STRANI MUSEI

I musei italiani e del mondo più particolari

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  1. gheagabry
     
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    «I Frutti artificiali si fanno con polvere d’alabastro sciolta nella cera e nel mili e nella gomma damar i quali restano duri come pietre bianchissimi nel spacarli cioé facendoli in due ed inalterabili anche al calore. Scoperta del 5 marzo 1858 in un sogno nella stessa notte (…) così che spero poco per volta ritrovare il metodo d’imitarli che riescirano inconoscibili dai veri. Francesco Garnier»


    MUSEO DELLA FRUTTA

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    Inaugurato il 12 febbraio 2007, il Museo della frutta «Francesco Garnier Valletti» presenta la collezione di mille e più «frutti artificiali plastici» modellati a fine Ottocento da Francesco Garnier Valletti di proprietà della Sezione operativa di Torino dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante di via Ormea 47, di cui ripercorre la vicenda dalla sua costituzione nel 1871 ad oggi, valorizzandone il prezioso patrimonio storico-scientifico.
    Cuore e centro del Museo è la straordinaria collezione pomologica, costituita da centinaia di varietà di mele, pere, pesche, albicocche, susine, uve, offrendo anche l’opportunità di conoscere la vita e l’opera di Francesco Garnier Valletti, (Giaveno 1808 - Torino 1889), geniale ed eccentrica figura di artigiano, artista, scienziato.
    La collezione di 1021 “frutti artificiali plastici” opera di Francesco Garnier Valletti viene acquisita dalla Regia Stazione di Chimica Agraria nel 1927 ad opera del suo direttore, Francesco Scurti, che per questo si è fatto assegnare dal Ministero per l’Agricoltura uno stanziamento speciale di 22.000 lire, prezzo richiesto dal suo proprietario, il prof. Natale Riva, assistenza alla Cattedra Ambulante di Agricoltura di Alessandria.
    Per accoglierla degnamente, Scurti fa costruire cinque armadi vetrati, gli stessi in cui oggi i frutti si trovano esposti e in cui vengono collocati gli esemplari di 39 varietà di albicocche, 9 di fichi, 286 di mele (di cui 2 incomplete), 490 di pere (di cui 4 incomplete), 67 di pesche, 6 di pesche noci, 20 di prugne, 44 di uva, 50 di patate e un esemplare ciascuno di rapa, di barbabietola, di carota, di pastinaca, di melograno e di mela cotogna.
    Negli anni seguenti la collezione pomologica è accresciuta con altri frutti e ortaggi, determinando la necessità di procedere all’acquisto di ulteriori armadi vetrati. Tra il 1932 e il 1935 la Stazione acquisisce, dunque, altri 323 modelli di frutti e ortaggi: altre mele, pere, pesche, uva, susine, fragole, ciliegie, arance, mandarini e limoni, barbabietole da foraggio, funghi e modelli “di putrefazione” di mele.
    Ad oggi essa comprende nel suo complesso 1381 modelli di varietà di frutti e ortaggi, di cui 1100 sono esposti, mentre gli esemplari di minor qualità e interesse, sia dal punto di vista scientifico sia da quello estetico, sono conservati nel deposito appositamente creato all’interno del Palazzo e consultabili su richiesta.
    Complessivamente la collezione originaria del 1927 è pervenuta a noi nella sua quasi interezza a dimostrazione non solo della validità della formula del loro autore, ma anche della cura con cui essi sono stati conservati nel tempo.
    Fanno eccezione le uve, la cui fattura è di grande qualità estetica, ma non di pari resistenza, tanto che non sono più di 24 i grappoli ancora esistenti.
    I nuclei più consistenti di frutti esposti sono costituiti dalle pere (501 varietà, di cui 494 opera di Garnier Valletti), dalle mele (295, 286 delle quali della collezione originaria), dalle pesche (98, di cui 67 di Garnier Valletti), dalle susine (70, ma solo 20 fanno parte del nucleo acquisito nel 1927), dalle albicocche (56, 44 delle quali rientrano fra quelle di Garnier Valletti), dalle patate (50) e un esemplare per qualità di rapa, di barbabietola, di carota, di pastinaca, di melograno, e di mela cotogna. Le collezioni di funghi e di ciliegie non sono opera di Garnier Valletti, ma provengono dal laboratorio Ravagli di Torino.

    Nel Museo sono ricostruite, inoltre, le vicende della Stazione di Chimica Agraria, e soprattutto si dà testimonianza della svolta che, tra Ottocento e Novecento, ha trasformato la produzione ortofrutticola da artigianale a industriale, introducendo nuovi metodi non solo di coltivazione, ma di conservazione, distribuzione e consumo.
    La conservazione mediante il freddo, uno dei settori di punta della ricerca della Stazione negli anni Venti, che dava una risposta ai nuovi e crescenti bisogni della società, è ben evidenziata dalla presenza nel museo del primo impianto italiano di refrigerazione sperimentale.

    Francesco Garnier Valletti




    Estrosa, solitaria, geniale figura di artigiano, artista, ma anche scienziato è stato l’ultimo ineguagliato modellatore e riproduttore di frutti artificiali. spese la sua vita nella ricerca della perfezione nell’imitazione dei frutti, con l’intento, non solo e non tanto, di catturare e riprodurre in forme durature la fragile bellezza dell’effimero, ma volendo soprattutto essere, con la sua opera, di ausilio alla scienza agronomica. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.
    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.
    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Garnier Valletti eseguiva un disegno dal vero a grandezza naturale e lo colorava meticolosamente, corredandolo di informazioni e appunti di carattere botanico e agronomico.
    Poneva quindi il frutto in una cassetta di legno riempita di cenere umida, coprendolo di gesso per ricavarne lo stampo, composto di due parti congiungibili fra loro, nel quale colava infine l’impasto resinoso.
    Una volta ottenuto il modello, lo lisciava sino a raggiungere il grado di levigatezza desiderato, innestando al suo interno un filo metallico a forma di gancio, utile per appendere il frutto durante la coloritura che, in ultimo, accorciava e ricopriva con la cera per imitare il picciolo.
    All’estremità opposta del picciolo collocava i sepali e gli organi fiorali, utilizzando fili, stoffa, carta, stoppa e, a volte, persino quelli veri, prelevati dai frutti e fatti essiccare.
    Il suo perfezionismo si spingeva al punto che, prima di sigillare definitivamente il modello, aggiungeva miscela sino ad eguagliarne il peso originale. Collocava, poi, all’interno un foglietto che riportava il suo nome e cognome e l’anno d’esecuzione (abitudine mutuata dai tassidermisti dell’epoca).
    Dopo aver steso su tutto il frutto un primo strato di biacca, levigava la superficie in modo da togliere qualsiasi imperfezione, spalmando poi via via strati alternati di pece greca, (cioè colofonia), resina dammar e ancora biacca. Solo allora s’accingeva a stendere il colore e, in ultimo “dava la pelle”, con vernice opaca oppure lucida, a seconda del tipo di frutto da imitare.

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    In ultimo, con artifici diversi, riproduceva macchie, lenticelle, rugginosità e irregolarità tipiche di ciascuna varietà. Nel caso delle pesche e albicocche, la particolare peluria che caratterizza la buccia di questi frutti, era ottenuta pestando finemente la lana fino a ridurla in una polvere sottilissima.
    Per la pruina, caratteristica delle uve e delle susine, utilizzava ciottoli di fiume che egli stesso reperiva sul greto dei torrenti, finemente pestati al mortaio, setacciati e soffiati sul frutto appena dipinto e ancora umido, di modo che il colore fosse impregnato con questa polvere.
    Nel caso delle fragole impiantava gli acheni originali essiccati e negli acini d’uva i vinaccioli della varietà riprodotta. Alcuni tipi di frutta come uva, ribes e ciliegie e, in genere, i frutti traslucidi, non consentivano di approntare uno stampo che potesse essere utilizzato per realizzare più modelli.
    Garnier Valletti mise allora a punto una sorta di “camera lucida” per eseguire il disegno del grappolo da riprodurre, che realizzava poi utilizzando una miscela composta prevalentemente da resina dammar con tracce di cera. Attraverso tale tecnica riuscì a rendere quella particolare traslucenza che caratterizza questi frutti, il cui livello di somiglianza con quelli veri rimane ancor oggi sorprendente.
    Partendo dai vinaccioli essiccati e incollati con una goccia di resina a un filo di ottone, li immergeva più volte nella miscela sino a raggiungere, per sovrapposizione di strati di materiale, la forma e le dimensioni desiderate.
    Gli acini venivano poi assemblati attorcigliando i fili di ottone ricoperti di resina colorata a simulazione del rachide, cospargendoli in ultimo con la polvere ottenuta dalla polverizzazione delle pietre per rendere la pruina.
    Proprio a causa della particolare composizione a base quasi esclusiva di resina dammar, i grappoli d’uva sono giunti a noi in cattive condizioni di conservazione, nulla perdendo, tuttavia, in bellezza e verosimiglianza.
    (www.museodellafrutta.it/)


    Edited by gheagabry1 - 23/2/2023, 22:19
     
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