STRANI MUSEI

I musei italiani e del mondo più particolari

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  1. gheagabry
     
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    STRANI MUSEI


    MUSEO DEL WURSTEL

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    Il tipico piatto berlinese per chi ha fretta e fame viene da lontano. C’è chi dice sia stato ‘inventato’ nel 1930 per un errore (un würstel caduto nel curry) e poi ripreso in forma pressoché industriale nel 1950 da Frau Herta Heuwer che lo mise nel menù del proprio locale. Sta di fatto che oggi secondo calcoli ufficiali sono 800 milioni i piatti di CurryWurst venduti ogni anno. E’ anche per questo che a Berlino in Schützenstrasse è sorto il Deutsches Currywurst Museum, un museo dedicato al würstel affogato nel curry.
    Il Deutsches Currywurst Museum Berlin che sorge sulla Schützenstrasse è quindi il museo dedicato al Currywurst che nell’immaginario dei berlinesi ha pressoché la stessa valenza della Porta di Brandeburgo: un simbolo, una tradizione, un emblema.
    Il museo è concepito in modo davvero divertente. Ripercorre la storia del würstel, uno dei cibi tipici di Germania, con racconti e aneddoti, curiosità su personaggi famosi e sulle loro preferenze gastronomiche.

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    E’ una mostra interattiva, dove a fare da guida, soprattutto per il piacere dei più piccoli, è la mascotte QWoo. E quando si dice interattiva non si parla a caso, visto che nel museo è possibile approfondire la conoscenza sia del profumo che del sapore del CurryWurst. Il biglietto d’ingresso (11 euro) offre una degustazione compresa nel prezzo e con una leggera maggiorazione (13 euro) si gustano tre tipi diversi di Currywurst.
    Nel museo sono proposti i diversi modi di vendere i Currywurst, dai baracchini di strada e i chioschi (Imbisstand) ai banchi superefficienti di locali e bar. Una sezione è completamente dedicata alle spezie che possono essere abbinate ai piatti, con possibilità di gustarle al naturale ma anche di conoscere le storie legate ai paesi di provenienza.
    Naturalmente non mancano tutti i consigli per un uso ‘ecologico’ del piatto tipico berlinese, in termini di frequenza d’uso, di utilizzo di piatti e posate riciclati o biodegradabili, stoviglie monouso e quant’altro.
    Infine una sezione del Deutsches Currywurst Museum è dedicata alle produzioni televisive e cinematografiche che hanno avuto come protagonista o comparsa il mitico piatto berlinese.
    (in-germania.it)


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 20:54
     
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  2. gheagabry
     
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    “Nel 2000 Pietro Catelli compie ottant’anni. Sulla torta le candeline sono troppe, non ci stanno. E poi non può mangiare dolci e allora decide di festeggiare diversamente. Lui che da piccolo non aveva avuto molti giocattoli, pensa di regalare a se stesso e a chiunque vorrà essergli vicino, un cavallo giocattolo. Non uno, ma dieci, cento, mille: un museo di cavalli giocattolo, per insegnare ai bambini come si spegne il computer e si crea con la fantasia.”
    (Luca Masia, Il signor Chicco. La vita straordinaria di un uomo qualunque)



    MUSEI


    Il Museo del Cavallo Giocattolo

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    La storia di questo museo privato è alquanto originale. Qui, nell’allevamento Il Portichetto nasce nel luglio 1952 un puledro molto speciale, Tornese. Un bel sauro con la criniera e la coda bionde, un trottatore che vinse quasi tutti i premi possibili negli anni cinquanta e che fu paragonabile solo al famoso Varenne dei nostri tempi.
    Gli edifici della scuderia furono venduti al proprietario di un’azienda produttrice di prodotti per l’infanzia che ne fece uno stabilimento industriale. Dopo anni di lavoro, al cav. Catelli venne qualche senso di colpa e decise di dedicare il luogo ai cavalli. Così partì il progetto per il museo del cavallo giocattolo. Il risultato possiamo visitare e toccare oggi. Un bellissimo posto dove grandi e piccoli possono ammirare più di cinquecento cavalli a dondolo, giocattolo, da giostra.
    Tutti tornano un po’ bambini lì ma soli i bambini veri possono salire sui vecchi destrieri e sognare corse nella prateria e salti sopra fossi e cespugli.
    Una collezione bellissima con pezzi unici, raccolti da tutto il mondo. Pezzi fatti a mano, sgualciti dal tempo e dall’uso dei piccoli cavalieri. I materiali impiegati furono prevalentemente legno come per Edoardo, il cavallo simbolo del museo, fatto da abili artigiani della Valgardena. Anche metallo e cartapesta furono materiali impiegati per produrre gli amici dei bambini. Ogni cavallo ha il proprio nome, e ce ne sono di tutti i tipi. Dal cavallo della giostra Hermete, che arrivò a Grandate dall’Ungheria alla delicata Jacqueline, al cavallo Fortunato in ferro ed a Tatzuo che viene dalla Cina e che ha girato mezzo mondo. Ogni cavallo ha la propria storia ed è bellissimo immaginare i bambini di un tempo che cavalcano i loro destrieri. Davanti al museo vi da il benvenuto l’enorme cavallo a dondolo Roberto. È il cavallo che fu costruito per il film Pinocchio di Roberto Benigni ed è così grande che deve sempre rimanere fuori all’aria aperta.
    (visititaly.it)


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    Il Museo del Cavallo Giocattolo espone al pubblico più di 650 cavalli, fabbricati tra il 1700 e i giorni nostri. I pezzi sono stati collezionati in tanti anni di ricerca, e selezionati uno per uno, tenendo conto non solo del loro valore estetico, evocativo e materiale, ma soprattutto, di quello affettivo. Sono piccole grandi sculture, opere d'arte, anche perché il cavallo giocattolo ha sempre occupato il primo posto nella predilezione dei bambini. A dondolo, o su triciclo, di legno o di cartapesta, provenienti dalla Francia, dalla Germania e da ogni dove, Mario ed Arturo, Maria Antonietta e Tatzuo insieme ai tantissimi altri nobili destrieri. Di musei e libri su bambole, treni ed altri giocattoli ne esistono moltissimi. I cavalli forse erano stati dimenticati, Chicco li ha voluti raccogliere tutti insieme per offrire a tutti i bambini del mondo, di ieri, di oggi e di domani, un pezzo di storia che unisce curiosità e gioco. Questo Museo è il primo al mondo a raccogliere tanta storia del fedele amico dell'uomo, storia che è racchiusa in un libro più da vivere che da leggere.


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    I primi cavalli a dondolo spuntarono nella Grecia antica: stiamo parlando dei cavalli a rotelle. Questi cavalli vennero impiegati, a seconda della loro grandezza, o come giochi da tiro o per sedersi e riposare un po’ le gambe. I cavalli a dondolo sono sempre stati un grande desiderio dei bambini, in tutte le epoche e in tutte le realtà geografiche: a volte cambiano le forme di questi giocattoli oggi ricercatissimi pezzi da collezione, non certo la sostanza. Secondo alcune tracce della storia, il primo cavallo a dondolo vero e proprio fu scoperto nel XVII secolo negli Stati Uniti, nel XIX secolo poi fece la sua prima marcia trionfale in Europa attraversando l’Inghilterra.
    (.lavocequestre.it)



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    Dove: Via Tornese, 10, 22070 Grandate, Como
    Per info e prenotazioni: Museo del Cavallo Giocattolo, aperto con ingresso libero lunedì 15.00-18.30, martedì-sabato 10.30-12.30 e 15.00-18.30, sabato 16 dicembre: 15.00 - 18.30. Tel. 031-382038 www.museodelcavallogiocattolo.it, mail [email protected]

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:07
     
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  3. gheagabry
     
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    STRANI MUSEI


    Vi siete mai chiesti dove finiscano le migliaia di oggetti brevettati ogni anno che non hanno riscosso il successo sperato dai creativi inventori?


    NONSEUM

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    A Herrnbaumgarten, in Austria. In un piccolo villaggio eccentrica a 212 metri di altitudine, a solo un'ora di auto da Vienna è possibile visualizzare il mondo da un po ', per così dire, una prospettiva distorta. Esso fornisce un equilibrio sottile tra allegro pensiero, un approccio professionale e amabile e invenzioni benevole.
    Il suo fondatore si chiama Fritz Gall ed è un'inventore con scarsi consensi di pubblico. Per questo ironicamente nel 1984 ha fondato un "museo delle cose inutili e invenzioni sbagliate". Da un gioco è diventata una divertente collezione che attira migliaia di curiosi l'anno. Cosa ci si può aspettare? Ad esempio un dito meccaico per grattarsi il naso o una mascherina nera per rendersi anonimi in caso di fotografie rubate dai turisti.. Spazzolini da denti per sdentati, letti per insonni con pecorelle stampate su tele che ne simulano il movimento, maglioni con braccia di ricambio di diverse lunghezze....

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    Fra gli oggetti esposti, l’anonimizzatore portatile: siete stanchi di tenere sotto controllo gli Instagramers che fotografano la qualunque e filtrano anche lo scatto più insulso spacciandolo per un’opera d’arte? Andare in giro con un rettangolo di cartone nero attaccato ad una asticella vi consentirà di occultare la vostra identità in pubblico, così da non finire rimbalzati a vostra insaputa fra i siti di tutto il mondo. Da anni provate a vedere pubblicato il romanzo che vi trasformerebbe nella nuova J.K. Rowling, ma il magico mondo dell’editoria continua a ignorarvi? Cambiate sistema e scrivete la bozza del romanzo a mano, ma con la matita senza mina, inventata per evitare di scrivere cose sbagliate.
    A questo punto, però, sorge un dubbio: siamo sicuri che le invenzioni che non hanno avuto fortuna siano davvero invenzioni inutili? Del resto, anche Leonardo da Vinci ha dovuto aspettare un paio di secoli prima di essere riconosciuto un genio! Il dubbio è legittimo.

    Insomma un mondo di idee bizzarre, dove un sorriso non può mancare


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    Indirizzo: A-2171 Herrnbaumgarten, Poysbrunner Strasse 9
    Orari: aperto dalla domenica delle Palme a Tutti i Santi nel week end e nei giorni festivi dalle 13 alle 18; il martedì dalle 15 alle 17.
    Prezzi: 5,47€ adulti; 1,47€ bambini; 3,47€ gruppi di 10 persone; 10,97€ famiglie (2 genitori e 2 bambini); 1,47€ supplementari per la guida.

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:17
     
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  4. gheagabry
     
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    Musei del cibo nel mondo


    Il cibo è parte della cultura e della tradizione di un Paese. Nel mondo ci sono diversi musei dedicati agli alimenti tipici locali, e per gli amanti della gastronomia potrebbe essere una vera sorpresa scoprire l'esistenza di santuari del cibo tanto singolari quanto allettanti.

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    Il "Shin-Yokohama Raumen Museum" è un museo unico sul ramen con sede a Yokohama. In una galleria al primo piano, il museo presenta la storia del ramen in Giappone, tra cui il grande successo del ramen istantaneo. Mostra la varietà di tagliatelle, zuppe, guarnizioni in cima e citole usate in tutto il Giappone, e mostra come vengono fatte le tagliatelle. Ai due piani seminterrati i visitatori possono visitare una riproduzione in scala 1:1 di alcune strade e case di Shitamachi, la vecchia città di Tokyo, del 1958 circa, quando la popolarità del ramen stava aumentando rapidamente.



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    Il Kimchi Field Museum a Seoul , Corea è un museo la cui missione è quella di informare il mondo su una delle voci più importanti della cucina coreana, kimchi . Mostre concentrarsi esclusivamente sulla storia kimchi (ricavato dal cavolo fermentato e speziato), le sue varietà, e la sua importanza per la cultura e la cucina coreana. Il Pulmuone Kimchi Museum di Seoul ne studia lo stretto rapporto con la cultura popolare del Paese, e suggerisce ai visitatori più di 80 metodi per utilizzarlo in cucinaE ' aperto a chiunque sia disposto a conoscere il kimchi, il piatto più famoso coreano. Il museo raccoglie i dati per il kimchi relative risorse e statistiche e offre diverse attività, come ad esempio il kimchi processo e kimchi-degustazione di ogni mese.


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    La Jell-O Gallery, di LeRoy, nello Stato di New York, racconta la storia di questo dessert alla gelatina creato da un falegname nel 1897. Jell-O è un marchio appartenente alla statunitensi Kraft Foods per una serie di dolci di gelatina , tra cui gel frutta, budini e senza cuocere torte alla crema . La popolarità del marchio ha portato ad essere utilizzato come termine generico per dessert gelatina negli Stati Uniti e Canada.



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    Prima di diventare una fastidiosa mail indesiderata, lo spam era noto soprattutto per essere una particolare carne speziata precotta in scatola , a base di carne di maiale. Lo Spam Museum di Austin, in Minnesota, ne ripercorre la storia, e offre ai visitatori anche dei gustosi assaggi. E' un prodotto dalla Hormel Foods Corporation , la prima volta fu nel 1937. Il museo racconta la storia della società Hormel, l'origine di spam e il suo posto nella cultura mondiale.


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    Il Belgio contende da sempre alla Francia il merito dell'invenzione delle patatine fritte. Il Frietmuseum di Bruges racconta l'evoluzione in cucina del tubero e tutto ciò che nel Paese si mangia con le patatine come contorno.


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    I tedeschi adorano gli asparagi, che infatti sono presenti in molte ricette tipiche della Germania. Allo European Asparagus Museum di Schrobenhausen potrete soddisfare tutte la vostra curiosità su questa verdura


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:30
     
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  5. gheagabry
     
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    POLLOCK MUSEUM
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    Il Pollock Museo dei giocatoli è uno dei musei più interessanti di Londra, nonostante sia poco conosciuto rispetto al classico circuito turistico della capitale. Si trova nel cuore di Fitzrovia, nel centro di Londra, suddiviso in due case del XVIII e del XIX secolo. Al suo interno l'atmosfera è molto suggestiva, carica di evocazioni dell'infanzia che sorprenderanno anche gli animi meno sensibili. Il museo è suddiviso in diverse tematiche e periodi storici, organizzati nelle varie sale; tra le tante troviamo per esempio i giochi di società, situati lungo la scalinata centrale, le bambole di cera e le procedure per costruirle (sala n 3), i giocattoli del folclore europeo (scalinata n 2), bambole provenienti dalla Cina, dal Regno Unito, e così via. Molti dei giocatoli sono presenti da oltre un secolo. Il museo è situato al n 1 di Scala Street (W1T 2HL), a due passi da Tottenham Court Road.

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    Il museo dei giocattoli di Pollock, che prende il nome dal famoso burattinaio degli inizi del secolo scorso, aprì nel 1956 ed è dedicato al tradizionale teatrino di marionette inglese.
    Il teatro delle marionette era estremamente popolare nel XIX secolo, e consiste in teatri di carta o legno, alcuni con straordinari dettagli, che permettono ai bambini di allestire le proprie produzioni in casa, di solito con figure ritagliate per lo scenario, sostegni e vari personaggi....ha molte mostre di marionette, palcoscenici e teatri ed è un’incantevole salto in un’epoca passata e in un’arte perduta. Si possono anche ammirare la grande collezione di giocattoli provenienti da tutto il mondo, da case a trenini.


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:35
     
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  6. gheagabry
     
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    Bombetta, camicia sgargiante, giacca verde e pantaloni di un giallo squillante… cravattone, bretelle e ovviamente, un immancabile naso rosso…


    Il Museo del clown dal naso rosso

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    A Noce di Poviglio (provincia di Reggio Emilia), una dimora trasformata in museo che non ha eguali in Italia e neppure in Europa! Ad accogliere i ‘turisti del buonumore’ c’è il proprietario vestito da pagliaccio e migliaia di occhietti sorridenti che spuntano dagli scaffali. Pensate più di 5000 pezzi tra clown in ceramica, pupazzetti sbandieratori, suonatori di tromboni, pagliacci che vanno in bicicletta, quelli che si dedicano alle attività circensi e tanto altro. Ovviamente in una collezione così estesa non poteva mancare Sbirulino, il personaggio reso celebre da Sandra Mondaini negli Anni ’70.

    La casa Museo si trova a Poviglio in provincia di Reggio Emilia, all’interno del centro culturale in Via Parma 1.

    Tel. 0522-960426 e-mail: [email protected]

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:39
     
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  7. gheagabry
     
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    STRANI MUSEI


    MUSEO dell'OMBRELLO e del PARASOLE

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    Nato a Gignese, da un progetto di Igino Ambrosini, figlio e fratello di ombrellai (1883 - 1955) già fondatore del Giardino Botanico Alpinia, il museo si insediò nel 1939 al piano superiore delle scuole elementari. L'allestimento ricchissimo di materiale e pieno di fascino era testimonianza dell'amore per il proprio paese e per il proprio lavoro. Nel 1976 il Museo dell'Ombrello e del Parasole si trasferì nell'attuale edificio costruito grazie alla collaborazione del Comune e dell'Associazione "Amici del Museo" presieduta allora da Zaverio Guidetti, industriale dell'ombrello di Novara. L'edificio, se si osserva dall'alto delle gradinate della Chiesa Parrocchiale di San Maurizio ha la pianta a forma di tre ombrelli aperti affiancati. L'attuale allestimento, dovuto all'architetto Bazzoni, risale alla seconda metà degli anni '80, ma già un nuovo progetto del Comune di Gignese in collaborazione con la Regione Piemonte, l'Ecomuseo Cusio Mottarone e l'Associazione degli ombrellai sta per essere attuato. Nelle vetrine al piano terreno sono esposti circa 150 dei 1500 pezzi inventariati, soprattutto parasole e parapioggia che ripercorrono l'evoluzione della moda dall'800 ad oggi. Accanto ad essi i materiali di copertura, la seta e le fibre sintetiche, le impugnature in avorio, in legno, in argento, le minuterie che contribuiscono a rendere l'ombrello un oggetto pratico, bello ed elegante. Al piano superiore le testimonianze storiche sull'uso del parasole e del parapioggia, i figurini di moda e le testimonianze dell'attività degli ombrellai: dalle foto dei "pioneri" a una raccolta degli attrezzi di lavoro, alle barselle cioè le sacche di cuoio o di legno contenenti l'occorrente per i riparazioni, agli oggetti legati alla vita quotidiana degli ambulanti fino alle fatture delle fabbriche sparse in tutta Italia. Due grandi ombrelloni, dipinti da Felice Vellan, raccontano nei loro spicchi due vite esemplari di ombrellai.

    La nascita povera, l'apprendistato, i primi guadagni lontano da casa, il felice matrimonio, i figli, il successo ed il ritorno al paese in cui l'ex emigrante può profondere le sue ricchezze per il bene comune ed infine riposare in pace in una ricca tomba che nobilita il piccolo cimitero.
    Storia naïf ma specchio di una realtà di migrazione che ha portato l'abilità degli ombrellai del Vergante in tutto il mondo. Un pannello, inoltre, registra il tarusc, il gergo con cui questi artigiani comunicavano tra loro per difendersi dalla diffidenza della popolazione. I circa 10.000 visitatori annuali raccontano l'interesse di un pubblico che per metà è composto da stranieri e proprio questo interesse è la spinta a migliorare costantemente le strutture e le possibilità di accoglienza con la collaborazione di tutti coloro che credono che il futuro si costruisce solo radicandosi nel passato.

    La semplice funzionalità di un accessorio come l’ombrello rende difficile conciliare la sua utilizzazione pratica con un’origine che sfiora il mito; eppure, pochi oggetti del nostro vivere quotidiano possono vantare radici così antiche e leggendarie. L’unico elemento certo è la provenienza non occidentale: la Cina, l’India e l’Egitto si proclamano infatti paese-culla del parasole, ciascuno con motivazioni più che valide. Queste "rivendicazioni" ci permettono di aggiungere un altro dato sicuro ad una storia priva di certezze: l’ombrello è, fin dal suo apparire, collegato alla rappresentazione simbolica del potere, quando non, addirittura, attributo della divinità. Fin dal XII secolo a.C., l’ombrello cerimoniale apparteneva alle insegne dell’Imperatore della Cina e tale rimase per circa trentadue secoli, fino alla scomparsa del Celeste Impero. All’incirca nello stesso periodo, i re persiani potevano, unici tra i mortali, ripararsi dal sole per mezzo di un ombrello, sorretto da qualche dignitario; più democraticamente in Egitto si concedeva tale privilegio a tutte le persone di nobile origine.
    In questo paese nasce, forse, il mito più bello, la più profonda simbologia legata all’ombrello: la dea Nut era spesso rappresentate in forma di parasole, con il corpo arcuato a coprire la terra, in atto di protezione e di amore. Il forte significato di status symbol come prerogativa regale, o comunque di potere, assunto dall’ombrello, spiega la sua contemporanea comparsa nell’immaginario religioso. Come in Egitto, anche in India viene associato alle dee della fertilità e del raccolto o, in senso più lato, della morte e della rinascita: nella sua quinta reincarnazione, Vishnu aveva riportato dagli Inferi l’ombrello, dispensatore di pioggia. Alla sfera del mito dobbiamo l’introduzione nel mondo occidentale del nostro accessorio, che compare in Grecia legandosi al culto di Dionisio (un dio di probabile origine indiana), ma anche di dee come Pallade e Persefone, che tra i loro fedeli contavano soprattutto donne.
    Sono le donne che, nelle feste dedicate a queste divinità, si riparano in loro onore con un parasole, passato nel III secolo a.C. anche nel mondo romano, dove viene descritto dai poeti come delicato e prezioso oggetto in mani femminili. Sembrerebbe quindi di avere delineato una storia completa: da simbolo di potere, umano e divino, a oggetto di lusso e di seduzione. Eppure, tra i tanti valori e segni di civiltà cancellati dalla scomparsa dell’Impero romani, ci fu anche l’ombrello, di cui non rimase traccia nei "secoli bui", se non per la sua sopravvivenza nel culto cattolico, inizialmente come insegna pontificale, poi nell’uso liturgico. Totalmente sconosciuta all’antichità fu perciò la principale funzione utilitaria dell’ombrello, quella di parapioggia. Mantelli, cappucci e cappelli di pelle risolsero il problema della pioggia nel mondo classico ed in quello medievale.(gignese.it)


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    Apertura:
    dal 1° Aprile al 30 Settembre
    Ottobre gruppi solo su prenotazione
    Orario:
    Tutti i giorni
    eccetto i Lunedì non festivi
    dalle ore - 10.00 alle 12.00
    dalle ore - 15.00 alle 18.00

    Ingresso:
    a persona
    Ridotto: 1,50 Euro
    Normale: 2,50 Euro
    Scolaresche: 1,50 Euro
    Gruppi: 1,50 Euro

    Via Golf Panorama, 2
    28836 Gignese (VB)

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:42
     
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  8. gheagabry
     
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    MUSEO DEGLI STRUMENTI MUSICALI



    A Milano, nel Castello Sforzesco, la preziosa raccolta, il cui nucleo originario è costituito dalla collezione del Maestro Natale Gallini (acquistata dal Comune di Milano nel 1958) è una delle più interessanti d’Europa. Raccoglie più di 700 strumenti musicali europei di diverse tipologie (strumenti ad arco, a pizzico, a fiato, a tastiera) realizzati tra il XV e il XX secolo. Gia` nella Sala della Balla gli strumenti a tastiera introducono alla visita del settore degli strumenti musicali. La formazione di questa raccolta risale agli anni Cinquanta, quando il Comune di Milano opero` l'acquisto della collezione Gallini, ma e` assai apprezzata per la ricchezza e la varieta` dei pezzi, che rendono omaggio soprattutto alla tradizione della liuteria lombarda. Nelle sale successive si osservano gli strumenti a pizzico del XVI-XVII secolo (tiorbe, liuti, arciliuti, cetre e salteri), le chitarre e gli strumenti ad arco, per i quali sono divenute famose le famiglie cremonesi degli Amati e dei Guarneri nel Seicento. Anche gli strumenti a fiato sono assai interessanti, a partire dagli antichi olifanti e corni da caccia, i numerosi legni (flauti, oboi, clarinetti, corni inglesi e fagotti). Numerosi i pezzi di altissimo valore, quali il doppio virginale di Hans Ruckers, con le caratteristiche decorazioni, la chitarra a 5 ordini doppi di corde di Mango Longo, un clavicembalo Veneziano della metà del Cinquecento, un oboe in avorio di Johannes Maria Anciuti (1722) ed una rara glassharmonica. Da segnalare anche la sezione dedicata agli strumenti extraeuropei e le due sale (XXXIV e XXXV) che ospitano la donazione Antonio Monzino (2000).
    Due sale del Museo sono dedicate all’attività della antica famiglia milanese di liutai Monzino che nel 2000 ha donato un significativo corpus di strumenti ad arco e a pizzico dal XVII secolo fino ai giorni nostri; una interessante sezione didattica illustra gli attrezzi, alcuni materiali e le tecniche costruttive propri della liuteria.
    Il Museo inoltre dal 1991 organizza con continuità concerti eventi solitamente preceduti da una breve conferenza con lo scopo di esporre, in termini facilmente comprensibili a tutti, le caratteristiche tecniche e organologiche degli strumenti utilizzati, proponendo in particolare l’ascolto di strumenti insoliti che raramente sono conosciuti da un pubblico non specialistico, quali ad esempio il serpentone, la ghironda, il clavicordo.
    I musicisti, laddove lo stato di conservazione lo consente, suonano gli strumenti originali del Museo o, in alternativa, strumenti storici o copie filologiche e illustrano brevemente il repertorio in programma instaurando con il pubblico un rapporto interattivo mettendosi a disposizione per soddisfare domande, dubbi, curiosità.


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    NDIRIZZO E RESPONSABILE
    Museo degli Strumenti Musicali
    Castello Sforzesco - 20121 Milano
    Conservatore: Dott.ssa Francesca Tasso - Tel. 02/88463730; 02/88463742 -
    Fax 02/88463650

    ORARI E BIGLIETTI
    MUSEI
    Apertura: da Martedì a Domenica, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 17.30 (ultimo ingresso alle 17.00).
    Chiusura: tutti i Lunedì, 1 Gennaio, 1 Maggio, 15 Agosto e 25 Dicembre.
    Biglietteria: Tel. 02/88463703
    Ingresso a pagamento ai Musei: biglietto intero € 3,00 - ridotto € 1,50 / abbonamento annuale intero € 15,00 - ridotto € 7,50
    Ingresso gratuito: Martedì, Mercoledì, Giovedì, Sabato e Domenica, dalle 16.30 alle 17.30 e Venerdì, dalle 14.00 alle 17.30
    Possibilità di visite guidate per le scuole e di attività didattiche.

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:47
     
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  9. gheagabry
     
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    IL MUSEO DEL SALE a CERVIA

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    Collocato all'interno del Magazzino del Sale "Torre", il MUSA è nato dall'attività del gruppo culturale Civiltà Salinara, che ha voluto mantenere vivo il ricordo del lavoro in salina ed ha raccolto documenti, attrezzi e foto che testimoniano l'ambiente e la produzione del sale. Il Museo del Sale - che fa parte del sistema museale della provincia di Ravenna - è un museo dell'uomo che pone al centro l'uomo e la sua cultura.
    Il MUSA è stato inaugurato con veste rinnovata nel 2004 e posto stabilmente all'interno del Magazzino del Sale "Torre", in via Nazario Sauro. Mission del museo è la tutela e la conservazione, nonché presentazione al pubblico, di oggetti, immagini e documenti che testimoniano della civiltà del sale. Ma il MUSA vuole essere anche luogo di stimolo e riflessione, oltre a porsi come sede di servizi utili alla città, ai suoi ospiti e al pubblico in generale. Luogo di incontro, crescita culturale e ricerca, il Museo conserva, valorizza e promuove lo studio e la conoscenza del patrimonio culturale di Cervia, al fine di preservare la memoria e stimolare l'interesse per il passato e la storia di questo territorio.
    Il percorso espositivo del MUSA si sviluppa attraverso excursus che esplorano l'avventura dell'acqua, l'abitare come luogo di relazione, l'avventura del sale e gli uomini al lavoro. Attraverso lo stimolo dei sensi, qui si vive l'avventura della storia, della produzione del sale, del lavoro dell'uomo, della vita sociale. All'interno del museo spiccano poi alcuni pezzi particolarmente interessanti e particolari, quali ad esempio la "burchiella", imbarcazione in ferro utilizzata per il trasporto del sale, che ogni anno a settembre - in occasione di "Sapore di Sale", la festa cervese tutta dedicata al sale e alla storia della città - esce dal museo per ripercorrere l'antica via fluviale che dalla salina conduce ai magazzini con il bianco carico del sale prodotto nella salina Camillone.
    Il museo mette inoltre in mostra gli antichi attrezzi in legno usati per la lavorazione, le immagini dei salinari al lavoro, l'oggettistica e tutto ciò che ruota attorno alla produzione del sale e all'antica salina.
    Oltre alla sezione collocata all'interno del Magazzino del Sale, parte integrante del museo è infatti anche la salina Camillone, ultimo fondo salifero a lavorazione artigianale e anche ultima delle 144 salinette esistenti prima del passaggio nel 1959 alla lavorazione industriale, quando le salinette vennero accorpate in grandi vasche di evaporazione e di raccolta.
    (sullacrestadellonda.it)


    ........

    Museo del Sale
    Magazzino del Sale "Torre"
    via Nazario Sauro
    Cervia
    www.turismo.comunecervia.it


    Il Museo del Sale è a ingresso libero e offre la possibilità di visite guidate su prenotazione alla mail [email protected] e al numero di telefono 338/9507741.

    Orari di apertura:
    - dal 19 dicembre al 6 gennaio: tutti i giorni 15.00 - 19.00
    - dal 7 gennaio al 31 maggio e dal 19 settembre al 18 dicembre: sabato, domenica e festivi, 15.00 - 19.00
    apertura su richiesta dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.30 *
    - dal 1 giugno al 13 settembre tutti i giorni 20.30 - 23.30
    su richiesta il giovedì dalle 9.00 alle 12.00 *

    * per ottenere l'apertura su richiesta è necessario chiamare il numero 338 9507741 ed entro un'ora un operatore verrà ad aprire il museo

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 21:50
     
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    “Figaro qua, Figaro là, sono il factotum della città”


    Il Museo del rasoio
    la collezione Lorenzi


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    All'interno del Museo del rasoio, in Via Montenapoleone a Milano, si possono ammirare ben oltre 2.000 rasoi di sicurezza e oggetti attinenti alla pratica della rasatura. Tale collezione, avviata negli anni 30 da Giovanni Lorenzi - fondatore dell'omonima coltelleria adiacente al museo - rispecchia l'evoluzione della rasatura nel corso degli ultimi due secoli. Provengono da varie parti del mondo e sono esposti seguendo un criterio storico, da alcuni reperti archeologici agli ultimi ritrovati della tecnica. Si posssono trovare anche rasoi utilizzati da personaggi famosi come Gabriele d’Annunzio.

    Il negozio della famiglia Lorenzi è una delle botteghe storiche di Milano: arrivati in città nel 1919 dalla Val Rendena, nota come “valle degli arrotini”, i Lorenzi si sono stabiliti nella sede di via Montenapoleone nel 1929. Inizialmente si occupavano soprattutto di affilatura di coltelli, ma l’attività commerciale è cresciuta progressivamente per soddisfare al meglio i desideri di una clientela che negli anni si è fatta sempre più vasta ed esigente. Specializzandosi nella vendita di coltelli e prodotti per la rasatura.

    ...la storia della rasatura...


    È un’operazione che si ripete dall’età della pietra, quando per mostrare i denti, l’uomo ha cominciato a togliersi i peli usando, sembra, due conchiglie come pinzette, come indicato da numerose pitture rupestri che raffigurano uomini sbarbati. Si hanno testimonianze di rasoi in selce, in bronzo ed anche in oro ben prima dei rasoi in ferro. La storia dei rasoi e degli strumenti della rasatura è stata molto lunga, attraversando aspetti della cultura, della moda, della religione di popoli diversi.
    Furono gli egizi a introdurre il rasoio, che aveva all’epoca forma di coltellino con la punta leggermente ricurva, mentre gli etruschi lo perfezionarono, inventarono il rasoio a forma lunata, databile intorno al X-VI secolo a.C. circa, che permette di seguire meglio i contorni del viso, e un rasoio fenestrato, formato da due lame unite al centro da una piccola griglia. Degni di nota sono poi i cosiddetti rasoi "punici" del VII-II secolo a.C. reperiti in Nord Africa, Spagna, Sardegna, che hanno, per la maggior parte, impugnatura a collo di cigno ed estremità lunata. Rasoi in bronzo sono stati identificati in Gran Bretagna, ed erano generalmente di forma ovale, con una piccola linguetta sporgente da una delle estremità corte. Il rasoio in epoca romana era chiamato "culter tonsorius" e negli scavi di Pompei ne furono trovati di particolarmente eleganti, con impugnature in osso e in avorio finemente scolpite, che si ripiegano sulle sottili lame di ferro. Il primo rasoio in ferro conosciuto è stato trovato in Danimarca ed è databile al terzo secolo d.C. Per un oggetto più simile ai rasoi usati dai barbieri si deve aspettare il 333 a.C., con l’imposizione di Alessandro Magno a tutti i suoi soldati di radersi ogni giorno per motivi militari: per questo fu creato un rasoio più pratico, che poteva ripiegarsi nel manico.
    Se a Roma nasce la prima bottega di barbiere - questo diventò una figura tutto fare, che aveva anche il ruolo di dentista e di compiere piccoli interventi chirurgici -, dobbiamo aspettare il coltellinaio francese Jean Perret e il 1770 per un’innovazione significativa nel campo degli strumenti della rasatura con l’affilatissimo rasoio à rabot. Da qui si sono fatti diversi passi avanti sia per quanto riguarda la precisione e la sicurezza fino ad arrivare alla rivoluzione del 1895 di King Camp Gillette con il rasoio a lametta. Il rasoio diventa economico, un bene di largo consumo da impiegare quotidianamente a casa propria senza doversi recare dal barbiere.


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:01
     
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    MUSEO DELLA CARTA

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    Chiudiamo gli occhi e immaginiamo come sarebbe stato il mondo senza carta…semplicemente un altro mondo, probabilmente meno colto. Dalla Cina dove fu scoperta, la carta percorse il suo viaggio civilizzante arrivando in Europa grazie alle gloriose città marinare di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia. Oggi, nella Valle dei Mulini, nella parte interna della città di Amalfi, è possibile visitare quella che fu la sede di un’antica cartiera di proprietà del “Magister in arte cartarum” Nicola Milano. Per sua iniziativa si avviano nel 1969 i primi lavori del Museo della Carta dove vengono mantenuti vivi macchine e saperi fuori dal tempo che per secoli, nei mulini ad acqua sul torrente Canneto, consentirono di produrre l’antica carta “Bambagina” di Amalfi. (Fabio Meloni)

    Il Museo della Carta di Amalfi, sito in una cartiera medievale del XIV secolo, è stato fondato nel 1969 per volere di Nicola Milano, proprietario della cartiera ed appartenente ad una delle famiglie amalfitane operanti nella produzione della carta di Amalfi. Il Museo, sito nella Valle dei Mulini, parte interna della città, ospita i macchinari e le attrezzature impiegati nell'antica cartiera per realizzare la carta a mano. Le antiche tecnologie, restaurate e rese funzionanti, ricostruiscono l’intero ciclo di produzione della carta. Tra gli attrezzi secolari custoditi nel Museo è possibile ammirare gli antichi magli in legno azionati da una ruota idraulica; la pressa utilizzata per l'eliminazione dell'acqua in eccesso dai fogli; la macchina continua in piano. Il Museo offre la possibilità di assistere alla fabbricazione a mano di fogli in carta e al funzionamento degli antichi mulini ad acqua attivati dalle acque del torrente Canneto. Nel Museo sono inoltre in esposizione manoscritti, incisioni, manifesti e locandine, e sono allestite un'esposizione di fotografie e stampe documentaristiche e una biblioteca a tema.

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    La scoperta della carta segnò una delle più fulgide pietre miliari nella storia della civiltà umana; questa scoperta è universalmente attribuita ad un ministro cinese di nome Ts’ai Lun, nel 105 dopo Cristo. Si narra che Ts’ai Lun si trovava sulle rive di uno stagno accanto ad una lavandaia che stava sciacquando nell’acqua alcuni panni piuttosto logori. I panni, mal soffrendo l’azione di strofinio e di sbattitura, si sfilacciavano e le fibrelle galleggianti sull’acqua andavano a riunirsi in una piccola insenatura ai piedi di Ts’ai Lun. Sul pelo dell’acqua si formò dopo qualche tempo, un velo di fibrelle ben feltrate che Ts’ai Lun osservò, raccolse con delicatezza e pose a seccare sull'erba. Il foglio secco e avente una certa consistenza, bianco, morbido, diede a Ts’ai Lun la grande idea, quel foglio poteva ricevere la scrittura.Il cammino che l’arte di fabbricare la carta compì dal luogo di origine attraverso il mondo, fu relativamente veloce. Mentre verso oriente attraverso la Corea giunse in Giappone nel VI secolo dopo Cristo, verso occidente giunse in Arabia e si affacciò al Mediterraneo.La nuova arte per le sue peculiari qualità ebbe successo e nel volgere di poco tempo sostituì la lavorazione del papiro.
    La materia originariamente utilizzata per la produzione della carta cioè il gelso, fu sostituita dal bambù con opportuni trattamenti. Furono poi adoperati il lino, la canapa, i cenci. Ciascun cartaio aveva i suoi procedimenti, le sue, formule, i suoi segreti. Ma non solo il cartaio coadiuvato generalmente dal suo nucleo familiare, era l’artefice di questa lavorazione; anche il letterato, lo scrittore, il copista, e il pubblico scrivano si fabbricavano da sé la carta, tanto era divulgato il procedimento e semplici gli arnesi per la realizzazione. In pratica infatti il procedimento era rimasto tale e quale i Cinesi l’avevano tramandato. Spetta alle popolazioni italiane il merito di aver compiuto i primi passi verso una produzione per così dire più industriale. Molte operazioni puramente manuali furono meccanizzate, sia pure con i mezzi rudimentali allora conosciuti, a vantaggio della produzione e dei costi. Tra i primi centri dove si scoprì nel XII e XIII secolo l’esistenza della carta, se si vogliono dare per scontate le notizie contenute negli atti notarili che parlano dell’esistenza di prodotti cartacei, pur non specificando se questi venivano importati da altri posti e commerciati nelle sopra menzionate località, vi furono i territori delle Repubbliche Marinare; Amalfi, Pisa, Genova e Venezia che avevano fondachi sia in Siria, sia sulle coste della Palestina, ove erano appunto situati i maggiori centri per la produzione di carta.
    Queste Repubbliche, inoltre, intrattenevano intensi rapporti commerciali con l’oriente e avrebbero potuto imparare dagli orientali l’arte di fabbricare carta senza troppe difficoltà, oppure non è da escludere che a bordo delle “galee”, che in epoca medievale facevano la spola tra le nostre coste e la Terra Santa per trasportare crociati e mercanzie, si siano imbarcati “Magistri in arte cartarum” i quali come mano d’opera specializzata abbiano introdotto tale tipo di lavorazione. Amalfi la più antica delle repubbliche marinare già nel IX secolo aveva propri fondachi sia a Palermo che a Messina e a Siracusa, ove l’amalfitania è ancora oggi presente nella toponomastica locale. Annosa resta la questione sul primato della carta in Italia e quindi in Europa ed a contenderselo sono principalmente Amalfi e Fabriano. (museodellacarta.it)



    Ricordo la carta...
    Non c’è più l’armonia della scrittura,
    il lento muoversi del gomito,
    quell’indugio impercettibile
    nato dalla paura di commettere errori.
    Non è romantico scrivere su una tastiera,
    non c’è il ricordo della parola cancellata,
    dell’inchiostro speso per togliere un verso,
    un segno che sporcava e arricchiva i testi.
    Non sento le spalle dolere
    per il troppo scrivere,
    e dimentico spesso di conservare le mie parole,
    lasciandole abbandonate nell’aria,
    figlie di nessuna bocca.
    © Alessandro Bon



    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:04
     
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    Perchè il coraggio non sta nello scendere
    anche se il treno è in corsa.
    Il vero coraggio sta nel mettere un piede
    sulla rampa di quel treno e buttarsi a capofitto,
    sapere di aspettarsi qualcosa ma non immaginarsi nulla,
    viverla per come è.
    E se davvero quel treno è tuo,
    prima o poi il viaggio riparte da lì,
    ad un orario diverso,ad una stazione diversa,
    ad una fermata diversa,
    con te cresciuto e senza valigia…
    Perchè tutto quello che cerchi
    è quel treno e quel viaggio è la tua vita.
    (Alessia Auriemma)


    Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa

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    Pietrarsa è uno dei luoghi simbolo della storia delle Ferrovie dello Stato Italiane, un ponte teso tra passato e presente che congiunge idealmente la Bayard ai sofisticati e velocissimi treni dell’Alta Velocità.
    l museo ferroviario è stato realizzato laddove sorgeva il reale opificio borbonico di Pietrarsa nato nel 1840 per volere di Ferdinando II di Borbone, in un’area prima chiamata “Pietra Bianca” e in seguito “Pietrarsa” dopo un’eruzione del Vesuvio che aveva portato la lava fino a quel punto della costa.
    Una statua (una delle più grandi realizzate in ghisa in Italia), posta nel piazzale del complesso, mostra re Ferdinando nell’atto di indicare il luogo dove costruire le prime officine ferroviarie delle Due Sicilie e dell’intera Penisola. Un’iscrizione ricorda che lo scopo del sovrano era di svincolare lo sviluppo tecnico e industriale del Regno dall’intelligenza straniera.

    Il Museo si sviluppa in un’area di 36mila metri quadrati, di cui 14mila coperti. Costituito da 7 padiglioni per un'estensione complessiva di circa 36.000 metri quadrati, ospita locomotive a vapore, locomotive elettriche trifase, locomotive a corrente continua, locomotori diesel, elettromotrici, automotrici e carrozze passeggeri. Il primo padiglione è stato delegato alla conservazione dei mezzi del “passato”, ad iniziare dalla ricostruzione storica del primo convoglio della Napoli-Portici, per seguire con le locomotive a vapore e i locomotori elettrici trifasi.
    Il secondo padiglione raccoglie una vasta rappresentanza di rotabili e carri in scala ridotta, nonché plastici e oggetti di uso comune in ferrovia. Il terzo padiglione diviso in tre settori, ospita vecchi macchinari della ex Officina, un settore navale con modelli ed oggetti vari, nonché locomotive rappresentanti il “passato prossimo” e cioè automotrici diesel ed elettriche, carrozze e locomotori elettrici a corrente continua. Interessante è il Treno Reale, convoglio di undici vagoni, costruito nel 1929 per le nozze di Umberto II di Savoia con Maria José del Belgio, mentre di recente è stata acquisita una vettura presidenziale offerta nel 1989 da Francesco Cossiga. Nel museo trovano spazio celebri locomotive a vapore come la Gruppo 290, Gruppo 835, Gruppo 480, elettriche in corrente continua come la E.326, E.626, nonché locomotive elettriche trifase, gioielli della storia ferroviaria italiana. Imponente è la statua di Ferdinando II di Borbone, opera fusa in ghisa nello stesso opificio, di rilievo il salone reale stile liberty dal soffitto in oro zecchino e dal tavolo in mogano esotico. Infine, gioiello fra i gioielli, la Carrozza-Salone n°10 de treno dei Savoia, attualmente "Treno della Presidenza della Repubblica Italiana"...Oltre a la riproduzione fedele della Bayard, il treno inaugurale della prima tratta ferroviaria Napoli Portici del 1839; 25 locomotive a vapore; 6 locomotori elettrici; 12 rotabili tra automotrici elettriche/nafta (le cosiddette. littorine), diverse tipologie di carrozze (postale, detenuti, centoporte); 5 locomotori diesel; 25 modelli in scala di treni/carrozze/ plastici di stazioni ferroviarie; plastico “Brunetti” meglio noto come plastico del “Trecentotreni”; arredi sala d’attesa della Stazione ferroviaria di Roma Trastevere del 1905.

    ...il reale opificio borbonico di Pietrarsa...

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    L'attività ebbe inizio con il montaggio in loco di 7 locomotive, utilizzando le parti componenti costruite in Inghilterra secondo uno dei precedenti modelli inglesi acquistati nel 1843. Il 22 maggio di quell'anno, Ferdinando II emanò un editto nel quale tra l'altro riportava: «È volere di Sua maestà che lo stabilimento di Pietrarsa si occupi della costruzione delle locomotive, nonché delle riparazioni e dei bisogni per le locomotive stesse degli accessori dei carri e dei wagons che percorreranno la nuova strada ferrata Napoli-Capua». La struttura ebbe varie visite importanti tra cui lo zar di Russia, Nicola I, che manifestò l'intenzione di prendere Pietrarsa a modello per il complesso ferroviario di Kronstadt e nel 1849 anche del papa Pio IX.
    Con l'Unità d'Italia, dal 1861 l'opificio di Pietrarsa entrò in una fase difficile; una relazione dell'ingegnere Grandis, voluta dal governo piemontese dipingeva negativamente l'attività e la redditività dell'opificio consigliandone addirittura la vendita o la demolizione. L'anno dopo avveniva la cessione della gestione alla ditta Bozza; ciò portò alla riduzione dei posti di lavoro, a scioperi e gravi disordini repressi nel sangue. Il 6 agosto 1863 una carica di bersaglieri provocava 7 morti e 20 feriti gravi. Tuttavia, nonostante la parziale dismissione degli impianti, nel successivo decennio vennero prodotte oltre 150 locomotive. Il ridimensionamento di Pietrarsa continuò fino alla riduzione a 100 dei posti di lavoro fino a che nel 1877 lo Stato assunse direttamente la gestione sotto la direzione dell'ingegnere Passerini risollevandone le sorti e migliorandone la produttività; da allora e fino al 1885 vennero prodotte ulteriori 110 locomotive, oltre 800 carri merci e quasi 300 carrozze viaggiatori oltre a parti di ricambio per rotabili. Nel 1905 in seguito alla statalizzazione delle ferrovie entrò a far parte delle infrastrutture primarie delle nuove Ferrovie dello Stato divenendo una delle officine di Grandi Riparazioni specializzata in particolare nel settore delle locomotive a vapore.

    ....la storia delle FERROVIE dello STATO....


    È la mattina del 3 ottobre 1839 quando la piccola locomotiva Bayard percorre sette chilometri e 250 metri sulla linea Napoli - Portici: un grande progetto realizzato con il contributo degli inglesi per portare la corte di Ferdinando II nelle residenze fuori città. Il successo è tale che solo un anno dopo viene inaugurata la seconda linea, la Milano - Monza e ovunque in Italia si procede alla costruzione e all’apertura di nuove tratte. Tuttavia le compagnie di gestione non garantiscono condizioni di viaggio sostenibili: gli scompartimenti freddi d’inverno e caldi d’estate rendono i viaggi interminabili e i ritardi sono tali che, nel 1889, viene creata una commissione d’inchiesta parlamentare per studiarne le cause. Il malcontento dei cittadini si unisce alla protesta dei ferrovieri, che dopo una serie di rivendicazioni salariali minacciano di convocare uno sciopero. La reazione dei liberali, alle gravi condizioni di disservizio e all’anarchia in ambito lavorativo, porta alla presentazione il 21 aprile 1905 di un disegno di legge di nazionalizzazione della rete ferroviaria, con annesso il divieto di sciopero per i dipendenti pubblici. La reazione dei ferrovieri è così forte che il governo Giolitti si dimette. Ma il dado è ormai tratto: il 1° luglio il capo del governo Fortis proclama la nascita delle Ferrovie dello Stato, affidando la gestione a un’azienda di Stato sotto la sovrintendenza del Ministero dei Lavori Pubblici.
    Su tutti i convogli appare una nuova sigla, quella di FS. La crescita della nuova azienda è esponenziale: nel giro di pochi anni le locomotive passano da 2.500 a 5000, i veicoli da 60.000 a 117.000; vengono inaugurati 2000 chilometri di nuove linee, i treni vanno sempre più veloci. Le distanze si accorciano.
    Il mezzo non riscuote l’immediato successo popolare: per le merci gli italiani si fidano ancora del trasporto via mare o sui cavalli. Solo sotto il regime fascista, il treno diventa il vero mito italiano: vanto della dittatura, simbolo del progresso e dell’avvenirismo, segno dell’ordine e del buon funzionamento della macchina statale. È negli anni Cinquanta, con l’emigrazione di cittadini meridionali in cerca di lavoro al Nord verso Milano e Torino, che il treno acquista un ruolo fondamentale nello sviluppo economico e sociale del Paese. Come il bastimento che nell’Ottocento salpava dai porti italiani per raggiungere colmo di emigranti gli Stati Uniti, così ora i treni portano verso nuove destinazioni chi cerca di uscire dalla miseria e dalla povertà. Gli stessi ferrovieri acquistano rispetto e onore: insieme ai postini e ai maestri, fanno parte dell’aristocrazia dei lavoratori.
    (dal web)

    ................

    Informazioni utili
    Apertura: venerdì, sabato e domenica dalle ore 9 alle ore 16 (con pausa del servizio di biglietteria dalle ore 13 alle 13.30). Il giovedì l'apertura avrà luogo solo su prenotazione per grandi gruppi.
    Prezzo del biglietto: € 5,00 (intero) e € 3,50 (ridotto per gli adulti oltre i 65 anni, per i ragazzi tra 6 e 18 anni, e per tutti i visitatori in caso di parziale chiusura o inagibilità di alcuni padiglioni in caso di convegni o lavori di restauro).

    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:08
     
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    ABOCA MUSEUM
    Erbe e alambicchi,
    un museo sull'arte della spezieria


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    Viaggio nell'antica tradizione delle piante medicinali attraverso un percorso museale che tra ricerca storia e tecnologia racconta la storia delle erbe e del rapporto tra l'Uomo e la Natura. E' l'esposizione Erbe e salute nei secoli allestito nell'Aboca Museum, tra Toscana, Umbria, Marche e Romagna, nell’alta Valtiberina. Museo unico nel suo genere, si trova nel seicentesco Palazzo Bourbon del Monte a Sansepolcro, ed è un museo d’impresa nato nel 2002 e facente parte di un progetto di comunicazione culturale voluto dall'azienda italiana che produce e trasforma piante medicinali dal 1978. All’interno del museo si trova la Bibliotheca Antiqua dove viene svolta un’intensa e costante attività di ricerca storica da parte del Centro Studi che approfondisce l’antico utilizzo delle piante officinali al fine di comprenderne e recuperarne possibili e potenziali funzionalità utili per la salute dell’uomo moderno. Aboca Museum è oggi una testimonianza dell’evoluzione della scienza medico-terapeutica nei secoli.
    “La suggestiva e fedele ricostruzione di antichi laboratori – spiega Anna Zita Di Carlo, responsabile del museo – guida il visitatore in un affascinante viaggio nel passato attraverso sale comunicanti dove storia, aneddoti, curiosità, profumi naturali e reperti si intrecciano per raccontare le erbe nei secoli, fino ad arrivare a una meravigliosa farmacia dell'800 perfettamente conservata”.
    Le prime sale espongono antichi reperti quali mortai, ceramiche, vetri, libri, bilance e tanti altri strumenti che sono stati utilizzati nei secoli da chi deteneva l’arte della spezieria e che mostrano il fascino dei loro decori artistici. Ci sono poi fedeli ricostruzioni di ambienti tradizionalmente destinati alla conservazione e lavorazione delle piante officinali. La progressiva diversificazione tra erboristeria popolare e farmacopea ufficiale, tra medicina ufficiale e medicina tradizionale, tra farmaci artigianali da una parte e prodotti chimici dall'altra, fornisce al visitatore la chiave di lettura per comprendere la complessità della situazione contemporanea permettendo, allo stesso tempo, di vivere una esperienza sensoriale grazie ai profumi, ai colori e alle suggestioni che avvolgono durante il percorso.
    La continua ricerca su fonti antiche di enorme valenza scientifica e culturale, oltre che di grande pregio artistico, è alla base dell’attività del Centro Studi di Aboca Museum, coordinato e diretto da un comitato scientifico composto da esperti internazionali del settore botanico-farmaceutico. “Nel corso degli anni, il lavoro di tale struttura – afferma Valentino Mercati, Presidente Aboca, nonché ideatore e fondatore di Aboca e Aboca Museum - ha fornito importanti spunti di riflessione alla moderna ricerca scientifica in campo medico-botanico”. Destinata a studiosi e ricercatori, la Bibliotheca Antiqua è una delle collezioni più importanti al mondo per la sua specificità. Custodisce circa 2000 volumi antichi a stampa che raccontano quattro secoli di storia botanica (XVI – XIX sec.): varie tipologie di opere, dai primi trattati sui Semplici (le piante medicinali base), agli studi di botanica farmaceutica, dai volumi di Alchimia alle farmacopee rinascimentali, dagli antidotari ai compendi ottocenteschi di fisica, chimica e scienze naturali. Di particolare importanza è la recente collezione di antichi libri di ricette e segreti medicinali tra le cui pagine è conservata la saggezza di un sapere popolare che rischierebbe altrimenti di andare perduto.(Ansa)

    ..la sala delle erbe..



    La sala delle erbe. Una numerosa serie di piante medicinali, composte in mazzi ed appese al soffitto ad essiccare, formano un variopinto e, soprattutto, profumato tappeto erboso al di sopra della testa. Nella stanza, impregnata del bouquet di profumi, si respira un aroma insolito ma gradevolissimo all'olfatto. Fonti storiche raccontano che le operazioni di raccolta delle erbe iniziavano con l'osservazione giornaliera del modo di crescere delle piante. L'intento era quello di selezionare quelle più perfette, perché era opinione corrente che queste possedessero le migliori qualità medicinali. Soprattutto si osservava il giusto tempo balsamico, ovvero lo stadio ottimale in cui la pianta raggiunge il massimo contenuto in sostanze attive. La tecnica migliore per conservarle era l'essiccazione, procedimento che elimina l'acqua della pianta senza farle perdere le proprietà curative. Appese in ambienti asciutti ed arieggiati, al riparo dalla luce diretta del sole, le erbe subivano lentamente quei cambiamenti che le preparavano ad essere ridotte in salutari prodotti medicinali. Dopo quest'ultima fase, le erbe venivano conservate in appositi contenitori come cesti di vimini e preziose scatole in legno, finemente decorate con cartigli riportanti il nome della pianta.Numerosi esemplari originali, risalenti a vari secoli, sono in esposizione negli scaffali della stanza. Non potevano infine mancare gli antichi strumenti per la raccolta e la lavorazione delle erbe, accanto a quelli che invece erano "strumenti verbali propiziatori": preghiere, invocazioni, riti gestuali, uniti a simpatiche credenze, composte dalla religiosità popolare per ogni tipo di pianta.

    Il saper raccogliere, trasformare ed impiegare le erbe per curare era un patrimonio di conoscenze che, trasmesso per via orale, dava ricchezza e potere alla guaritrice o al guaritore. Uno dei segreti più gelosamente custoditi riguardava i luoghi, i tempi, le tecniche di raccolta -spesso rituali- delle erbe più attive contro le specifiche malattie. Era questa una virtù che, pur esercitandosi in ambiti marginali, fin dal VI secolo venne combattuta dagli organi del potere, quando l’aspetto rituale assunse connotati esasperati. Addirittura alcune guaritrici finirono per essere considerate “streghe” durante il periodo dell’Inquisizione. Il ruolo delle erbe medicinali, comunque, si è mantenuto vivo in ogni tradizione locale, ed è stato fondamentale per la salute dell’uomo fino ad oggi, malgrado l’ “uso scientifico” ne abbia sminuito le peculiari caratteristiche di naturalità.

    ...Le preghiere...


    fitochimico


    La raccolta della camomilla. La camomilla, gran farmaco per gli occhi malati, si raccoglie sempre prima del sorgere del sole, pronunciando prima questa invocazione: «Ti prendo, o erba, per la nubecola bianca della pupilla e per il dolore agli occhi, affinché tu possa prestarmi soccorso». Dopo la si porta appesa al collo.

    La raccolta del ciclamino. I tuberi di ciclamino per guarire i dolori di milza si raccolgono interi l’ultimo giovedì del ciclo lunare. Si va poi sulla soglia della stanza dove sta il malato e lì si tagliano in tre fette chiedendo a costui: «Che cosa taglio?». Ed egli deve rispondere: «La mia milza». Dopo di che si appoggiano le fette di ciclamino sulla parte malata e si dice: «Come si seccheranno i pezzi di questo ciclamino, così si seccherà la milza di questo malato».

    La raccolta dell’ebbio. Prima di raccogliere l’ebbio, bisogna recitare ter novies - cioè ben 27 volte - l’invocazione propiziatoria: «Omnia mala bestia canto». (Io bestia declamo tutti i mali). Poi bisogna tagliarla tre volte vicino a terra con un ferro affilato, pensando intensamente, nel frattempo, alla malattia che si vuole guarire. Una volta tagliata, non la si deve guardare, ma la si deve sminuzzare e masticare stando di spalle.

    La raccolta della mandragora. Per cogliere la mandragora scava intorno alla pianta, poi prendi una corda, legane un capo alla radice della pianta e l’altro ad un cane. Chiama poi il cane in modo che questo venendo verso di te strappi via la radice. Sta attento a far questo nelle notti di plenilunio e abbi l’accortezza di tapparti bene le orecchie, per non sentire l’urlo lacerante che la pianta emetterà al momento dello strappo.

    ...l'officina alchemica...


    L'officina alchemica. Officina, nel significato originario, vuol dire laboratorio e questo spiega perché qui è ricostruito un ambiente di lavorazione delle erbe del '600. L'officina è il centro di riferimento dell'antica medicina: vi gravitavano i raccoglitori di erbe, il pestatore, lo speziale, il medico, gli ammalati ma soprattutto l'addetto all'estrazione della quinta essenza. Ecco perché l'arredamento è caratterizzato soprattutto da strumenti ad hoc quali alambicchi, distillatori, forni, fornelli a carbone, grossi mortai, contenitori in vetro per gli estratti, presse, oltre naturalmente alle erbe raccolte in loco ed alle spezie di importazione. In questa sala una nicchia un po' nascosta ma molto suggestiva costituisce il luogo dove venivano conservate le "res pretiosae", cioè i prodotti più costosi e di difficile reperibilità. Tra questi l'oro, che in passato era considerato un vero e proprio medicamento, ma anche il grasso di vipera, la canfora, lo zucchero, la noce moscata ed altre spezie che al tempo provenivano da paesi lontani.

    Ai primordi dell’esistenza dell’uomo le erbe curative venivano ingerite direttamente oppure preparate in forme estremamente semplici che prevedevano tutt’al più lo schiacciamento o la macerazione in acqua, latte, vino, aceto, grassi vegetali ed animali. L’uso del fuoco e di utensili di metallo, costituì un’ ulteriore tappa evolutiva per il miglioramento dei processi di estrazione. La scoperta della distillazione alcolica, intorno al X sec. d.C., dette la possibilità di trasformare le erbe in derivati sempre più complessi ed evoluti. La ricerca di “farmaci eccellenti” ha costituto comunque una continua preoccupazione che ha portato nel corso dei secoli ad affiancare all’uso delle erbe molti altri preparati di origine minerale ed animale, non esclusi gli escrementi. I preparati spagirici sono un classico esempio di questo variegato mondo terapeutico. Lo sviluppo dell’alchimia, con la creazione di laboratori opportunamente attrezzati, portò a riprendere e a migliorare buona parte delle tecniche estrattive, anche se le finalità di questa scienza rimasero spesso molto differenti, come nel caso della esasperata ricerca della pietra filosofale.

    ..la cella dei veleni..



    La Cella dei Veleni, un piccolo locale isolato da una cancellata. Sulla testata dell’armadio troneggia la scritta Cave atra venena, guardati dai veleni mortali! In questo luogo, infatti, il farmacista teneva, sotto chiave, tutti quei prodotti tossici, vegetali, minerali e animali, perché non andassero in mano a degli sprovveduti: solo egli, infatti, aveva le competenze professionali per trattarle e dosarle in modo per farle diventare salutari medicine.

    Fra le droghe medicinali ce ne sono parecchie che sono dei micidiali veleni. Attraverso la scienza del farmacista queste pericolose sostanze divengono medicamenti salutari: sia dosate in quantità infinitesimali, sia trasformate in preziosi antidoti. Il celebre re Mitridate VI, abituatosi ad assumere veleni per il terrore di essere ucciso, riuscì a raggiungere lo stato di assuefazione, poi detto mitridatismo. I Greci preparavano con la cicuta il veleno per i condannati a morte, come nel famoso caso di Socrate.
    La potente famiglia Borgia aveva fama di usare il veleno come arma negli intrighi politici. Shakespeare si serviva dei veleni per creare atmosfere di forte drammaticità: il padre di Amleto viene ucciso con del succo di giusquiamo versato nell’orecchio; Romeo si procura da uno speziale una “droga micidiale” per uccidersi sulla tomba di Giulietta. La conservazione dei veleni richiede il massimo delle cautele; per questo le consuetudini delle spezierie consigliavano un luogo appartato e “chiuso a chiave”,
    (www.abocamuseum.it/)


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:13
     
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    «I Frutti artificiali si fanno con polvere d’alabastro sciolta nella cera e nel mili e nella gomma damar i quali restano duri come pietre bianchissimi nel spacarli cioé facendoli in due ed inalterabili anche al calore. Scoperta del 5 marzo 1858 in un sogno nella stessa notte (…) così che spero poco per volta ritrovare il metodo d’imitarli che riescirano inconoscibili dai veri. Francesco Garnier»


    MUSEO DELLA FRUTTA

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    Inaugurato il 12 febbraio 2007, il Museo della frutta «Francesco Garnier Valletti» presenta la collezione di mille e più «frutti artificiali plastici» modellati a fine Ottocento da Francesco Garnier Valletti di proprietà della Sezione operativa di Torino dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante di via Ormea 47, di cui ripercorre la vicenda dalla sua costituzione nel 1871 ad oggi, valorizzandone il prezioso patrimonio storico-scientifico.
    Cuore e centro del Museo è la straordinaria collezione pomologica, costituita da centinaia di varietà di mele, pere, pesche, albicocche, susine, uve, offrendo anche l’opportunità di conoscere la vita e l’opera di Francesco Garnier Valletti, (Giaveno 1808 - Torino 1889), geniale ed eccentrica figura di artigiano, artista, scienziato.
    La collezione di 1021 “frutti artificiali plastici” opera di Francesco Garnier Valletti viene acquisita dalla Regia Stazione di Chimica Agraria nel 1927 ad opera del suo direttore, Francesco Scurti, che per questo si è fatto assegnare dal Ministero per l’Agricoltura uno stanziamento speciale di 22.000 lire, prezzo richiesto dal suo proprietario, il prof. Natale Riva, assistenza alla Cattedra Ambulante di Agricoltura di Alessandria.
    Per accoglierla degnamente, Scurti fa costruire cinque armadi vetrati, gli stessi in cui oggi i frutti si trovano esposti e in cui vengono collocati gli esemplari di 39 varietà di albicocche, 9 di fichi, 286 di mele (di cui 2 incomplete), 490 di pere (di cui 4 incomplete), 67 di pesche, 6 di pesche noci, 20 di prugne, 44 di uva, 50 di patate e un esemplare ciascuno di rapa, di barbabietola, di carota, di pastinaca, di melograno e di mela cotogna.
    Negli anni seguenti la collezione pomologica è accresciuta con altri frutti e ortaggi, determinando la necessità di procedere all’acquisto di ulteriori armadi vetrati. Tra il 1932 e il 1935 la Stazione acquisisce, dunque, altri 323 modelli di frutti e ortaggi: altre mele, pere, pesche, uva, susine, fragole, ciliegie, arance, mandarini e limoni, barbabietole da foraggio, funghi e modelli “di putrefazione” di mele.
    Ad oggi essa comprende nel suo complesso 1381 modelli di varietà di frutti e ortaggi, di cui 1100 sono esposti, mentre gli esemplari di minor qualità e interesse, sia dal punto di vista scientifico sia da quello estetico, sono conservati nel deposito appositamente creato all’interno del Palazzo e consultabili su richiesta.
    Complessivamente la collezione originaria del 1927 è pervenuta a noi nella sua quasi interezza a dimostrazione non solo della validità della formula del loro autore, ma anche della cura con cui essi sono stati conservati nel tempo.
    Fanno eccezione le uve, la cui fattura è di grande qualità estetica, ma non di pari resistenza, tanto che non sono più di 24 i grappoli ancora esistenti.
    I nuclei più consistenti di frutti esposti sono costituiti dalle pere (501 varietà, di cui 494 opera di Garnier Valletti), dalle mele (295, 286 delle quali della collezione originaria), dalle pesche (98, di cui 67 di Garnier Valletti), dalle susine (70, ma solo 20 fanno parte del nucleo acquisito nel 1927), dalle albicocche (56, 44 delle quali rientrano fra quelle di Garnier Valletti), dalle patate (50) e un esemplare per qualità di rapa, di barbabietola, di carota, di pastinaca, di melograno, e di mela cotogna. Le collezioni di funghi e di ciliegie non sono opera di Garnier Valletti, ma provengono dal laboratorio Ravagli di Torino.

    Nel Museo sono ricostruite, inoltre, le vicende della Stazione di Chimica Agraria, e soprattutto si dà testimonianza della svolta che, tra Ottocento e Novecento, ha trasformato la produzione ortofrutticola da artigianale a industriale, introducendo nuovi metodi non solo di coltivazione, ma di conservazione, distribuzione e consumo.
    La conservazione mediante il freddo, uno dei settori di punta della ricerca della Stazione negli anni Venti, che dava una risposta ai nuovi e crescenti bisogni della società, è ben evidenziata dalla presenza nel museo del primo impianto italiano di refrigerazione sperimentale.

    Francesco Garnier Valletti




    Estrosa, solitaria, geniale figura di artigiano, artista, ma anche scienziato è stato l’ultimo ineguagliato modellatore e riproduttore di frutti artificiali. spese la sua vita nella ricerca della perfezione nell’imitazione dei frutti, con l’intento, non solo e non tanto, di catturare e riprodurre in forme durature la fragile bellezza dell’effimero, ma volendo soprattutto essere, con la sua opera, di ausilio alla scienza agronomica. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.
    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.
    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.

    museo-della-frutta-1



    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Nel caso delle pesche e albicocche, la particolare peluria che caratterizza la buccia di questi frutti, era ottenuta pestando finemente la lana fino a ridurla in una polvere sottilissima.
    Per la pruina, caratteristica delle uve e delle susine, utilizzava ciottoli di fiume che egli stesso reperiva sul greto dei torrenti, finemente pestati al mortaio, setacciati e soffiati sul frutto appena dipinto e ancora umido, di modo che il colore fosse impregnato con questa polvere.
    Nel caso delle fragole impiantava gli acheni originali essiccati e negli acini d’uva i vinaccioli della varietà riprodotta. Alcuni tipi di frutta come uva, ribes e ciliegie e, in genere, i frutti traslucidi, non consentivano di approntare uno stampo che potesse essere utilizzato per realizzare più modelli.
    Garnier Valletti mise allora a punto una sorta di “camera lucida” per eseguire il disegno del grappolo da riprodurre, che realizzava poi utilizzando una miscela composta prevalentemente da resina dammar con tracce di cera. Attraverso tale tecnica riuscì a rendere quella particolare traslucenza che caratterizza questi frutti, il cui livello di somiglianza con quelli veri rimane ancor oggi sorprendente.
    Partendo dai vinaccioli essiccati e incollati con una goccia di resina a un filo di ottone, li immergeva più volte nella miscela sino a raggiungere, per sovrapposizione di strati di materiale, la forma e le dimensioni desiderate.
    Gli acini venivano poi assemblati attorcigliando i fili di ottone ricoperti di resina colorata a simulazione del rachide, cospargendoli in ultimo con la polvere ottenuta dalla polverizzazione delle pietre per rendere la pruina.
    Proprio a causa della particolare composizione a base quasi esclusiva di resina dammar, i grappoli d’uva sono giunti a noi in cattive condizioni di conservazione, nulla perdendo, tuttavia, in bellezza e verosimiglianza.
    (www.museodellafrutta.it/)


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:19
     
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    IL NUOVO MUSEO
    DELL'OPERA DEL DUOMO


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    Firenze - Riapre il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze. Sono circa 750 le opere d'arte che il 29 ottobre prossimo troveranno la loro definitiva collocazione all'interno del nuovo Museo, restituendo alla città una tradizione lunga 720 anni che abbraccia - dai capolavori di Arnolfo Di Cambio a quelli del Verrocchio e Donatello - secoli di tradizione artistica medievale e rinascimentale fiorentina.

    I capolavori di Firenze riuniti in un luogo solo. Statue, rilievi in marmo, bronzo, argento, originariamente realizzati per gli ambienti esterni ed interni delle strutture che sorgono davanti al Museo - il Battistero di San Giovanni, la Cattedrale di Santa Maria del Fiore e il Campanile di Giotto - troveranno posto nelle 25 sale, distribuite su tre piani, di questo nuovo edificio. Uno spettacolare allestimento che mira a valorizzare capolavori unici al mondo, frutto di un restauro durato tre anni, molti originariamente concepiti per stare insieme, ma successivamente dispersi in attesa di una collocazione più ampia e definitiva.

    Le opere restaurate e la ricostruzione dell’antica facciata del Duomo. Tornano a splendere la Maddalena di Donatello, la Porta del Paradiso e la Porta del Nord del Battistero, opera di Lorenzo Ghiberti, mentre l'antica facciata medievale del Duomo, realizzata da Arnolfo Di Cambio a partire dal 1296, ma distrutta nel 1586, verrà ricostruita a grandezza naturale (un colossale modello in resina) nella sala maggiore del museo. Ed è proprio questa facciata - con le sue 40 statue ricollocate nelle loro nicchie - il “gioiello” più atteso da monsignor Timothy Verdon, storico dell'arte e direttore della nuova struttura. «Firenze, città ricca di glorie antiche - spiega Verdon - ha bisogno di grandi iniziative moderne e il nuovo Museo dell'Opera, una struttura spettacolare di qualità mondiale, è la più importante iniziativa fiorentina degli ultimi anni».



    Le antiche porte del Battistero. Su un lato della sala del nuovo edificio sarà esposta la Porta del Paradiso che, come spiega Verdon, «tornerà a occupare una posizione frontale rispetto all'antica facciata, ricostruendo un rapporto visivo e iconografico perso oltre 400 anni fa». Ai suoi due lati si potrà ammirare la Porta Nord del Battistero – il cui restauro ha consentito il recupero, dopo sei secoli dalla sua realizzazione, dell'oro che ne ricopriva le sculture - e presto anche la Porta Sud di Andrea Pisano.

    Donatello, Michelangelo, Luca della Robbia: i grandi della scultura fiorentina. Il percorso dello spettatore proseguirà al piano terra con le sale che accolgono la Maddalena penitente di Donatello - un'opera che sprigiona una grande forza, ma anche tenerezza e devozione attraverso lo sguardo e le mani congiunte in preghiera - e la Pietà di Michelangelo. All'interno della Galleria del Campanile di Giotto, tra le sedici statue a grandezza naturale, spiccano i Profeti di Donatello, Abacuc e Geremia, e i 54 rilievi scultorei originali che la adornavano. Nella Galleria delle Cantorie di Luca della Robbia e di Donatello si potranno, invece, osservare i due grandi pergami realizzati per il Duomo tra il 1431 e il 1439.

    La Galleria della Cupola del Brunelleschi. Un museo nel museo sarà la Galleria, con i modelli lignei del 400, tra cui quello attribuito allo stesso artista fiorentino, materiali e attrezzi dell'epoca impiegati per la costruzione della Cupola, oltre alla maschera funebre del grande architetto.

    La missione dell’Opera di Santa Maria del Fiore e il nuovo Museo. Fondata nel 1296 per realizzare il Duomo di Firenze l’Opera continua a portare avanti il suo impegno finalizzato alla conservazione e alla valorizzazione del suo straordinario patrimonio culturale. Il Museo dell'Opera del Duomo, fondato nel 1891, fa parte del sistema museale del Grande Museo del Duomo che racchiude il Duomo di Firenze, la Cupola di Brunelleschi, la Cripta di Santa Reparata, il Battistero di San Giovanni e il Campanile di Giotto. Un accordo artistico che il prossimo 29 ottobre tornerà a orbitare, con il suo spartito di arte, fede, storia, di fronte al suo pubblico, nella spettacolare piazza che rappresenta il cuore vibrante di Firenze.
    (SAMANTHA DE MARTIN, www.arte.it)


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    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:26
     
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