ROMA la città eterna

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  1. gheagabry
     
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    “Volli che questo santuario di tutti gli dei rappresentasse il globo terrestre e la sfera celeste, un globo entro il quale sono racchiusi i semi del fuoco eterno, tutti contenuti nella sfera cava!
    (Marguerite Youcenar, Le memorie di Adriano)


    M. AGRIPPA L.F. COSTERTIUM FECIT


    IL PANTHEON


    Il Pantheon è l’edificio più straordinario dell’antica Roma, emblema stesso dell’architettura occidentale, ha infatti tra le sue caratteristiche più marcanti la perfezione geometrica: il suo interno racchiude una sfera perfetta, che idealmente accarezza la volta e sfiora il pavimento nel punto centrale. Perché il segreto del Pantheon è racchiuso proprio lì., nel suo ventre cavo, un enorme spazio vuoto illuminato dal sole attraverso l’oculo posto al vertice della cupola, in modo da marcare, secondo un recente studio, la data più sacra dell’Impero, il 21 aprile, giorno della fondazione di Roma.
    La casa "di tutti gli dei" era stata fatta costruire in origine da Marco Vipsanio Agrippa, genero e generale di Augusto, intorno al 25 a. C., ma di quel primo tempio poco o nulla si sa, se non che andò distrutto e che fu ricostruito circa un secolo dopo da Adriano; anche di questo tempio le fonti scarseggiano, restano poche righe dello storico Dione Cassio, scritte 60 anni dopo.

    Cassio Dione Cocceiano afferma che il "Pantheon" potesse avere questo nome forse dal fatto di accogliere le statue di molte divinità, ma che la sua personale opinione fosse che il nome derivasse il dal fatto che la cupola della costruzione richiamava la volta celeste, e che l'intenzione di Agrippa era stata quella di creare un luogo di culto dinastico, dedicato agli dei protettori della famiglia Giulia (Marte e Venere), e dove fosse collocata una statua di Ottaviano Augusto da cui l'edificio avesse derivato il nome. Essendosi l'imperatore opposto ad entrambe le cose, Agrippa fece porre all'interno una statua del Divo Giulio, (ossia di Cesare divinizzato) e, all'esterno, nel pronao, una di Ottaviano e una di se stesso, a celebrazione della loro amicizia e del suo proprio zelo per il bene pubblico. L'edificio, distrutto dal fuoco nell'80, venne restaurato sotto Domiziano, ma subì una seconda distruzione sotto Traiano.


    Il Pantheon è u monumento alieno, muto, enigmatico. Non si sa nemmeno chi l'abbia progettato..c'è chi dice l'architetto Apollodoro di Damasco che Adriano in persona. Di certo, per edificarlo l'imperatore non badò a spese. Soltanto per dar forma al colonnato d'ingresso si servì di monoliti di granito alto 12 metri che fece arrivare dall' Egitto. Per non parlare della cupola: una perfetta semisfera che, con i suoi 43,4 metri di diametro, è stata la più grande del mondo fino a quella di Brunelleschi a Firenze, oltre mille anni dopo. Ed è a tutt'oggi la più grande in calcestruzzo - un blocco minerale gigantesco, u pezzo unico di 5000 tonnellate - mai realizzata. "Nel Medioevo la cupola ha fatto sognare: si pensa fosse opera del diavolo" spiega Paolo Carafa, docente di Archeologia della Sapienza di Roma, "Si diceva che l'architetto del Pantheon, per erigerla, avese fatto riempire il cilindro del tempio con terra nella quale aveva nascosto monete d'oro, e su questo riempimento avesse gettato la cupola; terminata la costruzione, i poveri di Roma avrebbero rimosso tutta la terra nella speranza di trovare le monete".

    “Il più bel resto dell’antichità romana.
    Un tempio che ha così poco sofferto,
    che ci appare come dovettero vederlo alla loro epoca i Romani”
    (Stendhal)


    Entrare nel Pantheon è come un rito d'iniziazione: si passa attraverso gli alti fusti di granito grigio e rosa, dietro i quali si cela la porta d'accesso. Si supera un ampio passaggio, per essere in fine proiettati nel grande vuoto dell'interno e provare uno straordinario senso di dilatazione che proietta lo sguardo verso l'alto, dove la meterialità dell'edificio si dissolve nell'oculo posto al vertice della cupola. ma ciò che davvero lo anima è il fascio di luce che penetra dall'opation. i raggi che giungono dall'alto in modo sempre diverso vanno ad illuminare un angolo del soffitto, o delle pareti, o del pavimento, secondo l'orario e il periodo dell'anno, muovendosi come un riflettore di teatro, in modo apparentemente casuale. I Romani, però, non lasciano niente al caso "D'inverno, quando il sole è basso sull'orizzonte, la luce illumina sempre l'interno della cupola" spiega Giulia Magli, docente di archeoastronomia al Politecnico di Milano, "Ma nell'equinozio di primavera, il 20 marzo, a mezzogiorno la luce comincia ad illuminare una griglia situata sopra la porta d'ingresso. nei giorni successivi il fascio di luce si sposta sempre più in basso. Il risultato. il sole illumina sempre di più la griglia e poi l'ingresso, diventando visibile all'esterno, il un periodo dell'anno particolarmente importante per i Romani. Aprile, infatti era dedicato a Venere, la dea dalla quale la "gens Iulia" (la dinastia di Cesare ed Augusto) vantava la discendenza. Questo fenomeno raggiunge il culmine il 21 aprile, quando l'ingresso è illuminato perfettamente. questo era un giorno specia, era l'anniversario della fondazione di Roma. Un giorno che, da Augusto in poi, aveva un valore religioso. Questo giorno potrebbe coincidere con quello in cui, secondo una leggenda romana, Romolo era svanito e "asceso al cielo"..il fascio di luce potrebbe aver avuto un effetto coreografico: illuminando l'imperatore nel momento in cui, a mezzogiorno in punto si mostrava al popolo e condiderando il fatto che la facciata del tempio è rivolta a nord, dunque sempre in ombra, è lecito pensare che l'illuminazione dell'ingresso avesse un valore simbolico. Come per i Faraoni egizi, gli imperatori romani si identificavano con "helios", dio del sole".
    (tratto da Storia, focus nr 91)


    Durante il pontificato di Papa Urbano VII, egli ordinò di far fondere il soffitto di bronzo di questo edificio. La maggior parte del bronzo fu usata per la realizzazione di alcuni piccoli cannoni per la fortificazione e la protezione di Castel Sant’Angelo, sulle rive del Tevere, di fronte alla Basilica di San Pietro in Vaticano. La rimanente quantità fu usata nella camera apostolica per vari altri lavori. Si dice anche che parte di questo bronzo fu usato dal Bernini per la costruzione del Baldacchino sopra l’altare principale della Basilica di San Pietro in Vaticano, ma secondo almeno un esperto, la contabilità del Papa dimostrava che circa il 90% del bronzo fu usato per costruire 200 cannoni per la protezione di Sant’Angelo mentre il bronzo per la costruzione del Baldacchino proveniva da Venezia. Questa situazione venne a creare la Pasquinata romana: ”Quello che non fecero i barbari lo fecero i Barberini”, ovverossia la famiglia di Urbano VIII.

    Le fonti rendono noto un restauro sotto Antonino Pio, mentre l'iscrizione incisa sulla trabeazione della fronte, ricorda altri restauri sotto Settimio Severo, nel 202.


    L'edificio si salvò dalle distruzioni del primo Medio Evo perché già nel 608 l'imperatore bizantino Foca ne aveva fatto dono a papa Bonifacio IV, che lo trasformò in chiesa cristiana (Sancta Maria ad Martyres). Questo nome proviene dalle reliquie di ignoti martiri cristiani che vennero traslate dalle catacombe nei sotterranei del Pantheon.

    « Bonifazio IV. per cancellare quelle scioccherie, e sozze superstizioni, l'an. 607. purgatolo d'ogni falsità gentilesca, consagrollo al vero Iddio in onore della ss. Vergine, e di tutti i santi Martiri; perciò fece trasportare da varj cimiteri 18. carri di ossa di ss. Martiri, e fecele collocare sotto l'altare maggiore; onde fu detto s. Maria ad Martyres »
    (Giuseppe Vasi, Itinerario istruttivo per ritrovare le antiche e moderne magnificenze di Roma, 1763)


    È il primo caso di un tempio pagano trasposto al culto cristiano. Questo fatto lo rende il solo edificio dell'antica Roma ad essere rimasto praticamente intatto e ininterrottamente in uso per scopo religioso fin dal momento della sua fondazione.

    ...leggende....



    M.Spinelli
    Il tempio fu consacrato a Santa Maria ad Martyres, con riferimento ad una “entità collettiva” cristiana in contrapposizione all’antica dedica pagana a tutti gli dei di Roma. La cerimonia di consacrazione decisamente solenne: vennero anche seppellite, sotto la “Confessione” del nuovo santuario, tante ossa di martiri sottratte alle catacombe quante avevano potuto riempire ventotto carri. Poi, sulle note del Gloria, per la prima volta i prelati cattolici entrano nel Pantheon. Ed è allora che la fantasia dei romani vede alzarsi in volo e fuggire atterriti sette demoni, sette come le divinità pagane che avevano abitato il tempio. E, sempre secondo le credenze popolari, l’apertura in cima alla cupola inizialmente non esisteva, ma sarebbe dovuta ad un grosso diavolo che, scappando dal tetto, avrebbe fatto saltare a colpi di corna la pigna dorata che chiudeva il foro. L’aureo reperto sarebbe precipitato sulla piazza dietro il monumento, che per questo avrebbe preso il nome di piazza della Pigna. Medioevale, e diabolica, è pure la leggenda sull’origine del fossato che corre attorno al Pantheon. I romani, cancellato dalla memoria il ricordo della passeggiata dei “Saepta Iulia”, anche in questo caso tirano in ballo il diavolo: Baialardo, mago assai famoso a Roma (ovviamente un personaggio immaginario), ottiene da Satana, in cambio dell’anima, il Libro del Comando, supremo e segreto manuale di arti malefiche. Che, pentito per lo scellerato patto, usa le arti apprese dal magico libro per volare in un solo giorno in pellegrinaggio fino a Gerusalemme e tornare a Roma. Ma al Pantheon trova ad attenderlo Satana che reclama l’anima in rispetto dell’accordo. Il mago, però, conoscendo la passione dei diavoli per le noci, gliene offre alcune da mangiare. Il maligno si distrae e Baialardo si salva rifugiandosi dentro il tempio, dove prega sinceramente pentito. Allora il diavolo, inferocito per esser stato imbrogliato, comincia a girare furiosamente intorno al tempio, producendo con i suoi zoccoli il fossato.
     
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  2. gheagabry
     
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    .....a moltitudine di fontane che bagnano e rallegrano, con i loro gorgoglii argentini, la città di Roma. Non esistono solo le fontane monumentali, davvero si passa dalle fontanelle agli angoli della strada, dalla forma così singolare che sono state chiamate “nasoni”, alle fontane più nascoste, più grandi dei nasoni, ma non della grandezza di altre…..


    Le fontane di Roma



    Sin dall’antichità acquedotti e terme sono stati la passione degli abitanti di questa città che non ha mai smesso di giocare con l’acqua, tanto da indurre Ottorino Respighi nel 1916 a dedicare un poema sinfonico alle fontane di Roma...

    A Roma l'acqua diventa espressione artistica anche dove è stata portata solo come risorsa idrica. Le fontane sono innumerevoli e una più bella dell'altra.
    Ci sono delle vere e proprie dispute per stabilire quale sia la fontana più bella di Roma: c'è chi dice quella di Trevi, che di certo è la più famosa grazie a Fellini e quella più cercata e frequentata dai turisti di tutto il mondo, che la fotografano in ogni stagione ed ora del giorno e della notte. Ma non è impresa facile mettere a paragone e dare un voto a fontane come la Barcaccia, il Tritone, o la Fontana delle Naiadi, tra le più note.
    E i turisti restano stupiti e piacevolmente sorpresi nello scoprire quante bellissime fontane sono assai meno famose eppure altrettanto interessanti ed affascinanti, in innumerevoli angoli della città, non solo espressione di arte, ma anche di storia.


    Per esempio la Fontana del Mascherone di via Giulia, con la vasca e il mascherone stesso di epoca romana, fatta collocare nella prestigiosa strada dai Farnese, nelle vicinanze degli altrettanto noti vasconi, che erano in realtà antichi sarcofagi romani, di piazza Farnese. Sembra che la larga bocca del Mascherone versasse vino al posto dell'acqua in occasione delle sfarzose feste delle nobili famiglie dell'epoca tra il XVII ed il XVIII secolo. O la Fontana delle Tartarughe a piazza Mattei, mirabile opera di Giacomo della Porta, che doveva trovarsi in una piazza vicina, ma che fu invece costruita dove ancora si trova per volontà, appunto, della famiglia Mattei, assai potente (e prepotente) alla fine del XVI secolo. O ancora la Fontana del Mosè, anche detta dell'Acqua Felice, anch’essa molto fotografata dai turisti ma poco amata dai romani, da quando papa Sisto V incaricò Leonardo Sormani di realizzarla secondo il piano urbanistico di rinnovo degli acquedotti della città. Si trova purtroppo in un luogo molto (anzi troppo) trafficato della capitale, e richiede continui restauri e pulizie per mostrare il bianco del travertino.

    Anche le acque che alimentano le fontane romane sono tante e diverse: l'acqua vergine, l'acqua marcia, l'acqua paola, l'acqua felice, l'acqua del Peschiera e tante altre, spesso potabili e, ormai, spesso mescolate con altre fonti meno note. Tanto che a volte si può bere direttamente dalle cannelle più facilmente raggiungibili poste discretamente negli angoli più opportuni di queste opere d’arte. Sono le stesse acque che escono dai nasoni (le classiche fontanelle di Roma), tutte microbiologicamente controllate: vale la pena provarle un po’ tutte, per apprezzare la differenza della consistenza e del sapore … se si è intenditori!

    Da sempre le fontane sono espressione di ricchezza, benessere, pulizia e salute, ma anche di gioia, di rinascita e di romanticismo. I giochi d'acqua, che al tramonto diventano giochi di luci e riflessi, e di notte vengono esaltati dall'illuminazione artificiale, nascono da conchiglie per posarsi su corpi sensuali, escono da labbra di puttini per bagnare animali mitologici, scrosciano lungo pareti marmoree per riempire vasche cristalline. Sono il filo conduttore delle passeggiate romane, colonna sonora e specchio di storia.
    (Raffaella Roani)


     
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  3. gheagabry
     
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    Le fontane di Roma




    la Fontana dei Quattro Fiumi
    a piazza Navona




    Il Bernini lavorò alla Fontana dei Fiumi negli anni 1648-1651, su incarico di papa Innocenzo X, della famiglia Pamphilj. Il suo progetto unitario fu realizzato con l’aiuto degli scultori Giacomo Antonio Fancelli (il Nilo), Claude Poussin (il Gange), Antonio Raggi (il Danubio), Francesco Baratta (il Rio della Plata).

    I fiumi sono così rappresentati:

    il Nilo con un leone ed una palma a simbolizzare l’Africa e con gli occhi bendati ad indicare che non si conoscevano ancora le sue sorgenti
    il Rio della Plata, con le monete d’argento che simbolizzano il colore argentino delle acque (dallo spagnolo plata=argento); è totalmente falsa la ripetuta affermazione che con il gesto della statua lo scultore volesse indicare la sua avversione contro il Borromini alludendo ad una supposta instabilità della Chiesa di S. Agnese, poiché il Borromini vi lavorerà dal 1653 al 1657, quando la Fontana dei Quattro Fiumi sarà già ultimata
    il Danubio con un cavallo ed i fiori che richiamano le fertili pianure danubiane
    il Gange con un lungo remo ad indicare la navigabilità del fiume

    L’obelisco proviene dall’antico Circo di Massenzio.



    Sulla fontana sono raffigurati sette animali, oltre alla colomba bronzea in cima all’obelisco ed ai delfinetti nello stemma dei Pamphilj (opera di Nicola Sale del 1649), disseminati attorno a tutta la fontana ed in stretta relazione, insieme alle piante, con le personificazioni dei fiumi: sul lato occidentale un cavallo esce dalla cavità delle rocce con le zampe anteriori sollevate nell’atto di slanciarsi in un galoppo sfrenato sulle pianure danubiane coperte di fiori che incoronano la testa del fiume; un gruppo di cactus e un coccodrillo dall’aspetto un po’ fantasioso che spunta dall’angolo settentrionale,vicino al Rio della Plata; un leone sul lato orientale che sbuca, come il cavallo, dalla cavità delle rocce per abbeverarsi ai piedi di una palma africana (realizzata da Giobatta Palombo nel 1650) che si innalza fino alla base dell’obelisco; un dragone che si avvolge intorno al remo tenuto dal Gange; e poi un serpente di terra striscia nella parte più alta, vicino alla base dell'obelisco, e infine un serpente di mare e un delfino (o un grosso pesce) nuotano nella vasca con le bocche aperte, avendo entrambi la funzione di inghiottitoio delle acque (un originale espediente).




    Gli alberi e le piante che emergono dall'acqua e che si trovano tra le rocce sono anch'esse tutte rappresentate in scala più elevata. Le creature animali e vegetali, generate da una natura buona e utile, appartengono a razze e a stirpi grandi e potenti. Lo spettatore, girando intorno all'imponente fontana, può scoprire nuove forme o particolari che da un’altra visuale erano nascosti o quasi del tutto coperti dalla massa rocciosa. Il Bernini vuole suscitare meraviglia in chi ammira la fontana, componendo un piccolo universo in movimento ad imitazione dello spazio della realtà naturale.
    Si tratta di un paesaggio in cui l'elemento pittorico tende a prevalere, con lo scoglio, con l'anfratto da cui esce un animale selvatico o su cui c'è una pianta rampicante. Il Bernini riesce anche ad ottenere vive sensazioni atmosferiche: infatti un vento impetuoso colpisce la palma e ne scuote la chioma che urta contro la roccia, scompigliando anche la criniera del cavallo e dando l’impressione di sibilare tra gli anfratti della rupe.
    A lavoro concluso, il Bernini volle dare colore alle rocce, alla palma, alle peonie, alle agavi, e dispensò vernice dorata in vari punti. Così, all'illusionismo dell'insieme, si aggiungeva una componente coloristica ancora più accentuata.



    Lo stemma araldico della famiglia papale, la colomba con il ramo d'olivo, decora la roccia piramidale dell'obelisco e simboleggia il potere divino che scende come raggio solare lungo i quattro angoli dell'obelisco fino alla roccia, che ricorda la materia informe, il caos. Secondo l'iscrizione voluta da Innocenzo X, il monumento intende magnificamente offrire "salubre amenità a chi passeggia, bevanda a chi ha sete, occasione a chi medita".






    Il Gange

    La colossale fontana venne progettata dallo scultore italiano nel 1648, ma la sua esecuzione fu portata a termine nel 1651. La committenza arrivò a Bernini da Innocenzo X (1644-55), vero e proprio signore della piazza.
    Il pontefice rimase colpito dal bozzetto preparato da Bernini, che di fatto proprio grazie a questo semplice lavoro in terracotta ottenne la commissione già prevista per Borromini e, cosa ancora più rilevante, riuscì ad entrare nelle grazie del papa fin allora a lui poco favorevole.
    L’ideazione di Bernini proponeva una spettacolare metafora della grazia divina che si riversa sui quattro continenti, tema che non poteva non affascinare il pontefice, il cui stemma veniva riprodotto più volte a precisarne il ruolo di tramite terreno della volontà divina. La fontana consisteva in una vasca ellittica, alimentata da otto veli d’acqua, su cui si imponeva un grande blocco di marmo con figure, il tutto sormontato da un obelisco egizio, di imitazione romana del tempo di Domiziano, rinvenuto nel 1647 nel circo di Massenzio sulla via Appia, alla sommità del quale avrebbe trovato posto la colomba dello Spirito Santo.


    Rio de La Plata

    Il monumento, realizzato secondo il progetto appena descritto, è conosciuto da tutti, non potrebbe essere altrimenti dato il suo giganteggiare nel mezzo di quello che in età classica fu lo stadio di Domiziano, ma in quanti sanno cosa rappresentano le quattro statue poste ai rispettivi angoli della grande scogliera centrale?
    Ebbene le grandi figure maschili sono le personificazioni dei quattro fiumi più lunghi del mondo, secondo le conoscenze geografiche del tempo, uno per continente: il Danubio, il Nilo, il Gange ed il Rio della Plata (oggi sappiamo che in realtà il più lungo fiume americano è il Rio delle Amazzoni).
    Se a Bernini si deve la fase progettuale della complessa composizione, per l’esecuzione delle statue bisogna fare i nomi di alcuni suoi collaboratori: Ercole Antonio Raggi per il fiume europeo, Jacopo Antonio Fancelli per quello africano, Claude Poussin per l’asiatico e Francesco Baratta per l’americano. Sul gigantismo di queste figure ci viene incontro uno dei documenti conservati all’Archivio di Stato di Roma, in cui Raggi "si obliga far detta statua o fiume d'altezza se si drizzasse in piedi di palmi 20 di misura Romana", cioè circa quattro metri e mezzo.
    Tradizionalmente alcuni atteggiamenti delle quattro statue colossali sono state messe in relazione alla competizione tra Bernini e Borromini, architetto della chiesa di Sant’Agnese in Agone, altra committenza Pamphilj. Qualunque romano amante dei monumenti del centro storico vi ripeterà, per esempio, che la statua del Rio della Plata alza un braccio per il timore di un crollo dell’edificio che ha di fronte, oppure che la statua del Nilo si copre il volto in direzione della chiesa borrominiana per non guardare S. Agnese. In realtà quest’ultimo gesto ha un preciso significato: nascondersi o meglio coprirsi con un velo equivale a “non svelare”, tutto in relazione al fiume africano la cui sorgente rimase ignota fino alla fine del XIX secolo.


    Il Danubio

    La competitività tra Bernini e Borromini, come tante altre fra artisti, spesso ingigantite dai biografi, è stata più volte attenuata dopo il largo successo avuto nei secoli addietro, e a conferma di questo basta ricordare, peraltro, che l’intervento di Borromini per la chiesa, iniziata da Girolamo e Carlo Rainaldi è successivo a quello berniniano di qualche anno (1653-57).
    Ma torniamo in conclusione alla fontana. Nella parte bassa della scogliera, sotto alle statue dei fiumi, Bernini riproduce fauna e flora dei quattro continenti, cosicché tra le fronde appaiono vari animali: un cavallo che si abbevera sotto al Danubio, un mostro marino (fu la parte danneggiata e poi restaurata nell’agosto del 1997 quando alcuni vandali si tuffarono nella fontana usando questa scultura come trampolino), ma soprattutto un piccolo drago sotto il Rio della Plata. Tale rappresentazione è la trasfigurazione dell’armadillo imbalsamato proveniente dalle americhe che pendeva dal soffitto della wunderkammer del museo di Athanasius Kircher, celebre gesuita del tempo con cui Bernini era in contatto.
    Gli studi kircheriani sembrano rappresentare molto di più che una fonte iconografica per il piccolo drago all’interno della Fontana dei Fiumi: non va, infatti, dimenticato il grande lavoro del gesuita sui geroglifici egizi (l’obelisco ha iscrizioni di questo tipo), nonché la fitta corrispondenza tenuta con i confratelli missionari negli altri continenti (la fontana ha come tema i quattro continenti).
    (arte.it)



    Il Nilo

    ....leggende.....

    Sono state tramandate dai cronisti dell'epoca alcuni esempi del carattere giocoso del Bernini: il 12 giugno 1651, giorno dell'inaugurazione della fontana, alla presenza di papa Innocenzo X, dopo aver scoperto il suo lavoro tutti rimasero folgorati dalla bellezza delle statue e dalle decorazioni in vernice dorata, ma la fontana era priva di acqua. Bernini raccolse le congratulazioni di tutti, compreso il papa, il quale non fece cenno della mancanza per non umiliarlo e, solo quando il pontefice stava facendo girare il corteo per andarsene (un po' a malincuore), ad un cenno del Bernini venne finalmente aperta la leva che fece sgorgare le acque, con grande ammirazione e soddisfazione di tutti. Ci sono tramandate anche le parole del papa che disse Cavalier Bernini, con questa vostra piacevolezza ci avete accresciuto di 10 anni di vita!.
    Anche in un'altra occasione Bernini dimostrò senso dell'umorismo: molti erano preoccupati della stabilità dell'obelisco sulla fontana e più di uno gli fece notare che il suo innalzamento era una sfida all'equilibrio naturale, tanto che un giorno alcuni suoi rivali sparsero la voce che l'obelisco stesse per crollare. Bernini non mancò di arrivare presto, e, davanti alla numerosa folla che si era adunata, fissò alla base dell'obelisco quattro cordicelle sottili che solennemente attaccò con dei chiodini ai muri delle case circostanti della piazza.



    il cavallo


    il coccodrillo


    il delfino


    il drago


    il leone


    In un eccellente articolo sull’arte barocca a Roma, Olivier de la Brosse, esperto dell’estetica barocca, così commenta il significato simbolico della Fontana dei quattro fiumi nell’universo barocco:

    «L'umanesimo spirituale barocco sviluppa la dimensione [N.d.R. per le altre dimensioni, vedi l’articolo integrale] della missione universale che ha come corollario un senso cosmico della chiesa. Nel 1621 Gregorio XV fonda la Congregazione De Propaganda Fide, per la missione cattolica nel mondo. Il tempo delle grandi scoperte è passato e quello dell'universo finito comincia. Le relazioni politiche commerciali e quindi anche missionarie con l'America, l'Africa, l'Asia e specialmente la Cina e il Giappone sono d'ora innanzi saldamente stabilite.
    Il cattolico romano sa che il centro di questo mondo cristiano è a Roma. Egli sa che la sua Chiesa, depositaria della verità, deve portare questa verità a tutte le estremità del mondo. Gli artisti illustrano questa convinzione. Si potrebbe costruire tutta una tipologia universalista a proposito della fontana dei Quattro Fiumi opera, ancora una volta, del Bernini situata in mezzo a piazza Navona, scenario barocco per eccellenza.
    Questa fontana è orientata non secondo i quattro punti cardinali, ma secondo le quattro grandi direzioni intermedie, nord-ovest, nord-est, sud-ovest, sud-est. Molto evidentemente simboleggia i quattro continenti, le quattro parti del mondo conosciuto, dato che ciascun fiume che la compone scorre in una terra diversa; il Rio della Plata in America, il Nilo in Africa, il Danubio in Europa e il Gange in Asia. La fontana dei Quattro Fiumi rappresenta dunque la totalità del mondo geograficamente noto e al tempo stesso l'universalità della Chiesa.
    Ma questa universalità possiede un centro indicato dall'obelisco verticale, asse della fede al quale sono sospese la tiara, le chiavi e lo stemma pontificio. L'obelisco di piazza Navona simboleggia il centro della cristianità che irradia la sua azione missionaria come raggi in quattro direzioni. Credo che si debba andare oltre: questi quattro fiumi evocano i quattro fiumi del Paradiso terrestre e quelli dell'Apocalisse. Riferiamoci ai testi. In Genesi 2, 6-15, a dire il vero, non ci sono quattro fiumi. Un solo fiume usciva dall'Eden per innaffiare il giardino e poi si divideva in quattro bracci: il Pishon che bagnava il paese di Avila, dove si trovavano l'oro e l'onice, il Ghihon che altro non è che la sorgente dell'acqua di Gerusalemme; il Tigri a oriente di Assur e infine l'Eufrate. Questi due ultimi sono il simbolo della fertilità in Mesopotamia. Vi è dunque un solo fiume della fede, un solo fiume nato dal paradiso terrestre, che però si divide per bagnare la terra intera. In Apocalisse 22, 1-2 la visione di San Giovanni è complementare: “L'Angelo mi mostrò il fiume della Vita, limpido come cristallo che zampillava dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città d'ambo i lati del fiume vi sono degli alberi della vita che danno dodici raccolti, uno ogni mese e le loro foglie possono guarire i pagani”.
    Accogliendo il contenuto di queste due visioni e proiettandole nella pietra, l'artista riesce a simboleggiare, in una sola opera, l'unità e la diversità della Chiesa, il suo centro e la sua periferia, il suo principio di stabilità e la sua dispersione missionaria, sottolineando che tutta la fertilità data dalla grazia trova la sua ricchezza in un fiume unico che sembra avere la sua sorgente a Roma, centro del mondo, nuovo giardino dell'Eden, figura della Gerusalemme celeste».




    il serpente di mare


    il serpente di terra

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  4. gheagabry
     
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    „Di tutto quanto c'è in Roma la fontana [di Trevi]
    è certamente l'attrazione più forte.“
    (John H. Secondari)


    LA FONTANA DI TREVI



    La Fontana di Trevi è la più monumentale e fra le più note fontane di Roma. Progettata da Nicolò Salvi con un felice e riuscito connubio di classicismo e barocco, è adagiata su un lato di Palazzo Poli. La sua struttura è resa più imponente e fragorosa dalle limitate dimensioni della piazza e dal dedalo di vicoli che bisogna attraversare per arrivarci: aspetti sicuramente finalizzati all’aumento dell'effetto scenografico.
    Il tema dominante dell’intera scultura della fontana è il mondo marino. La scenografia è dominata da una scogliera rocciosa che occupa tutta la parte inferiore del palazzo, al cui centro, sotto una grande nicchia delimitata da colonne che la fa risaltare come fosse sotto un arco di trionfo, una grande statua di Oceano che guida un cocchio a forma di conchiglia trainato da due cavalli alati, a loro volta guidati da altrettanti tritoni (la realizzazione di Oceano, dei tritoni e dei cavalli fu assegnata a Giovan Battista Maini che nel 1738 posizionò provvisoriamente sulla fontana dei modelli in gesso che poi furono eseguiti in marmo dopo la sua morte da Pietro Bracci tra il 1759 e il 1762.). Ai lati della grande nicchia centrale altre due nicchie, più piccole, occupate dalle statue della Salubrità (a destra di Oceano) e dell'Abbondanza. Le tre nicchie sono delimitate da quattro grosse colonne. I due cavalli tradizionalmente noti come “il cavallo agitato” (quello di sinistra), per avere una posa molto più dinamica dell’altro, e “il cavallo placido” rappresentano gli analoghi momenti del mare a volte calmo a volte agitato.
    Sempre ai lati dell’arco principale, sopra le due nicchie, due pannelli a bassorilievo, raffiguranti Agrippa nell’atto di approvare la costruzione dell’acquedotto dell’Aqua Virgo (a sinistra, sopra l’Abbondanza) e la “vergine” che mostra ai soldati il luogo dove si trovano le sorgenti d’acqua.
    Le quattro grandi colonne corinzie sorreggono il prospetto superiore, sul quale si trovano, in corrispondenza di ogni colonna, quattro statue allegoriche più piccole: da sinistra a destra, l’”Abbondanza della frutta”, la “Fertilità dei campi”, la “Ricchezza dell’Autunno” e l’”Amenità dei giardini”. Nel mezzo, tra le due statue centrali, sormontata da un imponente stemma araldico di papa Clemente XII sorretto da due “Fame”, è posta la grande iscrizione commemorativa-inaugurativa che il pontefice volle apporre un po’ frettolosamente:

    CLEMENS XII PONT MAX
    AQVAM VIRGINEM
    COPIA ET SALVBRITATE COMMENDATAM
    CVLTV MAGNIFICO ORNAVIT
    ANNO DOMINI MDCCXXXV PONTIF VI


    L’acqua sgorga dalle rocce in diversi punti: sotto il carro di Oceano va a riempire tre vasche, prima di riversarsi nella piscina maggiore. Le tre vasche non facevano parte del progetto originario del Salvi, ma vennero aggiunte a seguito delle modifiche apportate da Giuseppe Pannini, che lo sostituì dopo la morte. Altra modifica sostanziale riguardò i soggetti delle due statue laterali, che rappresentavano inizialmente Agrippa e la “vergine Trivia”.
    Data l’ampiezza e la complessità dell’opera, molti furono gli scultori impegnati nella realizzazione dei vari gruppi statuari. Prima di morire Giovanni Battista Maini riuscì a progettare solo il modello del gruppo centrale di Oceano, che fu poi realizzato da Pietro Bracci. Le due statue della “Salubrità” e dell’”Abbondanza” sono entrambe opera di Filippo della Valle; il bassorilievo di Agrippa è di Andrea Bergondi, mentre è di Giovanni Battista Grossi quello della “vergine”; le quattro statue superiori sono opera (da sinistra a destra) di Agostino Corsini, Bernardino Ludovisi, Francesco Queirolo e Bartolomeo Pincellotti; da ultimo lo stemma pontificio, realizzato dallo stesso Paolo Benaglia che aveva già scolpito, qualche anno prima, la “Madonna col Bambino”.

    ...storia...


    La storia della fontana è strettamente collegata a quella della costruzione dell'acquedotto Vergine, che risale ai tempi dell'imperatore Augusto, quando Marco Vespasiano Agrippa fece arrivare l'acqua corrente nei giardini che aveva nel Campo Marzio ne' dintorni del Pantheon, e soprattutto per fornire di acqua perenne le sue terme.
    Benché compromesso e molto ridotto nella portata, dall'assedio dei Goti di Vitige nel 537, l'acquedotto dell'acqua Vergine rimase in uso per tutto il medioevo, con restauri attestati già nell’VIII secolo, poi ancora dal Comune nel XII secolo, in occasione dei quali si allacciò il condotto ad altre fonti più vicine alla città, poste in una località allora chiamata “Trebium”, che potrebbe essere all’origine a causa del triplice sbocco dell'acqua, ma anche probabilmente per la presenza dell'incrocio di tre strade. Il condotto dell’Acqua Vergine è il più antico acquedotto di Roma tuttora funzionante, e l’unico che non ha mai smesso di fornire acqua alla città dall’epoca di Augusto.
    Il punto terminale dell’”Aqua Virgo” si trovava sul lato orientale del Quirinale, nei pressi di un trivio (“Treio”). Al centro dell’incrocio venne realizzata una fontana con tre bocche che riversavano acqua in tre distinte vasche affiancate; risale al 1410 la prima documentazione grafica della “Fontana del Treio” (o “di Trevi”), così rappresentata. Durante il Medioevo l'acqua di Trevi era controllata dai "marescalchi" della Curia capitolina che avevano il compito, una volta al mese, di accertarsi che nessun privato cittadino sfruttasse la fonte ad uso personale. Inoltre l'accesso alla fonte era protetto da una cancellata onde regolare l'afflusso della popolazione e degli "acquaroli", che riempivano interi barili d'acqua che poi rivendevano a domicilio. Le tre vaschette rimasero così fino al 1453. Nello stesso anno, su incarico di papa Niccolò V, Leon Battista Alberti sostituì le tre vasche con un unico lungo bacino rettangolare, appoggiandolo ad una parete bugnata e merlata e restaurando i tre mascheroni da cui fuoriusciva l’acqua.

    Dopo una serie di progetti presentati da vari architetti e mai posti in atto, verso il 1640 papa Urbano VIII ordina a Gian Lorenzo Bernini una "trasformazione" della piazza e della fontana, in modo da creare un nuovo nucleo scenografico nei pressi del palazzo familiare (Palazzo Barberini) allora in fase di ultimazione, e che fosse anche ben visibile dal Palazzo del Quirinale, residenza pontificia. Questi presentò diversi progetti, tutti costosissimi, a causa dei quali papa Barberini aumentò talmente le tasse sul vino che Pasquino sentenziò: "Per ricrear con l'acqua ogni romano / di tasse aggravò il vino papa Urbano". Ma papa Urbano VIII fece di peggio: diede al Bernini un permesso scritto per demolire "...un monumento antico, di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di bellissimo marmo presso S.Sebastiano, detto "Capo di Bove"...", vale a dire la tomba di Cecilia Metella. Ma stavolta i romani fecero il muso duro e Bernini si dovette accontentare di ciò che aveva già e che non era poco. Infatti egli amplia la piazza (che inizialmente era solo un trivio) demolendo alcune casupole a sinistra della fontana preesistente, quindi la ribalta ortogonalmente, sino ad arrivare all'allineamento odierno, rivolto verso il Quirinale. La mostra, nota da varia documentazione illustrata, doveva essere strutturata in due grandi vasche semicircolari concentriche, al cui centro un piedistallo, appena sotto il pelo dell’acqua, doveva servire come base per un gruppo, probabilmente incentrato sulla statua della “vergine Trivia”. Ma i fondi per il progetto si esaurirono presto e vennero anche drasticamente tagliati a causa della guerra che il papa aveva dichiarato al Ducato di Parma e Piacenza: non venne scolpita alcuna statua centrale e il cantiere fu bloccato. Nello spostamento si persero anche le tracce della lapide di Niccolò V.

    « NICOLAVS V. PONT. MAX.
    POST ILLVSTRATAM INSI-
    GNIBVS MONUMEN. VRBEM
    DVCTVM AQVAE VIRGINIS
    VETVST. COLLAP. REST. 1453 »
    « Nicolò V Pontefice Massimo,
    dopo aver abbellito con insigni monumenti la città,
    restaurò il condotto dell’Acqua Vergine
    dall’antico stato di abbandono nel 1453. »


    La morte di Urbano VIII, nel 1644, e il conseguente processo aperto contro la famiglia Barberini, dal nuovo papa Innocenzo X comportò l’abbandono del progetto berniniano. Anzi, al Bernini, caduto in disgrazia per essere stato l’architetto della famiglia Barberini, venne affidato il semplice compito di prolungare l'acqua Vergine sino a piazza Navona, dove Francesco Borromini avrebbe dovuto realizzare una nuova mostra monumentale dinanzi al palazzo della famiglia del pontefice (Pamphilj).
    Trascorsero quasi 60 anni prima che Clemente XI si ponesse di nuovo il problema di trovare una soluzione alla fontana di Trevi, ma i progetti di Carlo Fontana (un obelisco su un gruppo di rocce, sul modello della fontana dei Quattro Fiumi), di Bernardo Castelli (una colonna su una base rocciosa, con una rampa spirale), non ebbero miglior successo. Stessa sorte per i disegni di vari altri architetti, che prevedevano anche la parziale demolizione degli edifici che il Bernini aveva lasciato alle spalle della fontana.
    Sembrava l’ultima occasione, perché la famiglia del successivo pontefice Innocenzo XIII (i Conti, duchi di Poli) aveva da poco fatto allargare le proprietà della famiglia fino alla piazza di Trevi, acquistando i due edifici dietro la fontana per rimpiazzarli con un palazzo nobiliare. Qualunque progetto di realizzazione di una fontana monumentale avrebbe dunque potuto compromettere e danneggiare il palazzo, ed era quindi da evitare accuratamente.
    Un curioso episodio si colloca nel pontificato del successivo papa Benedetto XIII, originario di Gravina di Puglia il quale, con spirito campanilistico, ai più noti architetti dell’epoca preferì artisti rigorosamente provenienti dal Meridione, i cui progetti risultarono però decisamente scadenti. L’unica opera realizzata fu una statua della “Madonna col Bambino”, del napoletano Paolo Benaglia, destinata forse al piedistallo che il Bernini aveva sistemato al centro delle due vasche. Lo strano dell’episodio consiste nel fatto che l’artista ha confuso la “vergine” cui fa riferimento il nome dell’acquedotto con la Madonna anziché con una ragazza che, come tramandato da una leggenda popolare riportata da Sesto Giulio Frontino, avrebbe indicato ai soldati inviati da Agrippa il luogo dove si trovava la fonte da cui avrebbe potuto essere prelevata l’acqua per il nuovo acquedotto, che dunque fu chiamato “Vergine” a ricordo dell’episodio. Stupisce che neanche al pontefice sia stata segnalata la ‘’gaffe’’. Della statua si sono comunque perse le tracce.
    A parte dunque la parentesi decennale (dal 1721 al 1730) dei pontificati di Innocenzo XIII e Benedetto XIII, all'inizio del XVIII secolo quello della fontana di Trevi diventa un tema obbligato per i numerosi architetti residenti o di passaggio a Roma, e l'Accademia di san Luca (oggi Accademia di Belle Arti di Roma) ne fa il tema di diversi concorsi. Si conoscono disegni e pensieri di Nicola Michetti, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga ed altri architetti italiani e stranieri.

    Tocca a papa Clemente XII, nel 1731, il compito di riprendere in mano le sorti della piazza e della fontana: nell'ambito delle grandi commissioni del suo pontificato che porteranno al completamento di grandi fabbriche rimaste incompiute, bandisce un importante concorso per la costruzione di una grande mostra d'acqua. Dopo aver scartato alcuni progetti che tentavano di preservare la facciata del palazzo Poli, l’attenzione venne posta sui disegni di Ferdinando Fuga, Nicola Salvi e Luigi Vanvitelli, con grande disappunto dei duchi di Poli, ancora proprietari dell'edificio, che avrebbero visto la facciata del proprio palazzo diminuita di due interassi di finestre e, inoltre, coronata dallo stemma araldico della famiglia del papa, i Corsini. Clemente XII non volle ascoltare ragioni, affidò i progetti ad una commissione di esperti e il bando venne vinto da Nicola Salvi.
    L'opera era impostata secondo un progetto che raccorda influenze barocche e ancor più berniniane al nuovo monumentalismo classicista che caratterizzerà tutto il pontificato di Clemente XII. Il Salvi riprende l'idea di fondo di papa Urbano VIII e di Bernini, cioè quella di narrare, tramite architettura e scultura insieme, la storia dell'Acqua Vergine. Il progetto di Salvi venne scelto anche perché più economico rispetto agli altri.
    I lavori furono finanziati per 17.647 scudi. Questi fondi furono in parte raccolti grazie alla reintroduzione del Gioco del Lotto a Roma. La costruzione della fontana fu iniziata nel 1732, e papa Clemente XII la inaugurò nel 1735, con i lavori ancora in corso. Nel 1740, però, viene ancora una volta interrotta, per riprendere solo due anni più tardi. Tra le cause dei lunghissimi tempi di realizzazione dell’impresa, oltre all’indubbia grandiosità dell’opera, il notevole aumento dei costi e quindi dei fondi necessari, e le liti frequenti tra il Salvi e Giovanni Battista Maini, lo scultore incaricato dell’esecuzione della fontana. Nessuno dei due vedrà la conclusione dell’opera: Nicola Salvi morì nel 1751 e il Maini l’anno dopo. Ma anche il papa non vide l’opera finita (e forse per questo volle inaugurarla in anticipo), e così il successore Benedetto XIV (che forse per lo stesso motivo pretese una seconda inaugurazione nel 1744).
    La prima fase dei lavori termina nel 1747, quando vengono completate le statue e le rocce posticce. A Giuseppe Pannini fu affidato l'onere di portare finalmente l'opera a compimento, ma fu rimosso dal suo incarico a causa delle variazioni da lui eseguite sul progetto originale: i lavori subirono un ulteriore ritardo. Nel 1759 l'incarico fu affidato allo scultore Pietro Bracci, coadiuvato dal figlio Virginio. La fontana venne finalmente ultimata dopo l'esecuzione del complesso scultoreo centrale, durante il pontificato di papa Clemente XIII. Il 22 maggio 1762 (dopo trent’anni di cantiere), l’opera fu finalmente mostrata al pubblico in tutta la sua maestosità (e il papa la inaugurò per la terza volta).
    Dal primo bozzetto realizzato dal Maini alla realizzazione finale del gruppo scultoreo del Bracci, l'opera venne reinterpretata in chiave illuminista. Le nuove idee provenienti dalla Francia stavano infatti facendosi strada nella cultura romana: il cavallo nero ed il cavallo bianco trovano espressione nella esecuzione del Bracci.

    ...miti e leggende...


    Una di queste leggende riguarda Nicola Salvi, l’architetto che ha progettato la fontana. Si racconta che la scultura in travertino sul muro che circonda la fontana all’angolo con via della Stamperia, che sembra raffigurare un grosso vaso, sia stata posto dal Salvi per un motivo ben preciso.
    Sembra infatti che l’architetto non andasse d’accordo con un barbiere che aveva la sua bottega proprio in quella che oggi è via della Stamperia. Il barbiere lo assillava con continue critiche e giudizi negativi sui lavori alla fontana. Così il Salvi gli piazzò davanti questo vaso, in modo tale che non potesse più vedere il procedere dei lavori. I romani hanno poi ribattezzato questa scultura con il nome di asso di coppe, per la sua somiglianza alla carta da gioco.

    Si narra anche che tutte le ragazze i cui innamorati partivano per il servizio militare facevano bere un bicchiere di acqua della fontana, credendo così che il loro amore sarebbe durato per tutta la vita. Un’altra leggenda racconta invece che gli innamorati, per giurarsi amore eterno, bevevano insieme dalla “Fontanina degli Innamorati” posta sul lato destro della fontana.

    Una delle tradizione più diffuse a Roma è quella di lanciare una monetina; esistono due leggende: secondo la prima, se si lancia una moneta nella fontana mettendo la mano destra sulla spalla sinistra, il ritorno a Roma è garantito.
    L’altra leggenda, che ha ispirato il film "Tre soldi nella fontana di Trevi", vuole che, se si gettano tre monete nella fontana la prima garantirà il ritorno a Roma, la seconda porterà una nuova storia d'amore, mentre la terza porterà al matrimonio! Si diceva anche che lanciare una monetina nella fontana portava la benevolenza degli dei. La più semplice delle tradizioni riguardanti il lancio della monetina nella fontana è quella di esprimere un semplice desiderio, sperando ovviamente che si avveri.
     
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  5. gheagabry
     
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    IL POZZO DI MERRO


    La superficie dell'acqua è totalmente coperta di minuscole piante acquatiche che la fanno assomigliare più ad un verde "praticello" che ad un lago. Al di sotto però si apre una spettacolare dolina dalle pareti bianche e traforate da una miriade di condotti carsici di svariati diametri. Il bianco delle pareti è tuttavia visibile solo con l'aiuto di illuminatori perché la copertura vegetale della superficie filtra la luce rendendo l'ambiente oscuro.

    Il Pozzo del Merro è una profonda voragine che si apre nelle rocce calcaree all’interno della Riserva Naturale di Macchia di Gattaceca, ad una altitudine di circa 130 metri, sulle pendici meridionali di Monti Cornicolani, a 30 Km da Roma, nel territorio del Comune di S. Angelo Romano. Nel terreno si apre una voragine che scende per oltre cinquanta metri; le pareti a strapiombo sono ricoperte di rovi e piante rampicanti. Sul fondo di questa cavità vi è un modesto specchio lacustre circolare, con un diametro di una trentina di metri con una temperatura costante di 16°C.
    A Sant'Angelo Romano il significato del vocabolo Merro è andato perduto, ma il prof. A. G. Segre lo ricordarlo in un lavoro sulla toponomastica dei fenomeni carsici pubblicato nel 1956. Il vocabolo mèrro o mèro, in uso in alcune parti del Lazio e dell'Abruzzo, avrebbe proprio il significato di voragine, profonda dolina.

    La prima descrizione del pozzo risale al 1890, in un itine-
    rario turistico sulla campagna romana; nella descrizione dell'iti-
    nerario da Roma che conduce a S. Angelo, dove è citato come "una specie di voragine, nel fondo della quale si estende un laghetto ed i cui fianchi ripidissimi sono rivestiti di alberi".
    L’interesse scientifico ha inizio con i rilievi del prof. A. G. Segre nel 1948. Le ricerche idrologiche ed idrogeologiche sono continuate nel 1970, in collaborazione con l’Università “La Sapienza”, per tentare di ricostruire il processo evolutivo che ha dato origine e che ha determinato lo sviluppo della voragine così come ci appare oggi.
    Nel 1975 sono iniziate le indagine volte a stabilire la profondità della voragine. L’ultima esplorazione, nel 2002, ha permesso di raggiungere la profondità di 392 mt., senza tuttavia individuare con certezza il fondo della voragine. Allo stato attuale il Pozzo del Merro risulta la cavità carsica allagata più profonda al mondo.

    La formazione del Pozzo del Merro, come le altre cavità piccole e grandi presenti nella Piana di Tivoli, è dovuto allae faglie attive ed accelerata dall’attività idrotermale della zona. Nella Piana di Tivoli vi sono numerose sorgenti carsiche che erogano spontaneamente una rilevante portata di acque ricca di sali minerali (soprattutto calcio e solfati) e gas, con valori di temperatura di 22-23°C. Il flusso di calore e di gas si canalizza nel reticolo delle grandi fratture delle faglie “attive”, con un processo di erosione chimica inverso, l'erosione inizia in profondità sino alla superficie. Il Pozzo del Merro rappresenta una finestra sulla falda carsica regionale le cui acque transitano lentamente verso sud, dove si trovano le grandi sorgenti di Bagni di Tivoli e, in subalveo, del Fiume Aniene. Questo imponente sinkhole (voragine da sprofondamento) è una delle evidenze più maestose dell’azione dell’erosione carsica dei Monti Cornicolani, ma i rilievi carbonatici cornicolani e quelli dei vicini Monti Lucretili sono sede di continui crolli con origine di cavità carsiche. Il 24 gennaio 2001, in un campo coltivato nei pressi di Marcellina, dove, improvvisamente e senza alcun segno premonitore, si è aperto un sinkhole imbutiforme con perimetro di circa 40 m di diametro ed una profondità di oltre 10 m.
    Negli ultimi anni, si è riscontrato un drastico abbassamento del livello dell’acqua all’interno del Pozzo, compromettendo il delicato habitat esistente.
    L’interesse scientifico del Merro non si limita però all’aspetto idrogeologico, ma anche alla componente vegetale e faunistica. Le pareti della cavità sono invece fittamente rivestite da una rigogliosa vegetazione costituita per lo più da elementi sempreverdi tra i quali il leccio (Quercus ilex), che è la specie nettamente dominante, e l’alloro (Laurus nobilis). Nel sottobosco sono abbondanti pungitopo (Ruscus aculeatus), ciclamini (Cyclamen hederifolium e C. repandum), edera (Hedera helix) e varie altre specie. La vegetazione all’interno della cavità, rigogliosissima, ricorda talvolta, soprattutto se bagnata dalla pioggia, le laurisilve di alcune regioni subtropicali. A dare questa sensazione
    contribuiscono anche le numerose specie di felci presenti: ben sette le specie osservate. Nella parte più bassa della cavità, a ridosso dello specchio d'acqua, si trovano invece rigogliosi esemplari di fico (Ficus carica) e sambuco (Sambucus nigra). L'intera superficie lacustre, ricoperta fino a pochi anni fa da un verde ed uniforme tappeto di lenticchia d’acqua (Lemna minor), è oggi completamente tappezzata da una invasiva felce acquatica esotica di origine tropicale: Salvinia molesta. La presenza della Salvinia ha destato molte preoccupazioni per l’ecosistema del pozzo, dati i forti squilibri che la specie ha provocato ovunque sia giunta. L’origine della sua presenza nel Merro è molto probabilmente umana, è stata rinvenuta una tartaruga americana (genere Trachemys), che verosimilmente è stata liberata nelle acque della voragine insieme al contenuto dell’acquario che la ospitava, causando l’immissione di questa pianta invasiva non autoctona. Il Servizio Ambiente della Provincia di Roma, per ripristinare l’habitat originario, nel marzo del 2009 ha deciso l’asportazione della felce esotica con una bonifica ambientale. L’Italia è l’unico paese europeo in cui la presenza di S. molesta è accertata. Nel nostro paese questa felce è stata segnalata per la prima volta per il pisano nel Fosso dell’Acqua calda, un canale artificiale a lento scorrimento lungo la strada provinciale di Lungomonte che da S. Giuliano Terme porta ad Asciano. Quello del Pozzo del Merro è il primo rinvenimento per il Lazio, il secondo per l’Italia e, molto probabilmente, anche per l’Europa.
    Le acque della cavità ospitano diverse specie protette come il tritone punteggiato (Lissotriton vulgaris), il tritone crestato italiano (Triturus carnifex) e la rana appenninica (Rana italica). Nel 2005 è stata descritta con il nome di Niphargus cornicolanus una nuova specie di crostaceo rinvenuta nella voragine e, pertanto, specie endemica del sito.
    Il Pozzo è frequentato anche da numerosi uccelli, spesso difficilmente osservabili, che trovano rifugio e cibo nella folta vegetazione della voragine. Molto scarsi sono invece i dati sui mammiferi, tra i quali si possono citare la volpe (Vulpes vulpes) e l’istrice (Hystrix cristata).

    La presenza dell’acqua è stata la causa principale di alcune ampie ferite inferte alla cavità. Negli anni’70 infatti l’Azienda Comunale Elettricità e Acque di Roma (ACEA), ha realizzato alcune vistose strutture per l'opere di presa che sono una serie di impianti che permettono di prelevare l'acqua dai cicli naturali a fini potabili. Fortunatamente man mano che l’acqua veniva pompata la sua composizione cambiava in misura via via maggiore, divenendo sempre più ricca in composti dello zolfo. Per questo motivo l’impresa fu abbandonata nel 1978, ma i segni di questo intervento (una rotaia metallica, tubazioni, un edificio in cemento armato adiacente la dolina) sono tuttora ben visibili.

    L’accesso alla cavità, per il suo valore scientifico e la sua fragilità, oltre che per ragioni di incolumità pubblica, è oggi precluso.
     
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  6. gheagabry
     
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    RIFLESSIONI


    ... CANDIDE CAREZZE …
    ... Parlando con una mia amica oggi dicevo” Sto alla finestra e quello che vedo sembra essere un paradosso poetico”. La neve che scende ha in se una grande quantità di magia, di poesia. Scende lieve dal cielo e cade senza rumore come i pensieri cadono sulla nostra anima. Bianca ed immacolata colora ogni cosa di quel candore che da luce, da purezza ad ogni cosa che tocca. Tutto si ovatta, divene silenzioso, di quel silenzio che scalda, che fa salire alti i pensieri più nascosti. La neve che viene dal freddo che produce calore dentro il cuore, ecco questo è un primo acceno di poesia di magia. La neve è poesia quando scende in montagna, quando avvolge quegli aspri rilievi, arrotondandoli; così quello che prima era un paesaggio ruvido, forte ed aspro, diventa per magia, quello della neve che scende un quadro ricco di dolcezza. Tutto viene ingentilito dalla neve che si accumula e arrotonda spigoli ed asperità, tutto diviene candido e luminoso per quella immacolata coltre scesa dal cielo. Rumori e suoni spariscono e lasciano spazio al silenzio dei pensieri, delle emozioni che sgorgano da cuori agitati da paesaggi in continuo cambiamento, da quelle delicate immacolate carezze che il cielo ci regala. La neve in città, al mare è un paradosso poetico; non sono quelli luoghi naturali per quella magia, non sono scenari consoni per quel miracolo; eppure guardando la neve che scende mentre automobili si imbiancano, palazzi e balconi si arricchiscono di quel delicato ornamento mentre le persone in strada restano col naso all’insù lasciando che quei delicati fiocchi immacolati, quelle tenere bianche carezze si posino su quei volti lasciando che brividi di gioia ed emozione percorrano i loro corpi … poesia, paradossi di un tempo pazzo che regala a tutti emozioni difficili da descrivere … .
    (Claudio)





     
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    ... CINQUANTASEI ANNI FA …
    ... Cinquantasei anni dopo; una vita dopo a Roma si è riaffacciata in maniera copiosa la neve. Era il 1956 quando a Roma fece una nevicata storica, poi nel 1986 ne fece una minore ma da ricordare e poi ieri, appunto cinquantasei anni dopo, ha di nuovo lasciato il segno. La città stamattina si è svegliata vestita di un abito candido, delicato; sembrava una sposa nel giorno delle nozze. Eterna e storica come nessuna altra città al mondo, oggi era nella forma più splendente che io abbia mai visto. Bambini in strada che, chissà forse tra cinquantasei anni, potranno raccontare ai loro figli di aver fatto un pupazzo di neve davanti al Colosseo, oppure aver fatto scivolate sotto il colonnato di San Pietro. Cinquantasei anni sono tanti, una vita, ma nella sua eccezzionalità questo evento da giocoso si è poi trasformato, anzi ha mostrato la faccia più dura e triste di questa rarissima manifestazione della meteorologia. Su una radio per tutta la mattina si sono rincorse le testimonianze di tanti cittadini che raccontavano quello che tg e notiziari nazionali non hanno raccontato. Persone che ieri hanno impiegato dalle 12 alle 14 ore bloccati sul raccordo anulare nelle loro automobili. Paesini nell’interland rimasti isolati senza forniture di luce e gas da ore. Sceneggiata rituale dei politici ed amministratori che si rimpallano responsabilità come oramai costume italico; un treno dalle 17,30 di ieri è fermo ed i passeggeri bloccati alle porte di Roma. Sacchi di sale lasciati ieri lungo alcune strade della città che però nessuno si è curato di spargere. Il sindaco ieri sera alle 20,00 che intimava dopo che da ore stava nevicando, l’obbligo delle catene a bordo. Ma nel nostro paese esite la parola “Scusa!”; esiste il concetto di prevenire? Tra le tante telefonate ascoltate per tutta la mattina ci sono stati tanti racconti di umana solidarità, di episodi di soccorso volontario alle persone in disagio fatti al posto delle autorità che avrebbero invece dovuto provvedere. Una mi ha commosso; un giovane che piangeva al telefono e raccontava che viveva in un paesino alle porte di Roma e ieri gli avevano comunicato la morte del papà in ospedale. Quel ragazzo ha provato ad andare in ospedale ma ha dovuto desistere perché le strade erano totalmente bloccate dalla neve e dai tanti bloccati sulla via in auto e senza catene. Piangeva quel ragazzo, piangeva tanto mentre fuori in strada voci di bambini festanti che giocavano con la neve. Due lati di una stessa medaglia, gioia e dolore nello stesso istante… .
    (Claudio)




     
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  8. gheagabry
     
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    ANNI '50 “la Roma della Dolce Vita”


    foto di Keystone


    L’archivio Hulton – una grande e illustre collezione fotografica britannica -, la raccolta Three Lions,
    e altri archivi acquisiti dall’agenzia Getty e altri conservano un ricco repertorio di immagini di quel mondo.


    foto di Keystone





    foto di Nocella



    foto di Werner Rings



    foto di Von Matt









    serie di foto di Vecchio



    foto di Evans



     
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    Sotto un rosso tramonto le cupole di Roma s’ergono sovrane, scende la notte, la città tace l’ultima campana si spegne dietro l’eco dolce delle sorelle, che or mute vibrano al fresco vento delle notti romane. Le vie, le fontane brillano di luci calde, ogni sasso ogni pietra t’apre il core. Nella corona dei sette colli l’umanità cialtrona e ruffiana ti fa sentire un re e Roma regina siede accanto a te.
    (Mirella Narducci)


    LA FONTANA DELLA "BARCACCIA"


    La Fontana della Barcaccia è una delle più famose fontane di Roma, ed è collocata in Piazza di Spagna ai piedi della Scalinata di Trinità dei Monti.
    La sua realiz-
    zazione comportò il supera-
    mento di alcune difficoltà tecniche, dovute alla perdurante bassa pressione dell'acquedotto dell'Acqua Vergine in quel particolare luogo, che non permetteva la creazione di zampilli o cascatelle. Il Bernini tuttavia risolse l'inconveniente ideando la fontana a forma di barca semisommersa in una vasca ovale posta leggermente al di sotto del piano stradale, con prua e poppa, molto rialzate rispetto ai bordi laterali più bassi, appena sopra il livello del bacino. Al centro della barca un corto balaustro sorregge una piccola vasca oblunga, più bassa delle estremità di poppa e prua, dalla quale fuoriesce uno zampillo d’acqua che, riempita la vasca, cade all’interno della barca per tracimare poi, dai bordi laterali bassi e svasati, nel bacino sottostante. L’acqua sgorga da altri sei punti (tre a poppa e tre a prua): due sculture a forma di sole con volto umano, che gettano acqua verso altrettante conche all’interno dell’imbarcazione, e quattro fori circolari (due per parte) rivolti verso l’esterno, simili a bocche di cannone. Oltre ai due soli, completano le decorazioni due stemmi pontifici, con la tiara e le api simbolo araldico della famiglia del pontefice Barberini, alle estremità esterne della barca, tra le due bocche di cannone.

    ...storia...


    La realizza-
    zione, nel 1610, del nuovo acque-
    dotto dell’Acqua Paola con gli altri due costruiti qualche anno prima, l’Acqua Vergine nel 1570 e l’Acqua Felice nel 1587, permisero di erigere altre fontane sulle loro diramazioni.
    Già nel 1570, un documento della Congregazione sulle fonti, aveva individuato “il loco del aquedotto sotto la Trinità” come sito per la costruzione di una fontana alimentata dal nuovo acquedotto dell’Acqua Vergine, ma la bassa pressione aveva costretto a rinunciare al progetto, e al posto della fontana fu costruita, come riserva idrica, una cisterna, che rimane visibile solo nellaa toponomastica locale (vicolo del Bottino, oltre alla più nota via dei Condotti).
    Rinforzato l’acquedotto, nel 1627 papa Urbano VIII incaricò Pietro Bernini, che già lavorava all’ampliamento dell’acquedotto stesso, di realizzare una fontana nella piazza sottostante la chiesa della Trinità dei Monti che allora, in mancanza della scalinata, sorgeva sul bordo di una scarpata. L'opera fu completata nel 1629, e il Bernini fu aiutato anche dal figlio Gian Lorenzo, che probabilmente la completò alla morte del padre.
    Era la prima volta che una fontana veniva concepita interamente come un’opera scultorea, allontanandosi dai canoni della classica vasca dalle forme geometriche. Secondo una versione popolare molto accreditata, la sua particolare forma potrebbe essere stata ispirata dalla presenza sulla piazza di una barca in secca, portata fin lì dalla piena del Tevere del 1598 , ma si è anche avanzata l’ipotesi che quel luogo fosse anticamente utilizzato come piccola naumachia (combattimento navale). In entrambi i casi il nome “barcaccia” richiama una vecchia imbarcazione prossima all’affondamento. Più verosimilmente, era chiamata “barcaccia” quel tipo di imbarcazione che, nell’antica Roma, veniva usata per il trasporto fluviale di botti di vino, e che, molto simile all'opera berniniana, aveva appunto le fiancate particolarmente basse per facilitare l’imbarco e lo sbarco delle botti stesse.

    All'inizio del '500 questa zona era conside-
    rata suburbana: una pianta disegnata da Pirro Ligorio ci presenta un esteso terreno lavorato a vigne con resti di edifici di epoca romana e due palazzi, quello "verso le fratte", che apparteneva alla famiglia Ferratini e che diventò poi il palazzo del Collegio di Propaganda Fide, e quello di prima Ambasciata di Spagna. La piazza fu per molto tempo, il luogo di arrivo e di sosta delle vetture a cavalli che, entrando dalla Porta del Popolo portavano gli stranieri a Roma. Il nome della piazza deriva dal palazzo sede dell'Ambasciata di Spagna presso lo Stato Pontificio. Il nome, solo apparentemente dispregiativo, deriva dalle barcacce che, nel vicino porto di Ripetta, venivano utilizzate per il trasporto del vino. Fu la prima fontana alimentata dal vicino bottino dell'Acqua Vergine. In verità, la "barcaccia" è frutto della genialità del Bernini che sfruttò la raffigurazione di una barca in apparente pericolo di affondare per eliminare il problema relativo alla bassa pressione dell'acqua che alimentava la fontana. Le api ed i soli che decorano la fontana sono i simboli della famiglia di Urbano VIII, i Barberini.

    In un'incisione del 1726, i due palazzetti gemelli, ai lati della scalinata di Trinità dei Monti, appaiono già conclusi. Quello sul lato destro della scalinata, chiamato "Casina4 Casina Rossa Rossa", apparteneva ad una signora di nome Anna Angeletti, la quale affittava camere ai turisti in visita a Roma. Il poeta Keats, accompagnato dal suo amico pittore Joseph Severn, prese una camera d'angolo al secondo piano. Qui il poeta trascorse gli ultimi giorni della sua vita: morì infatti il 23 febbraio 1821 a soli 26 anni. La finestra della camera si apriva su piazza di Spagna e lo scorrere limpido e musicale delle acque della "Barcaccia" lo accompagnò in quei mesi di solitudine e sofferenza. Forse proprio per questo volle che sulla sua lapide funeraria fosse incisa la frase: "Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua", situata nel Cimitero protestante di Roma.
     
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  10. gheagabry
     
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    Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com'è nella tua memoria?
    Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide,
    stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze;
    e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti,
    tanto stranamente un gradino scivola dall'altro come onda da onda;
    la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze;
    e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle.
    (Rainer Maria Rilke)


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    Edited by gheagabry1 - 21/4/2020, 15:35
     
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  11. gheagabry
     
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    ... STORIA E REALTA’ …
    ... Rumori nella notte, ruote che solcano strade cercando spazi tra ciottoli enormi. Le lanterne illuminano lasciando zone di penombra che accrescono il fascino della città. Tutto in una tinta di soffuso giallo ambrato, il fiume che attraversa la città che col suo scorrere rumoroso e giocoso accompagna lo scorrere delle ore. La notte col suo silenzio aumenta, amplifica quel suono di acque che scorrono verso la foce. La tonaca indossata fa strani e fantasiosi giochi mossa dalla venticello che tra i colli scende sulla città. Girano in pochi nella notte, le legioni sono rientrate da poco e i soldati festeggiano il loro ritorno alle case. Aria lieve come quella della storia che imponente rappresenta quella città. Enormi ciottoli, i sanpietrini, disegnano sulle strade impossibili traiettorie e disegni con gli spazi esistenti su di essi. Camminano allegramente, un gruppo di quattro amici, tra le vie della città eterna, assaporandone ogni profumo, ogni sensazione di quella storia che in essa si sta realizzando. E già quello non è un profumo, è il sapore della storia che permea ogni singolo granello di polvere di quel luogo. Salgono su un colle, il gianicolo. Lentamente, come si berrebbe una bevanda dissetante quando si ha tanta sete, col passo lieve con i sandali ai piedi e la polvere che colora le caviglie. Racconti tra di loro delle opere che l’imperatore sta erigendo nella città; quella strana costruzione a forma ovale che dicono sarà un anfiteatro. Emozioni pure, sensazioni di far parte della Storia in un luogo che la racconterà e che ne sarà motore fondamentale. Giungono finalmente in cima al colle Gianicolo; spettacolo puro! Sembra una enorme gemma di ambra, come una bolla magica sospesa nello spazio e nel tempo avvolta in quella luce giallastra. Stanchi per il lungo tragitto si distendono vicino gli alberi e con negli occhi quello spettacolo si addormentano felici. “Aò, ma che stai a dormì?”, una voce roca e possente risuona. Apro gli occhi, mi ero addormentato sotto un albero. Prima di aprire gli occhi ripenso al bellissimo sogno fatto. “Aò, guarda che devo lavorà, te devi levà da lì!”. Stavolta la voce si fa sgarbata, aggressiva; apro gli occhi, un corpulento uomo vestito di rosso ed arancione mi fissa arrabbiato. E’ un netturbino, dietro di lui una montagna di mondezza raccolta in poco tempo. Mi alzo, capisco che il tuffo onirico nella storia della mia città era stato un gesto involontario di ribellione ad una realtà oramai divenuta insostenibile per chiunque che sia cittadino di questa città o turista di passaggio. Roma sta annegando nell’abbandono, nella incuria, nella mondezza. Dal Gianicolo lo spettacolo è unico, la mia città, Roma, è bella da togliere il fiato, ma se la si guarda bene se si ascolta il suo grido di dolore fa venire giù lacrime spontanee … (Claudio)



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  12. gheagabry
     
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    La Library of Congress, la biblioteca del Congresso americano di Washington, la più grande del mondo, ha digitalizzato delle cartoline di Roma che risalgono circa al 1890 e sono state sviluppate con la tecnica della fotocromia, la prima che permise di ottenere immagini a colori a partire da un negativo in bianco e nero.







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  13. gheagabry
     
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    “DRENTO AR PANTHEON NUN CE PIOVE”



    Il pavimento originale, seppure restaurato nel 1872, è in gran parte formato da pregiati marmi policromi. Ha un il disegno geometrico, simile ad una sorta di scacchiera: è composto da una serie di fasce parallele e perpendicolari che definiscono quadrati, al cui interno sono inscritti quadrati ancor più piccoli, oppure dei tondi. I pannelli con i quadrati sono costituiti da una cornice di porfido rosso e da quadrati piccoli in pavonazzetto bianco con venature azzurro-viola; i pannelli con i tondi hanno una cornice di marmo giallo ed il tondo di granito egiziano grigio scuro o di porfido rosso.



    Sotto il pavimento vi sono tutta una serie di canali e condotte in cui l’acqua piovana s’incanalava fino a defluire nel Tevere, gli ingressi dell’acqua sono presenti all’interno del Pantheon, proprio sul pavimento, sotto forme diverse, d’asole rettangolari, a foglie raccolte a forma di fiore, fessure, ecc. e sono presenti in particolare al centro, attorno, e all’ingresso al centro della porta. Il pavimento stesso è realizzato in modo da rendere facile il deflusso delle acque piovane da smaltire. Il pavimento non è in piano ma ottenuto da una serie di falsi piani convergenti verso queste 22 bocchette ed al centro, il pavimento così realizzato permette ancora oggi il regolare deflusso della pioggia, non permettendole il ristagno, forse questo è il motivo apparente dell’assenza dell’acqua.





     
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  14. gheagabry
     
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    "Sotto un rosso tramonto le cupole di Roma s’ergono sovrane, scende la notte, la città tace l’ultima campana si spegne dietro l’eco dolce delle sorelle, che or mute vibrano al fresco vento delle notti romane. Le vie, le fontane brillano di luci calde, ogni sasso ogni pietra t’apre il core. Nella corona dei sette colli l’umanità cialtrona e ruffiana ti fa sentire un re e Roma regina siede accanto a te."
    (Mirella Narducci)

     
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  15. gheagabry
     
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    PIAZZA VITTORIO

    Ner 1600 er Marchese Palombara doppo tanti sforzi pe’ crealla,
    inventò ‘na formula pe’ trasformà er ferro in oro ch’incise in sibbillino,
    sur muro de cinta der parco der palazzo, su de un portoncino,
    senza che gnissuno fino a mò riuscisse in quarche maniera a decifralla.
    ‘Sta piccola porta se trova ancora a Piazza Vittorio Emanuele:
    qui c’era un gran mercato aperto in tutte le staggioni
    indove mi’ madre ce comprava le persiche, er pizzutello, le mele
    e soprattutto le verdure fresche pe’ facce li minestroni.
    Me ricordo che prima d’acquistà capava attentamente
    e, giocoforza,‘ste sue parole me ritornano spesso ne la mente:
    “Sceji la verdura più fresca e profumata
    che nasce in primavera:lenticchie, faciolini,
    pommidori, fave, piselli, cavoli e zucchini,
    quarche patata a tocchi e fa’ che ‘sta pentolata
    bolli ar foco adacio adacio tutta ‘na mattina.
    Quann’er tutto è giusto de sale e de cottura,
    er pesto pisto ner mortaio versalo co’ cura
    e rimescola ogni tanto, piano, co’ tocco de fatina.
    Buttace poi la pasta o er riso un po’ lucente
    e assaggia spesso in modo da esse certo
    che l’una o l’artro siano piuttosto ar dente.,
    Doppo, messo ne le scodelle ben coperto,
    servilo intiepidito e de sicuro avrai successo
    perché formerà la pelle diventanno spesso!”

    di Sandro Boccia

     
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