ANTONINO CANNAVACCIUOLO ... “un cuoco di peso”

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. giuliascardone
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline

    Cucine da incubo,
    i consigli dello chef Antonino Cannavacciuolo


    Antonino_Cannavacciuolo_conf_stampa


    di Antonietta Demurtas


    Sveglia all'alba,
    attenzione alle spese
    e menù composto da soli tre piatti.
    Così la versione italiana del cuoco
    Ramsay salva i ristoranti
    dalla crisi.


    0-20130419072423


    In 10 puntate ha provato a insegnare i 10 comandamenti della sua arte culinaria. Cercando di risollevare ristoranti sull'orlo del fallimento e trasformarli in un sogno gastronomico.
    Lo chef stellato Antonino Cannavacciuolo, classe 1975, per tre mesi ha lasciato il suo ristorante hotel Villa Crespi a Orta San Giulio, in provincia di Novara, ed è diventato il protagonista di Cucine da incubo, la trasmissione resa celebre negli Stati Uniti dallo chef Gordon Ramsay.
    Nella versione italiana, in onda ogni mercoledì su Fox tv, Cannavacciuolo ha portato i modi e i colori della sua terra di origine, la Campania, e il rigore di quella di adozione, il Piemonte. «Al di là dello spettacolo televisivo, la cosa più bella è stata aiutare delle persone, lavorare con loro anche quando le telecamere erano spente e cercare di dare dei consigli utili», racconta a Lettera43.it, «perché quando un ristorante non va bene i motivi sono tanti».



    DOMANDA. Per esempio?
    RISPOSTA. Saper cuocere una pizza è una cosa, saper fare la ristorazione un'altra: vuol dire stare a contatto con i clienti. Senza contare che spesso, in questo periodo, nei ristoranti non ci sono nemmeno cuochi veri, ma musicisti, impiegati, persone che facevano un altro lavoro e ora si improvvisano in cucina.

    D. Invece cosa bisognerebbe fare?
    R. La gavetta, sudare nelle giacche. Lo dico sempre ai miei ragazzi: se sudi e fatichi, questo mestiere alla fine ti sorride. Ma non si può pensare di saper portare avanti una cucina dopo due anni.

    D. Quanto ci vuole?
    R. Almeno 10 anni. E la gavetta non vuol dire solo pelare le patate, ma anche vivere esperienze che aprono la mente. Girare i ristoranti, cambiarne uno ogni due anni, andare all'estero e, se si ha la possibilità, bussare alla porta di quelli stellati perché fanno una buona ricerca del prodotto e hanno un'idea più nobile della cucina.

    D. Come il suo, che di stelle ne ha due?
    R. Tutti lo conoscono come il mio, ma dietro ho una squadra fortissima, una famiglia si può dire: non solo mia moglie, ma il sommelier, il maître, il secondo chef. Alcuni ragazzi sono dei leoni, «si mangiano il lavoro» perché hanno fame, voglia di arrivare.

    D. E magari fare anche i soldi?
    R. Sì, ma non è come un tempo, quando si scriveva il conto sul foglio del giornale o la busta del pane. Sono cambiate molte cose, non solo le fatture.

    D. Quali?
    R. Cucinare un buon piatto non significa avere successo. Si può anche avere il ristorante pieno, ma senza una buona gestione non si dura.

    D. Che cosa bisogna evitare?
    R. Mai spendere più di quello che si guadagna. C'è un mondo che gira attorno al piatto e bisogna stare attenti a tutto: dai detersivi ai contributi, dall'affitto alla luce. Mai guardare solo all'incasso, prima di gioire bisogna capire quanto se ne va per le spese.

    D. Insomma chef ma anche imprenditori?
    R. Sempre: un euro o due al giorno spesi male sono più di 700 euro nell'arco di un anno.

    D. Per questo anche lei, come Gualtiero Marchesi, non crede ai talent show culinari?
    R. Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich sono dei professionisti e non pensano certo che un cuoco possa fare lo chef dopo 10 puntate. Il loro è solo un format televisivo. Ma non si può diventare muratore, meccanico o calciatore dopo qualche ora di corso.

    D. Non esistono i trucchi del mestiere?
    R. Si arriva al top solo con anni e anni di sacrifici alle spalle. Chi gioca facile, prima o poi, perde qualcosa. Se all'incapacità imprenditoriale si aggiunge anche la crisi economica, poi, si rischia davvero di perdere tutto.

    D. Ha incontrato molti ristoratori in difficoltà?
    R. Sì. Quando un'attività non incassa la prima cosa che una persona con un po' di testa fa è tagliare le spese personali. E, così, si finisce per rinunciare alla casa e dormire nel ristorante o in macchina. Sono situazioni vere, umane, ce ne sono parecchie con questa crisi.

    D. Come si aiutano queste persone?
    R. Spesso mi fanno rabbia: come fa un ristoratore in difficoltà, che non si può permettere di comprare il pane, ad avere 40 piatti nel menù? Si rende conto di cosa significa fare la spesa per 40 piatti con zero clienti? Chi lavora così non ha proprio nessuna capacità imprenditoriale.

    D. Come si fa ad averla?
    R. Basta essere intelligenti. E limitarsi a tre antipasti, tre primi e tre secondi. Far girare un prodotto su due portate così, alla fine, su nove piatti bisogna comprare solo sei ingredienti, la sera si incassa e l'indomani con quei soldi si va a fare altra spesa.

    D. Economia culinaria?
    R. Sì, perché se avanzano ingredienti in più nel frigorifero vuol dire che non c'è stato l'incasso e non si può neanche andare a comprare altro o investire per migliorare il ristorante.

    D. Bisogna risparmiare sui prodotti?
    R. No, imparare a fare la spesa. Se l'uva costa 10 euro non si compra, ma se il giorno dopo ne hanno raccolto due quintali il prezzo scende e allora è possibile metterla nel menù. Al mercato però bisogna andare presto, appena apre: alle sei del mattino si possono scegliere i prodotti più belli, a mezzogiorno rimane solo lo scarto.

    D. E una volta fatta la spesa?
    R. Arrivare presto al ristorante, cucinare, pulire. A mezzogiorno bisogna solo incrociare le mani e aspettare il cliente. L'accoglienza è fondamentale.

    D. Coccolare chi entra insomma?
    R. Offrirgli sempre qualcosa: una grappa, un limoncello, una pietanza in più. Il cliente vuole attenzione, un sorriso. Mai essere scorbutico. Fare l'antipatico in un ristorante vuol dire perdere il business. Quante volte si sente dire: 'Dai andiamo là che il cameriere è troppo simpatico, mi tratta bene'.

    D. Quindi anche investire sul personale, non solo sul cibo?
    R. Sì, il personale in sala è il primo ad avere il contatto con i clienti e dev'essere allo stesso livello della cucina. Quando uno mi dice: 'Sai, ho preso uno chef bravissimo, famoso'. E in sala? 'No, per quello risparmio, metto mio cugino', ecco allora capisco perché rischia la chiusura.

    D. Per un parente?
    R. No, per questa mentalità: la dobbiamo cambiare. Il cugino si può mettere in cucina ad affettare un po' di mozzarella e pomodoro ma in sala serve uno in gamba, che dà positività al locale. Questa è la ristorazione.

    D. In sintesi, quali sono le regole da non dimenticare?
    R. Non pensare di lavorare sei ore al giorno e fare i soldi. E mai paragonarsi al personale: il proprietario deve lavorare il doppio dei suoi dipendenti. Non entrare a mezzogiorno ma alle 8 del mattino, fare la spesa presto, non mettere 60 piatti nel menù perché a un vero chef bastano tre piatti per far capire se è bravo o no.

    D. Pensa di aver trasmesso qualcosa?
    R. Non ho la bacchetta magica. Ma molti mi hanno detto che ho restituito loro l'entusiasmo del primo giorno. Per me è stata una grande soddisfazione. Non so se si salveranno, lo spero.


    (Sabato, 25 Maggio 2013)



    Cucine-da-Incubo-Ferrarelle-2-288x162





    Fonte:www.lettera43.it,diegozilla.blogspot.com,www.bzcasa.it,www.badtv.it,www.advertiser.it,www.bigodino.it,www.antoninocannavacciuolo.it,web
     
    Top
    .
185 replies since 23/3/2013, 20:06   43629 views
  Share  
.