FIABE DEI F.LLI GRIMM, Jacob e Wilhelm

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  1. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    I quattro fratelli ingegnosi

    C'era una volta un pover'uomo che aveva quattro figli; quando furono cresciuti disse loro: -Cari figlioli, ora dovete andarvene per il mondo, io non ho nulla da darvi; mettetevi in cammino e andate in terra straniera, imparate un mestiere e cercate di industriarvi-. I quattro fratelli presero così il bastone del viandante, dissero addio al padre e lasciarono insieme la città. Quand'ebbero fatto un tratto di strada, giunsero a un crocicchio che portava in quattro paesi diversi. Il maggiore allora disse: -Dobbiamo separarci, ma fra quattro anni esatti ci ritroveremo qui e, nel frattempo, tenteremo di far fortuna-. Così ognuno andò per la sua strada, e il maggiore incontrò un uomo che gli chiese dove stesse andando e che intenzioni avesse. -Voglio imparare un mestiere- rispose il giovane. Allora l'uomo disse: -Vieni con me, e impara a fare il ladro-. -No- rispose -non è più considerato un mestiere onesto, e alla fine della canzone si diventa pendagli da forca.- -Oh- disse l'uomo -della forca non devi avere paura: ti insegnerò solo a prendere ciò che nessun altro può acchiappare e dove nessuno può scoprirti.- Così il giovane si lasciò convincere e con l'aiuto di quell'uomo divenne un ladro esperto e così abile che più nulla era al sicuro, qualsiasi cosa volesse. Anche il secondo fratello incontrò un uomo che gli rivolse la stessa domanda, cioè che cosa volesse fare. -Non lo so ancora- rispose. -Allora vieni con me e diventa astronomo: non c'è nulla di meglio, niente ti è nascosto.- Egli accettò e diventò un astronomo così abile che, quando si fu perfezionato e volle proseguire per la sua strada, il maestro gli diede un cannocchiale e disse: -Con questo puoi vedere cosa succede sulla terra e nel cielo, e niente ti può restar celato-. Il terzo fratello incontrò un cacciatore che lo prese con s‚ e lo istruì così bene nell'arte della caccia da farne un cacciatore provetto. Nel prendere commiato il maestro gli diede uno schioppo e disse: -Questo non sbaglia mai: ciò che prendi di mira lo colpisci senz'altro-. Anche il fratello minore incontrò un uomo che gli rivolse la parola e gli chiese che cosa intendesse fare. -Non ti andrebbe di fare il sarto?- -Ah, no- disse il giovane -non mi piace l'idea di star gobbo da mane a sera, di andar su e giù con l'ago e il ferro da stiro.- -macché‚- rispose l'uomo -da me imparerai un'arte ben diversa.- Così il giovane si lasciò persuadere, seguì l'uomo e ne imparò l'arte dal principio. Nel prender congedo, il maestro gli diede un ago e disse: -Con questo puoi ricucire tutto quel che ti capita, sia tenero come un uovo o duro come l'acciaio; e ridiventerà d'un sol pezzo, che non si potrà più vedere la cucitura-. Quando fu trascorso il tempo stabilito, i quattro fratelli si trovarono insieme al crocicchio; si abbracciarono e si baciarono e tornarono a casa dal padre. Essi gli raccontarono com'era andata, e che ognuno aveva imparato il proprio mestiere. Se ne stavano appunto davanti alla casa, sotto un grande albero, e il padre disse: -Voglio mettervi alla prova e vedere quel che sapete fare-. Poi alzò gli occhi e disse al secondo figlio: -Lassù in cima a quest'albero c'è un nido di fringuelli: dimmi un po' quante uova ci sono-. L'astronomo prese il suo cannocchiale, guardò in alto e disse: -Ce ne sono cinque-. -Ora- disse il padre al maggiore -portale giù, senza disturbare l'uccello che sta covando.- Il ladro ingegnoso salì, tolse le uova sotto il ventre dell'uccellino, che non se ne accorse affatto e restò tranquillamente a covare. Egli le portò al padre che le prese, le mise sulla tavola, una per angolo e la quinta nel mezzo, e disse al cacciatore: -Colpisci le uova con un solo colpo e spezzale a metà-. Il cacciatore prese la mira con lo schioppo e colpì le uova proprio come voleva il padre, tutt'e cinque con un solo colpo. -Adesso tocca a te- disse il padre al quarto figlio. -Devi ricucire le uova e anche gli uccellini che ci sono dentro, in modo che il colpo di schioppo non nuoccia loro.- Il sarto prese il suo ago e le cucì, come gli era stato ordinato. Quand'ebbe finito, il ladro dovette riportarle nel nido sull'albero e rimetterle sotto l'uccello, senza che se ne accorgesse. L'uccellino finì di covarle, e dopo qualche giorno uscirono fuori i piccoli, e avevano una piccola riga rossa attorno al collo, là dove il sarto li aveva ricuciti. -Sì- disse il vecchio ai suoi figli -avete impiegato bene il vostro tempo e imparato a dovere. Non posso dire chi di voi sia da preferirsi: lo si vedrà quando avrete l'occasione di usare la vostra arte.- Non molto tempo dopo il paese fu in subbuglio, perché‚ la principessa era stata rapita da un drago. Il re si tormentava giorno e notte e rese noto che, chiunque l'avesse riportata, l'avrebbe avuta in sposa. I quattro fratelli dissero: -Sarebbe un'occasione per farci conoscere- e decisero di andare a liberare la principessa. -Dove sia, lo saprò subito- disse l'astronomo; guardò nel suo cannocchiale e disse: -La vedo: è su uno scoglio nel mare, lontano da qui, e accanto a lei c'è il drago a farle la guardia-. Allora andò dal re, chiese una nave per s‚ e i suoi fratelli e si mise in mare con loro finché‚ giunsero allo scoglio. Là c'era la principessa e il drago le giaceva in grembo e dormiva. Il cacciatore disse: -Non posso sparargli, ucciderei anche la bella fanciulla-. -Allora proverò io- disse il ladro, e tolse la principessa di sotto al drago, ma così piano e con tanta abilità, che il mostro non si accorse di nulla e continuò a russare. Tutti contenti, la portarono di corsa sulla nave e presero il largo. Ma ecco arrivare il drago che al risveglio non aveva più trovato la principessa, e li inseguiva sbuffando furibondo per l'aria. Si librava proprio sopra di loro, e stava per calare sulla nave, quando il cacciatore puntò lo schioppo e lo colpì al cuore, uccidendolo. Il mostro piombò giù, ma era così grosso che nel cadere sfasciò tutta la nave, ed essi si tenevano a galla, in mare aperto, aggrappati a qualche tavola. Ma il sarto, senza perder tempo, prese il suo ago miracoloso, cucì insieme le tavole a punti lunghi, ci si accomodò sopra e raccolse tutti i pezzi della nave. Poi ricucì anche questi, con tanta destrezza che ben presto la nave fu nuovamente pronta a far vela, ed essi poterono tornare felicemente a casa. La gioia fu grande quando i quattro fratelli ricondussero la figlia al re, e questi disse loro: -Uno di voi quattro l'avrà in isposa, ma decidete voi chi debba essere-. Allora essi si misero a litigare, e l'astronomo diceva: -Se io non avessi visto la principessa, tutte le vostre arti sarebbero state inutili: è dunque mia-. Il ladro diceva: -A che serviva vederla, se non l'avessi tolta di sotto al drago? E' dunque mia-.
    Il cacciatore diceva: -Ma sareste stati tutti sbranati dal mostro insieme alla principessa, se io non lo avessi ucciso: è dunque mia-. Il sarto diceva: -E se io, con la mia arte, non vi avessi ricucito la nave, sareste annegati tutti miseramente: è dunque mia-. Allora il re sentenziò: -Avete tutti ugual diritto, e poiché‚ non potete avere tutti la fanciulla, non l'avrà nessuno; in premio darò invece a ciascuno la metà di un regno-. I fratelli dissero: -E' meglio così, piuttosto che essere in contrasto-. Il re diede loro un mezzo regno per ciascuno, ed essi vissero felici con il padre.

    (F.lli Grimm)
     
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    Il giramondo

    C’era una volta una povera donna con un figlio che aveva tanta voglia di andare in giro per il mondo. Un giorno la madre gli disse: “Come farai? Noi non abbiamo denaro che tu possa portare con te!” Il figlio disse: “Mi arrangerò; dirò sempre: non molto, non molto, non molto.”

    Girò il mondo per un po’ di tempo, dicendo sempre: “Non molto, non molto, non molto.” Incontrò un gruppo di pescatori e disse: “Dio vi assista! Non molto, non molto, non molto.” - “Perché‚ dici ‘non molto’, mascalzone?” E quando tirarono le reti, non avevano davvero preso molto pesce. Allora lo presero a bastonate e dissero: “Non hai mai visto come si fa a trebbiare?” - “Che cosa devo dire, allora?” chiese il giovane. “Devi dire: ‘Piglia tanto! Piglia tanto!’”

    Egli continua a girare per un po’ di tempo e dice: “Piglia tanto! Piglia tanto!” finché‚ arriva a una forca, dove stanno per impiccare un malfattore. Allora dice: “Buon giorno, piglia tanto! piglia tanto!” - “Perché‚ dici ‘piglia tanto’, mascalzone? Ce ne vogliono ancora di canaglie a questo mondo? Non basta questo?” E lo picchiarono di nuovo. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Dio conforti la pover’anima!’”

    Il ragazzo continua a girare il mondo per un po’ e dice: “Dio conforti la pover’anima!” Arriva a un fosso dove c’è uno scorticatore che ammazza un cavallo. Il giovane dice: “Buon giorno, Dio conforti la pover’anima!” - “Cosa dici, farabutto?” e gli dà in testa la mazza, da lasciarlo intontito. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Che tu possa finire in un fosso, carogna!’”

    Egli se ne va e continua a dire: “Che tu possa finire in un fosso, carogna! Che tu possa finire in un fosso, carogna!” Vede arrivare una carrozza piena di gente e dice: “Buon giorno, che tu possa finire in un fosso, carogna!” Allora la carrozza cade in un fosso, e il cocchiere si mette a frustare il ragazzo che deve tornare da sua madre. E in tutta la sua vita non andò più a girare il mondo.

    (F.lli Grimm)
     
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    La vecchia mendicante

    C'era una volta una vecchia; hai già visto una vecchia che va a mendicare? Anche questa mendicava, e quando le davano qualcosa, diceva: -Dio vi ricompensi!-. La mendicante giunse a una porta e là, davanti al fuoco, c'era un simpatico monello che si scaldava. Il ragazzo disse gentilmente alla povera vecchia, che se ne stava sulla soglia tutta tremante: -Venite, nonnina, e scaldatevi-. Ella si avvicinò, ma si accostò troppo al fuoco, sicché‚ i suoi vecchi stracci presero ad ardere, senza ch'ella se ne accorgesse. Il ragazzo era là che guardava: non avrebbe forse dovuto spegnere? Vero che avrebbe dovuto spegnere? E se non avesse avuto acqua, avrebbe dovuto versare dagli occhi tutta l'acqua che aveva in corpo, così avrebbe avuto due bei ruscelletti per spegnere!

    (F.lli Grimm)
     
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    Il passero e i suoi quattro figli

    Un passero aveva quattro piccoli in un nido di rondine. Quando misero le penne, dei ragazzi cattivi sfasciarono il nido, ma tutti e quattro riuscirono fortunatamente a fuggire nel turbinio del vento. Ora il padre si duole che i suoi figli se ne vadano per il mondo prima che egli abbia potuto metterli in guardia contro tutti i pericoli, o dato loro buoni consigli. D'autunno molti passeri si radunano in un campo di grano, e il padre trova i suoi quattro figli e, pieno di gioia, li porta a casa con s‚. -Ah, miei cari figlioli, quante preoccupazioni mi avete dato quest'estate, quando ve ne siete andati nel vento senza i miei consigli! Ascoltate le mie parole, ubbidite a vostro padre e fate bene attenzione: gli uccellini piccoli corrono gravi rischi!- Poi domandò al maggiore dove fosse stato durante l'estate e come si fosse nutrito. -Mi sono fermato nei giardini a cercare bruchi e vermiciattoli, fin che sono maturate le ciliegie-. -Ah, figlio mio!- disse il padre -l'abbondanza va bene, ma è anche pericolosa; perciò d'ora in poi fa' bene attenzione soprattutto se nei giardini gira della gente con delle lunghe pertiche verdi, che sono vuote all'interno, ma con un forellino in cima.- -Sì, babbo; ma se sul forellino vi fosse attaccata con la cera una foglietta verde?- disse il figlio. -Dove l'hai visto?- -Nel giardino di un mercante- rispose l'uccellino. -Oh, figlio mio!- disse il padre -i mercanti: tutti lestofanti! Sei stato con uomini di mondo e hai imparato a essere avveduto: bada di fare buon uso, e non fidarti troppo di te stesso.- Poi domandò al secondo: -E tu dove sei stato?-. -A corte- rispose il figlio. -I passeri e gli uccellini sciocchi non stanno bene a corte, dove c'è tanto oro, velluto, sete, armi e corazze, sparvieri, civette e falchi; resta nella stalla dove si vaglia l'avena o dove si trebbia, e ti toccheranno in santa pace i tuoi granelli quotidiani.- -Sì, babbo- disse il figlio -ma se gli stallieri fanno delle trappole, nascondendo nella paglia reti e lacci, molti ci restano presi.- -Dove l'hai visto?- chiese il vecchio. -A corte, dal palafreniere.- -Oh, figlio mio, i cortigiani: falsi e ruffiani! Sei stato a corte, con i signori, e non ci hai lasciato neanche una penna, hai imparato a sufficienza e saprai cavartela al mondo. Tuttavia, guardati attorno e sta' attento: spesso i lupi mangiano anche i cagnolini giudiziosi.- Il padre chiamò anche il terzo a s‚: -Dove hai tentato la tua fortuna?-. -Ho messo l'argano sulle strade maestre e sulle carrozzabili, e a volte ho trovato un granello o un bruco.- -E' davvero un cibo fine- disse il padre -ma sta' bene attento e guardati spesso attorno, soprattutto se qualcuno si china a prendere un sasso, non ti conviene stare ad aspettarlo.- -E' vero- rispose il figlio -ma se uno avesse già una pietra in tasca o in seno?- -Dove l'hai visto?- -Dai minatori, caro babbo, quando escono con il carro, di solito portano delle pietre con s‚.- -Artigiani e minatori hanno menti superiori! Se sei stato con i minatori, hai visto e imparato qualcosa. Va' pure, ma bene in guardia devi stare: i minatori, passeri e coboldi sanno ammazzare!-Infine il padre arrivò al fratello minore: -Tu, mio caro diavoletto, sei sempre stato il più sciocco e il più debole; resta con me, il mondo ha troppi uccellacci cattivi, che hanno becchi adunchi e artigli affilati, e non fanno che insidiare i poveri uccellini per divorarli; rimani con i tuoi pari, e prendi i ragnetti e i bruchi degli alberi e delle casette, e sarai felice a lungo-. -Oh, caro babbo, chi vive senza procurare danno agli altri va lontano, e non c'è sparviero, avvoltoio, aquila o nibbio che possa nuocergli, soprattutto se ogni sera e ogni mattina raccomanda con devozione se stesso e il proprio onesto nutrimento al buon Dio, che è il creatore e sostenta tutti gli uccellini del bosco e del villaggio, e che ascolta anche le grida e le preghiere dei piccoli corvi; poiché‚, senza il suo volere, non cade n‚ un passero n‚ uno scricciolo.- -Dove l'hai imparato?- Il figlio rispose: -Quando quel gran vento mi strappò da te, giunsi in una chiesa; là, per tutta l'estate, levai mosche e ragni dalle finestre e sentii predicare quel detto; e il padre di tutti i passeri mi ha nutrito per tutta l'estate e protetto da ogni sventura e dagli uccelli malvagi-. -In fede mia! Mio caro figliolo, se voli nelle chiese e aiuti a fare piazza pulita dei ragni e delle mosche che ronzano, e pigoli a Dio come i piccoli corvi, e ti raccomandi all'eterno Creatore, ti troverai bene anche se il mondo fosse pieno di perfidi uccelli crudeli. Chi al buon Dio si vuol raccomandare sa tacere, soffrire, attendere, pregare, aver fede e la coscienza pulita conservare, e il Buon Dio lo vorrà aiutare!

    (F.lli Grimm)
     
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  5. gheagabry
     
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    Il ladro e il suo maestro

    C'era una volta un uomo che voleva far imparare un mestiere al figlio; va in chiesa a domandare a Nostro Signore che cosa fosse meglio. Dietro l'altare c'era il sagrestano che dice: -Il mestiere del ladro! Il mestiere del ladro!-. Allora egli va a casa e dice al figlio che deve imparare a fare il ladro: glielo ha suggerito Nostro Signore. E parte con lui per cercare qualcuno che conosca il mestiere. Cammina un'intera giornata e arriva in un gran bosco, dove c'è una casina e dentro una vecchietta. Dice il padre: -Non conoscete per caso qualcuno che sappia l'arte del ladro?-. -Potete imparare benissimo qui, mio figlio ne è maestro.- Allora egli parla con il figlio e gli chiede se davvero sa fare il ladro. Il maestro dice: -Istruirò vostro figlio. Tornate fra un anno, e se lo riconoscerete non voglio nessun compenso, ma se non lo riconoscerete, dovrete darmi duecento scudi-. Il padre torna a casa e il figlio impara bene l'arte degli stregoni e dei ladri. Trascorso l'anno, il padre si incammina e piange, perché‚ non sa come fare a riconoscere il figlio. Mentre va e piange, gli viene incontro un omino che dice: -Perché‚ piangete, siete così afflitto?-. -Oh- risponde -un anno fa ho lasciato mio figlio da un ladro perché‚ ne imparasse il mestiere; questi mi ha detto di tornare dopo un anno, e se non avessi riconosciuto mio figlio, avrei dovuto dargli duecento scudi, mentre se lo avessi riconosciuto non avrei dovuto dargli niente. Adesso ho tanta paura di non riconoscerlo e non so dove trovare il denaro.- Allora l'omino gli dice di prendere un pezzetto di pane e di andare a mettersi sotto il camino: -Là, sopra la spranga, c'è una gabbietta con dentro un uccellino che guarda fuori: è vostro figlio-. Il padre va e getta un pezzo di pane davanti alla gabbia, allora viene fuori l'uccellino e lo guarda. -Olà! sei qui, figlio mio?- dice il padre. Il figlio è tutto contento di rivedere il padre, ma il maestro dice: -Ve l'ha detto il diavolo, come riconoscere vostro figlio!-. -Andiamo, babbo!- dice il ragazzo. Il padre ritorna a casa con suo figlio; per strada passa una carrozza e il figlio dice: -Mi tramuterò in levriero grigio e vi farò guadagnare molto denaro-. Il signore grida dalla carrozza: -Buon uomo, volete forse vendere il cane?-. -Sì- dice il padre. -Quanto volete?- -Trenta scudi.- -Ehi, buon uomo, è una bella somma, ma è un cane così bello che lo prenderò ugualmente.- Il signore fa salire il cane in carrozza ma, dopo aver fatto un tratto di strada, il cane salta fuori dal finestrino: non era più un levriero ed era tornato da suo padre. Se ne vanno insieme a casa. Il giorno dopo c'è mercato nel villaggio vicino e il giovane dice a suo padre: -Mi muterò in cavallo; vendetemi, ma quando mi vendete toglietemi la cavezza, altrimenti non posso più riprendere l'aspetto umano-. Il padre porta il cavallo al mercato, ed ecco arrivare il maestro del figlio che compra il cavallo per cento scudi; ma il padre si scorda di togliergli la cavezza. L'uomo va a casa con il cavallo e lo mette nella stalla. Arriva la serva e il cavallo dice: -Toglimi la cavezza, toglimi la cavezza!-. La serva si ferma e borbotta: -Sai forse parlare?-. Va e gli toglie la cavezza; allora il cavallo diventa un passero e vola fuori dalla porta, e il maestro diventa anche lui un passero e gli vola dietro. S'incontrano e si sfidano, ma il maestro perde, si butta in acqua e diventa un pesce. Anche il giovane si tramuta in pesce, si sfidano di nuovo e il maestro perde. Si trasforma in pollo mentre il giovane diventa una volpe e con un morso stacca la testa al maestro. Così quello è morto e morto rimane.

    (F.lli Grimm)
     
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  6. gheagabry
     
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    La prima pagina di “Biancaneve” in un libro illustrate con le storie dei fratelli Grimm

    (Hulton Archive/Getty Images)

     
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  7. gheagabry
     
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    LA SFERA DI CRISTALLO

    C’era una volta una maga che aveva tre figli.
    I ragazzi si amavano molto l’un l’altro, ma la donna non aveva fiducia in loro e pensava che volessero rubare il suo potere,così trasformò il figlio maggiore in aquila. Costretto a vivere su alti picchi rocciosi fu visto spesso volare formando grandi cerchi nel cielo.
    Il secondo lo trasformò in balena, e doveva vivere nel mare profondo e talvolta gettava in aria grandi sbuffi d’acqua.
    Il terzo figlio, che aveva avuto paura di essere trasformato in una bestia selvaggia e furibonda, un orso forse, o un lupo, riuscì a fuggire.

    Questi aveva sentito che la bellissima figlia di un re era stata colpita da un incantesimo: era stata imprigionata da un Mago nel Castello del Sole d’Oro e tutti quelli che avevano tentato l’impresa di liberarla, avevano rischiato la vita.
    Ventitré giovani erano già andati incontro ad una misera morte ed ora solo un altro poteva fare un tentativo, dopodiché non ci sarebbe stato più nulla da fare. Siccome il suo cuore era senza paura, egli decise di tentare e si mise alla ricerca del Castello del Sole d’Oro.

    Aveva ormai viaggiato in lungo e in largo inutilmente, quando per caso si inoltrò in una grande foresta, senza più riuscire a trovare il modo per uscirne.

    Ad un tratto scorse due giganti che con la mano gli fecero cenno di avvicinarsi e quando fu vicino dissero: “Stiamo discutendo per questo cappuccio e per decidere chi di noi due lo debba tenere, ma siccome siamo tutti e due egualmente forti, non sappiamo scegliere chi sia il migliore. I piccoli uomini sono più intelligenti di noi, cosicché affidiamo a te la decisione.”
    “Come potete discutere per un vecchio cappuccio!” esclamò il giovane.
    “Tu non conosci le sue proprietà: è un cappuccio magico, chi se lo mette in testa può desiderare di essere in qualsiasi posto e in un istante ci sarà.”
    “Datemi il cappuccio, disse il giovane, io mi sposterò per un breve tratto e quando vi chiamerò, dovrete fare una gran corsa e il cappuccio sarà di chi mi raggiungerà per primo”.
    Si mise il cappuccio e si incamminò e mentre camminava pensava alla figlia del re…e si dimenticò dei giganti.

    “Ah se potessi essere al Castello del Sole d’Oro!” sospirava dal più profondo del cuore.
    Le parole non erano ancora uscite dalle sua labbra, che si trovò su un’alta montagna, davanti al portone di un castello. Entrò, attraversò tutte le stanze e nell’ultima trovò la figlia del re. Quando la vide rimase a bocca aperta!

    Aveva la pelle pallida e grinzosa, gli occhi annebbiati e i capelli rossastri.
    “Voi siete la figlia del re, la cui bellezza è narrata in tutto il mondo?” esclamò il giovane.
    “Ahimè”, ella rispose, “non è questo il mio vero aspetto. Gli occhi umani possono vedermi solo in questo stato, ma se volete sapere com’è il mio aspetto, guardate nello specchio, egli non si lascia ingannare, vi mostrerà la mia immagine com’è in realtà.”

    Gli diede quindi uno specchio e il giovane vide riflessa la fanciulla più bella di tutta la terra e vide anche scorrere sulle sue guance lacrime di dolore.
    “Ditemi come posso liberarvi, le chiese allora, non temo alcun pericolo”
    La principessa gli spiegò che chi avesse trovato una certa la sfera di cristallo prima del Mago che la teneva prigioniera, avrebbe annientato tutto il suo potere ed ella avrebbe riacquistato il proprio aspetto.
    “Ah”, sospirò ancora, “molti hanno già perduto la loro vita in questo modo e voi siete così giovane! Mi affligge pensare che vogliate andare incontro ad così grande pericolo”.
    “Niente può impedirmi di farlo”, esclamò lui, “ditemi cosa devo fare”.

    “Vi dirò tutto. Quando scenderete ai piedi della montagna su cui sorge il castello, un toro selvaggio vi balzerà addosso e dovrete combattere con lui. Se avrete fortuna e lo ucciderete, dal suo corpo uscirà un uccello di fuoco che porta un uovo rovente e nell’uovo, al posto del tuorlo, c’è la sfera di cristallo.
    L'uccello però, non lascerà l’uovo se non vi sarà costretto e se quando questo accadrà l’uovo finirà in terra, arderà e brucerà tutto intorno e fonderà assieme alla sfera di cristallo, e tutta la vostra fatica sarà stata inutile”.

    Il giovane ridiscese la montagna e il toro gli balzò addosso sbuffando e mugghiando.
    Dopo una lunga lotta, conficcò la sua spada nel corpo dell’animale che cadde colpito a morte. Immediatamente un uccello di fuoco si levò e stava per volare via.
    Ma il fratello del giovane, l’aquila, che passava fra le nuvole, piombò giù, lo cacciò lontano, sopra il mare, colpendolo ripetutamente col becco finché lasciò cadere l’uovo.
    L'uovo, tuttavia, non cadde in mare, ma sulla capanna di un pescatore, sulla costa, e la capanna cominciò immediatamente a bruciare.
    Subito si alzarono dal mare delle onde alte come una casa, che raggiunsero la capanna e spensero il fuoco; l’altro fratello, la balena, aveva nuotato fino alla costa e aveva sbuffato dallo sfiatatoio l’acqua del mare.

    Appena il fuoco fu spento, il ragazzo cercò l’uovo e lo trovò: non era stato fuso, solo il guscio si era rotto ed era stato raffreddato dall’acqua, cosicché egli poté impadronirsi senza rischi della sfera di cristallo.
    “Il mio potere è distrutto”, disse il mago quando lo vide stringere la sfera fra le mani, “da questo momento sarai tu il re del Castello del Sole d’Oro e avrai il potere di restituire ai tuoi fratelli la loro forma umana”.

    Il giovane si affrettò a ritornare dalla figlia del re. Quando entrò nella stanza, ella lo aspettava lì in piedi, nello splendore di tutta la sua bellezza; gioiosamente si scambiarono gli anelli e vissero per sempre felici e contenti.

    (F.lli Grimm)


    Favole Classiche

    LA CHIAVE D'ORO.

    Una volta, d'inverno, che c'era la neve alta, un povero ragazzo dovette uscire e andare a prendere la legna con una slitta. Quando l'ebbe raccolta e caricata, era così gelato che pensò di non tornar subito a casa, ma di accendere un fuoco e di scaldarsi un pò. Spalò la neve, e, mentre sgombrava il terreno, trovò una piccola chiave d'oro. Pensò che dove c'era la chiave doveva esserci anche la serratura; scavò in terra e trovò una cassettina di ferro.

    "Purché la chiave vada bene! - pensò - nella cassettina ci son cose preziose." Cercò, ma non c'era nessun foro; alla fine ne scoprì uno, ma così piccolo che lo vedeva appena. Provò: la chiave andava benissimo.

    La girò; e adesso dobbiamo aspettare che abbia aperto del tutto e sollevato il coperchio: allora sapremo che meraviglie c'erano nella cassetta.

    (F.lli Grimm)



    Favole Classiche

    San Giuseppe nel bosco.

    C'era una volta una madre che aveva tre figlie: la maggiore era scortese e cattiva, la seconda era già molto meglio, benché‚ avesse anche lei i suoi difetti, mentre la più giovane era una bimba buona e pia. Eppure la madre era così stravagante che prediligeva proprio la figlia maggiore e non poteva soffrire la minore. Per questo mandava sovente la povera bambina in un gran bosco, per levarsela di torno; pensava infatti che si sarebbe persa e che non sarebbe più tornata. Ma l'angelo custode, che ogni bimbo buono ha con s‚, non l'abbandonava e la riportava sempre sulla strada giusta. Tuttavia una volta la bimba non riuscì a trovare la strada per uscire dal bosco e l'angioletto finse di non esserci. Così ella continuò a camminare fino a sera; allora vide in lontananza ardere un lumicino, corse verso quella luce e arrivò davanti a una piccola capanna. Bussò, la porta si aprì ed ella giunse a una seconda porta, alla quale bussò di nuovo. Le aprì un vecchio che aveva la barba bianca e un aspetto venerando, e non era altri che san Giuseppe. Egli le disse benevolmente: -Vieni, bimba cara, siediti sulla mia seggiolina accanto al fuoco e scaldati; se hai sete andrò a prenderti un po' d'acqua limpida; da mangiare invece, qui nel bosco, non ho altro per te che qualche radichetta; e prima devi raschiarle e farle cuocere-. San Giuseppe le porse le radici; ella le raschiò ben bene, poi prese un pezzetto di frittata e il pane che le aveva dato la madre, mise tutto insieme in un pentolino sul fuoco e si fece una pappa. Quando la pappa fu pronta, san Giuseppe disse: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena-. La bimba lo servì subito e gli diede di più di quello che tenne per s‚, ma con la benedizione di Dio si sfamò. Quand'ebbero finito di mangiare, san Giuseppe disse: -Adesso andiamo a dormire, però io ho un letto solo: vacci tu, io mi stenderò per terra sulla paglia-. -No- rispose la bimba -rimani pure nel tuo letto; per me la paglia è abbastanza morbida.- Ma san Giuseppe la prese in braccio e la portò nel lettino, e la bimba disse le sue preghiere e si addormentò. La mattina dopo, quando si svegliò, voleva dare il buon giorno a san Giuseppe, ma non lo vide. Si alzò, lo cercò, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte; alla fine scorse dietro la porta un sacco con del denaro, ma così pieno che poteva appena portarlo; sopra c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Allora ella prese il sacco, corse via e arrivò felicemente da sua madre; e siccome le regalò tutto il denaro, la madre non poté‚ che essere contenta di lei. Il giorno seguente anche la seconda figlia ebbe voglia di andare nel bosco. La madre le diede un pezzo di frittata molto più grosso e del pane. Le cose andarono come per l'altra sorella. La sera giunse alla capannuccia di san Giuseppe, che le diede le radici per la pappa. Quando la pappa fu cotta, egli disse anche a lei: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena-. La bimba rispose: -Mangia pure con me-. Poi, quando san Giuseppe le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia, ella rispose: -No, vieni anche tu nel letto: c'è posto per tutt'e due-. San Giuseppe la prese in braccio, la mise nel lettino e si coricò sulla paglia. La mattina, quando la bimba si svegliò e cercò san Giuseppe, egli era scomparso; ma dietro la porta ella trovò un sacchetto di denaro lungo un palmo, e c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Ella prese il sacchetto, corse a casa e lo portò a sua madre; però tenne per s‚ di nascosto un po' di denaro. Ora si era incuriosita la figlia maggiore, e il mattino dopo volle andare nel bosco anche lei. La madre le diede frittata a volontà, pane, e in più del formaggio. La sera, proprio come le altre due, ella trovò san Giuseppe nella sua capannuccia. Quando la pappa fu pronta e san Giuseppe disse: -Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena- la fanciulla rispose: -Aspetta ch'io sia sazia: ti darò quel che avanzo-. E mangiò quasi tutto, sicché‚ san Giuseppe dovette raschiare la ciotolina. Poi il buon vecchio le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia; ella accettò senz'altro, si coricò nel lettino e lo lasciò sulla paglia dura. Il mattino dopo, quando si svegliò, san Giuseppe non c'era, ma ella non se ne curò; cercò invece il sacco del denaro dietro la porta. Le sembrò che ci fosse qualcosa per terra, tuttavia, poiché‚ non riusciva a capir bene cosa fosse, si piegò e ci urtò contro con il naso. E al naso le rimase attaccato e, quando si rialzò, vide con terrore che era un altro naso, saldamente appiccicato al suo. Incominciò a gridare e a lamentarsi, ma non servì a nulla: vedeva sempre quel naso, che stava così in fuori. Allora corse via urlando, finché‚ incontrò san Giuseppe; gli cadde ai piedi, e lo supplicò tanto che egli, impietosito, le tolse quel naso e le regalò ancora due centesimi. Quando giunse a casa, la madre l'aspettava sulla porta e le domandò: -Cos'hai ricevuto in regalo?-. La fanciulla mentì e disse: -Un grosso sacco pieno di denaro, ma l'ho perso per strada-. -Perso!- esclamò la madre. -Oh, lo ritroveremo!- La prese per mano e voleva cercarlo con lei. Dapprima la fanciulla si mise a piangere e non voleva andare, alla fine però si mosse; ma per strada furono assalite da tante lucertole e serpi, che non sapevano come porsi in salvo. La fanciulla cattiva fu così uccisa dai loro morsi, e la madre fu morsa in un piede, perché‚ non l'aveva educata meglio.

    (F.lli Grimm)

    Favole Classiche

    I dodici apostoli.

    Trecento anni prima della nascita di Cristo, viveva una madre che aveva dodici figli, ma era così povera e misera che non sapeva come tenerli in vita. Pregava il Signore ogni giorno di concederle che tutti i suoi figli vivessero sulla terra insieme al promesso Redentore. Dato che la loro miseria si faceva sempre più grande, li mandò uno dopo l'altro in giro per il mondo per guadagnarsi il pane. Il maggiore si chiamava Pietro: se ne andò e aveva già camminato per un intero giorno, quando capitò in un gran bosco. Cercò una via per uscirne, ma non la trovò e si addentrò sempre più, era così affamato che a stento si reggeva in piedi. Alla fine era tanto indebolito che dovette distendersi e credette di essere vicino a morire. D'un tratto gli fu accanto un bambino splendente, bello e gentile come un angelo. Il bimbo batté‚ le manine, sicché‚ egli dovette alzare gli occhi e guardarlo. Il bimbo disse: -Perché‚ te ne stai qui tutto triste?-. -Ah- rispose Pietro -vado in giro per il mondo a procurarmi il pane per poter vivere e riuscire a vedere il promesso Redentore: è il mio desiderio più grande.- Il bimbo disse: -Vieni come me e il tuo desiderio sarà esaudito-. Prese Pietro per mano e lo condusse in una caverna. Come entrarono tutto sfolgorava d'oro, d'argento e cristallo, e in mezzo c'erano dodici culle, l'una accanto all'altra. Allora l'angioletto disse: -Coricati nella prima e dormi un poco, io ti cullerò-. Pietro ubbidì e l'angioletto gli cantò la ninna nanna e lo cullò finché‚ non fu addormentato. E, mentre dormiva, arrivò il secondo fratello, condotto anche lui dal suo angelo custode, e anche lui fu cullato finché‚ si addormentò. E così arrivarono anche gli altri, l'uno dopo l'altro, fino a quando tutti e dodici giacquero dormendo nelle culle d'oro. Dormirono per trecento anni, fino alla notte in cui nacque il Redentore. Allora si svegliarono, vissero con lui sulla terra e furono chiamati i dodici apostoli.

    (F.lli Grimm)
     
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    Il fedele Giovanni
    C'era una volta un vecchio re che era malato e pensava: «Questo sarà il mio letto di morte!».
    Allora disse: «Fate venire il mio fedele Giovanni».
    Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto e si chiamava così perché gli era stato fedele per tutta la vita. Quando fu al suo capezzale, il re gli disse:
    «Mio fedelissimo Giovanni, sento che la mia fine si avvicina e temo solo per mio figlio. È ancora in un'età in cui spesso non si sa che via scegliere, e se tu non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere, e di essere il suo tutore, non posso chiudere gli occhi in pace».
    Il fedele Giovanni rispose: «Non lo abbandonerò e lo servirò con fedeltà, dovesse costarmi la vita».
    Allora il vecchio re disse: «Muoio contento e in pace». E aggiunse: «Dopo la mia morte devi mostrargli tutto il castello: tutte le stanze, le sale, i sotterranei e i tesori che in esso vi sono. Solo una camera devi nascondergli: quella dove c'è nascosto il ritratto della principessa dal Tetto d'oro; se per caso la vedesse, proverebbe per lei un amore ardente, cadrebbe svenuto e correrebbe gravi pericoli; devi salvarlo».
    E dopo che il fedele Giovanni ebbe rinnovata la promessa, il vecchio re tacque, adagiò la testa sul cuscino e morì.
    Quando il re fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane quello che aveva promesso a suo padre sul letto di morte e disse:
    «Lo manterrò certamente e ti sarò fedele, dovesse costarmi la vita».
    Il giovane piangendo esclamò: «Io pure non dimenticherò mai la tua fedeltà».
    Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: «È tempo che tu veda i tuoi beni; voglio mostrarti il castello di tuo padre».
    Lo condusse in giro da ogni parte, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; soltanto la camera che racchiudeva il ritratto non aprì. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedesse subito; era dipinto con tanta arte da sembrare vivo e non vi era al mondo nulla di più soave e di più bello. Ma il giovane re si accorse subito che il fedele Giovanni passava sempre davanti a questa porta senza fermarsi e disse:
    «Perché questa non la apri?».
    «Vi è qualcosa dentro che ti spaventerebbe», rispose il servo.
    Ma il re replicò: «Ho visto tutto il castello; voglio sapere anche che cosa c'è qua dentro».
    Andò alla porta e cercò di aprirla con forza. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse:
    «Prima di morire, ho promesso a tuo padre che non avresti visto quello che vi è nella stanza: potrebbe causare ad entrambi grande sventura».
    «No», rispose il giovane re, «se non entro è la mia rovina: non avrò pace né di giorno né di notte, finché non l'avrò visto; non me ne andrò di qui finché non avrai aperto.»
    Il fedele Giovanni vide allora che non vi era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, cercò la chiave nel grosso mazzo. Poi aprì la porta della stanza ed entrò per primo pensando che il re non potesse vedere il ritratto; ma questi era troppo curioso, si mise sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l'immagine della fanciulla, così bella e splendente d'oro, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò a letto e pensò preoccupato: «La disgrazia è avvenuta; Signore, Iddio, che avverrà mai?». Poi lo rianimò con del vino, ma la prima cosa che il giovane disse quando si riebbe fu:
    «Ah, di chi è quel bel ritratto?».
    «È la principessa dal Tetto d'oro», rispose il fedele Giovanni.
    Allora il re disse: «Il mio amore per lei è così grande che se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo. Pur di ottenerla in sposa rischierei la vita; tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi».
    Il fedele servitore rifletté a lungo su come agire, poiché giungere al cospetto della principessa era cosa assai difficile. Alla fine escogitò un sistema e disse al re:
    «Tutto ciò che la circonda è d'oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile. Fra i tuoi beni vi sono cinque tonnellate d'oro: fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne facciano ogni sorta di vasellame e di utensile, ogni sorta di uccelli, fiere e mostri, con queste cose tenteremo la fortuna».
    Il re fece radunare tutti gli orefici e li fece lavorare giorno e notte, finché furono pronti gli oggetti più splendidi. Il fedele Giovanni fece allora caricare il tutto su di una nave, indossò abiti da mercante e così fece pure il re in modo da rendersi irriconoscibile. Poi salparono e navigarono a lungo finché giunsero alla città nella quale abitava la principessa dal Tetto d'oro.
    Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo.
    «Forse», disse, «porterò con me la principessa, per questo abbiate cura che tutto sia in ordine: esponete il vasellame d'oro e fate adornare tutta la nave.»
    Poi radunò nel grembiule ogni sorta di oggetti d'oro, sbarcò e andò dritto al castello reale.
    Quando giunse nel cortile del castello c'era alla fonte una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d'oro e attingeva l'acqua. Quand'ella si volse per portar via l'acqua dai bagliori dorati, vide lo straniero e gli domandò chi fosse. Allora egli rispose:
    «Sono un mercante» e aprì il grembiule, perché potesse guardarvi dentro.
    Allora ella esclamò: «Oh, che begli oggetti d'oro!»; depose i secchi e si mise ad esaminarli uno dopo l'altro.
    Poi disse: «Deve vederli la principessa, gli oggetti d'oro le piacciono tanto che ve li comprerà tutti».
    Lo prese per mano e lo condusse fino alle stanze superiori, poiché era la cameriera.
    Quando la principessa vide la merce, tutta contenta disse: «È così ben lavorata che voglio comprarti tutto».
    Ma il fedele Giovanni disse: «Io sono soltanto il servo di un mercante; ciò che ho qui è nulla in confronto a quello che il mio padrone ha sulla sua nave; là vi è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro».
    Lei voleva che le portassero tutto al castello, ma lui disse:
    «Per fare questo occorrono molti giorni, perché vi è moltissima merce; ci vogliono tante sale per esporla che la vostra casa non basterebbe».
    Così la curiosità e il desiderio crebbero in lei sempre di più, finché disse:
    «Conducimi alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone».
    Tutto contento, il fedele Giovanni la condusse sulla nave e il re, quando la vide, credette che il cuore gli scoppiasse e poté trattenersi a fatica. Lei salì sulla nave e il re la condusse all'interno, ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere e ordinò che la nave salpasse:
    «Spiegate le vele, che voli come un uccello nell'aria!».
    Intanto all'interno il re le faceva vedere tutti gli oggetti d'oro uno per uno: i piatti, i bicchieri, le ciotole, gli uccelli, le fiere e i mostri. Passarono diverse ore e lei rimirava ogni cosa con tale gioia da non accorgersi che la nave era partita. Quando ebbe esaminato l'ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle ritornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra.
    «Ah», gridò spaventata, «sono stata ingannata, rapita; sono nelle mani di un mercante: preferirei morire!»
    Ma il re la prese per mano e disse: «Non sono un mercante ma un re, non inferiore a te per nascita. Se ti ho rapita con l'astuzia è stato solo per il grande amore che ti porto. Quando vidi il tuo ritratto la prima volta, caddi a terra svenuto».
    All'udire queste parole, la principessa dal Tetto d'oro si consolò; e fu così spinta ad amarlo, che accettò volentieri di diventare sua moglie.


    Ma, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni, che sedeva a prua e suonava, scorse in aria tre corvi che si avvicinavano in volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché li capiva bene.
    Uno gracchiò: «Ah, si porta a casa la principessa dal Tetto d'oro!».
    «Sì», rispose il secondo, «ma non l'ha ancora!»
    E il terzo disse: «Ma sì, è con lui sulla nave!».
    Allora il primo riprese a dire: «A che giova questo? Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro: allora vorrà cavalcarlo e, se lo farà, il cavallo correrà via con lui e si alzerà in volo, cosicché lui non vedrà mai più la sua fanciulla».
    Il secondo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
    «Oh sì, se colui che è in sella estrae il fucile che è infilato nella cavezza del cavallo e lo uccide, il giovane re è salvo; ma chi può saperlo? E chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia.»
    Allora il secondo disse: «Io so di più, anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non serba la sua sposa! Quando entreranno nel castello troveranno su di un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d'oro e d'argento, ma non si tratterà che di pece e zolfo. Se lui la indosserà brucerà fino al midollo».
    Il terzo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
    «Oh sì», rispose il secondo, «se uno afferra la camicia con dei guanti e la getta nel fuoco, in modo che bruci, il giovane re è salvo. Ma a che giova? Chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dal ginocchio al cuore.»
    Allora il terzo disse: «Io so di più: anche se bruciasse la camicia nuziale, il giovane re non avrebbe ancora la sua sposa. Quando, dopo le nozze, incomincerà il ballo e la giovane regina danzerà, impallidirà all'improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e non le risputa, lei morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa fino alla punta dei capelli».
    Quando i corvi si furono scambiati queste parole, volarono via: il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento in poi fu triste e taciturno: infatti se avesse taciuto al suo signore ciò che aveva udito, questi sarebbe stato infelice, e se glielo avesse rivelato avrebbe dovuto sacrificare la sua stessa vita.
    Infine si disse: «Voglio salvare il mio signore, anche se questo dovesse causare la mia rovina».
    Quando giunsero a terra, accadde quello che il corvo aveva predetto e uno splendido sauro balzò loro incontro.
    «Oh», esclamò il re, «mi porterà al mio castello» e volle montare in sella; ma il fedele Giovanni lo precedette, balzò velocemente in sella, estrasse l'arma dalla cavezza e uccise il cavallo. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni esclamarono:
    «Che cosa ignobile, uccidere quel bell' animale che doveva portare il re al castello!».
    Ma il re disse: «Tacete e lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni, avrà un buon motivo».
    Poi andarono al castello e nella sala c'era il vassoio sul quale era posata la camicia nuziale, che sembrava tutta d'oro e d'argento. Il giovane re si fece avanti per prenderla, ma il fedele Giovanni lo spinse via, afferrò la camicia con i guanti, la gettò nel fuoco e la bruciò.
    Gli altri servi ricominciarono a mormorare e dissero: «Guardate, ora brucia persino la camicia nuziale del re!».
    Ma il giovane re disse: «Avrà un buon motivo, lasciatelo fare, è il mio fedelissimo Giovanni».
    Poi si celebrarono le nozze; il ballo incominciò e anche la sposa vi prese parte. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in viso. D'un tratto impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse da lei e la portò in una stanza; qui la distese, si inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le sputò.
    Subito lei riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e, non sapendo perché il fedele Giovanni lo avesse fatto, andò in collera e gridò: «Gettatelo in prigione!».
    Il mattino dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse:
    «Chi deve morire, può parlare ancora una volta prima della sua fine; ho anch'io questo diritto?».
    «Sì», rispose il re, «ti sia concesso.»
    Allora il fedele Giovanni disse: «Sono condannato ingiustamente e ti sono sempre stato fedele». E gli raccontò come avesse udito sul mare il discorso dei corvi e deciso di salvare il suo signore; per questo aveva dovuto fare tutto quello che aveva fatto.
    Allora il re esclamò: «Oh mio fedelissimo Giovanni! Grazia! Grazia! Portatelo giù».
    Ma il fedele Giovanni, appena aveva pronunciato l'ultima parola, era caduto senza vita ed era diventato di pietra.
    Il re e la regina se ne afflissero molto e il re diceva: «Ah, come ho mai ricompensato tanta fedeltà!».
    Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua stanza accanto al suo letto.
    Ogni volta che la guardava piangeva e diceva: «Ah, potessi ridarti la vita. mio fedelissimo Giovanni!».
    Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò la statua di pietra con grande tristezza, sospirò e disse:
    «Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!».
    Allora la statua incominciò a parlare e disse: «Sì, puoi ridarmi la vita se sarai disposto a dare ciò che ti è più caro».
    Allora il re esclamò: «Per te darò tutto quello che ho al mondo!».
    La statua di pietra proseguì: «Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi ricopri con il loro sangue, allora riavrò la vita».
    Il re inorridì quando udì che doveva uccidere egli stesso i suoi diletti figli, ma pensò alla grande fedeltà del fedele Giovanni, che era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando ebbe ricoperto la statua con il loro sangue, essa si animò e il fedele Giovanni gli stette di nuovo innanzi, fresco e sano. Ed egli disse al re:
    «Voglio ricompensare la tua lealtà» e prese le teste dei bambini, le rimise sul busto e spalmò le ferite col loro sangue. In un attimo i bambini tornarono sani e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto.
    Il re era felice e, quando vide venire la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bambini in un grande armadio.
    Quando lei entrò le disse: «Hai pregato in chiesa?».
    «Sì», rispose la regina, «ma ho sempre pensato al fedele Giovanni che è stato così sventurato per colpa nostra.»
    Allora egli disse: «Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo del sacrificio dei nostri figlioletti».
    La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: «Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà».
    E il re si rallegrò che pensasse come lui; andò ad aprire l'armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni.
    Il re disse: «Grazie a Dio egli è libero dall'incantesimo e abbiamo ancora i nostri figlioletti».
    E le raccontò tutto quello che era successo. Poi vissero felici insieme fino alla morte.

    (Jakob e Wilhelm Grimm)
     
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    La piccola guardiana di oche
    C'era una volta una regina che era vedova già da molti anni e aveva una bella figliola.
    Quando questa fu grande, la fidanzò con il figlio del re di un paese lontano.
    Quando arrivò il tempo delle nozze, e la fanciulla dovette partire per il lontano regno, la vecchia regina preparò le preziose suppellettili, i monili più rari, oro e argento, coppe e gioielli, e insomma, tutto quello che compone un tesoro regale: infatti, ella amava molto la sua figliola.
    Le assegnò anche una damigella, che l’accompagnasse dallo sposo, e tutte e due ebbero un cavallo: il cavallo della principessa si chiamava Falada e, cosa straordinaria, sapeva parlare.
    Quando arrivò l’ora del distacco, la vecchia madre condusse la figlia in camera sua, prese un temperino e si fece un taglio nel dito in modo che sanguinasse; vi mise sotto una salviettina e vi lasciò cadere tre gocce di sangue. Consegnò poi alla figlia il fazzoletto e le disse:
    - Cara bambina, conserva bene questo talismano, perché ti proteggerà durante il viaggio. -
    Così si separarono l’una dall’altra con grande dolore. La principessa mise la salviettina nel corpetto, si sedette sul cavallo e si avviò verso lo sposo.
    Viaggiavano già da un’ora, e il caldo aveva fatto venire sete alla principessa, la quale disse alla sua damigella:
    - Smonta da cavallo e vammi a prender l’acqua in quel ruscello con la coppa che porti per me, perché ho tanta sete. -
    - Se avete sete, - rispose la damigella, che era invidiosa e malvagia – smontate voi da cavallo e andate a bere! Io non voglio essere la vostra serva. -
    La principessa, che aveva molta sete, scese da cavallo, si chinò sull’acqua del ruscello non osando farsi dare la coppa d’oro, ed esclamò:
    - Dio mio! -
    Allora le tre gocce di sangue risposero: - Se lo sapesse tua madre, si spezzerebbe il cuore! –
    Ma la principessa era umile: non disse niente e smontò da cavallo.
    Cavalcarono così per diverse miglia, ma la giornata era calda, il sole scottava e presto ebbe sete di nuovo. Quando passarono vicino a un altro ruscello, la principessa disse ancora una volta alla sua damigella:
    - Scendi da cavallo e dammi da bere nella mia coppa d’oro – perché aveva già dimenticato la sua risposta villana. Ma la damigella rispose con arroganza ancora più grande:
    - Se volete bere, bevete da voi, non voglio essere la vostra serva. -
    La principessa, che non ne poteva più dalla sete, scese da cavallo, si chinò piangendo sopra l’acqua corrente, e disse:
    - Dio mio! - E le tre gocce di sangue risposero ancora: - Se lo sapesse tua madre, le si spezzerebbe il cuore! -
    Mentre beveva così, chinata sull’acqua, la salvietta con le tre gocce di sangue le uscì dal corpetto e filò via con la corrente senza ch’ella se ne avvedesse. La damigella, però, se ne accorse, e se ne rallegrò moltissimo in cuor suo, perché sapeva di aver acquistato un nuovo potere sulla padrona, diventata debole e senza influenza dopo la perdita del suo talismano.
    Mentre dunque ella stava per risalire sul suo cavallo, quello che si chiamava Falada, la damigella le disse:
    - Falada, ora tocca a me! Tu prendi questo cavallo! – e la principessa dovette fare proprio così. Poi la cameriera, con arroganza sempre più grande, la fece spogliare dei suoi abiti regali, le fece indossare i suoi e la costrinse a giurare di non raccontare nulla di tutto questo a palazzo reale altrimenti l’avrebbe uccisa.
    Ma Falada aveva visto tutto ed era stato attento.
    La cameriera salì su Falada e la vera sposa sul ronzino, e così proseguirono, finché alla fine arrivarono al castello reale.
    Grande gioia suscitò il loro arrivo e il figlio del Re, correndo loro incontro, aiutò la cameriera a scendere da cavallo credendo che fosse la sua sposa, conducendola per lo scalone con tutti gli onori, mentre la vera principessa rimaneva nel cortile.
    Il vecchio Re, che guardava dalla finestra, la vide giù mentre aspettava, e notò come fosse distinta, bella e delicata. Allora andò di filato negli appartamenti reali e domandò alla falsa principessa chi fosse quella ragazza che aveva portato con sé e che aveva lasciato nel cortile.
    - E’ una ragazza che mi sono portata per compagnia – ella rispose – datele del lavoro perché non stia in ozio.-
    Ma il vecchio Re non aveva nessun lavoro per lei e non sapeva cosa farle fare.
    Alla fine disse: - Ho un ragazzo che bada alle oche: potrebbe aiutare quello. –
    Questo ragazzo si chiamava Corradino e la vera principessa dovette andare con lui a badare alle oche.
    Poco tempo dopo, la damigella malvagia disse al principe:
    - Carissimo, ho da chiederti una grazia. -
    - Ti esaudirò con piacere – rispose quello.
    - Chiama il beccaio e fa tagliare la testa a quel cavallo che mi ha portata fin qui, perché durante il viaggio mi ha fatto inquietare. -
    In realtà temeva che il cavallo raccontasse come le cose erano andate. Fu dato ordine quindi di uccidere Falada; ma la notizia arrivò alle orecchie della vera principessa, che promise al beccaio una moneta d’oro in cambio di un servizio.
    C’era una porta della città, dalla quale mattina e sera ella passava con le sue oche, e chiese al beccaio di legare la testa di Falada sotto l’arco di quella porta, perché la potesse rivedere ogni volta. Il beccaio glielo promise e legò ben bene la testa del cavallo al di sopra del portale.
    La mattina presto, quando passava con Corradino sotto quel portale, la principessa diceva:

    - Povero amico sospeso a corregge,
    o mio Falada privo di vita! -

    E la testa rispondeva:

    - Principessina guardiana di gregge,
    povera bimba da serva tradita,
    alla regina il cuore non regge,
    fino dal giorno che sei partita. -

    Poi la principessa usciva dalla città, conducendo le oche al pascolo. Quando arrivava nel prato, si sedeva per terra e si scioglieva i capelli che erano d’oro puro. Corradino la guardava e si rallegrava a quella vista; ma poiché una volta gliene voleva strappare un paio, ella disse:

    - Vento monello, soffia vicino,
    togli il cappello a Corradino,
    fagli percorrer tanto cammino;
    poss’io le chiome ben pettinarmi
    e in grosse trecce anche appuntarmi. -

    E il vento venne, così forte che portò via il cappello di Corradino, il quale dovette correre a lungo e in largo prima di riacchiapparlo.
    Quando finalmente riuscì a riprenderlo ella si era di nuovo appuntata i capelli e lui non poté strappargliene nemmeno uno. Corradino indignato non le rivolse più la parola e, così imbronciati, badarono alle oche fino a sera; e poi se ne ritornarono a casa. La mattina seguente, mentre passavano sotto il portale, la ragazza disse:

    - Povero amico sospeso a corregge,
    o mio Falada privo di vita! -

    E Falada rispose:

    - Principessina guardiana di gregge,
    povera bimba da serva tradita,
    alla regina il cuore non regge,
    fino dal giorno che sei partita. -

    Arrivata nei campi, la principessa sedette di nuovo sul prato e cominciò a pettinarsi i capelli d’oro; Corradino si avvicinò e voleva prenderne una ciocca; ma lei disse presto presto:

    - Vento monello, soffia vicino,
    togli il cappello a Corradino,
    fagli percorrer tanto cammino;
    poss’io le chiome ben pettinarmi
    e in grosse trecce anche appuntarmi. -

    Il vento cominciò a soffiare, gli portò via il cappello di testa e lo fece rotolare lontano; così Corradino dovette correre un bel pezzo prima di riacchiapparlo e quando tornò, ella si era già riappuntate le trecce.
    Però, la sera, quando tornarono a casa, Corradino andò dal vecchio Re e gli disse:
    - Non voglio più andare a pascolare le oche con quella ragazza.
    - E perché? – domandò il vecchio Re.
    - Perché mi fa sempre arrabbiare.
    Il Re volle sapere per filo e per segno quello che succedeva e Corradino gli disse:
    - La mattina, quando passiamo con le oche sotto l’oscuro portale dove c’è legata la testa di un cavallo, ella gli dice:
    - Povero amico sospeso a corregge,
    o mio Falada privo di vita!
    E la testa risponde:
    - Principessina guardiana di gregge,
    povera bimba da serva tradita,
    alla regina il cuore non regge,
    fino dal giorno che sei partita.
    E così Corradino raccontò tutto quello che accadeva nei prati e come gli toccava correre dietro al cappello.
    Il vecchio Re gli ordinò di andare ancora il giorno seguente al pascolo e, appena fu giorno, si mise sotto l’oscuro portale e udì quello che la ragazza diceva alla testa di Falada. Poi andò nei campi, si nascose in un cespuglio e di lì, dopo un poco, poté vedere coi suoi occhi la ragazza e Corradino che arrivavano con le oche. Vide lei che si sedeva e si scioglieva le trecce che splendevano come l’oro, e la udì che diceva:

    - Vento monello, soffia vicino,
    togli il cappello a Corradino,
    fagli percorrer tanto cammino;
    poss’io le chiome ben pettinarmi
    e in grosse trecce anche appuntarmi. -

    E si levò il vento che portò via il berretto di Corradino, in modo che dovette corrergli dietro per riprenderlo mentre la ragazza si pettinava.
    Il vecchio Re osservò tutto questo e poi se ne tornò via senza farsi scorgere.
    La sera, quando la guardiana d’oche tornò a casa, la fece chiamare e le chiese perché faceva così.
    - Non lo posso dire, - rispose lei – non lo posso dire a nessuno perché ho giurato, pena la vita, di tenere segrete le mie sventure.
    Il Re fece molte domande alla fanciulla, cercando di sapere qualcosa intorno alla sua vita, ma inutilmente. Infine spazientito, le disse:
    - Giacché non mi vuoi dire nulla, racconta le tue pene ai muri di questa stanza! – E se ne andò.
    Allora la fanciulla si accoccolò in un cantuccio, cominciò a lamentarsi e a piangere, aprì il suo cuore e disse:
    - Sono abbandonata da tutti in questo mondo benché sia figlia di regina. La mia cameriera m’ha stregata e m’ha costretta a spogliarmi dei miei abiti regali, ha preso il mio posto presso il mio promesso sposo e io devo fare la serva alle oche. Se la mia mamma lo sapesse, le si spezzerebbe il cuore! -
    Il vecchio Re stava dall’altra parte della parete ad ascoltare e sentì tutto; rientrò nella sala, ne trasse fuori la principessa e la fece vestire con gli abiti regali: era bella in modo portentoso.
    Il vecchio Re fece poi chiamare il figlio e gli svelò che la fanciulla da lui creduta sua promessa sposa non era una principessa, ma solo una serva, mentre la vera sposa era ora davanti a lui ed era stata sino allora costretta a badare alle oche.
    E il giovane principe fu felice, perché la vedeva tanto bella e virtuosa.
    Fu ordinato un grande pranzo, al quale dovettero prendere parte tutti gli amici e il popolo. A capo tavola sedeva lo sposo: da una parte aveva la principessa e dall’altra la cameriera; ma quest’ultima non aveva riconosciuto l’antica padrona che aveva tradita.
    Quando ebbero mangiato e bevuto e tutti cominciavano a essere allegri, il vecchio Re propose un quesito alla falsa principessa; le disse:
    - Che punizione si merita una persona che ha tradito il suo signore? – e raccontò il fatto che era accaduto. La damigella rispose:
    - Non si merita niente di meglio ch’essere rinchiusa in un barile irto di chiodi e trascinata da due cavalli bianchi di strada in strada finché non muoia.
    - Tu meriti questo – disse il Re – e ti sei data da sola la condanna che sarà eseguita.
    E così fu.
    Dopodiché il principe sposò la sua vera fidanzata e vissero a lungo felici e contenti.

    (Jacob e Wilhelm Grimm)
     
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    I tre capelli d'oro dell'orco
    C’era una volta una povera donna, tanto povera che non aveva neppure di che sfamarsi e di che vestirsi.
    Quando le nacque il primo bambino, questi fu tanto fortunato da venire al mondo addirittura con la camicia; e gli fu predetto che a quattordici anni avrebbe sposato la figlia del re.
    Il re, dopo un po’ di tempo, capitò in quel villaggio in incognito; domandò che c’era di nuovo e gli risposero:
    “Pochi giorni fa è nato un bambino con la camicia e gli è stato predetto che, nel suo quattordicesimo anno, sposerà la figlia del re.”
    Il re era cattivo di cuore e fu seccato nel sentire questa profezia. Andò dai genitori del bimbo e disse loro con modi insinuanti:
    “Datemi il bambino e avrò cura di lui.”
    Da principio essi rifiutarono, ma lo straniero offrì loro tanto denaro ch’essi infine acconsentirono, pensando che la buona stella avrebbe assistito il bambino in ogni caso.
    Il re mise il piccolino dentro una scatola, in groppa al suo cavallo, e se ne andò. Arrivato a un fiume profondo vi buttò la scatola, dicendo a se stesso: “Ho liberato mia figlia da questo sposo indesiderabile”.
    La scatola, però, malgrado la malvagità del re, non andò a fondo, ma galleggiò come un battello, lasciandosi trasportare dolcemente dalla corrente.
    Galleggiò lungo il fiume fino a un mulino che si trovava a due miglia di distanza dal palazzo del re e lì rimase impigliata nella ruota.
    Il garzone del mugnaio, che per fortuna si trovava sul posto, vide la scatola e la tirò a terra con un arpione, sperando di trovarvi un tesoro. Quando, però, ebbe sollevato il coperchio, vide un bel bambino sano e vispo: lo portò ai mugnai e questi, non avendo figli, lo adottarono, dicendo che l’aveva mandato loro Iddio. Ne ebbero molta cura ed egli divenne con gli anni un bel ragazzo robusto.
    Un giorno in cui c’era un furioso temporale, il re cercò rifugio nel mulino e domandò a quella gente se il ragazzo fosse il loro figliolo.
    “No,” essi risposero “è un trovatello che, quattordici anni fa, rimase impigliato nella nostra ruota: era in una scatola e il nostro garzone lo trasse fuori dall’acqua.”
    Il re capì che si trattava del bambino ch’egli aveva gettato nell’acqua e disse loro:
    “Buona gente, potreste lasciar portare da questo ragazzo una lettera a mia moglie la regina? Se acconsentite gli darò per premio due monete d’oro.”
    “Agli ordini di vostra maestà” risposero, e dissero al ragazzo di vestirsi.
    Allora il re scrisse una lettera alla regina, nella quale le diceva che, appena fosse arrivato il ragazzo con quella lettera, doveva farlo uccidere e seppellire prima del suo ritorno.
    Il ragazzo partì con il messaggio, ma si perse per la strada e la sera si trovò in una grande foresta.
    Vide un lumicino che splendeva nel buio, camminò in quella direzione e giunse finalmente a una casetta, dove trovò una vecchia seduta vicino al focolare. Appena questa scorse il ragazzo rimase atterrita ed esclamò:
    “Perché sei venuto qui? Che vuoi?”
    “Sono venuto dal mulino” rispose “e vado da sua maestà la regina a portare una lettera; ma poiché mi sono perduto nella foresta, vorrei passare la notte qui”.
    “Povero ragazzo!” disse la vecchia “Sei venuto in covo di ladri che appena ti vedranno ti uccideranno!”
    “Lasciateli venire,” rispose “non ho paura e sono così stanco che non posso fare un passo in più”
    E sdraiatosi sopra una panca, si addormentò.
    Vennero i ladri e chiesero tutti arrabbiati chi fosse quello sconosciuto; la vecchia rispose:
    “E’ un ragazzo innocente che si è perduto nella foresta e che mi ha fatto compassione tanto appariva affaticato: porta con sé una lettera per la regina.”
    I ladri presero la lettera, la lessero e capirono che, appena arrivato, il ragazzo sarebbe stato messo a morte. Anch’essi ebbero allora compassione di lui, e il capo strappò quella lettera, scrivendone un’altra dove comandava che al suo arrivo fosse dato in sposo alla principessa.
    Lo lasciarono dormire tranquillamente sulla panca fino al mattino e, appena si svegliò, gli dettero la lettera falsa, indicandogli la strada giusta.
    Quando la regina lesse la lettera, fece quanto le era stato comandato, preparò una splendida festa di nozze e diede la principessa in moglie al fortunato ragazzo che, essendo giovane e bello, le era piaciuto assai.
    Quando, dopo un certo tempo, il re ritornò al palazzo, trovò che la profezia si era avverata.
    “Com’è successo?” domandò. “Nella mia lettera aveva dato un ordine del tutto diverso.”
    Allora la regina gli porse la lettera perché vedesse da sé quello che c’era scritto; il re vide subito che era stata falsificata e, adiratissimo, domandò al ragazzo cosa avesse fatto della lettera che gli aveva consegnata.
    “Non ne so niente” rispose “sarà stata cambiata nella capanna dove ho trascorso la notte”
    Ma il re non si voleva rassegnare e, pieno di rabbia, gridò:
    “Non te la caverai così facilmente! Chi vuole avere mia figlia deve andare a prendermi tre capelli d’oro dalla testa dell’orco: se mi porterai quello che ti ho chiesto, mia figlia sarà per sempre tua sposa.”
    Il re sperava di liberarsi di lui con quel mezzo, ma il ragazzo rispose coraggiosamente:
    “Andrò a prendere i tre capelli d’oro, perché non ho paura dell’orco!”


    Si accomiatò e si mise in cammino alla ricerca dell’orco. La strada lo portò verso una grande città, dove la guardia della porta gli chiese che cosa sapeva fare.
    “So fare di tutto” rispose il ragazzo.
    “Allora ci puoi fare il favore” disse la guardia “di dirci perché la fontana che è sulla nostra piazza del mercato, e che buttava vino, a un tratto si è seccata?”
    “Lo saprete” fu la risposta “ma dovrete aspettare il mio ritorno”.
    Andando oltre arrivò in una città piuttosto grande e la guardia, come aveva fatto l’altra, gli domandò di cosa s’intendeva.
    “Mi intendo di tutto” rispose con ostentata fierezza il giovane principe.
    “Allora ci puoi dire perché un albero, che cresce nella nostra città e che faceva le mele d’oro, quest’anno non ha messo neppure le foglie?”
    “Lo saprete,” rispose il ragazzo “ma dovrete aspettare che ritorni”.
    Seguitò a camminare finché arrivò a un grande lago che doveva attraversare. Il traghettatore gli domandò cosa sapeva fare ed egli rispose: “So far di tutto.”
    “Allora” disse il traghettatore “puoi farmi il favore di dirmi il perché io sono costretto a remare avanti e indietro, di continuo, senza che nessuno mi dia il cambio?”
    “Ti dirò il perché” rispose il ragazzo “ma quando ritorno.”
    Appena ebbe attraversato il lago si trovò nella valle dell’orco. Era cupa e tetra e l’orco non c’era, ma la sua nonna stava lì seduta in un’enorme poltrona.
    “Che cosa vuoi?” disse, guardandolo fisso.
    “Voglio tre capelli d’oro del signore di questa valle” rispose il giovane “senza i quali non posso avere la mia sposa.”
    “Questa è una pretesa molto ardita” disse la nonna “perché se torna a casa l’orco e ti trova qui, passerai dei guai; però puoi rimanere, perché io cercherò di aiutarti.”
    Allora lo tramutò in formica e gli disse di arrampicarsi nelle pieghe della sua sottana, dove si sarebbe trovato al sicuro.
    “Sì” egli disse “questo sta bene, ma ci sono tre cose che vorrei sapere: perché una fontana che buttava vino ora è secca e non dà nemmeno una goccia d’acqua; perché un albero che faceva mele d’oro ora non ha neanche le foglie; e perché un traghettatore rema sempre avanti e indietro senza che nessuno gli dia mai il cambio.”
    “Queste sono domande difficili” rispose la vecchia “ma stà quieto e ascolta bene quello che dirà il sovrano quando gli strapperò i capelli d’oro.”
    Appena si fece buio, l’orco tornò e notò subito che l’aria non era pura.
    “Mucci mucci” diceva “sento odor di cristianucci!”
    E guardò in tutti gli angoli, ma non riuscì a trovare nessuno. La nonna cominciò a brontolare: “Via, proprio ora che ho spolverato e messo ogni cosa in ordine, mi metti tutto in disordine un’altra volta. Non hai che odor di cristianucci, nel naso! Siediti a cena.”
    Quand’ebbe finito di mangiare, l’orco si sentì stanco e la vecchia gli fece posare la testa nel suo grembo, dicendogli che lo voleva pettinare un po’. Egli sbadigliava, poi gli si chiusero gli occhi e alla fine si mise a russare. Allora la donna gli strappò un capello d’oro.
    “Ohi!” gridò l’orco “che cosa fai?”
    “Ho fatto un sognaccio!” rispose la vecchia “e così ti ho strappato un capello.”
    “Che cosa hai sognato?”
    “Ho sognato che una fontana sulla piazza di un mercato, che una volta buttava vino, si è seccata e non butta più nemmeno l’acqua. Perché?”
    “Se lo vuoi sapere” disse l’orco “è perché un rospo sta sotto una pietra nella sorgente: se lo ammazzano, il vino uscirà come prima.”
    Allora la vecchia seguitò a pettinarlo finché l’orco si addormentò di nuovo, russando così forte da far tremare i vetri: allora gli strappò un secondo capello.
    “Bada, che fai?” gridò l’orco infuriato.
    “Non ti arrabbiare” disse lei “sognavo.”
    “Che cosa sognavi questa volta?”
    “Sognavo che in una città un albero di frutto, che una volta faceva le mele d’oro, ora non ha neanche le foglie: da che cosa dipende?”
    “C’è un topo che rode le radici,” rispose l’orco “ma se lo ammazzano nasceranno di nuovo le mele d’oro, altrimenti seguiterà a rodere finché l’albero non morirà del tutto. Però lasciami dormire in pace, ora; se mi disturbi ancora ti do un ceffone.”
    Nonostante ciò la vecchia, quando lo ebbe fatto addormentare di nuovo cullandolo, gli strappò un terzo capello d’oro.
    L’orco saltò su come una furia e l’avrebbe trattata male se la vecchia non gli avesse detto:
    “Che colpa ho io, se faccio dei sognacci?”
    “E che cosa sognavi, ancora?” domandò curioso.
    “Sognavo di un traghettatore che è sempre costretto a remare avanti e indietro senza che nessuno gli dia il cambio: perché?”
    “Che sciocco!” rispose l’orco. “Se arriva qualcuno che vuole essere traghettato gli deve mettere il remo in mano, così l’altro sarà costretto ad andare sempre avanti e indietro, ed egli sarà libero.”
    Ora che la vecchia aveva strappato i tre capelli d’oro e aveva avuto la risposta ai tre quesiti, lasciò l’orco in pace ed egli dormì fino all’alba.
    Appena andò via, la mattina di buon’ora, la vecchia tolse senza indugio la formica dalle pieghe della sottana e le rese la forma umana.
    “Ecco i tre capelli dell’orco. Le risposte alle tre domande le hai udite tu stesso.”
    “Sì, le ho udite e le ricorderò bene” disse il ragazzo, e ringraziando la vecchia per l’aiuto e per il disturbo lasciò quelle regioni, tutto contento di essere stato anche in questa occasione così fortunato.
    Quando arrivò dal traghettatore, gli disse:
    “Portami prima all’altra sponda e poi ti dirò come potrai fare per venir liberato” e appena fu saltato sulla riva gli diede il consiglio:
    “Quando un’altra persona verrà da queste parti e ti chiederà di attraversare il lago, metti il remo nelle sue mani.”
    Poi andò nella città dove c’era l’albero spoglio e dove la guardia aspettava la risposta, e le disse:
    “Uccidi il topo che rode le radici dell’albero, e allora questo tornerà a produrre le mele d’oro.”
    Il guardiano lo ringraziò e gli diede per ricompensa due asini carichi d’oro, che lo seguirono.
    Arrivò all’altra città dove c’era la fontana secca e disse alla guardia quello che aveva sentito dire dall’orco:
    “Sotto una pietra, nella sorgente, c’è un rospo: dovete uccidere l’animale e il vino sgorgherà come prima.”
    Il guardiano lo ringraziò e gli diede a sua volta due asini carichi d’oro.
    Finalmente il fortunato ragazzo arrivò a casa, e la sua cara sposa fu molto contenta di rivederlo sano e salvo e di sentire come tutto gli fosse andato bene.
    Egli portò al re quello che gli aveva richiesto, ossia i tre capelli dell’orco, e quando sua maestà vide i quattro asini carichi d’oro fu molto lieto ed esclamò:
    “Ora che hai mantenuto i patti, puoi avere mia figlia; ma dimmi, caro genero, da dove viene quest’oro? E’ davvero un tesoro prezioso!”
    “Sono stato traghettato aldilà di un lago” rispose il giovane “e quivi l’ho raccolto, perché si trova sulla spiaggia come la rena.”
    “Non ne potrei prendere anch’io?” domandò il re avidamente.
    “Tanto quanto ne volete! C’è un traghettatore che vi farà attraversare e potrete riempire i vostri sacchi sull’altra sponda.”
    L’avido re si mise in viaggio in fretta e furia e, appena arrivò sulla riva, chiese al traghettatore di farlo passare. L’uomo venne e lo fece salire sulla barca: ma quand’ebbero raggiunto l’altra sponda, il traghettatore mise il remo in mano al re e fuggì via in gran fretta, dopo essere stato approdato sulla riva.
    Così il re fu costretto a prendere il suo posto e da allora rema avanti e indietro per scontare i suoi peccati.
    Ed è sempre lì che rema, perché non è venuto ancora nessuno a dargli il cambio.

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    L'allodola che canta e saltella
    C'era una volta un uomo che si preparava a partire per un lungo viaggio e, nel prender commiato dalle sue tre figlie, chiese loro che cosa avrebbero voluto ricevere in dono. La prima voleva delle perle, la seconda diamanti, mentre la terza disse: "Caro babbo, desidero un'allodola che canta e saltella". Il padre disse: "Sì, se riesco a prenderla l'avrai". Le baciò tutt'e tre e partì.

    Quando fu tempo di ritornare a casa, aveva comprato perle e diamanti per le due maggiori, per la minore invece non era riuscito a trovare l'allodola che canta e saltella, benché‚ l'avesse cercata ovunque; e ciò gli dispiaceva perché‚ la figlia più piccola era la sua prediletta. La strada lo condusse attraverso un bosco in mezzo al quale si trovava uno splendido castello e, vicino al castello, un albero, sulla cima del quale egli vide un'allodola che cantava e saltellava.

    "Ehi, capiti proprio a proposito!" disse tutto contento, e gridò al servo di arrampicarsi sull'albero e di catturare l'uccellino. Ma come questi si avvicinò all'albero, saltò fuori un leone che scosse la criniera e ruggì da far tremare le foglie degli alberi. "Se qualcuno vuole rubarmi l'allodola che canta e saltella, io lo divoro!" Allora l'uomo disse: "Non sapevo che l'uccello ti appartenesse. Posso riscattarmi in qualche maniera?". "No" rispose il leone "non vi è nulla che possa salvarti se non prometti di accordarmi la prima cosa che ti verrà incontro facendo ritorno a casa; se prometti ti risparmio la vita e ti regalo pure l'uccello per tua figlia." Ma l'uomo rifiutò e disse: "Potrebbe trattarsi della mia figlia minore: mi vuole bene più di ogni altro e mi corre sempre incontro quando ritorno a casa". Il servo ebbe paura e disse: "Ma potrebbe anche trattarsi di un gatto o di un cane!" L'uomo si lasciò persuadere e, con il cuore grosso, prese l'allodola che canta e saltella, facendo al leone la promessa di accordargli ciò che, a casa, gli fosse venuto incontro per primo.

    Quando arrivò a casa, la prima ad andargli incontro fu proprio la sua amata figlia minore; venne di corsa, lo baciò e lo abbracciò e quando vide che aveva portato un'allodola che canta e saltella fu ancora più felice. Ma il padre non poteva rallegrarsi; si mise a piangere e disse: "Ah, mia diletta bambina, ho pagato caro quest'uccellino! In cambio ho dovuto prometterti a un feroce leone, e quando ti avrà in suo potere ti sbranerà e ti divorerà". Le raccontò come erano andate le cose e la supplicò di non andarci, qualunque cosa accadesse. Ma ella lo consolò e disse: "Carissimo babbo, dovete mantenere ciò che avete promesso: andrò dal leone, lo placherò e farò ritorno da voi sana e salva".

    Il mattino seguente si fece indicare il cammino, prese congedo e si addentrò fiduciosa nel bosco. Ma il leone era un principe stregato: di giorno era un leone, e con lui diventavano leoni tutti i suoi cortigiani, ma di notte riprendevano il loro aspetto umano. Al suo arrivo, ella fu accolta gentilmente e fu celebrato il suo matrimonio con la bestia. Quando venne la notte, il leone divenne un bell'uomo ed essi vissero insieme felici per un lungo periodo, vegliando la notte e dormendo durante il giorno.

    Un giorno egli andò a dirle: "Domani c'è una festa in casa di tuo padre, perché‚ si sposa la tua sorella maggiore. Se desideri andarci i miei leoni ti accompagneranno". Ella rispose di sì poiché‚ desiderava rivedere il padre; e andò scortata dai leoni. Al suo arrivo la gioia fu grande, poiché‚ tutti avevano creduto che fosse morta da un pezzo, sbranata dal leone. Ella invece raccontò che stava molto bene, e rimase insieme a loro per tutto il tempo delle nozze, poi fece ritorno nel bosco.

    Quando si sposò anche la seconda figlia, e l'invitarono nuovamente a nozze, ella disse al leone: "Questa volta non voglio andare sola, devi venire anche tu!". Ma il leone non voleva e disse che era troppo pericoloso per lui, perché‚ se fosse stato sfiorato dalla luce di una candela si sarebbe trasformato in una colomba e avrebbe dovuto volare con le colombe per sette anni. Ma ella non gli diede pace dicendo che lo avrebbe protetto e preservato da ogni luce. Così partirono insieme, portando anche il loro piccino. Ella fece costruire una stanza dai muri così spessi e massicci che nessuna luce poteva penetrarvi; là doveva stare il principe quando avrebbero acceso le fiaccole nuziali. Ma la porta era fatta di legno giovane; si spaccò producendo una piccola fessura che tuttavia nessuno notò. Le nozze furono celebrate con gran pompa, ma quando il corteo fece ritorno dalla chiesa e passò davanti alla stanza con tutte le fiaccole e le candele, un tenue raggio di luce cadde sul principe e, non appena l'ebbe sfiorato, egli si trasformò. Quand'ella venne a cercarlo non trovò più il principe, ma una bianca colomba che le disse: "Per sette anni devo volare per il mondo: ma ogni sette passi lascerò cadere una rossa goccia di sangue e una piuma bianca: ti indicheranno il cammino, e se mi segui puoi liberarmi".

    Poi la colomba volò fuori dalla porta ed ella la seguì; ogni sette passi cadevano una rossa gocciolina di sangue e una piuma bianca, a indicarle il cammino. Ed ella vagò in giro per il vasto mondo, senza guardarsi attorno e senza riposarsi mai, e i sette anni erano quasi trascorsi: allora ella se ne rallegrò, pensando che la liberazione fosse vicina; e invece era ancora così lontana!

    Una volta, mentre camminava, le piume e le goccioline di sangue cessarono di cadere, e quand'ella alzò gli occhi, la colomba era sparita. E poiché‚ pensò che nessun essere umano avrebbe potuto aiutarla, salì fino al sole e gli disse: "Tu che splendi nei crepacci e sulle cime, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il sole "non l'ho vista. Ma voglio regalarti una scatolina: aprila quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò il sole e proseguì il suo cammino finché‚ si fece sera e apparve la luna; allora ella chiese: "Tu splendi tutta la notte per campi e per boschi; non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose la luna "non l'ho vista. Ma voglio regalarti un uovo: rompilo quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò la luna e proseguì il suo cammino finché‚ soffiò il vento di tramontana; allora ella gli disse: "Tu soffi fra gli alberi e sotto le foglie, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il vento di tramontana "non l'ho vista, ma chiederò agli altri tre venti, forse loro l'hanno vista." Vennero il vento di levante e il vento di ponente, ma dissero che non avevano visto nulla; invece il vento di mezzogiorno così parlò: "Ho visto io la colomba bianca: è volata fino al mar Rosso dov'è ridiventata un leone, essendo trascorsi i sette anni. Il leone sta combattendo con un drago, ma il drago è una principessa stregata". Allora il vento di tramontana le disse: "Voglio darti un consiglio: va' fino al mar Rosso, sulla riva destra ci sono delle grosse canne, contale, taglia l'undicesima e con quella colpisci il drago; allora il leone potrà vincerlo e tutti e due riacquisteranno la loro figura umana. Poi guardati attorno e vedrai un grifone in riva al mar Rosso; saltagli sul dorso con il tuo sposo: l'uccello vi porterà a casa sorvolando il mare. Eccoti anche una noce: quando sei in mezzo al mare, lasciala cadere; subito germoglierà e dall'acqua crescerà un grande albero di noci sul quale il grifone si riposerà; se non potesse riposarsi, non sarebbe abbastanza forte per portarvi fino all'altra riva. E se ti dimentichi di lasciar cadere la noce, vi lascerà cadere in mare".

    Ella andò e trovò tutto come aveva detto il vento di tramontana. Tagliò l'undicesima canna e con quella colpì il drago, così il leone lo vinse ed entrambi riacquistarono il loro aspetto umano. Ma non appena la principessa, che prima era un drago, fu liberata dall'incanto, prese il braccio del giovane, salì con lui sul grifone e se lo portò via. E la povera pellegrina restò là, di nuovo sola. "Andrò fin dove soffia il vento" disse "e camminerò finché‚ canta il gallo, e lo troverò."

    Se ne andò e, cammina cammina, giunse finalmente al castello dove i due vivevano insieme, e udì che stavano per festeggiare le loro nozze. Ma ella disse: "Dio mio, aiutami tu!". Prese la scatoletta che le aveva dato il sole, e dentro c'era un abito che risplendeva proprio come il sole. Lo tirò fuori, lo indossò e salì al castello e tutta la gente la guardò meravigliata, compresa la fidanzata. A costei l'abito piacque tanto che pensò di farne il proprio abito da sposa, e le domandò se per caso fosse in vendita. "Non con beni o con monete" ella rispose "ma con carne e sangue l'avrete." La fidanzata le chiese che cosa intendesse dire, ed ella rispose: "Lasciatemi dormire per una notte nella stanza in cui dorme lo sposo". La fidanzata non voleva, e tuttavia avrebbe voluto avere il vestito e infine acconsentì, però il cameriere dovette dare al principe un sonnifero. Quando fu notte, e il principe si fu addormentato, la condussero nella stanza. Ella si sedette accanto al suo letto e disse: "Ti ho seguito per sette anni, sono andata dal sole, dalla luna e dai quattro venti a chiedere di te; ti ho aiutato contro il drago: ora vuoi proprio dimenticarmi del tutto?". Ma il principe dormiva così profondamente che gli parve soltanto di sentire là fuori il vento sussurrare fra gli abeti. Allo spuntar del giorno, ella fu ricondotta fuori e dovette consegnare l'abito d'oro. E poiché‚ anche questo non era servito a nulla, si fece triste, andò su di un prato, si mise a sedere e pianse. E mentre se ne stava là seduta, le venne in mente l'uovo che le aveva dato la luna: lo ruppe e ne uscì una chioccia con dodici pulcini tutti d'oro che correvano qua e là pigolando e poi tornavano a rifugiarsi sotto le ali della madre, sicché‚ al mondo non vi era niente di più bello da vedere. Allora la fanciulla si alzò li spinse innanzi sul prato, finché‚ la fidanzata non li vide dalla finestra; e i pulcini le piacquero tanto che subito scese e le domandò se per caso fossero in vendita. Ed ella rispose: "Non con beni o con monete, ma con carne e sangue l'avrete! Lasciatemi dormire ancora una notte nella stanza dove dorme lo sposo". La sposa acconsentì e voleva ingannarla come la sera precedente. Ma quando il principe andò a letto, chiese al suo cameriere che cosa era stato quel mormorare e quel sussurrare nella notte. Allora il cameriere gli raccontò tutto: aveva dovuto dargli un sonnifero, poiché‚ una povera fanciulla aveva dormito di nascosto nella stanza; e quella notte doveva dargliene un altro. Il principe allora disse: "Versa il sonnifero accanto al letto". Durante la notte ella fu nuovamente introdotta nella stanza e quando incominciò a raccontare le sue tristi avventure egli riconobbe subito la sua cara sposa dalla voce; balzò in piedi e disse: "Finalmente sono libero; mi pareva di vivere in un sogno: la principessa straniera mi ha stregato perché‚ ti dimenticassi; ma Dio mi ha soccorso in tempo!". Durante la notte uscirono insieme di nascosto dal castello, poiché‚ temevano il padre della principessa che era un mago; salirono sul grifone che li portò al di là del mar Rosso; e quando furono in mezzo al mare ella lasciò cadere la noce. Subito crebbe un grande albero di noci sul quale l'uccello poté riposarsi, poi li condusse a casa dove trovarono il loro figlio che era diventato grande e bello; e da allora in poi vissero felici fino alla morte.

    (F.lli Grimm)

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