MILANO

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    MILANO SOTTO LA NEVE

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    foto Giovanni Dall'orto



    Edited by gheagabry1 - 15/9/2019, 15:00
     
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    "Quater Pass in Galleria"


    LA GALLERIA VITTORIO EMANUELE II



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    Il 7 marzo 1865 venne posta la prima pietra della futura galleria Vittorio Emanuele II, alla presenza del re, con apparati celebrativi ideati dal Mengoni. I lavori vennero assunti dalla società inglese City of Milan Improvements Co., il cui direttore tecnico era M.D. Wyatt. L’elemento di profonda novità si trovava nel coronamento degli edifici in stile eclettico fiancheggianti la nuova via: una cupola metallica di 37,5 m di diametro, costruita in loco con elementi prefabbricati dalla ditta H. Joret di Parigi e rivestita con vetri di Saint-Gobain. Il Mengoni risanò così un’area che, per quanto antica, era formata da una fitta rete di vicoli stretti e malsani, sviluppando in Italia la tipologia del passage (introdotta a Milano con la più modesta galleria De Cristoforis) su scala monumentale.
    La sensazione, facendo i classici “quattro passi in Galleria”, è quella di entrare nel cuore della città. All'ingresso un magnifico arco accoglie le persone, all’interno di uno spettacolo tutto meneghino; mille modi per fare sosta in questo transito tra il Duomo ed il Teatro alla Scala, proprio l’idea originaria dei progettisti che volevano una via porticata che fungesse da vetrina e da passeggiata per prendere l’aperitivo o cenare dopo l’Opera. All’interno della Galleria, tutti gli esercizi commerciali devono avere un’insegna con scritte in oro su fondo nero.
    La struttura della galleria è costituita da 353 tonnellate di ferro utilizzate per l'ossatura della copertura; 32 metri l'altezza della Galleria; è strutturata con un impianto a forma di croce (lunga 196m in direzione nord-sud, 105,5m in direzione est-ovest, larga 14,5 ed alta 21) e l'ottagono che si forma all'incrocio dei bracci è coperto da un’ardita cupola in vetro e ferro che raggiunge i 47m di altezza e che, per la sua tecnica moderna e per la sua originalità, è da mettere in relazione con le altre strutture simili create nello stesso periodo a Londra e Parigi.
    Alzando lo sguardo da sotto la Cupola, l’attenzione è focalizzata da quattro mosaici a forma di mezzaluna che raffigurano, in allegoria, quattro parti del mondo, Europa, Africa, Asia e America.
    L'Ottagono centrale è considerato il salotto della città. Sul suo pavimento, al centro, è realizzato a mosaico lo stemma di Casa Savoia. Ai suoi lati, sempre in mosaici, sono rappresentati gli stemmi delle quattro città che in epoche diverse sono state capitali del Regno d'Italia: nell'ordine Milano (con Napoleone), poi Torino, Firenze e infine Roma (coi Savoia).Oltre ai disegni della pavimentazione dell'ottagono centrale, la galleria metteva in mostra anche 24 statue che raffigurano italiani illustri che contribuirono a gettare le basi della civiltà letteraria, artistica e scientifica.
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    All’inaugurazione della Galleria Vittorio Emanuele II, venticinque statue di italiani illustri decoravano l’ottagono e gli ingressi: Raffaello, Savonarola, Vittor Pisani, Macchiavelli, Michelangelo, Galilei, Leonardo, Volta, Marco Polo, Pier Capponi, Arnaldo da Brescia, Romagnosi, Giovanni da Procida, Gian Galeazzo, Monti, Cristoforo Colombo, Bello de’ Gozzadini, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, il Lanzone, Dante, Cavour, Beccaria, Vico, Ferruccio.Le statue furono eseguite dai migliori scultori d’accademia del secondo ottocento, tra i quali Odoardo Tabacchi, autore della statua di Dante, Antonio Tantardini, cui si deve la statua del Romagnoli, e Pietro Magni, che esegue quelle di Volta, Michelangelo, Galileo, Cavour, Leonardo, Pier Capponi, più grandi delle altre. Le opere, di cui era prevista la traduzione in marmo, non furono mai sostituite e, a causa dei danneggiamenti subiti per gli sbalzi climatici, furono rimosse a partire dal 1891.

    Locali alla moda e di lusso per clienti aeinti hanno contraddistinto la Galleria fin dall'inaugurazione, conferendole quella denominazione di 'salotto di Milano' che è rimasta confermata nel tempo. Tra i nomi di prestigio, primo tra tutti il Biffi, locale aperto da Paolo Biffi dapprima come cafè vicino al Duomo, qui trasferito nel 1867 all'inaugurazione della Galleria Vittorio Emanuele, divenuto subito il locale preferito da cantanti lirici e dai milanesi che contano, in cui ascoltare musiche di Verdi e walzer di Strauss eseguite dall' orchestra. Con il passare degli anni, il ristorante, venne ceduto ad un altro proprietario che lasciò comunque l'antico nome sulle vetrine, ove resterà fino agli anni 90 del 900. Nel 1885 fu accolto in Galleria anche il ristorante più famoso di Milano, il Savini, aperto da Virginio Savini e reso fin da subito celebre dai suoi divani rossi in peluche, le specchiere ed i paralumi rossi sui tavoli, elementi che hanno costituito una grande attrattiva per una clientela di buongustai altolocati e giornalisti, rendendolo tempio della mondanità milanese. Il suo mito (avere qui un tavolo fisso era considerato un privilegio sociale come disporre di un palco alla Scala) perdurò fino alla fine degli anni Novanta.


    ...storia...



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    Quando la Galleria Vittorio Emanuele II sorse, nel XIX secolo, la città meneghina ambiva alla realizzazione di una grande opera architettonica che incorporasse le innovazioni tecnologiche del tempo e quindi ne consacrasse lo status di principale centro economico e morale della penisola. Dalla prima idea, sorta nel 1859, di realizzare una struttura simile ma più dimensionata della Galleria de Cristoforis, sempre a Milano, che fungesse da passaggio di collegamento coperto tra Piazza Duomo a Piazza della Scala (inizialmente pensata in dedica all'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe), si passò all'espletamento di un concorso internazionale indetto dal comune. Sui 176 architetti partecipanti, ad aggiudicarsi la vincita fu il giovane architetto Giuseppe Mengoni, il quale propose una lunga galleria attraversata da un braccio, con al centro dell'incrocio una grande "sala" ottagonale: la copertura prevedeva un'ossatura in ferro e il resto in vetro. I due ingressi principali, quelli del braccio più lungo, previdero inoltre due grandi archi trionfali. I capitali necessari si trovarono costituendo una società in Inghilterra promettendo ricavi dalle proprietà in costruzione, la stessa che fabbricò l'ossatura in ferro e la spedì a Parigi per essere assemblata. Nel progetto originario la galleria avrebbe dovuto essere più bassa: la volumetria degli edifici fu aumentata segretamente dalla società britannica che aveva pagato una tangente al sindaco Antonio Beretta.
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    Nel 1865 iniziarono i lavori con la posa della prima pietra da parte di re Vittorio Emanuele II di Savoia e due anni più tardi si inaugurò la galleria, anche se non completamente terminata. Quando questa società fallì, il Comune di Milano assunse la proprietà e continuò a fornire il capitale necessario. Circa dodici anni dopo finalmente il complesso fu terminato.
    Giuseppe Mengoni, l'ideatore della galleria, vi morì proprio precipitando dalla cupola durante un'ispezione il 30 dicembre 1877, anche se non mancò l'interpretazione che si trattasse di un suicidio, dovuto alle critiche espresse da più parti e alla delusione per la mancata presenza del re all'inaugurazione. Non si poteva sapere che tale assenza era dovuta alle gravi condizioni di salute di Vittorio Emanuele II, tenute segrete, e che il re sarebbe morto dopo pochi giorni.
    La galleria con i suoi caffè divenne ben presto il salotto di Milano, e nel 1910 il pittore futurista Umberto Boccioni dipingerà il movimento delle persone che la animavano nella tela Rissa in galleria.
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    Durante il 1914 ed i primi mesi del 1915, immediatamente precedenti l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale la galleria fu sede di manifestazioni di interventisti e pacifisti, spesso culminanti in zuffe. Il 7 novembre 1919 il diciannovenne anarchico Bruno Filippi morì dilaniato dalla sua bomba esplosa mentre entrava nel caffè Biffi, noto per essere frequentato dai ricchi milanesi, cercando di compiervi un attentato.
    Durante la seconda guerra mondiale, nelle notti del 13 e del 15 agosto 1943, la galleria venne colpita dai bombardamenti aerei alleati.
    Con il bombardamento aereo sulla città di Milano, la Galleria subì notevoli danneggiamenti ed in tale occasione l'arco verso Silvio Pellico fu distrutto per la maggior parte. Nel 1953 iniziò un'attenta ricostruzione che ha cercato di riproporre il più fedelmente possibile l'architettura del Mengoni nelle forme e nelle proporzioni, modificando però in parte i materiali costituenti. Il restauro degli anni Sessanta ha interessato anche il rifacimento della pavimentazione.

    Per molti anni a partire dal secondo dopoguerra, la zona d'ingresso alla galleria verso piazza Duomo costituì un tradizionale punto di ritrovo; la presenza delle edicole e degli strilloni faceva infatti riunire capannelli di persone, soprattutto all'ora di uscita dei quotidiani del pomeriggio, di solito caratterizzati da forti titoli in prima su fatti di cronaca nazionale, avvenimenti politici o eventi sportivi. La consuetudine di ritrovarsi in galleria per discutere l'attualità cessò nel corso degli anni di piombo, quando piazza Duomo divenne luogo di accese manifestazioni e di affollati comizi e, in generale, il clima del dibattito politico cittadino si fece più aspro.


    ....storie, miti e leggende....



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    Al centro della Galleria Vittorio Emanuele II, dedicata al re d’Italia, si trova uno stemma raffigurante un toro che rappresenta la città di Torino. Nell’ottagono centrale, oggi luogo privilegiato per eventi e installazioni, è situato sul pavimento il simbolo araldico dei Savoia con una croce bianca in campo rosso ed il famoso toro raffigurato con gli "attributi" in vista.
    L'usanza dice che porti fortuna porre il piede sopra gli attributi del toro e compiere una rotazione ad occhi chiusi facendo perno su quel piede. Migliaia di turisti e milanesi ogni giorno li schiacciano ritualmente come portafortuna! Secondo la leggenda però porta fortuna ruotare di 360° con il tallone del piede destro sui testicoli del toro solo alle ore 24 del 31 dicembre.


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    La cupola, posta nella parte centrale (ottagono), al momento dell’inaugurazione (5 settembre 1867) venne illuminata con un originale marchingegno animato da una molla che correndo su un binario installato lungo i muri accendeva i beccucci a gas mediante una fiammella alimentata da un deposito di spirito rinchiuso nel marchingegno. Il minuscolo meccanismo, somigliante a un topolino, correva veloce lungo i muri dell’ottagono, gli spettatori lo chiamarono subito rattin, come nel dialetto milanese viene chiamato un piccolo topo.
    La notizia si sparse ovunque e, al tramonto, poco prima che l’addetto della società del gas cominciasse le operazioni di carica del rattin, l’ottagono della Galleria si affollava di curiosi che volevano assistere all’evento. La cronaca cittadina del tempo, su Universo Illustrato riportava: “un lungo applauso era scoppiato da tutte le parti e grazie agli echi sonori dell’immensa cupola, pareva centuplicato…”.


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    I milanesi, orgogliosi del loro rattin, presero come abitudine di fare quatter pass in galleria con gli amici o con la famiglia, tanto che nacque il detto: “La Galleria Vittori Emanuel l’è la caponera di meneghitt!” ( la Galleria Vittorio Emanuele è il ritrovo dei milanesi!). Si fermavano per l’aperitivo al Camparino, una bevuta alla Birreria Stoker (ora Savini), per gustare, al Biffi, la famosa barbajada, una bevanda a base di cioccolata, caffè e panna inventata dal napoletano Domenico Barbaja, o per assistere ai concerti del Caffè Italia. D’Anzi e Carosso, da “milanesoni” quali erano scrissero la canzone “Quater pass in galleria” rendendo ancora più famosa questa frase, tanto che ancora oggi in piena globalizzazione la sentiamo pronunciare perfino in giapponese.


    Edited by gheagabry1 - 15/9/2019, 18:21
     
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    Emilio de Marchi, Milanin Milanon (dal milanese), Milano 1902.



    “è il nostro Duomo, è la chiesa dei nostri vecchi, è la casa di Milano, è tutto di marmo, è grande, è bello(...).
    Quando piove e la gente è immusonita, o d’inverno, quando ci sono quelle giornate scure, fredde, e nebbiose, anche lui, il nostro Duomo diventa grigio, freddo, (...) si stringe nelle nuvole, pare che pianga da tutte le parti. (...)
    Ma se torna il sereno (...) come alle volte si vede nelle mattine d’aprile e di maggio, Gesù, che allegria per quelle cento gugliette di zucchero che pungono l’aria, accese in punta dal primo sole che fa loro solletico! Allegria dei pizzi, dei ricami, delle scalette, delle chiocciole, dei ghirigori, dei piccioni che fanno l’amore in mano alle sante vergini di pietra, o sulla spada del patriarca, loro che da tre secoli guardano giù, e se parlassero! Il sole accende luminarie anche nei vetri colorati; fa nascere fiori rossi, gialli,verdi, violetti, sui pilastri, sul pavimento, sugli altari ;(...)
    Sotto un raggio di sole compari tu, Madonnina benedetta del nostro Duomo! Tu che sei la mamma di tutti noi!(...).
    Duomo chi ti ha fatto? Da quanti anni contempli le sciocchezza degli uomini?(…) Ti ricordi Napoleone, che ti ruppe le vetrate con i mortai?(...)
    Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è il nostro Duomo, è la chiesa dei nostri vecchi, è la casa di Milano (...)”



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    GELO A MILANO

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    Piazza Castello (foto Gianfranco Bonzi)

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    CASTELLO SFORZESCO

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    Quello che oggi si chiama ‘Castello Sforzesco’ e fino all’Ottocento ‘Castello di Porta Giovia’, dall’antica porta romana cui si affiancava, nacque tra il 1358 e il 1360 circa per opera di Galeazzo II Visconti, e fu continuato tra il 1380 e il 1390 da Gian Galeazzo Visconti. Sorgeva a cavallo delle mura urbiche, con la parte militare all’interno, rivolta verso la città, e quella residenziale, ospitante il signore, la sua famiglia e gli ambienti di rappresentanza, all’esterno, verso la campagna. Una collocazione comune a tutti i castelli di signori cittadini, che consentiva di dominare l’abitato e anche, in caso di rivolta, di fuggire verso la campagna. Alla caduta dei Visconti, nel 1447, Milano fu governata per tre anni da un’effimera repubblica, che iniziò la demolizione del castello. Ma la sua ricostruzione fu uno dei primi atti di Francesco Sforza appena si impadronì della città. Molte innovazioni furono apportate soprattutto sul lato verso la città, dove due scenografiche torri tonde con paramento esterno a bugnato sostituirono le precedente torri quadrate e dove un’alta torre a volumi sovrapposti (quella detta ‘del Filerete’) venne innalzata a segnare l’ingresso principale. Sul lato verso la campagna fu costruita una cinta esterna, la ‘Ghirlanda’, che fungeva da primo antemurale contro nemici esterni. Quando nel Cinquecento gli spagnoli entrano in possesso di Milano impiegarono il catsello, ormai inutile come reggia, come fortificazione, visto che non c’era più un duca regnante, ma solo un governatore nominato dal sovrano spagnolo. Per rimediare alla sua concezione ormai obsoleta lo avvolsero in una poderosa ‘stella’ di sei bastioni e lo trasformarono in una munitissima cittadella a controllo della città, che resistette fino alla distruzione ordinata nel 1800 da Napoleone. Privato delle sue difese esterne e ridotto a caserma delle truppe occupanti, il castello di Milano era ormai nella seconda metà dell’Ottocento un gigantesco rudere, di cui molti chiedevano l’abbattimento. Se riuscì a salvarsi fu per merito di un celebre architetto dell’epoca, Luca Feltrami, che convinse le autorità a non abbattere l’importante opera e mobilitò per il suo salvataggio le energie della città. Il suo restauro, condotto appassionatamente per molti anni, con una lunga sequela di studi, rilievi e indagini, è forse la maggior realizzazione del ‘restauro storico’ teorizzato all’epoca, e non solo salvò il castello ma gli diede una funzione centrale all’interno dell’abitato, tanto che oggi il castello è il simbolo stesso di Milano.

    ...i VISCONTI....


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    Nella divisione del territorio fra i nipoti Matteo II, Galeazzo II e Bernabò voluta dall'arcivescovo e signore di Milano Giovanni Visconti, a Galeazzo II era toccata la Porta Giovia. Tutte le Porte vennero debitamente potenziate e fortificate, in modo da farne delle Rocchette. La più famosa e documentata a Milano era quella di Porta Romana utilizzata da Bernabò e sopravissuta fino al suo atterramento voluto dal Piermarini. La diffidenza che Galeazzo II e soprattutto sua moglie Bianca di Savoia provavano nei confronti di Bernabò determinò lo spostamento della coppia a Pavia, dove la coppia aveva fatto costruire un vero castello atto all'abitazione, con un grande parco per l'allevamento dei cavalli. La Rocca di Porta Giovia, edificata tra il 1358 e il 1368, rimase quale presidio militare di Galeazzo II a Milano e quale residenza per i suoi soggiorni milanesi (mentre il palazzo visconteo accanto all'arcivescovato - ora Palazzo Reale - non veniva usato perché troppo vicino al temuto fratello). Fu l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria (1412-1447) ad eleggere la Rocca di Porta Giovia a sua residenza milanese e quindi a trasformarla in un vero e proprio castello con pianta quadrangolare, chiamando presso di sé architetti del calibro di Filippo Brunelleschi, il contributo concreto del quale resta però abbastanza oscuro. Poiché attorno al castello fu scavato un largo fossato (alimentato direttamente dalle acque del fossato cittadino), l'accesso era garantito da due doppi ponti levatoi con relativi battiponte, uno sul lato città, l'altro sul lato campagna. All'epoca era già sicuramente esistente una cinta muraria che proteggeva il castello nella parte esposta verso la campagna. E proprio la campagna retrostante fu trasformata, per la gioia dei Visconti e dei loro illustri ospiti, in un'immensa tenuta boschiva di 3 milioni di metri quadri, che nelle epoche di maggior splendore fu popolata con animali esotici, per rendere le battute di caccia più prestigiose. Alla morte di Filippo Maria (1447), il castello di Milano, con i suoi 180 metri di lato, era senz'altro il più grande fortilizio realizzato in epoca viscontea.

    Dopo Filippo Maria, che lasciava come unica erede la figlia Bianca Maria sposata al condottiero Francesco Sforza, Milano si organizzò autonomamente dando vita alla Repubblica Ambrosiana (1447-1450). In questo pur breve periodo i milanesi si accanirono con violenza contro il castello visconteo, simbolo di oppressione e tirannide, demolendolo in parte e smantellandone le opere difensive.

    ..gli SFORZA..

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    Divenuto signore di Milano Francesco I Sforza nel 1450, si pose immediatamente mano alla ricostruzione del castello, che divenne il cardine di tutto il sistema difensivo cittadino. In realtà, tra i numerosi patti sottoscritti tra i rappresentanti della città e lo Sforza, vi era quello di non riedificare il castello di Porta Giovia. Il furbo condottiero venne però meno al proprio impegno, spingendo una delegazione di cittadini ad invitarlo alla ricostruzione, adducendo come motivi il decoro e la sicurezza della città. Per rendere meno indigesta la nuova fortezza, volle che la facciata verso la città fosse ingentilita con delle finestre, a mo' di palazzo, che poi però, quando la sua Signoria si era ormai affermata e nessuno più poteva metterla in discussione, fece prontamente murare per migliorare la sicurezza dell'intera rocca. Le finestre saranno riaperte solo coi restauri moderni del Beltrami, come vedremo più avanti. Alla fine del Quattrocento gli Sforza erano una delle potenze europee, anche se non ‘la’ potenza italiana per eccelenza che erano stati i Visconti. Ma tutto cambiò in pochi mesi. Luigi XII, divenuto il re di Francia nel 1498, si ricordò di avere tra gli antenati una Visconti e rivendicò la sua presunta dignità di ‘vero’ duca milanese. Rifiutò di riconoscere la signoria degli Sforza (a cui in realtà non perdonava di essere stati gli alleati di Borgogna) e si giunse così a una guerra, nel corso della quale castello e città furono conquistati dalle truppe francesi. Il duca Ludovico il Moro fuggì in Germania, da dove cercò poi invano di riconquistare Milano. Fatto prigioniero, fu incarcerato a Loches, in Francia, dove morì nel 1508. il figlio maggiore Massimiliano riuscì a tornare fuggevolmente al potere, grazie all’aiuto svizzero, ma solo il figlio più giovane, Francesco, potè riprendersi il castello nel 1522, dopo la nomina a duca da parte dell’imperatore Carlo V. Francesco morì tuttavia senza lasciare eredi, e il ducato rientrò nelle disponibilità dell’imperatore. Fu così che a Milano cominciarono le dominazioni straniere (spagnoli, austriaci, francesi).

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    Le principali innovazioni architettoniche di questo periodo furono le muraglie più spesse, atte a resistere ai colpi dei proiettili, i torrioni più bassi e rotondi, camminamenti di ronda per la difesa piombante e le indispensabili, moderne, aperture per le bocche da fuoco (archibugiere, balestriere, bombardiere). I due celebri torrioni circolari vennero edificati con uno spessore di sette metri, abbelliti con pietre a bugnato regolare. Fu anche aggiunto un grande stemma, che recava le iniziali FR. SF. e la vipera viscontea, insegna adottata per dimostrare la continuità della stirpe sforzesca da quella viscontea. All'interno, i torrioni contenevano delle celle per i prigionieri. Alla prima fase ricostruttiva parteciparono esperti militari dell'epoca, quali Marcoleone da Nogarolo, Filippo d'Ancona, Giovanni Solari, Jacopo da Cortona. Vi lavorò anche Antonio Averulino, il Filarete, che edificò nel 1452 la omonima torre, al centro della facciata rivolta verso la città, anch'essa progettata per smorzare i toni eccessivamente cupi e militareschi che il castello stava assumendo.
    La sovrintendenza generale ai lavori costruttivi venne affidata a Bartolomeo Gadio, che manterrà l'incarico per ventisei anni, durante i quali si portò a termine anche la ghirlanda, cioè la cortina muraria a difesa del castello (ricavata sulla preesistente difesa viscontea) e la strada segreta, o coperta, posta nella controscarpa del fossato. Questa era una sorta di corridoio coperto a volta, illuminata da finestrelle che si aprivano sul fossato, e prima che varie frane e la costruzione della rete fognaria la interrompessero, aveva numerose gallerie che portavano per diversi chilometri in aperta campagna. Se Francesco Sforza aveva pensato, nell'opera restauratrice, prevalentemente agli aspetti difensivi, il figlio Galeazzo si occupò delle parti residenziali e rappresentative. Proseguì così la sistemazione della Rocchetta, e completò la Corte ducale. Innalzò due nuove ali, la prima per ospitare la sala Verde e la cappella ducale; la seconda con il portico detto dell'elefante. Morto improvvisamente nel 1476, vittima della congiura di S. Stefano, la Signoria passò al giovane Gian Galeazzo, sotto tutela della madre Bona di Savoia e del cancelliere Cicco Simonetta. Nel 1477 Bona fece innalzare la torre centrale che ancora porta il suo nome, col preciso compito di sorvegliare i movimenti interni al castello e l'accesso alla Rocchetta. Autore ne fu il marchese Lodovico Gonzaga, Signore di Mantova. La torre fu progettata per contenere otto celle, a cominciare da quella sotterranea, l'una sopra l'altra. Liberatosi del Simonetta e scacciata Bona di Savoia, Ludovico Maria assunse la tutela del Ducato facendo firmare al nipote una lettera d'assenso, divenendo di fatto il nuovo signore dal 1480 al 1499. Il Moro volle imprimere al Castello un'immagine più residenziale e principesca, mitigando l'impronta guerresca ancora dominante nonostante gli sforzi dei suoi predecessori. Per questa ragione chiamò a corte artisti di spicco, tra i quali il Bramante e Leonardo. Negli anni della loro permanenza a Milano, entrambi presentarono numerosi progetti per quella che ormai era diventata la residenza della famiglia ducale (fin dagli anni Sessanta del Quattrocento).

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    Attualmente, tuttavia, individuare le tracce del loro operato risulta difficile. Del tutto labili sono gli indizi di un'attività bramantesca. E' noto che verso il 1495 il cortile della Rocchetta, il quadrilatero porticato posto nel vertice occidentale del castello cui si accedeva originariamente solo dalla grande piazza d'armi tramite un ponte levatoio, fu dotato del terzo ed ultimo fronte ad arcate su colonne. Sua deve sicuramente essere la cosiddetta "ponticella", opera commissionata dal Moro a Bramante, secondo il suo allievo Cesare Cesariano (1521), e identificata dal Beltrami nel piccolo ponte coperto (databile al 1495 circa) che attraversa il fossato esterno al lato nord est del castello, connettendo le stanze private del duca con l'area allora a giardino compresa tra il fosso stesso e la ghirlanda.

    ..LEONARDO..


    Tra queste stanze private, v'era la "saletta negra", che il Moro, dopo la morte della sposa Beatrice, aveva fatto decorare da Leonardo ed in cui amava raccogliersi. Il contributo di Leonardo è assai meglio precisabile, ma resta documentato sostanzialmente solo da disegni: i suggestivi schizzi per un'altissima torre-osservatorio al centro della facciata verso la città e singolari tempietti a cupola per le torri angolari. Non restano invece tracce di un padiglione a pianta centrale realizzato nel giardino, e del famoso monumento equestre a Francesco Sforza (il cui modello fu distrutto dai Francesi) che doveva essere posto in una grandiosa nuova piazza rivolta verso la città. La creazione più famosa di Leonardo resta così il grande affresco sulla volta a ombrello della sala "delle Asse", eseguito secondo un suo progetto decorativo nel 1498 circa: una grande pergola verde di rami, annodati con i famosi "vinci", che scaturivano da un circolo di alberi.
    Leonardo è comunque ricordato per aver organizzato coreografie e macchinari per allietare feste e stupire gli ospiti di corte. Una delle più famose fu quella organizzata nella Sala Verde della corte ducale, e detta Festa del Paradiso. Leonardo creò sul palcoscenico una volta raffigurante il Paradiso, con astri, divinità, angeli e quant'altro. Sul culmine della volta l'artista collocò un bambino tutto nudo e dorato di vernice, con grande ammirazione dei presenti.
    (dal web)


    Edited by gheagabry1 - 5/12/2019, 11:54
     
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    STAZIONE CENTRALE

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    Vittorio Emanuele III presenzia alla posa della prima pietra della Stazione Centrale maggio 1906.



    In costruzione

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    Stazione Centrale nel 1931, poche settimane dopo la sua inaugurazione.

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    Inaugurazione

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    Il ministro Ciano e l'architetto Stacchini inaugurano la Stazione Centrale 1931.




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    La valisa

    Treno in ritard:
    faseva giamò scur
    e piovisnava.
    Soll, in mezz a la calca da on para d'or,
    sott a la pensilina
    specciavi sui duu pee
    che te rivavet.
    Frecc in di oss,
    scighera denanz ai oeucc
    e tuff d'oli brusaa,
    de carisna e de ruff.
    Senza guant, i mè did
    eren come de giazz
    compagn di mè penser
    e 'l nas el gottonava
    de trombin guast.
    Ma quand speravi pù,
    l'è tornaa 'l so
    e 'l coeur s'è slargaa foeura
    sul fà d'on fior
    giapponés
    pocciaa in acqua:
    sul carell di facchin
    l'avevi vista,
    la toa valisa.


    La valigia

    Treno in ritardo:
    faceva già scuro
    e piovigginava.
    Solo, in mezzo alla calca, da un paio d'ore,
    sotto alla pensilina
    aspettavo sui due piedi
    che tu arrivassi.
    Freddo nelle ossa,
    nebbia davanti agli occhi,
    puzzo d'olio bruciato,
    di fuliggine e di sudiciume.
    Senza guanti, le mie dita
    erano come di ghiaccio
    come i miei pensieri
    e il naso gocciolava
    come un rubinetto guasto.
    Ma quando non speravo più,
    è tornato il sole
    e il mio cuore si è allargato
    come un fiore
    giapponese
    messo nell'acqua:
    sul carrello dei facchini
    avevo riconosciuto
    la tua valigia.

    (Pier Gildo Bianchi
    )



    tratta da: Milano sparita e da ricordare

    Edited by gheagabry1 - 6/3/2019, 16:45
     
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    "C'è intanto una meraviglia a Milano di gran lunga la più importante,
    che non posso non descrivere: la cattedrale.
    Da lontano appare come ritagliata in un foglio di carta bianca, ma quando si è vicini ci si meraviglia nello scoprire che quei ritagli a forma di merletto sono innegabilmente di candido marmo(...). Se osserviamo l'intera opera un po' più a lungo, troviamo che è molto graziosa, colossalmente bella, un giocattolo per bambini giganteschi. Tuttavia essa si presenta ancor meglio a mezzanotte, al chiaro di luna, quando la folla di bianche figure di pietra scende dall'alto e ti accompagna per la piazza bisbigliandoti all'orecchio un'antica storia (...)"
    Heinrich Heine, Reisebilder, Amburgo, 1826




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    LA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO




    Il 6 maggio 1385 Gian Galeazzo Visconti arriva a Milano diretto al Sacro Monte di Varese. E' un uomo di 34 anni, già sposato due volte, noto per la sua ostentata devozione, la sua timidezza. Incontra lo zio Bernabò Visconti, il terribile signore di Milano che amava sbeffeggiare papi e imperatori perché, come amava dire, "io sono papa e imperatore a me stesso". Quel giorno Bernabò deve aver pensato: "Vado a farmi due risate" e, presa la sua mula, si era diretto verso S. Ambrogio per vedere lo spettacolo, accompagnato dai suoi due figli e da poco seguito. Invece Gian Galeazzo, appena lo vede, lo dichiara suo prigioniero e lo fa rinchiudere nel vicino castello sotto lo sguardo sbalordito e incredulo di tutta Milano e, si può dire, di tutta Europa. Da qui iniziano le grandi imprese di Gian Galeazzo Visconti e da qui "inizia l'impresa del Duomo". La strategia di Gian Galeazzo è abbastanza chiara: i poveri vanno tranquillizzati con un saccheggio; i ricchi con il diritto. Per quelli che oggi chiameremmo "ceti medi" - mercanti, artigiani e commercianti - ci vuole un'idea che porti lustro alla città e lavoro per tutti. Ed ecco l'annuncio: il 23 maggio, due settimane dopo l'arresto di Bernabò, vengono demoliti l'antico arcivescovado, il palazzo degli Ordinari e il battistero di S. Stefano alle Fonti, che si trovavano dietro la cattedrale di S. Maria Maggiore, per edificare una nuova cattedrale di immense proporzioni, che avrebbe superato in lunghezza e in altezza ogni altra chiesa esistente allora nel mondo.

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    Nacque la Veneranda Fabbrica del Duomo. I primi documenti della fabbrica, purtroppo perduti, risalgono alla primavera del 1386, quando sono già in corso i lavori delle fondazioni, iniziate dalla sacrestia settentrionale o, come dice la Fabbrica, "aquilonare" dov'era l'antichissimo battistero di S. Stefano alle Fonti. In quest'anno Gian Galeazzo e il cugino arcivescovo Antonio da Saluzzo, iniziano una campagna di mobilitazione delle forze economiche della città perché concorrano all'impresa con offerte generose. La risposta supera, come si dice, le più rosee aspettative. In pochi mesi non solo i paratici di Milano, ma l'intera popolazione, si mobilita per portare ogni genere di offerte alla Fabbrica del Duomo: soldi, beni personali, lavoro. Ormai la cosa è diventata seria e bisogna che l'idea si trasformi in un progetto visibile e condiviso da tutti. L'1 marzo 1387 viene nominato ingegnere capo Simone da Orsenigo, che resterà per molti anni il responsabile dell'andamento dei lavori.. Sappiamo oggi, dopo gli assaggi effettuati nella sagrestia aquilonare, che all'inizio si pensava ad una costruzione in mattoni decorata con un paramento in cotto, simile probabilmente alle coeve chiese del Carmine di Milano e di Pavia. Nell'ottobre del 1387, avviene la grande svolta: Gian Galeazzo, che in due anni aveva già conquistato quasi tutta l'Italia settentrionale e aveva sposato la figlia Valentina con il fratello del re di Francia, decide di trasformare l'espediente pubblicitario in un simbolo regale.
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    A questo punto il Duomo non doveva essere soltanto la chiesa più grande d'Europa, doveva diventare soprattutto lo splendido tempio del futuro re d'Italia. Per realizzare questo sogno grandioso viene formulato un minuto regolamento della Fabbrica che prevede sia la stretta sorveglianza della gestione pratica dei lavori, sia un attento e rigoroso rendicontamento delle entrate e delle spese. Da parte sua Gian Galeazzo concede alla Fabbrica l'uso gratuito delle cave di Candoglia per estrarre i marmi necessari alla nuova impresa. L'idea nuova è quella di abbandonare lo stile ancora "romanico" i per abbracciare decisamente le forme gotiche d'oltralpe, mai prima d'ora accettate completamente in Italia. Le murature e i piloni saranno dunque realizzati "a cassone": pareti esterne portanti in marmo di Candoglia riempite internamente di pietre, prevalentemente serizzo tratto dalle cave viscontee di Locarno, Intra e Pallanza. I materiali arriveranno a Milano lungo il Naviglio Grande e tutte le merci che esibiranno il marchio AUF (Ad Usum Fabricae) non pagheranno dazi.

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    progetto di Cesare Ponti



    Il 20 marzo 1388 si svolge una importante riunione durante la quale Marco da Campione (o da Frixono, come dicono alcuni documenti) critica duramente i lavori fatti in precedenza da Simone da Orsenigo . Le critiche sono accolte e, dopo aver risistemate le fondazioni, "si incominciò a edificare con solido marmo" come dice un documento del 4 settembre 1388. Dal 1389 fino alla morte di Gian Galeazzo nel 1402, in soli 14 anni di lavoro frenetico, si costruisce quasi metà dell'opera. Anche se ci vorranno altri 400 anni per finirla, questi 14 anni sono decisivi per il Duomo perché è in questo periodo che vengono fatte tutte le scelte più importanti per il suo destino futuro.
    Nicolas de Bonaventure - viene nominato ingegnere capo il 6 luglio 1389. La sua attività a Milano durerà un anno e lascerà una indelebile traccia "francese" sul Duomo. Sulle porte delle sagrestie intanto si stanno affaticando gli scultori per completare le prime vere opere decorative: Giacomo da Campione esegue il portale della sagrestia settentrionale dedicato a Cristo e poco dopo è Hans Fernach ad eseguire quello della sagrestia meridionale dedicato alla Vergine.. Anche se nell'estate del 1390 Nicolas de Bonaventure ritorna in Francia, i lavori proseguono alacremente..Tutto il 1391 sarà l'anno cruciale per la stesura del modello definitivo. A questo dibattito, che chiama in causa sia importanti problemi di statica, sia problemi non meno importanti legati alla simbologia dei numeri e delle figure geometriche, intervengono personaggi di primo piano della cultura architettonica tedesca come Hans von Freiburg e Heinrich Parler, il primo impegnato nella cattedrale di Colonia e il secondo a Ulm. All'inizio del 1392 si giunge a due modelli contrapposti: quello di Parler e quello di un matematico piacentino - Gabriele Scovaloca - (un modello di alzato più affine ai gusti locali e più vicino alla tradizione costruttiva lombarda) che vincerà. Dal 1392 però la spinta spontanea della città per finanziare l'impresa - dopo cinque anni di sacrifici - si sta smorzando. Gian Galeazzo escogita un Giubileo milanese per raccogliere altri fondi e continuare l'impresa, ma si dovrà aspettare il 1395 prima di vedere qualche soldo.
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    Del resto anche Gian Galeazzo in questi anni è distratto da mille incombenze militari e politiche e per giunta ha deciso di fondare presso il suo parco di Pavia una nuova grande Certosa. Per fortuna (non sua!) nel 1394 muore Marco Carelli, un ricchissimo mercante milanese che lascia alla Fabbrica tutta la sua sostanza - ben 35.000 ducati - parecchi miliardi di oggi. Con quei soldi si costruisce quello che forse è il più bel elemento scultoreo-architettonico dell'intero edificio: la Guglia Carelli, la prima guglia del Duomo che si trova sull'angolo nord-est della sagrestia aquilonare, sormontata dalla statua di S. Giorgio che richiama direttamente l'effigie di Gian Galeazzo Visconti.

    Mai si era osato in Europa sollevare a quell'altezza una così enorme massa di marmi. Per affrontare il problema arriva dalla Francia nel 1399 il parigino Jean Mignot, un grande tecnico, che analizza in primo luogo la correttezza dei lavori svolti sinora trovando molte imperfezioni nel taglio delle pietre e quindi nella loro effettiva capacità di portata. La conclusione è drastica: c'è "pericolo di ruina". Secondo il francese bisogna distruggere tutto il costruito perché fatto "sine scienzia". Gian Galeazzo, molto preoccupato, fa assumere dalla Fabbrica i suoi due migliori ingegneri, Bartolomeo da Novara e Bernardo da Venezia, mentre è preposto al cantiere in pianta stabile Filippino degli Organi.. Il duca, pur convinto della giustezza delle critiche, alla fine si arrende al pragmatismo della Fabbrica lasciando che i lavori siano proseguiti "secondo il gradimento e la volontà dei suoi cittadini". Il Duomo non è crollato, però lo spavento salutare procurato dal Mignot è servito a migliorare le attrezzature (è adottata la sega per marmi) e soprattutto ha fatto rinviare di un secolo l'impresa del tiburio.

    Dal 1402, anno della morte di Gian Galeazzo Visconti, al 1480, quando un nuovo colpo di Stato fa salire al potere Ludovico il Moro, la costruzione del Duomo resta quasi del tutto sospesa, vuoi per mancanza di soldi, vuoi per mancanza di idee. Per tutto questo tempo il Duomo resta a metà, mentre dall'enorme zona del transetto continua a spuntare la vecchia basilica di S. Maria Maggiore. Anche se in questo periodo Filippino degli Organi costruisce poco, attorno a lui però cominciano a crescere gli scultori e poi i maestri vetrai che tentano i loro primi lavori sui finestroni dell'abside. Nell'anno 1418 il nuovo duca Filippo Maria Visconti può finalmente iniziare a pensare a Milano. Il 12 ottobre successivo arriva a Milano il papa Martino V, eletto l'anno prima dal Concilio di Costanza dopo un lungo periodo di scissione della Chiesa . Chi conosce la storia di Milano sa che bisogna sempre approfittare delle occasioni straordinarie se si vuole demolire qualcosa di importante e di antico.. Fino a quel momento si era costruito tutto attorno alla basilica che era praticamente intatta e funzionante. In due giorni, dal 14 al 16 ottobre, per ordine del duca si demolisce l'abside e la volta, spostando il vecchio altare per la consacrazione nel nuovo coro del Duomo. Da questo momento però non cessa di esistere liturgicamente la basilica di S. Maria Maggiore, ma viene semplicemente ampliata con un nuovo - immenso - coro dov'è collocato il suo vecchio altare riconsacrato. La sua scomparsa definitiva avverrà 150 anni dopo con la consacrazione del Duomo voluta da Carlo Borromeo.

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    Fin dai primi anni del Quattrocento, parallelamente alle opere di architettura e scultura, sorge vicino al Duomo il laboratorio per preparare le vetrate. Di tutte queste vetrate restano soltanto alcuni antelli al Museo del Duomo, perché dovettero essere quasi subito sostituite per l'imperizia dei maestri vetrai di quest'epoca. Solo dopo il 1470, grazie all'opera di Cristoforo e Agostino de' Mottis, Antonio da Pandino e Niccolò da Varallo si avvia un programma serio e duraturo di realizzazione delle vetrate, eseguito questa volta con materiali di ottima qualità e con tecniche perfette che hanno consentito ad esse di conservarsi in ottimo stato fino ad oggi. Di questo notevole gruppo di opere, che stilisticamente abbandonano il gotico per rifarsi ai disegni "all'antica" del Foppa e di altri artisti rinascimentali.

    Ludovico il Moro, salito al potere nel 1480 era l'uomo che ci voleva per affrontare un problema così difficile come quello del tiburio. Deciso, ambizioso, spregiudicato, il Moro governa Milano in un periodo di grande splendore culturale, che gli permette di disporre di uomini dotati di straordinarie capacità tecniche e artistiche. Nel 1481 muore Guiniforte Solari, che intorno al 1470 aveva rinforzato gli arconi gotici tra i quattro pilastroni centrali con dei robusti "archi romani" nascosti nella muratura . Restano a capo del cantiere suo figlio Pietro Antonio e il genero Amadeo, entrambi poco più che trentenni. Si ritiene quindi opportuno di far venire a Milano l'anziano maestro tedesco Giovanni Nexemperger. Si scopre che in Italia ci sono persone più esperte di lui ed anche di gusti più raffinati. Alcune sono già a Milano, come Leonardo da Vinci e Donato Bramante, altre sono chiamate apposta a misurarsi con il problema. Alla fine, nel 1490, tutti i modelli sono riuniti nel castello sforzesco per un confronto finale. Vince, anche perché rappresenta la sintesi dei diversi contributi, il modello approntato dall'Amadeo con Gian Giacomo Dolcebuono e rivisto da tecnici del calibro di Francesco di Giorgio e Luca Fancelli. Rispetto ad una tendenza che voleva il tiburio di forma quadrangolare, si sceglie alla fine un rivestimento della cupola ottagonale, più rispondente alla tradizione ambrosiana. Il tiburio viene terminato in appena dieci anni, e, malgrado il timore di molti, non presenta alcun difetto dal punto di vista statico. Nella sua parte interna viene decorato da quattro serie di quindici statue (profeti, sibille e personaggi dell'Antico Testamento) sugli arconi portanti e da quattro medaglioni con i dottori della Chiesa. All'esterno invece rimane a lungo privo di decorazioni e guglie. Unica eccezione è il cosiddetto Gugliotto dell'Amadeo, capolavoro scultoreo dove gli elementi rinascimentali sono sapientemente armonizzati con l'aspetto gotico, che rimane dominante, come segno di fedeltà all'impianto originario della costruzione. Con il gugliotto Amadeo, costruito tra il 1507 e il 1518, finisce in bellezza la stagione gotica del Duomo. Ciò che si farà in seguito, dopo la parentesi "romana" del Borromeo, sarà all'insegna di un neogotico nel quale il vecchio stile viene di volta in volta rinterpretato alla luce delle novità barocche o neoclassiche. (Paolo Colussi, la storiadimilano.it)


    Nel corso dei millenni, tutta l'area che comprende anche l'omonima piazza antistante il Duomo, è stata adibita a luogo sacro prima dai Celti, poi dai Romani e infine dai Cristiani. Se la terra avesse potuto assorbire la magia di questo luogo, ora sarebbe impregnata di energia pagana e cristiana, di acre sangue sacrificale e di profumo di beatificazione.
    Fino al IV secolo d.C. in questo luogo si trovava un tempio dedicato a Minerva. Con la diffusione del cristianesimo, il tempio venne abbattuto e fu eretta la chiesa dedicata a Santa Tecla con l'adiacente Battistero di San Giovanni alle Fonti dove il vescovo di Milano Sant'Ambrogio battezzò Sant'Agostino. Nell'836, accanto a Santa Tecla, venne costruita una seconda chiesa chiamata Santa Maria Maggiore.
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    Interessante notare come sia rimasto in questo magico luogo del centro di Milano, a discapito di 2.500 anni di storia, un filo comune tra tutte le religioni, di un culto femminile: la Dea Madre Terra per i Celti, Minerva per i Romani, Santa Tecla e infine il Duomo (dedicato a 'Santa Maria Nascente') per i Cristiani.
    Lo stesso Duomo, con la sua storia pluricentenaria, sembra quasi aver 'accettato' di buon grado di convivere con simboli pagani e demoni scolpiti nel marmo. Difficile quindi stupirsi se si pensa che la sua stessa costruzione, secondo una leggenda, fu voluta dal diavolo in persona.
    Si narra infatti che il signore del male fosse comparso a Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, in una fredda notte del 1386. Ritiratosi nella sua camera, il diavolo gli comparve ai piedi del letto con occhi infuocati e alito di zolfo. Lo minacciò dicendogli di costruire una chiesa a suo nome e che fosse ricca di immagini sataniche e di figure di demoni. Se si fosse rifiutato, avrebbe preso la sua anima e l'avrebbe portata con sé all'inferno. Galeazzo non impiegò molto a decidersi e già pochi giorni dopo, prese accordi con l'arcivescovo Antonio da Saluzzo per cominciare la costruzione del Duomo.
    Ma quante statue ci sono sul Duomo? Sembra che tra l'interno e l'esterno dell'edificio ce ne siano 3159. Se però si dovessero contare anche le gran teste e i mezzibusti, gli altorilievi e i doccioni, il numero crescerebbe in maniera esponenziale. Io stesso, ogni volta che alzo lo sguardo al Duomo, mi stupisco per figure bizzarre, animali di pietra e statue che non avevo mai scorto prima.
    Una prima impressione che si può invece percepire appena entrati nell'edificio, è di trovarsi in un'antica foresta di querce, simile a quella veramente esistita millenni fa. L'effetto ottico è dato dalle imponenti e altissime colonne gotiche che richiamano appunto per la loro fattura, degli enormi tronchi d'albero. L'interno del Duomo è ricco di segreti e di curiosità. Alzando ad esempio lo sguardo verso la prima campata della navata di destra, celato nella penombra, ci accorgeremo di un grande oggetto sospeso e protetto da un telo bianco. Si tratta della Nivola, un rudimentale ascensore (ora azionato elettricamente, un tempo mosso da un sistema di funi) che permette ogni anno al vescovo di Milano di raggiungere la volta dell'abside. Qui si trova un reliquiario che al suo interno custodisce uno dei Santi chiodi della crocifissione Gesù Cristo. Il primo monumento funebre che s'incontra sulla navata di destra, è invece quello dell'arcivescovo Ariberto d'Intimiano. Sopra il sarcofago del santo si trova una croce eseguita nel 1037 che la tradizione vuole fosse stata eretta sopra il Carroccio del Comune. Il carroccio era un grande carro a quattro ruote intorno al quale si raccoglievano e combattevano le milizie dei comuni lombardi (o 'Lega lombarda'). Certamente celebre la battaglia di Legnano della Lega lombarda di più di cento anni dopo (29 maggio 1176) guidata da Alberto da Giussano durante la quale, un sacerdote celebrò una messa sopra un carroccio incitando i combattimenti nel nome di Dio. La lega, appoggiata dal papa Alessandro III, vinse la battaglia contro il Sacro Romano Impero e il suo imperatore, Federico Barbarossa.
    Infine, un mattone posto sempre nella navata di destra con una curiosa incisione:



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    EL PRINCIPIO DIL DOMO DI
    MILANO FU NEL ANNO 1386


    L'incisione è in realtà del XVII secolo, ma atta a comprovare la datazione originaria del Duomo. Sembra infatti che la suddetta scritta venne apposta dopo il ritrovamento di un mattone nelle fondamenta della chiesa, che apportava appunto la data: 1386.
    Sicuramente, come qualunque grande edificio sacro medievale, ebbe invece collegamenti con la Massoneria. Anticamente i Massoni erano liberi scalpellini e artigiani che venivano chiamati in tutta Europa perché unici detentori del sapere architettonico e ingegneristico per poter realizzare opere tanto complesse come le cattedrali gotiche.
    (mitiemisteri.it)


    Edited by gheagabry1 - 15/9/2019, 16:06
     
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    Quand la luna in del ciar l'è nascosta,
    se desseda la lus sora al mond.
    Ricomincia de noeuv la giornada
    involtiada de tanti speranz.

    (Luigi Carcano)

     
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    Nella primavera del 2019 in Galleria Vittorio Emanuele II, davanti allo storico Toro Portafortuna del mosaico pavimentale, si trova un secondo toro ma in bronzo. L’istallazione è stata voluta da Class Editori per dare il via alla manifestazione “Milano Capitali” , l’evento dedicato alla finanza e promosso appunto da Class Editori.

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    La scultura è un’opera di Francesco Messina disegnata negli anni Cinquanta. “The Bull‘”, questo il titolo dell’opera destinata all’epoca per essere collocata davanti a Palazzo Mezzanotte in piazza Affari, dove oggi si trova “il dito” di Maurizio Cattelan.

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    All’ingresso noterete un orologio… non dovete alzare lo sguardo, ma abbassarlo, e osserverete una striscia dorata che attraversa il Duomo da una parte all’altra. La luce entra da un forellino nel soffitto, sopra la finestra, a mezzogiorno (quello solare!) ed illumina uno dei segni zodiacali sulla striscia dorata, dicendoci in che mese siamo.

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    La linea meridiana

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    La linea meridiana solare del Duomo, collocata a ridosso della controfacciata, fu realizzata nel 1786 dagli astronomi dell’Osservatorio Astronomico di Brera Giovanni Angelo de Cesaris e Guido Francesco Reggio. È costituita da una linea di ottone che percorre la Cattedrale in senso longitudinale e corredata dai segni zodiacali.

    Essendo un orologio e un calendario solare perfettamente funzionante ha necessitato nel corso dei secoli di diverse verifiche e ripristini. Uno di questi fu effettuato nel 1827 e necessario a causa dell’abbassamento del piano del pavimento.

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    Una seconda verifica venne effettuata nel 1929 dall’astronomo Luigi Gabba per conto del Regio Osservatorio Astronomico di Brera.

    L’ultima verifica effettuata fu eseguita nel 1976 in quanto gli scavi della prima linea della metropolitana e l’abbassamento della falda freatica causarono un ulteriore abbassamento del pavimento della Cattedrale. Fu anche allargato il foro gnomico sito in corrispondenza della volta della prima campata sud.

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    L'ORGANO del DUOMO

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    Costruito dalle ditte Mascioni di Cuvio (Varese) e Tamburini di Crema nel 1938, restaurato e ricollocato integralmente in Presbiterio dalla ditta Tamburini nel 1986, il grande organo del Duomo mantiene saldamente il secondo posto a livello europeo per ciò che concerne il numero di canne e di registri (superato solo dallo strumento del Duomo di Passau, in Germania), risultando inoltre iscritto nell’albo d’oro dei quindici organi più grandi del mondo.

    Veramente impressionanti sono gli attuali numeri di questo “gigante”:
    • 15.800 canne, di cui la più alta misura oltre nove metri mentre la più piccola misura pochi centimetri
    • Cinque corpi d’organo (Grand’Organo Lato Nord e Sud – Positivo e Recitativo Lato Nord – Solo ed Eco Lato Sud – Corale al piano dell’altare)
    • Cinque Consolles (Consolle principale a cinque tastiere, Consolle lato altare a tre tastiere, Consolle corale a due tastiere, due Consolles di tribuna a una tastiera)

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    Se il dato meramente numerico già di per sé è impressionante, ancora più prezioso è il dato artistico: edificato da due tra le più significative tradizioni organarie familiari che hanno segnato il XX secolo il grande organo del Duomo sposa le sonorità intramontabili della tradizione italiana con una struttura fonica decisamente eclettica, che permette la caratterizzazione corretta di una grande porzione di letteratura organistica, risultando uno strumento di assoluta eccezionalità timbrica per l’esecuzione del repertorio romantico – sinfonico, al pari delle più importanti cattedrali europee.

    A ciò si aggiunge l’altissima qualità artigianale delle lavorazioni e delle tecnologie impiegate dalle ditte costruttrici; nulla di standardizzato ed “industriale” è presente in quest’organo ma bensì tutto risulta orientato alla creazione di un’opera unica per un ambiente unico.


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    Lo strumento fu concepito nel 1938 secondo un piano veramente grandioso: sette corpi d’organo vennero collocati in diversi punti del Duomo secondo quest’ordine:

    • Organo Positivo – corrispondente alla I tastiera, in alto, nel finestrone sovrastante l’altare di S.Tecla.
    • Grand’Organo – corrispondente alla II tastiera, nelle due artistiche casse ai lati dell’Altare maggiore.
    • Organo Recitativo – corrispondente alla III tastiera, in alto, nel finestrone che guarda sull’ambulacro del retrocoro (lato Sacrestia delle messe).
    • Organo Corale – corrispondente alla III tastiera, sul palco della cantoria collocata sul fondo del coro Capitolare; su tale cantoria venne collocata anche la Consolle principale a cinque tastiere, mentre la Consolle “corale” a una tastiera venne collocata dietro l’altare maggiore onde prestarsi all’accompagnamento dell’ufficiatura dei Canonici,
    • Organo Solo – corrispondente alla IV tastiera, in alto, nel finestrone che guarda verso la statua di S.Bartolomeo.
    • Organo Eco – corrispondente alla V tastiera, in alto, nel finestrone che guarda sull’ambulacro del retrocoro (lato Sacrestia Capitolare).

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    Tenuto a battesimo il 4 Novembre 1938 (IV Centenario della nascita di S. Carlo Borromeo) con l’esecuzione della “Missa Sancti Caroli” di Lorenzo Perosi ed inaugurato in due memorabili concerti svoltisi il 17 e il 22 Novembre dello stesso anno da alcuni tra i maggiori organisti italiani dell’epoca quali Adolfo Bossi, Luigi Ferrari – Trecate, Santo Spinelli, Ulisse Matthey e Fernando Germani, lo strumento si prestò egregiamente al servizio liturgico nei decenni successivi sino alla metà degli anni ’60 del XX secolo, quando, a causa degli improcastinabili lavori di rinforzo alla statica del Duomo fu necessario il suo completo smontaggio.

    Per sopperire alla momentanea mancanza di sostegno organistico venne costruito dalla ditta Tamburini un nuovo organo corale a trasmissione meccanica, dotato di un carrello mobile motorizzato, per consentirne lo spostamento nei luoghi di volta in volta lasciati liberi dal cantiere.

    Quando, nel 1984 si posero le premesse per una ricollocazione del corpus organario venne attentamente valutata e posta in opera una ambiziosa soluzione tecnico – architettonica atta al raggruppamento dei corpi d’organo nella zona del Presbiterio, ricollocando le migliaia di canne precedentemente “disperse” dietro ai finestroni sopra le sacrestie.Vennero così create ex novo due casse situate a lato di quelle cinquecentesche che, sebbene forse discutibili dal lato estetico, hanno il merito di aver ravvicinato il materiale sonoro, evitando i grandi problemi di controllo dell’assieme e di stabilità dell’accordatura che si verificavano con la disposizione precedente.

    La grande Consolle a cinque tastiere (vero capo d’opera) venne collocata sul lato destro del Presbiterio, in posizione equidistante da tutte le sezioni sonore, mentre una Consolle sussidiaria – a tre tastiere – trova posto in plano, sul lato sinistro dell’altare, dirimpetto all’organo corale al quale è collegata con trasmissione elettromeccanica; con tale soluzione è possibile accompagnare agevolmente la cappella musicale intervenendo – qualora siano previste parti solistiche o richieste grandi sonorità – con parte delle divisioni del Presbiterio (Grand’Organo Nord – I tastiera e Grand’ Organo Sud – III tastiera).

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    L’intero complesso organario rinnovato venne solennemente inaugurato l’8 Settembre 1986 con un concerto del m° Luigi Benedetti, allora organista titolare della Cattedrale.
    Lo strumento, affidato alle cure dei due organisti titolari, si presta alla solennizzazione di tutti i servizi prefestivi e festivi, consentendo, inoltre, di poter proporre esecuzioni concertistiche che hanno visto la presenza di alcuni tra i più significativi interpreti del panorama internazionale.

    Cronologia degli organi
    1395 – Il 18 luglio è affidato a FRA’ MARTINO DE’ STREMIDI l’incarico di costruire un organo all’interno della sacrestia settentrionale. Per le funzioni celebrate all’altare maggiore si utilizzava un organetto.

    1449 – L’organo di FRA’ MARTINO DE’ STREMIDI è trasferito sulla parete rivolta verso il transetto, sempre a settentrione.

    1463 – FRANCESCO SFORZA contribuisce personalmente a pagare un nuovo organo da collocare sul braccio meridionale del transetto. L’organaro, il tedesco BERNARDO D’ALLEMAGNA, chiede come compenso extra “sei carri di vino”. Il nuovo strumento, inaugurato nel 1466, non soddisfa la commissione collaudatrice, innescando una querelle per il pagamento, che finì dinanzi al Magistrato Podestà di Milano.

    1490 – restauro e parziale rifacimento dell’organo settentrionale, da parte di BARTOLOMEO ANTEGNATI.

    1508 – restauro dell’organo meridionale da parte di LEONARDO D’ALLEMAGNA.

    1540 – Inizio delle trattative con GIAN GIACOMO ANTEGNATI per la ricostruzione dell’organo settentrionale. Nel 1550 quest’organo è trasferito all’attuale collocazione in presbiterio. Le ante sono dipinte da GIUSEPPE MEDA.

    1579-1590 – Trattative e costruzione del nuoovo organo meridionale da parte di CRISTOFORO VALVASSORI. Costruzione della nuova cassa, simmetrica a quella dell’organo Antegnati.

    1600-1800 – Si susseguono opere di manutenzione e restauro ad entrambi gli organi da parte di MICHELANCELO VALVASSORI, CARLO PRATI, ANTONIO BRUNELLI, GIOVANNI PAOLO BINAGHI, GIOVANNI ANTONIO BOSSI, GIOVANNI BRUNELLI, ROCCO BINAGHI, ANGELO e ANTONIO BOSSI.

    1825 – Rifacimento dell’organo meridionale da parte di EUGENIO BIROLDI.

    1842 – Rifacimento dell’organo settentrionale da parte dei Fratelli SERASSI.

    1876 – Rifacimento dell’organo meridionale da parte di PIETRO e LUIGI BERNASCONI. Aggiunta dell’Organo Eco.

    1905-1907 – Rifacimento di entrambi gli organi, da parte di VINCENZO MASCIONI. Si creano due organi gemelli, ciascuno di 31 registri, a trasmissione pneumatico-tubolare. Viene curiosamente mantenuta la base fonica di 24 piedi.

    1937-1938 – Il Presidente del Consiglio BENITO MUSSOLINI dona l’attuale organo monumentale, con la clausola “autarchica” che lo strumento sia costruito esclusivamente con materiali italiani e dai migliori organari nostrani, in spirito di collaborazione. Partecipano al progetto i BALBIANI-VEGEZZI-BOSSI di Milano, i MASCIONI di Cuvio e iTAMBURINI di Crema. I primi abbandonano l’impresa, ritenendo artisticamente scorretto che uno strumento così importante sia costruito assemblando tecniche organarie ed estetiche foniche differenti. L’organo, portato così a termine dai soli MASCIONI e TAMBURINI, consta di 5 manuali, 2 consolle, 180 registri sonori, 15.350 canne e sette corpi d’organo “sparsi” nel transetto.

    1965 – 66 – A causa degli restauri urgenti ai piloni del tiburio, gli organi vengono integralmente smontati. Si costruisce un nuovo organo corale Tamburini (1968), a trasmissione meccanica e 16 registri. Lo strumento, trasportabile, è collocato di volta in volta nei diversi punti della zona absidale lasciati liberi dal cantiere.

    1984-1986 – La sola ditta TAMBURINI di Crema rimonta i grandi organi, parzialmente aggiornati nella fonica e, soprattutto, radunati integralmente nell’abside, costruendo due nuove casse. Con l’occasione si ripristinano anche le due tastiere collocate sulle due antiche cantorie, consentendo i1 recupero del dialogo a “organi battenti”. Una nuova consolle a tre manuali, a sinistra dell’altare maggiore, consente inoltre di poter usufruire dei due organi collocati nelle casse antiche, di una sezione dell’organo positivo e dell’organo corale Tamburini (quest’ultimo dotato di doppia trasmissione, meccanica ed elettrica). In questo modo, parte dei grandi organi è utilizzabile per l’accompagnamento della Cappella Musicale, che normalmente canta nell’apposito spazio ricavato nel transetto.

    1999-2000 – In occasione del grande Giubileo, gli organi vengono sottoposti a un radicale intervento di pulitura e riaccordatura.



    fonte https://simphoniacmdm.wordpress.com
     
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    AGO E FILO

    ago-filo-e-nodo-copertina

    Ci sono diverse fontane moderne che, al passo con i tempi, simboleggiano spaccati di vita di oggi giorno. E’ il caso di “Ago, filo e nodo”, un scultura in due parti realizzata dall’artista e scultore svedese Claes Thure Oldenburg e da sua moglie Coosje van Bruggen che svetta in Piazzale Cadorna, tra il traffico di auto e tram. Come evoca il nome è composta da un filo infilato nell’ago e, dall’altra parte, nel nodo finale. Tutto per 18 metri di altezza e circa 86 di lunghezza. Idealmente buca la piazza come fosse un tessuto, lasciando fuori il nodo, in corrispondenza della fontana, e riemergendo maestoso dall’altro lato, davanti alla stazione, pronto per imbastire un altro punto. Realizzata in acciaio e vetroresina, non solo dona un aspetto nuovo alla piazza, ma anche piuttosto divertente. Infatti accoglie i viaggiatori e i cittadini di Milano, catturandone l’attenzione.

    ago

    Lo sguardo viene immediatamente catturato dal gigantesco ago con il filo multicolorato, opera inaugurata nel febbraio del 2000 e restaurata nel 2012. La sua storia inizia grazie alle diverse linee di mezzi che, già negli Anni Novanta, facevano di Cadorna uno degli snodi più trafficati. Si sentì quindi il bisogno di rimodernare la stazione e la piazza e il progetto venne affidato a Gae Aulenti, signora dell’architettura. Fu lei che si occupò della sistemazione degli ampi marciapiedi, dell’inserimento delle colonne rosse, dei pannelli verdi e delle tettoie di vetro. Sua fu la decisione di far realizzare la fontana.

    Piazzale-Cadorna

    La fontana è ricca di significati simbolici. L’idea principale è quella del treno che passa in una galleria sotterranea: questa allusione alla metropolitana si evidenza anche con i colori, rosso, verde e giallo, che identificano le linee essendo gli stessi del filo. A questo si aggiunge un’interpretazione che rende omaggio a una delle eccellenze milanesi, la Moda, e alla laboriosità che la contraddistingue. Dalla stazione di Cadorna, infatti, partono i treni verso Varese e Como, regni storici del tessile e della seta di pregio che contribuiscono a rendere Milano capitale mondiale della Moda. L'opera, però, come dichiarò anche Gae Aulenti, costituisce anche una parafrasi dello stemma della città di Milano, il biscione degli Sforza.

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    La grande e controversa scultura di Claes Oldenburg affidata a Gae Aulenti, è spesso definita dai milanesi stessi un "obbrobrio", senza spessissimo, neanche sapere il meraviglioso significato storico e celebrativo che invece tale opera rappresenta, gusti personali a parte.
    Ago, nodo e filo, opera completamente in acciaio e vetroresina, vuole celebrare l'industria tessile Milanese e tutta la storia della moda italiana,visto che dalla stazione di Cadorna partono i treni verso Varese e Como, regni storici del tessile e della seta di pregio che contribuiscono a rendere Milano capitale mondiale della Moda! L'ago entra in una fontana,dove esce il nodo e resta dall'altro, attraversando il sottosuolo,coi fili colorati rosso verde e giallo,i colori delle prime tre metropolitane milanesi!! Sta inoltre a formare il simbolo del Biscione , lo stemma degli Sforza di Milano.
    (MILANO SEGRETA)

    ago_0



    www.turismo.it
     
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