ridussero a uno il numero delle dita, la cui unghia si trasformò in zoccolo.



    In questa dinamica epoca, in cui il motore occupa un ruolo importante, l'uomo nutre ancora per il cavallo, nobile e generoso animale che fin dai lontani oscuri giorni della preistoria lo ha accompagnato nel suo lungo cammino, un affetto profondo.

    Quando, nel 1519, l'esigua schiera di Spagnoli capitanata da Ferdinando Cortes s'inoltrò fra le gole e i deserti del Messico, si vide fatta segno da parte degli indigeni a straordinarie manifestazioni di rispetto e di deferenza: gli Aztechi veneravano nei pallidi guerrieri venuti dal Levante i compagni di Queztalcoatl, il dio fondatore della stirpe, signore del tuono e della folgore, dal torso d'uomo e dal corpo belluino.Non avevano mai visto un cavallo, quegli ingenui sudditi di Montezuma, e credevano che gli Spagnoli fossero tutt'uno coi loro animali, come giganteschi centauri.

    Greci e Romani avevano per i cavalli, per le corse delle bighe, per l'equitazione, una passione che rasentava il fanatismo: Caligola, il folle imperatore, arrivò a creare senatore il suo cavallo Incitatus, e a fargli costruire una scuderia di marmo e d'argento.Dalle gradinate del Circo Massimo le grida frenetiche di 200.000 spettatori accompagnavano il galoppo delle quadrighe; spesso, fra i sostenitori delle due parti avverse, scoppiavano zuffe sanguinose.

    Crollò anche l'impero romano, con la sua decadente e raffinatissima civiltà forse una delle poche cose che sopravvissero a tanto sfacelo fu l'arte equestre, che si venne sempre più affermando come privilegio della nobiltà. Le pianure di Maremma e di Normandia fornivano ai cavalieri medioevali i massicci stalloni da guerra, capaci di sopportare il peso delle grevi armature: e si può dire che, dal XII fino al XVII secolo, fino a quando, cioè, gl'Inglesi cominciarono ad incrociare i loro cavalli con quelli arabi, gli allenamenti, i metodi, e i mercati italiani dominarono il mondo ippico d'Europa.Oggi esistono decine di razze equine, spesso assai diverse l'una dall'altra, adatte ai più svariati compiti. Così l'Hackney, inglese, un bel animale dalle forme robuste, che si presta sia al tiro leggero che alla sella; il Pony, piccolo e tozzo la cavalcatura prediletta dai bambini; il cavallo da polo, simile al precedente, allevato appositamente per questo gioco; lo Shire, un mastodontico cavallo da tiro, dalle zampe larghe e pelose, pesante fino a 10 quintali. In Oriente dominano il cavallo Arabo e il Berbero; piuttosto piccolo il primo, grigio pomellato, resistente e velocissimo; più robusto, di mantello rosso o roano, il secondo. Da incroci fra cavalli arabi e inglesi è nato, come si è detto, quel magnifico campione di velocità e di resistenza che è il purosangue inglese, dominatore degli ippodromi.

    L'equitazione, che in Italia è stata rivoluzionata dal capitano Caprilli, ha raggiunto forse il suo massimo livello tecnico; è difficile pensare che i cavalieri futuri riescano a trovare qualcosa di nuovo in un'arte che viene praticata da migliaia d'anni. L'allevamento, invece, attende dalla scienza nuovi impulsi; effettivamente, oggi otteniamo cavalli migliori di quelli che si avevano solo cent'anni fa, tant'è vero che i records sul miglio si abbassano di anno in anno.

    Il purosangue che vediamo sfilare davanti alle trincee prima della corsa, fremente di vita sotto il serico mantello baio o sauro, è il frutto di lunghi studi, di sapienti accorgimenti: per accrescerne le doti di resistenza e di velocità, per adattarlo al terreno elastico o pesante, per imprimergli lo spunto veloce ai nastri o sul tragurdo, allevatore e trainer hanno dovuto spiegare tutta la loro esperienza e la loro sagacia. E quando il puledro rientra al peso, madido di sudore e con gli occhi inniettati di sangue, dopo la vittoriosa galoppata sulla pista erbosa, gli uomini che l'hanno curato e allenato lo accarezzano con gli occhi umidi dalla commozione: e in quel gesto è tutto l'amore dell'uomo verso il nobile animale che dai lontani, oscuri giorni della preistoria lo ha accompagnato nel suo lungo cammino.


    dal web
     
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  6. gheagabry
     
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    .....nell'arte




    Anche i cavalli hanno il loro Pantheon. Non si trova ad Ascot o a Longchamp, e non celebra le vittorie di Tornese o di Ribot. Ma la Sala dei Cavalli in Palazzo Te, a Mantova, è ugualmente uno degli omaggi più fastosi e magniloquenti mai tributati a questo nobile animale che per millenni ha accompagnato la storia dell’uomo, seguendone a passo di carica o al piccolo trotto la vicende pubbliche e private, le imprese belliche e la vita nei campi, lo svago e il lavoro. Certo, ben più riconoscente verso la propria cavalcatura fu Caligola, l’imperatore romano che secondo la leggenda avrebbe nominato senatore il suo cavallo Incitatus. Ma Federico Gonzaga, committente di quella splendida dimora gentilizia che è la villa suburbana di Palazzo Te, non fu certamente da meno, e affidando a Giulio Romano e alla sua bottega la decorazione della Sala dei Cavalli, spazio pubblico di rappresentanza dove si svolgevano feste, spettacoli e balli, volle dare prova del suo affetto e della sua grande passione per questi magnifici animali, affrescati sulle pareti della Sala tra episodi della vita di Ercole, figure mitologiche ed erme classicheggianti che elevano anche gli eleganti quadrupedi al rango di vere e proprie divinità. Del resto, cavalli, cani, falconi, presenti in gran numero anche in altri locali della villa, ricordano il rito profano della caccia, particolarmente apprezzato dal marchese Federico e dalla corte gonzaghesca. Un rito legato a uno stile di vita cavalleresco, che i contemporanei avvertivano come efficace espressione della potenza del principe e che assumeva connotazioni fortemente simboliche in quanto l’aspetto ludico si fondeva con quello guerresco. Sotto questi “ritratti al naturale”, sono ancora leggibili i nomi di alcuni cavalli, dal baio Bataglia al roano Dario, dal leardo Glorioso a Morel Favorito, un arabo morello particolarmente caro a Federico Gonzaga.


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  7. gheagabry
     
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    Bucefalo e Alessandro Magno, Incitatus e Caligola, Marengo e Napoleone, Marsala e Garibaldi. I mitici Pegaso e Unicorno, i cavalli del sole del carro di Apollo e la "cavallina storna" cantata dal Pascoli. Da sempre il cavallo partecipa alla storia dell'umanità da autentico protagonista: non è un caso che se ne sia usato uno, seppur di legno, per espugnare l’impenetrabile Troia. Il rapporto tra il cavallo e il suo compagno di elezione, il cavaliere, non è un rapporto tra mezzo e utilizzatore, è un binomio paritetico. Efficace strumento in una serie di attività fondamentali, dalla circolazione al traino, dal trasporto all’agricoltura, fedele compagno a caccia e in guerra, nobile partner in manifestazioni ludiche o religiose, apprezzato per l’elevato valore economico, da sempre il cavallo è un'icona di prestigio e di potere, vero e proprio status symbol.

    Già nel mondo antico il suo possesso è un tale segno di distinzione sociale da far sì che agli inizi dell'età del Ferro cominci ad affermarsi, anche a livello iconografico, un’aristocrazia che potremmo definire “equestre”. Man mano che all’interno delle prime comunità protourbane iniziano a differenziarsi, per rango, ricchezza e prestigio, i primi gruppi emergenti, le loro sepolture si riempiono di morsi, finimenti e bardature equine, puntali e sonagli da carro, fibule ed altri oggetti configurati a cavallino, a volte carri, a volte addirittura cavalli (come nella necropoli di Via Belle Arti a Bologna o in quella di Verucchio, nel riminese), ad indiziare la progressiva identificazione di cavalleria e patriziato, e a ribadire, anche a livello funerario, il ruolo eminente dei possessori di carri e cavalli
     
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  8. gheagabry
     
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    LE AMAZZONI DI ALFRED DE DREUX



    Da un libro le opere del pittore francese che ritraggono dame che montano "en Amazone"



    Pierre-Alfred Dedreux, generalmente Alfred de Dreux come si firmava lui stesso, nato e morto a Parigi (23 mars 1810 - 5 mars 1860), è un ritrattista e pittore francese che, per trent'anni, ha fissato sulla tela le mille sfacettature del più nobile degli animali, il cavallo.
    Appena tredicenne spinto dallo zio Pierre-Joseph Dedreux-Dorcy (1789-1874), anche lui pittore, inizia gli studi presso gli ateliers di Théodore Géricault, prima, e poi di Léon Cogniet.
    Il cavallo è già il suo soggetto preferito, così come testimoniano i suoi primi schizzi e disegni di questo periodo




    Da qui in avanti, la sua pittura avrà un posto previlegiato nell'arte equestre e attraverso l'espressione, il movimento e la forza dei suoi cavalli trasmetterà un'immagine della sua epoca.



    Scevro dai condizionamenti stilistici e sociali, spirito libero e determinato ha saputo trasmettere con arte magistrale la reale natura dell'animale e la relazione tra uomo e cavallo riuscendo a cogliere il fuggevole istante del loro accordo.




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  9. gheagabry
     
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    INCITATUS
    il cavallo di Caligola



    Caligola amava moltissimo le corse del circo, ma la popolarità di tale disciplina in epoca imperiale fu pari a quella del calcio oggi e non si vede la ragione per cui anche il primo dei Romani non potesse avere le stesse passioni dei suoi sudditi. All’inizio del primo secolo esistevano quattro scuderie ufficiali denominate dai colori delle livree indossate dai loro fantini dei Rossi, dei Bianchi, degli Azzurri e dei Verdi. A quest’ultima andava il favore di Caligola, tanto che spesso cenava nella scuderia della squadra preferita e ricopriva di doni gli aurighi. Uno di essi, un certo Eutico, fu gratificato con due milioni di sesterzi e il permesso di farsi aiutare dai pretoriani nella costruzione di nuove stalle. Ancora più profondo l’affetto che Caligola mostrava verso il più importante cavallo dei Verdi, chiamato Incitatus. Spesso si sente raccontare che Caligola avesse nominato console Incitatus, ma è venuto il momento di fare chiarezza, partendo dall’interpretazione delle fonti al riguardo. Cassio Dione (LIX, 14,7) dice quanto segue: “…invitava Incitatus a pranzo, gli offriva chicchi di orzo dorato e brindava alla sua salute in coppe d’oro; giurava inoltre in nome della salvezza e della sorte di quello ed aveva anche promesso che lo avrebbe designato (apodeixein) console (upaton), cosa che avrebbe sicuramente fatto, se fosse vissuto più a lungo. Dione dice che aveva anche promesso che lo avrebbe designato console. Tuttavia non lo fece e Caligola non era uomo da fermarsi davanti a nulla. Cassio Dione scrive sotto l’imperatore Severo Alessandro a due secoli di distanza dagli eventi e non fornisce un
    profilo positivo del giovane figlio di Germanico. Poco importa l’opinione “soggettiva” dello storico (cosa che avrebbe sicuramente fatto, se fosse vissuto più a lungo). Caligola non nominò console Incitatus e questo ci deve bastare!
    Svetonio (Caligulae vita,LV) dice: …perché Incitatus non fosse disturbato il giorno prima della corsa, soleva obbligare i vicini al silenzio per mezzo dei soldati, oltre ad avergli fatto costruire una scuderia d’avorio e una mangiatoia d’avorio, gli regalò gualdrappe di porpora e finimenti con gemme, una casa e un gruppo di servi; si dice che lo avesse voluto designarlo console. Ma anche Svetonio è molto vago. Dice testualmente: consulatum quoque traditur destinasse. Data la somiglianza dei due passi è verosimile che la notizia derivi sia per
    Cassio Dione sia per Svetonio da una stessa fonte ostile a Caligola.


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  12. gheagabry
     
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    Sono come un occhio di cavallo
    riparato dal mondo.
    Non chiedermi
    quando sarò da te
    quali alberi e quali fiori
    ho incontrato.
    Io vedo soltanto il sentiero
    e di tanto in tanto
    le ombre delle nuvole
    inviarmi messaggi
    che non capisco.



    ANA BLANDIANA



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  13. gheagabry
     
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    "Nervi lisci di cavalli
    a sfaticare sere
    a calmarci di sudore
    in fiaccole di gelo
    inutilità di foglie
    stupide e leggere
    nubi di bucato
    sugli stenditoi del cielo

    come e' duro essere nuovi
    avere un'altra storia
    io ti amai con noncuranza
    senza mai uno scopo
    i ricordi sono acqua
    e l'acqua e' memoria
    il dolore e' sforzo e vino
    uccide il giorno dopo

    vento di girandole
    in mezzo alle immondizie
    mi fa freddo così tanto
    da cercarti adesso
    e ad un certo punto andare
    e non dar più notizie
    solo in compagnia di sé
    e chiedere il permesso
    per essere te stesso

    mai
    non odiarmi mai
    se mi allontanai
    perché potessi appartenerti

    mai
    non ti ho vissuto mai
    e ti rinunciai
    già rassegnato a non saperti

    quanti addii che immaginai
    facchini e treni
    a sbuffare intorno
    e tavoli di avanzi
    in un viavai di camerieri
    un fiammingo sole
    sta per inchiodare il giorno
    rondini croci d'autunno
    infilano pensieri
    guizzi in occhi di cavalli
    laghi nero fondo
    anime di ombre
    nell'attesa delle stalle
    e' un'immensa sala in cui aspettiamo
    questo mondo
    il futuro e' qui davanti
    o già dietro le spalle

    chiuderò la porta
    a far star bene la tua assenza
    ci sarà fedele sempre
    il cane del rimorso
    i cavalli origliano
    quest'aria di impazienza
    a metà della speranza
    io cambiai percorso
    e poi non ho più corso

    mai
    non odiarmi mai
    io mi allontanai
    perché potessi raccontarti

    mai
    non ti ho vissuto mai
    e ti rinunciai già rassegnato a ripensarti

    sudai di sud
    di vento diventai

    e andai
    con la voce andai
    coi capelli andai
    lungo sentieri di tornadi

    e andai
    con il cuore andai
    fino a che trovai
    la piana dei cavalli bradi

    scalpitai
    scartai
    m'impennai
    scalciai
    galoppai
    saltai
    m'involai"


    (soundtrack: La Piana dei Cavalli Bradi - Claudio Baglioni)

     
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  14. gheagabry
     
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    IL CAVALLO DEL VESCOVO DI CATANIA:all’età sveva appartiene la leggenda che parla del cavallo del vescovo di Catania. Dice infatti questa leggenda che il crudele imperatore svevo Enrico VI, che regnò in Sicilia dal 1194 al 1197, impose in Sicilia vescovi e dignitari a lui fedeli, e suoi degni rappresentanti anche quanto a ferocia . Uno di questi crudeli funzionari imperiali era il vescovo di Catania, il quale una volta affidò il suo cavallo più bello a uno scudiero , per portarlo a passeggio sulle balze dell’Etna. Il cavallo a un certo punto, si imbizzarrì, e cominciò a correre verso la cima del vulcano; lo scudiero, ansante e grondante sudore, seguì il cavallo del vescovo fin sulla vetta dell’Etna; ma, arrivato sull’orlo del cratere centrale, il cavallo diede un balzo, e vi sparì dentro. Il povero scudiero si mise a piangere pensando a quale sorte lo aspettava se fosse tornato a mani vuote dal suo feroce signore; quando improvvisamente vide accanto a sé un vecchio, dalla solenne barba bianca, che gli disse: "Io so perché tu piangi; vieni con me,e ti mostrerò dov’è il cavallo del vescovo di Catania". E afferratolo per mano, lo condusse per un passaggio misterioso, attraverso il fumo del vulcano, dentro una sala meravigliosa, p dove c’era un trono tutto d’oro, e sul trono c’era re Artù (che secondo una leggenda inglese vive ancora sull’Etna). Il re gli disse che sapeva tutto di lui e del crudele vescovo di Catania, e gli mostrò, in fondo alla sala, il cavallo che egli cercava, ed aggiunse: "Torna dal tuo vescovo, e digli che sei stato alla corte di re Artù; e digli anche che la sua crudeltà e la sua prepotenza, hanno stancato perfino la pazienza di Dio, che presto lo punirà per mio mezzo; e digli infine che, se vuole il suo cavallo, deve venire a riprenderselo lui stesso, salendo a piedi fin qui; ma se non verrà entro 14 giorni, al quindicesimo giorno egli morirà". E detto questo lo congedò. Lo scudiero, ritornò a Catania, ma il crudele vescovo non gli credette , anzi sostenne che lo scudiero aveva venduto il cavallo; ma, colpito dall’accento di verità del suo servo, non ordinò di decapitarlo, e lo fece imprigionare. Per 14 giorni, lo faceva venire dinanzi a sé e lo interrogava, e lo scudiero raccontava sempre la stessa storia di re Artù; il vescovo non voleva umiliarsi e riconoscere le sue colpe, e mandava sempre gente sull’Etna a cercare il suo cavallo, e la gente non tornava più. Così si andò avanti per 14 giorni; all’alba del quindicesimo giorno il vescovo, esasperato, si fece venire davanti l’intrepido scudiero. "Tu sei uno stregone" lo investì, "tu ti sei divertito a fare scomparire non solo il mio cavallo, ma anche i miei cavalieri e le mie guardie. E io ti darò ora il premio che si conviene agli stregoni come te: non la forca o la decapitazione, ma il rogo. Orsù, guardie, prendetelo e bruciatelo vivo!". Nel dir così si alzò in piedi, ma strabuzzò gli occhi, diede una giravolta, e cadde morto stecchito. La profezia di re Artù si era avverata, e il crudele vescovo aveva terminato per sempre di tormentare i poveri catanesi.



     
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