FIABE DEI F.LLI GRIMM, Jacob e Wilhelm

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  1. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    La luce azzurra
    C'era una volta un soldato, che per molti anni aveva servito fedelmente il re, e quando, finita la guerra, questi invecchiò e non poté più lavorare per le molte ferite perite in battaglia, fu mandato a chiamare e il sovrano gli disse: "Puoi tornartene a casa, non ho più bisogno di te; e denaro non te ne toccherà, perché la paga la riceve soltanto chi in cambio mi porta i suoi servizi". Il soldato non sapeva come campare; se ne andò allora tutto triste e camminò per tutto il giorno, finché a sera entrò in un bosco, attirato da una strana luce che lo guidò, e giunse a una casa dove abitava una strega. "Dammi ti prego un letto per la notte, qualcosa da mangiare e da bere", le disse, "o morirò di fame". Ella rifiutò, sostenendo che nessuno mai avrebbe concesso mai rifugio a un vagabondo, ma poi ci ripensò, forse impietosita, e disse: "Ti ospiterò per misericordia, però tu domani devi vangare il mio giardino". Il soldato promise di farlo e così fu alloggiato. Il giorno dopo vangò il giardino della strega e lavorò fino a sera. Ella voleva mandarlo via, ma egli disse: "Sono tanto stanco, lasciami rimanere ancora una notte!". La strega non voleva, ma poi finì coll'accettare: il giorno dopo, però, il soldato doveva spaccarle un carro pieno di legna. Così il secondo giorno il soldato spaccò la legna, e alla sera aveva lavorato tanto che non se la sentì nuovamente di andarsene e le chiese asilo per la terza volta. Il giorno dopo egli doveva, però, ripescare dal pozzo la luce azzurra. La strega lo portò così al pozzo, lo legò a una lunga corda, ed egli vi si calò. Quando fu sul fondo, trovò la luce azzurra e fece segno alla vecchia per risalire. La strega lo tirò su, ma quando egli fu vicino all'orlo, così vicino che poteva toccarlo con la mano, ella volle prendergli la luce azzurra per poi lasciarlo ricadere sul fondo. Ma egli si accorse delle sue cattive intenzioni e disse: "No, non ti do la luce azzurra se prima non ho toccato terra con tutti e due i piedi". Allora la strega s'infuriò, lo lasciò cadere nel pozzo con la luce e se ne andò.

    Il soldato, disperato, si ritrovò là sotto in quel pantano umido al buio, e pensava già alla sua fine. Per caso gli venne fra le mani la sua pipa, ancora mezzo piena, e pensò: "Sarà il tuo ultimo piacere!". L'accese alla luce azzurra e si mise a fumare. Quando il fumo si sparse un poco nel pozzo, apparve d'un tratto un omino nero che gli chiese: "Padrone, cosa comandi?". Il soldato rispose: "Cosa devo comandarti?". L'omino nero replicò: "Devo fare tutto quello che vuoi". "Allora, prima di tutto, aiutami a uscire dal pozzo!" L'omino nero lo prese per mano e lo condusse fuori, portando con sé la luce azzurra. Poi il soldato disse: "Adesso ammazzami la strega". Dopo aver fatto anche questo, l'omino gli mostrò l'oro e i tesori della vecchia, e il soldato li prese caricandoseli sulle spalle. Poi l'omino disse: "Se hai bisogno di me, non hai che da accendere la pipa alla luce azzurra". Il soldato si recò quindi in città, nella migliore locanda, si fece fare bei vestiti, e ordinò all'oste di arredargli una camera il più sfarzosamente possibile. Quando fu pronta, il soldato chiamò l'omino nero e disse: "Il re mi ha cacciato facendomi patire la fame, poiché non potevo più servirlo; questa sera portami qui la principessa: mi farà da serva ed eseguirà i miei ordini". L'omino disse: "E' cosa rischiosa". Tuttavia andò a prendere la principessa; la sollevò dal suo letto mentre dormiva, la portò al soldato, ed ella dovette obbedirgli e fare ciò che egli le ordinava.

    Al mattino, prima che il gallo cantasse, l'omino la riportò indietro. Quando la principessa si alzò, disse al padre: "Questa notte ho fatto un sogno strano: mi è parso di esser stata portata via e di aver servito un soldato, cui dovevo fare da serva". Allora il re disse: "Fa' un buchino nella tasca e riempila di ceci: il sogno potrebbe essere vero, e in questo caso i ceci usciranno e lasceranno una traccia sulla strada". La fanciulla seguì il consiglio, ma l'omino aveva udito le parole del re e, quando si fece sera e il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, egli sparse ceci per tutta la città, e quei pochi che caddero dalla tasca della principessa non lasciarono nessun segno. L'indomani, la gente mondò ceci per tutto il giorno. La principessa tornò a raccontare al padre ciò che le era successo, e il re disse: "Tieni con te una scarpa, e nascondila là dove ti trovi". L'omino nero udì ogni cosa e, quando il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, gli disse: "Questa volta non posso più esserti di aiuto: ti andrà male se ti scoprono". Ma il soldato non sentì ragione. "Allora domani mattino presto dovrai fuggire, quando l'avrò riportata a casa" disse l'omino. La principessa tenne con sé una scarpa e la nascose nel letto del soldato.

    La mattina seguente, quand'ella si trovò nuovamente presso il padre, questi fece cercare la scarpa di sua figlia per tutta la città, e la trovarono dal soldato. Egli, benché avesse lasciato la stanza, fu presto raggiunto e gettato in prigione. Così ora giaceva in catene e, per giunta, nella fuga precipitosa aveva dimenticato il meglio, la luce azzurra e l'oro, e non aveva in tasca che un ducato. Mentre, tutto triste, se ne stava alla finestra della prigione, vide passare uno dei suoi camerati, lo chiamò e disse: "Se mi vai a prendere il fagottino che ho lasciato alla locanda, ti darò un ducato". Quello andò e in cambio di un ducato gli portò la luce azzurra e l'oro. Il prigioniero accese la sua pipa e chiamò l'omino nero che disse: "Non temere! Va' tranquillamente dal giudice, e accada quello che vuole; bada solo di prendere con te la luce azzurra". Il soldato fu sottoposto a giudizio e condannato a morte. Quando lo condussero fuori, chiese al re un'ultima grazia. "Quale?" domandò il re. "Di fare ancora una pipata per via." "Puoi farne anche tre se vuoi" rispose il re. Allora il soldato tirò fuori la sua pipa e l'accese alla luce azzurra, ed ecco subito comparire l'omino nero. "Uccidi tutti quanti",disse il soldato, "e il re fallo in tre pezzi." Allora l'omino incominciò a far fuori la gente intorno, sicché il re chiese grazia e per avere salva la vita diede al soldato il regno e sua figlia in isposa.

    (F.lli Grimm)
     
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  2. gheagabry
     
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    Le scarpe logorate dal ballo
    C'era una volta un re che aveva dodici figlie, una più bella dell'altra. I loro dodici letti erano insieme in una sola stanza, e, quando andavano a dormire, la porta veniva chiusa con il catenaccio. Tuttavia, ogni mattino, le loro scarpe erano logore a forza di ballare, e nessuno sapeva dove andassero e come facessero a uscire. Allora il re pubblicò un bando: chi fosse riuscito a scoprire dove le principesse ballavano di notte, ne avrebbe avuta una in isposa, e sarebbe diventato re dopo la sua morte; ma chi si fosse presentato, e dopo tre giorni e tre notti non avesse scoperto nulla, ci avrebbe rimesso la vita.

    Non passò molto tempo che si presentò un principe; fu bene accolto e la sera fu condotto in una stanza che si trovava di fronte a quella dove dormivano le dodici principesse. Là era preparato il suo letto, ed egli doveva fare bene attenzione a dove andassero a ballare; e perché non potessero fare nulla di nascosto, o uscire da un'altra parte, la porta della sala fu lasciata aperta. Ma il principe si addormentò e al mattino, quando si svegliò, tutt'e dodici erano state a ballare, perché‚ le scarpe erano là con le suole bucate. La seconda e la terza notte trascorsero come la prima, e così gli mozzarono la testa. Dopo di lui ne arrivarono molti altri che tentarono l'impresa, ma ci rimisero tutti la vita.

    Ora avvenne che un povero soldato, che era stato ferito e non poteva più prestar servizio, si trovò sulla strada che menava alla città dove abitava il re. Lì incontrò una vecchia che gli chiese dove andasse. "Non lo so bene neanch'io" rispose il soldato, "ma mi piacerebbe diventar re e scoprire dove le principesse consumino le scarpe." "Non è poi così difficile" disse la vecchia, "non bere il vino che ti portano la sera, e fingi di essere profondamente addormentato." Poi gli diede una mantellina e disse: "Quando l'avrai addosso, sarai invisibile, e così potrai seguire furtivamente le dodici fanciulle". Dopo aver ricevuto questo buon consiglio, il soldato prese la cosa sul serio; si fece coraggio, andò dal re e si presentò come pretendente. Fu accolto bene come gli altri, e gli fecero indossare vesti regali. La sera, quando fu ora di coricarsi, lo condussero nella sua stanza, e quando stava per andare a letto, la maggiore delle principesse venne a portargli un bicchiere di vino. Ma egli si era legato una spugna sotto il mento, vi lasciò colare il vino e non ne bevve una goccia. Poi si coricò e dopo un po' si mise a russare come se dormisse profondamente. Le dodici principesse l'udirono, si misero a ridere e la maggiore disse: "Avrebbe anche potuto risparmiare la sua vita!". Poi si alzarono, aprirono armadi, casse e cassoni e ne tirarono fuori vesti sfarzose; si agghindarono davanti allo specchio, e saltavano dalla gioia pensando al ballo. Soltanto la più giovane disse: "Non so, voi siete felici, ma io sento qualcosa di strano: sicuramente ci succederà una disgrazia". "Sei un'oca che ha sempre paura di tutto!" esclamò la maggiore. "Hai forse già scordato quanti principi sono stati qui inutilmente? Al soldato non avrei neanche avuto bisogno di dare qualcosa per dormire: tanto non si sarebbe svegliato comunque."

    Quando furono tutte pronte dettero un'occhiata al soldato, ma egli non si era mosso, ed esse credettero di essere proprio al sicuro. Allora la maggiore si avvicinò al suo letto e vi picchiò sopra: subito il letto sprofondò e si aprì una botola. Il soldato le vide scendere l'una dopo l'altra, e la maggiore in testa. Non c'era tempo da perdere: si alzò, mise la mantellina, e discese anch'egli, dietro alla minore. A metà scala, le pestò un poco la veste, ed ella si spaventò e gridò: "C'è qualcosa che non va: mi trattengono per la veste!". "Non esser così sciocca" disse la maggiore, "ti sei impigliata a un uncino." Scesero fino in fondo e, quando furono là sotto, si trovarono in uno splendido viale, dove tutte le foglie erano d'argento, luccicavano e sfavillavano. Il soldato pensò: ' Devi procurarti una prova '. E spezzò un ramo; allora si udì un grande boato provenire dall'albero. La più giovane tornò a gridare: "C'è qualcosa che non va: avete udito il rumore? Non era ancora mai successo!". La maggiore rispose: "Sono spari in segno di gioia, perché‚ presto avremo liberato i nostri principi". Poi giunsero in un viale dove tutte le foglie erano d'oro, e infine in un terzo dove erano di puro diamante; in ognuno il soldato spezzò un ramo, e ogni volta si udì un boato che fece trasalire la più giovane delle sorelle; ma la maggiore continuava a dire che erano spari in segno di allegria. Poi proseguirono finché‚ arrivarono a un grosso fiume, dove si trovavano dodici navicelle, e in ognuna c'era un bel principe: avevano aspettato le dodici principesse, e ciascuno ne prese una con s‚, mentre il soldato si sedette accanto alla minore.

    Il principe disse: "Mi sento più forte che mai, eppure la barca oggi è molto più pesante, e io devo remare con tutte le mie forze". "L'unica ragione possibile è il gran caldo" rispose la più giovane, "anch'io sono accaldata!" Sull'altra riva c'era un bel castello tutto illuminato, dal quale proveniva un'allegra musica di tamburi e di trombe. Remarono fin laggiù, vi entrarono e ogni principe danzò con la sua amata.

    Anche il soldato ballò con loro, invisibile; e se una teneva in mano un bicchiere di vino, quando lo portava alla bocca egli lo vuotava; la minore si spaventò anche stavolta, ma la maggiore la faceva sempre tacere. Ballarono fino alle tre del mattino, quando le scarpe furono logore, ed essi dovettero smettere. I principi riaccompagnarono le fanciulle oltre il fiume, e il soldato questa volta si mise davanti, accanto alla maggiore. Giunte a riva, esse si accomiatarono dai loro principi e promisero di tornare la notte seguente. Quando arrivarono alla scala, il soldato corse avanti e si mise nel suo letto, e quando le dodici principesse giunsero stanche, camminando a passettini, egli russava di nuovo forte, sicché‚ esse dissero: "Quanto a lui, possiamo stare tranquille". Poi si tolsero i bei vestiti, li portarono via, misero le scarpe logore sotto il letto e si coricarono.

    Il mattino dopo, il soldato non volle dire nulla, perché‚ intendeva assistere di nuovo a quella strana faccenda; così andò con loro anche la seconda e la terza notte. E tutto andò come la prima, e ogni volta ballarono fino a romper le scarpe. La terza notte, però, egli si portò via un bicchiere come prova. Quando venne il momento di dare una risposta, egli prese con s‚ i tre rami e il bicchiere e andò dal re, mentre le dodici fanciulle se ne stavano dietro la porta ad ascoltare quel che avrebbe detto. Quando il re domandò: "Dove hanno logorato le scarpe le mie dodici figlie?" egli rispose: "Ballando con dodici principi in un castello sotterraneo". E gli raccontò ogni cosa, mostrando le prove. Allora il re mandò a chiamare le figlie e domandò se il soldato avesse detto la verità, ed esse, vedendo che erano state scoperte e che negare non serviva a nulla, confessarono ogni cosa. Poi il re domandò quale volesse in moglie. Egli rispose: "Dato che non sono più giovane, datemi la maggiore". Così le nozze furono celebrate quello stesso giorno, e gli fu promesso il regno alla morte del re. I principi invece furono nuovamente stregati per tanti giorni, quante erano le notti in cui avevano danzato con le dodici principesse.

    (F.lli Grimm)
     
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  3. gheagabry
     
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    La vera sposa
    C'era una volta una fanciulla, che era giovane e bella; ma presto le era morta la madre, e la matrigna la tormentava in tutti i modi. Quando le si ordinava un lavoro, per quanto fosse pesante, la ragazza ci si applicava di buona volontà e faceva tutto quel che poteva. Ma pure non riusciva a toccar il cuore di quelli perfida donna, sempre scontenta e incontentabile. Quanto più grande era il suo impegno, tanto più lavoro le veniva imposto: e la matrigna non aveva altro in mente che di addossarle un peso sempre più grave, così da renderle la vita impossibile.

    Un giorno le disse: "Qui hai dodici libbre di piume; devi ripulirle e, se non finisci entro stasera, ti aspetta un carico di busse. Credi forse di poter poltrire tutto il giorno?". La povera fanciulla sedette e si mise al lavoro, ma intanto le lacrime le correvan giù per le guance; perché vedeva bene che era impossibile finire in un giorno. Quando aveva dinanzi un mucchietto di piume, e sospirava o si torceva le mani dall'angoscia, le piume si disperdevano ed ella doveva raccoglierle e ricominciar da capo. Finalmente appoggiò i gomiti sulla tavola, e così viso fra le mani gridò: "Non c'è dunque nessuno al mondo, che abbia pietà di me?". Ed ecco, udì una voce soave che diceva: "Consolati, bimba mia, sono venuta ad aiutarti". La fanciulla alzò gli occhi: accanto a lei c'era una vecchia, che la prese amorevolmente per mano e disse: "Confidami la tua angoscia". Parlava così affettuosamente che la fanciulla le narrò la sua triste vita, e che le gettavano addosso un peso dopo l'altro, e che non poteva finire i lavori che le davano. "Se non finisco di pulire queste piume entro stasera, la matrigna mi picchia; me l'ha promesso, e so che tiene la parola." Le sue lacrime ripresero a scorrere, ma la buona vecchia le disse: "Stà tranquilla, bimba mia, riposati; e io intanto farò il tuo lavoro". La fanciulla si sdraiò sul suo letto e non tardò a prender sonno. La vecchia sedette alla tavola davanti alle piume; oh, come si staccano dalle nervature, che essa toccava appena con le sue mani scarne! Le dodici libbre furon presto finite! Quando la fanciulla si svegliò, ecco ammassati dei grandi mucchi bianchi come la neve, e la camera era tutta linda e ordinata; ma la vecchia era scomparsa. La fanciulla ringraziò Dio e restò là tranquilla fino a sera. Allora entrò la matrigna e si meravigliò che avesse finito il lavoro: "Vedi, ragazzaccia", disse, "quel che si può fare, a metterci impegno? Non avresti potuto fare qualcos'altro? Ma tu stai lì seduta con le mani in mano!". Uscendo disse: "Quella creatura la sa lunga, devo darle un lavoro più difficile".

    Il mattino dopo, chiamò la fanciulla e le disse: "Qui c'è un cucchiaio; prendilo, e vuota il grande stagno che è accanto al giardino. Se stasera non ne sei venuta a capo, sai quel che succede". La fanciulla prese il cucchiaio e vide che c'era un forel-lino; e se anche non ci fosse stato, non avrebbe mai potuto vuotar lo stagno. Si mise subito al lavoro, s'inginocchiò in riva all'acqua, dove cadevan le sue lacrime, e cominciò il lavoro. Ma comparve di nuovo la buona vecchia, e quando seppe la ragione del suo pianto, le disse: "Sta' tranquilla, bimba mia, và nel boschetto e mettiti a dormire; farò io il tuo lavoro". Quando la vecchia fu sola, bastò che toccasse lo stagno: l'acqua si faceva vapore e saliva su in alto e si mescolava alle nubi. Lo stagno si vuotò a poco a poco; e prima del tramonto, quando la fanciulla si svegliò e andò sulla riva, vide soltanto i pesci dibattersi nella melma. Andò dalla matrigna e le annunziò che il lavoro era compiuto. "Avrebbe dovuto esser finito da un pezzo!", disse quella; e impallidì di stizza, ma meditò qualcosa di nuovo. La terza mattina disse alla fanciulla: "Devi costruirmi un bel castello, là, nella pianura, e dovrà esser pronto per stasera". La fanciulla si spaventò e disse: "Ma come potrei fare un così gran lavoro?". "Non tollero che mi si contraddica!", gridò la matrigna. "Se puoi vuotare uno stagno con un cucchiaio bucato, puoi anche costruire un castello. Voglio andarci ad abitare oggi stesso; e, se ci manca solo qualche cosa in cucina o in cantina, sai quel che t'aspetta." Cacciò via la fanciulla, che andò nella valle: là c'erano dei massi accatastati gli uni sugli altri; pur mettendoci tutta la sua forza, ella non poteva neanche smuovere i più piccoli. Si mise a sedere e pianse, ma sperava nell'aiuto della buona vecchia. E infatti questa non si fece aspettare; comparve e la confortò: "Sdraiati all'ombra e dormi! intanto il castello lo farò io. Se ti piace, potrai abitarci tu". Quando la fanciulla se ne fu andata, la vecchia toccò i massi grigi. Subito questi si mossero, si congiunsero, ed eccoli ritti come una muraglia costruita dai giganti; poi prese a innalzarsi l'edificio, e parve che innumerevoli mani lavorassero invisibili e mettessero pietra su pietra. Il suolo rimbombava, s'elevavano grandi colonne, ponendosi ordinatamente l'una presso l'altra. Sul tetto si disposero le tegole, e quando fu mezzogiorno la grande banderuola girava già in cima alla torre, come una fanciulla d'oro con un drappo svolazzante. L'interno del castello fu compiuto prima di notte. Come avesse fatto la vecchia non lo so: ma le pareti delle stanze erano tappezzate di seta e di velluto, accanto a tavole di marmo c'eran sedie dai ricami variopinti e poltrone riccamente ornate; lampadari di cristallo pendevano dal soffitto e si specchiavano nel pavimento lucido; in gabbie d'oro erano rinchiusi pappagalli verdi e uccelli rari, che cantavano soavemente: c'era dappertutto tanto sfarzo, che pareva dovesse venirci ad abitare un re. Il sole stava per tramontare, quando la fanciulla si svegliò; e dinanzi a lei sfolgorò lo splendore di mille luci. A passi di corsa arrivò al castello e vi entrò per il portone spalancato. La scalinata era coperta di panno rosso e la balaustra d'oro era adorna di piante in fiore. Quando la fanciulla vide il lusso delle stanze, si fermò come impietrita. E lì sarebbe rimasta chissà quanto, se non si fosse ricordata della matrigna. ' Ah ', pensò, ' se finalmente fosse contenta e non mi tormentasse più! ' Andò e le annunziò che il castello era finito. "Voglio andarci ad abitare subito!", disse la matrigna, e si alzò dalla seggiola. Quando entrò nel castello. dovette proteggersi gli occhi con la mano, tanto quello splendore l'abbagliava. "Vedi", disse alla fanciulla, "che cosa da nulla è stata! Avrei dovuto darti un compito più difficile." Attraversò tutte le stanze, e dappertutto andò a cacciare il naso, se mai mancasse qualcosa o ci fosse qualche difetto, ma non riuscì a scoprir nulla. "Adesso scendiamo!", disse, e guardò la fanciulla con occhi maligni. "Devo ancor visitar la cucina e la cantina, e se hai dimenticato qualcosa, non potrai sfuggire al tuo castigo." Ma il fuoco ardeva sul focolare, nelle pentole cuocevan le vivande, e là appoggiato c'eran le molle e la paletta, e alle pareti brillava il vasellame d'ottone. Non mancava nulla, neppure la cassetta del carbone e la secchia per l'acqua. "Dov'è che si scende in cantina?, gridò la matrigna: "Se non è ben fornita di botti piene di vino, guai a te!" Sollevò lei stessa la ribalta e scese la scala; ma aveva appena fatto due passi che il pesante sportello, malamente appoggiato, ricadde. La fanciulla udì un grido, aprì in fretta la botola per venirle in aiuto, ma la matrigna era precipitata, ed ella la trovò che giaceva morta al suolo.

    Ora lo splendido castello apparteneva soltanto alla fanciulla. Nei primi tempi, ella non sapeva abituarsi alla sua fortuna: belle vesti erano appese negli armadi, i forzieri erano pieni d'oro e d'argento o di perle e di pietre preziose, e per lei non c'era desiderio che non potesse soddisfare. Ben presto si sparse per tutto il mondo la fama della sua bellezza e della sua ricchezza: pretendenti ne venivan tutti i giorni, ma nessuno le piaceva. Alla fine si presentò anche il figlio di un re, che seppe toccarle il cuore, e si fidanzarono. Nel giardino del castello c'era un verde tiglio; e un giorno, che sedevano là sotto, e parlavano fra loro in confidenza, egli le disse: "Voglio andar a casa, a chiedere il consenso di mio padre per le nostre nozze; ti prego, aspettami qui, sotto questo tiglio: fra poche ore sarò di ritorno". La fanciulla lo baciò sulla guancia sinistra e disse: "Restami fedele, e non lasciarti baciare da nessun'altra su questa guancia. Qui, sotto il tiglio, aspetterò il tuo ritorno". E sotto il tiglio restò seduta fino al tramonto ma egli non tornò. Là stette per tre giorni ad aspettarlo, dal mattino fino a sera, ma invano. Il quarto giorno, poiché non era ancora tornato, ella disse: "Certo gli è successo una disgrazia, andrò a cercarlo e non tornerò prima di averlo trovato". Fece un involto di tre dei suoi più bei vestiti, uno trapunto di stelle scintillanti, l'altro di lune d'argento, il terzo di soli d'oro; legò nel fazzoletto una manciata di pietre preziose e si mise in cammino. Domandava dappertutto del suo sposo, ma nessuno l'aveva visto, nessuno ne sapeva nulla. Girò il mondo per lungo e per largo, ma non lo trovò. Alla fine andò a far la pastora da un contadino e seppellì i suoi vestiti e le gemme sotto una pietra. E così viveva da pastora, custodiva il gregge ed era triste e si struggeva di rimpianto per il suo diletto. Aveva un vitellino; l'addomesticò gli dava da mangiare nella sua mano e gli diceva:

    "Vitellino vitellino, in ginocchio posa,
    non scordare la tua pastora
    come il principe scordò la sposa
    che sotto il tiglio
    attendeva allora."

    Il vitellino s'inginocchiava ed ella lo accarezzava. Aveva passato un paio d'anni afflitta e sola, quando per il paese si sparse la voce che la figlia del re stava per sposarsi. La strada della città costeggiava il villaggio dove abitava la fanciulla, e avvenne che lo sposo passò di là mentre ella menava al pascolo il suo gregge. Egli passò alteramente sul suo cavallo e non la guardò, ma fu lei a guardarlo e riconobbe il suo diletto. Fu come se un coltello tagliente le trafiggesse il cuore. "Ah", disse, "credevo che mi fosse rimasto fedele e invece mi ha dimenticata!" Il giorno dopo egli tornò a passare. Quando le fu accanto, ella disse al suo vitellino:

    "Vitellino vitellino, in ginocchio posa,
    non scordare la tua pastora
    come il principe scordò la sposa
    che sotto il tiglio
    attendeva allora."

    Udendo quella voce, egli abbassò gli occhi e arrestò il cavallo. Guardò in viso la pastora e con la mano si coperse gli occhi come se volesse ricordare qualcosa; ma poi proseguì in fretta e non tardò a scomparire. "Ah!", diss'ella, "non mi conosce più!" e il suo dolore era sempre più grande. Poco dopo alla corte del re si doveva celebrare una gran festa che sarebbe durata tre giorni e fu invitato tutto il paese. "Voglio far l'ultima prova!", pensò la fanciulla, e quando venne la sera andò fino alla pietra sotto cui aveva seppellito i suoi tesori. Ne tolse l'abito coi soli d'oro, l'indossò e si adornò con le gemme. Sciolse i capelli, che teneva nascosti sotto un fazzoletto, e le ricaddero in lunghi riccioli sulle spalle. Così s'incamminò verso la città e nel buio nessuno la scorse. Quando entrò nella sala splendidamente illuminata, tutti le cedevano il passo stupefatti, ma nessuno sapeva chi ella fosse. Il principe le andò incontro, ma non la riconobbe. La invitò a ballare e, rapito dalla sua bellezza, non pensava più affatto all'altra sposa. Quando la festa ebbe fine, ella scomparve tra la folla e prima dell'alba tornò in fretta al villaggio, dove indossò di nuovo la sua veste di pastora. La sera dopo prese l'abito con le lune d'argento, e si mise nei capelli una mezzaluna di pietre preziose. Quando comparve alla festa, tutti gli occhi si volsero a lei, ma il principe le corse incontro e, ardente d'amore, ballò soltanto con lei e non guardò più nessun'altra. Prima di andar via, ella dovette promettergli di tornare alla festa per l'ultima sera. Quando apparve la terza volta, aveva l'abito di stelle che sfavillava a ogni passo, e il nastro dei capelli e la cintura erano stelle di pietre preziose. Il principe l'aspettava già da un pezzo e tra la folla si aprì un varco fino a lei. "Dimmi dunque chi sei!", le disse, "mi pare di averti conosciuta già da molto tempo." "Non ti ricordi", rispose la fanciulla, "quel che ho fatto quando mi lasciasti?" Gli s'accostò e lo baciò sulla guancia sinistra: e subito fu come se gli cadesse una benda dagli occhi ed egli riconobbe la vera sposa. "Vieni!", le disse, "qui non voglio più restare." Le porse la mano e l'accompagnò alla carrozza. Veloci come il vento, ì cavalli corsero al castello meraviglioso. Già da lontano brillavano le finestre illuminate. Quando passarono davanti al tiglio, là sotto vagavano innumerevoli lucciole, e l'albero scosse i rami e mandò il suo profumo. Sulla scala sbocciavano i fiori, dalla stanza veniva il canto degli uccelli rari; ma nella sala era riunita tutta la corte e il prete aspettava di unire in matrimonio il principe e la sua vera sposa.

    (F.lli Grimm)
     
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  4. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    L'osso che canta
    In una gran foresta si aggirava un cinghiale che sconvolgeva campi, uccideva il bestiame e azzannava e sbranava gli uomini. Nessuno si avventurava più nei pressi del bosco, poiché‚ l'animale era diventato un vero flagello per il paese. Il re promise una ricompensa, ma tutti coloro che provarono a catturarlo o ucciderlo perirono miseramente, sicché‚ più nessuno era tanto audace da accettare la rischiosa impresa. Infine il re rese noto che colui che avesse abbattuto il cinghiale avrebbe avuto la sua unica figlia in isposa. Da tutto il regno si fecero avanti solo due fratelli, figli di un pover'uomo: il maggiore, accorto e astuto, lo faceva per superbia; il minore, innocente e sciocco, per buon cuore. Il re li fece entrare nel bosco da due punti diversi, dai quali essi dovevano tentare la loro fortuna. Il maggiore entrò da nord e il minore da sud. Come questi fu nel bosco incontrò un omettino che teneva in mano una lancia nera e disse: -Vedi, con questa lancia puoi assalire e uccidere il cinghiale senza timore; te la do perché‚ il tuo cuore è buono-. Il giovane, prese l'arma, ringraziò l'omino e proseguì fiducioso il cammino. Poco dopo scorse l'animale che gli si scagliò contro inferocito; ma egli gli oppose lo spiedo e, nella sua cieca furia, quello vi si precipitò addosso con tanta violenza che ne ebbe il cuore spaccato. Allora il giovane si mise la preda sulle spalle e, tutto contento, prese la via del ritorno per portarla al re. L'altro fratello, strada facendo, aveva incontrato una casa dove la gente si divertiva bevendo e ballando. Era entrato pensando: "Il cinghiale non ti sfuggirà, prima fatti coraggio con una bella bevuta!". Intanto il più giovane, uscendo dal bosco, passò lì davanti e quando il fratello lo vide, carico della preda, divenne invidioso e pensò al modo di nuocergli. Allora gridò -Vieni, caro fratello, riposati un po' e ristorati con un bicchiere di vino-. L'altro, che nella sua ingenuità non sospettava nulla di male, entrò e gli raccontò come era andata e che aveva ucciso il cinghiale con una lancia nera. Il maggiore lo trattenne fino a sera, poi se ne andarono insieme. Era buio quando arrivarono a un ponte su di un ruscello; il maggiore mandò avanti l'altro e quando furono a metà del ponte lo colpì, facendolo precipitare morto. Poi lo seppellì sotto al ponte, prese il cinghiale e lo portò al re, dando a intendere di averlo ucciso lui; e così ebbe la principessa in isposa. Poiché‚ il fratello minore non faceva ritorno, egli disse: -Il cinghiale lo avrà sbranato-. E tutti gli credettero. Ma nulla rimane nascosto davanti a Dio, così anche questo misfatto doveva venire alla luce. Un giorno, dopo molti anni, un pastore, facendo passare il suo gregge sul ponte, vide giù, fra la sabbia, un ossicino bianco come la neve e pensò di farne un bel bocchino. Scese, lo raccolse, e intagliò un bocchino per il suo corno. Ma la prima volta che si mise a suonare, con sua gran meraviglia l'ossicino cominciò a cantare da solo:-Ah pastorello, nel mio osso hai soffiato, è proprio mio fratello colui che mi ha ammazzato! E in questo ruscello dopo mi sotterrò, il cinghiale al re portò e sua figlia si sposò.--Che strano corno- disse il pastore -canta da solo!- e, pur non comprendendo il significato delle parole, lo portò al re. Allora l'ossicino ricominciò a cantare la sua arietta. Il re la capì benissimo e fece scavare sotto il ponte, dove comparve tutto lo scheletro dell'ucciso. Il fratello cattivo non pot‚ negare il delitto; fu gettato in acqua e annegato; le ossa della vittima, invece, ebbero riposo in una bella tomba al cimitero.

    (F.lli Grimm)
     
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  5. gheagabry
     
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    Il viaggio di Pollicino, il piccolo sarto
    Un sarto aveva un figlio piccolo piccolo, non più alto di un pollice, e per questo lo aveva chiamato Pollicino. Pollicino era, in compenso, molto coraggioso, e un giorno disse a suo padre -Babbo, voglio andarmene per il mondo a ogni costo-. -Bene, figlio mio- disse il vecchio; prese un lungo ago da rammendo e alla fiamma di una candela vi fece una capocchia di ceralacca: -Eccoti una bella spada per il viaggio-. Il piccolo sarto voleva mangiare ancora una volta con i genitori, perciò andò in cucina a vedere che cosa avesse preparato la mamma come pranzo d'addio. Era tutto pronto, e il piatto era sul focolare. Egli disse: -Be', che si mangia oggi?-. -Guarda tu stesso- rispose la madre. Allora Pollicino saltò sul focolare e guardò nel piatto, ma siccome allungò troppo il collo, il vapore che saliva dalle vivande lo prese e lo trascinò su per il camino Quando ricadde a terra, il piccolo sarto si ritrovò fuori nel vasto mondo; errò qua e là e andò a bottega da un padrone, ma non gli piaceva quello che gli davano da mangiare. -Signora padrona- le disse Pollicino -se non mi prepara un cibo migliore me ne vado, e domani mattina scriverò con il gesso sull'uscio di casa"Patate troppe, carne non c'è, ti saluto delle patate grande Re!".--Cosa vuoi, tu, pulce?- disse la padrona; andò in collera e afferrò uno straccio per colpirlo; ma il nostro piccolo sarto si acquattò, agile, sotto il ditale, di là fece capolino e mostrò la lingua alla padrona. Ella sollevò il ditale per afferrarlo, ma Pollicino si gettò tra gli stracci e mentre la padrona li buttava di qua e di là per cercarlo, egli si cacciò nella fessura del tavolo -Ehi, ehi, signora padrona!- gridò sporgendo la testa, e quando ella stava per colpirlo, lui saltò giù nel cassetto. Alla fine però la padrona riuscì ad acchiapparlo e lo cacciò di casa. Cammina cammina, il piccolo sarto arrivò in una gran foresta, dove incontrò una banda di briganti che volevano rubare il tesoro del re. A vederlo essi pensarono che un cosino simile potesse essere loro utile. -Olà!- gridò uno -tu, Maciste, vuoi venire con noi alla camera del Tesoro? Puoi strisciare dentro quatto quatto e gettarci fuori il denaro.- Pollicino rifletté‚ e infine disse di sì e li accompagnò alla camera del Tesoro. Osservò bene la porta da cima a fondo, per vedere se vi fosse una crepa; fortunatamente ne trovò una, ma stava per entrare quando una delle sentinelle disse: -Guarda là che brutto ragno! Voglio schiacciarlo-. -Ma lascia in pace quella povera bestia- disse l'altra -non ti ha fatto niente.- Così Pollicino riuscì a passare illeso attraverso la fessura. Giunto nella camera del Tesoro, aprì la finestra e buttò uno scudo dopo l'altro ai briganti che se ne stavano là sotto. Ma, sul più bello, sentì venire il re che voleva rimirare il suo tesoro, così dovette nascondersi in fretta. Il re si accorse che mancava un bel po' di talleri sonanti, ma non riuscì a capire chi potesse averli rubati, poiché‚ le serrature erano in buono stato e tutto pareva ben custodito. Allora se ne andò dicendo alle due sentinelle: -Fate attenzione, c'è qualcuno dietro al denaro-. Quando Pollicino riprese il suo lavoro da capo, le guardie sentirono il denaro muoversi tintinnando: clip, clap, clip, clap. Allora si precipitarono dentro per acchiappare il ladro. Ma il piccolo sarto, che li udì venire, fu ancora più lesto, saltò in un angolo e si nascose sotto uno scudo, che lo copri interamente. Poi si mise a canzonare le guardie gridando: -Ehi, son qui-. Quelle gli si avventarono contro, ma non fecero in tempo ad arrivare che Pollicino era saltato sotto uno scudo in un altro angolo e, gridava: -Ehi, son qui!-. Quelle si slanciarono indietro, ma Pollicino era già da un pezzo in un terzo angolo e gridava: -Ehi, son qui!-. Così li fece correre avanti e indietro come matti per la stanza, finché‚ se ne andarono sfiniti. Allora, a uno a uno, buttò fuori tutti gli scudi; l'ultimo lo scagliò con tutte le sue forze, ci saltò sopra, e così scese al volo dalla finestra. I briganti lo colmarono di lodi: -Sei un grande eroe- dicevano -vuoi diventare il nostro capo?-. Ma Pollicino si scusò dicendo che prima doveva vedere il mondo. Allora divisero il bottino, ma egli volle soltanto un soldo, perché‚ non poteva portarne di più. Poi cinse nuovamente la spada, disse addio ai briganti e se ne andò per la sua strada. Andò a lavorare presso qualche mastro artigiano, ma siccome il mestiere non gli riusciva, entrò a servizio come domestico di una locanda. Ma le serve non lo potevano soffrire perché‚, senza essere visto, egli vedeva tutto quello che esse facevano di nascosto e andava a riferire ai padroni ciò che si erano prese dai piatti o avevano portato via dalla cantina. Allora dissero: -Aspetta un po' che ti rendiamo pan per focaccia!- e si misero d'accordo per giocargli un brutto tiro. Infatti una volta che una di loro stava falciando il giardino, vedendo Pollicino correr qua e là, su e giù per gli steli, lo falciò svelta insieme all'erba, legò il tutto in un grosso straccio, e lo gettò di nascosto alle mucche. Se lo ingoiò una nera e grossa, senza fargli alcun male. Ma laggiù dov'era finito non gli piaceva perché‚ era tutto buio e non c'era neanche una candela. Quando munsero la mucca egli gridò:-Tic, tac, ulmo, olmo il secchio è già colmo?-Il rumore della mungitura, tuttavia, impedì che lo sentissero. Poco dopo entrò nella stalla il padrone e disse: -Domani questa mucca deve essere macellata-. Allora a Pollicino venne una gran paura e si mise a gridare più forte: -Son qua dentro!-. Il padrone l'udì ma non capiva da dove provenisse la voce e disse: -Dove sei?-. -Dentro a quella nera.- Ma il padrone non capì che cosa volesse dire e se ne andò via. Il giorno dopo la mucca fu macellata. Fortunatamente nello squartarla, a Pollicino non fu torto neanche un capello, ma finì tra la carne da salsiccia. Quando il macellaio si avvicinò per mettersi al lavoro, egli gridò con quanto fiato aveva in gola: -Non tagliate troppo a fondo! Non tagliate troppo a fondo! Sono qua sotto!-. Ma per via del rumore, nessuno lo udì. Ora il povero Pollicino era in pericolo, ma la necessità aguzza l'ingegno, così si mise a saltare con grande agilità fra i coltellacci, in modo che neanche uno lo toccò e riuscì a salvare la pelle. Ma non riuscì ancora a sfuggire; non c'era altra soluzione: dovette lasciarsi pigiare in un sanguinaccio insieme a pezzetti di lardo. Il luogo era un po' stretto, e per giunta, lo affumicarono appeso alla cappa del camino, dove egli si annoiò parecchio. Finalmente, d'inverno, lo tirarono giù, perché‚ la salsiccia doveva essere offerta a un ospite. Quando la padrona la tagliò a fette, Pollicino fece bene attenzione a non allungare troppo il collo, per non rischiare di farselo tagliare; finalmente colse il momento adatto, si fece largo e saltò fuori. Il piccolo sarto non volle trattenersi ulteriormente in quella casa dove gli era andata così male, e si rimise subito in cammino. Ma mentre era in aperta campagna, incrociò una volpe che lo inghiottì mentre era soprappensiero. -Ehi, signora volpe!- gridò il piccolo sarto -sono finito nella vostra gola, lasciatemi andare!- -Hai ragione- rispose la volpe -mangiarti è come non aver niente nello stomaco; se mi prometti i polli che sono nel cortile di tuo padre, ti lascerò libero.- -Con tutto il cuore- rispose Pollicino -avrai tutti i polli, te lo prometto.- Allora la volpe lo lasciò andare e lo portò a casa lei stessa. Quando il padre rivide il suo amato figlioletto, le diede volentieri tutti i polli. -In compenso ti porto a casa una bella moneta- disse Pollicino a suo padre, e gli porse il soldo che si era guadagnato in viaggio. -Ma perché‚ la volpe si è beccata i poveri pollastrelli?- -Ma sciocco, a tuo padre sarà sempre più caro suo figlio che i polli del cortile.-

    (F.lli Grimm)
     
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  6. gheagabry
     
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    I sei che si fanno strada per il mondo
    C'era una volta un uomo che si intendeva di ogni arte; prestò servizio come soldato, comportandosi in modo valoroso; ma, terminata la guerra, fu congedato e gli dettero tre soldi di compenso. -Aspetta un po'- disse -non mi raggirate tanto facilmente: se trovo gli uomini giusti, il re dovrà darmi le ricchezze di tutto il paese.- Pieno di rabbia, andò nel bosco e vide un uomo che aveva sradicato sei alberi come se fossero state spighe di grano. Gli disse: -Vuoi diventare mio servitore e seguirmi?- -Sì- rispose quello -ma prima voglio portare a mia madre quel mucchietto di legna.- Afferrò allora uno degli alberi, lo legò intorno agli altri cinque e, presa la fascina sulle spalle, se la portò via. Poi ritornò e si mise in cammino con il suo padrone che disse: -Noi due dobbiamo farci strada nel mondo-. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, incontrarono un cacciatore che, in ginocchio, aveva caricato il fucile e stava prendendo la mira. L'uomo gli disse: -A cosa vuoi sparare, cacciatore?-. Quello rispose: -A due miglia da qui c'è una mosca sul ramo di una quercia; voglio cavarle l'occhio sinistro-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi tre insieme ci faremo strada nel mondo.- Il cacciatore andò con loro ed essi arrivarono a sette mulini a vento, le cui ali giravano rapidamente anche se non c'era vento e non si muoveva neanche una foglia. Disse l'uomo: -Non capisco cosa faccia muovere i mulini, non c'è un filo d'aria!-. Proseguì il cammino con i suoi servi e, quand'ebbero fatto due miglia, videro un uomo, seduto su di un albero, che si teneva chiusa una narice e soffiava con l'altra. -Che stai facendo lassù?- chiese l'uomo. Quello rispose: -A due miglia da qui ci sono sette mulini a vento; vedete? io soffio per farli girare-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi quattro insieme ci faremo strada nel mondo.- Allora quello che soffiava scese dall'albero e andò con loro. Dopo un po' videro uno che se ne stava su di una gamba sola: aveva staccato l'altra e se l'era messa accanto. -Ti sei messo comodo per riposare!- esclamò l'uomo. -Sono un corridore- rispose quello -e per non correre troppo in fretta mi sono staccato una gamba; infatti se corro con tutt'e due, vado più veloce di un uccello che vola.- -Oh, vieni con me, noi cinque insieme ci faremo strada nel mondo.- Egli andò con loro e dopo un po' incontrarono uno che portava un cappellino che gli copriva tutto un orecchio. Allora l'uomo gli disse: -Che bellino! Ma metti a posto il tuo cappello: hai l'aria di uno sciocco!-. -Non posso- rispose quello -se lo raddrizzo, viene un gran freddo e gli uccelli che se ne stanno all'aria aperta gelano e cadono a terra morti.- -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi sei, tutti insieme, ci faremo strada nel mondo.- I sei arrivarono in una città dove il re aveva reso noto che colui che avesse voluto gareggiare con la figlia nella corsa, se vinceva la gara l'avrebbe sposata, ma se perdeva, ci avrebbe rimesso la testa. L'uomo si presentò e disse: -Farò correre il mio servo per me-. Il re rispose: -Allora devi impegnare anche la sua vita, sicché‚ le vostre due teste saranno il pegno della vittoria-. Dopo essersi accordati, l'uomo attaccò al corridore l'altra gamba e gli disse: -Adesso sii veloce e aiutami, che si possa vincere-. Si era deciso che avrebbe vinto colui che, per primo, avesse portato l'acqua da una lontana sorgente. Il corridore e la principessa ebbero entrambi una brocca e incominciarono a correre nello stesso momento; ma in un attimo, mentre la principessa aveva percorso solo un breve tratto, più nessuno riusciva a vedere il corridore, passato veloce come il vento. In breve tempo giunse alla fontana, attinse l'acqua riempiendo la brocca e tornò indietro. Ma a metà percorso lo prese la stanchezza, depose la brocca, si distese e si addormentò. Appoggiò, tuttavia, la testa su di un teschio di cavallo, per dormire sul duro e svegliarsi presto. Intanto la principessa, che correva bene anche lei, ma come una persona qualunque, era arrivata alla fonte, e se ne tornava indietro con la brocca piena d'acqua. Quando vide il corridore disteso a terra che dormiva, disse tutta contenta: -Il nemico è nelle mie mani-. Gli vuotò la brocca e riprese a correre. Tutto sarebbe stato perduto se il cacciatore, con i suoi occhi acuti, non avesse fortunatamente visto tutto dall'alto del castello. -La principessa non deve averla vinta- disse; poi caricò il fucile e sparò con tanta destrezza da portar via il teschio sotto la testa del corridore senza fargli alcun male. Il corridore così si svegliò, saltò su e vide che la sua brocca era vuota e la principessa già molto lontana. Ma non si perse d'animo, prese la brocca, tornò a riempirla alla fonte e riuscì ad arrivare ancora dieci minuti prima della principessa, vincendo la gara. -Vedete?- disse -finalmente ho adoperato le gambe, perché‚ prima non si poteva proprio parlare di corsa!- Ma il re era avvilito, e sua figlia ancora di più all'idea di essere portata via da un qualunque soldato in congedo, e tramarono insieme il modo di sbarazzarsi di lui e dei suoi compagni. Il re le disse: -Ho trovato il sistema; non aver paura, non torneranno più-. E disse loro: -Adesso dovete fare baldoria, mangiare e bere tutti insieme-. Li condusse in una stanza che aveva il pavimento e la porta di ferro e le finestre chiuse da sbarre di ferro. Nella stanza c'era una tavola sulla quale vi era ogni ben di Dio, e il re disse: -Entrate e godetevela!-. E, quando furono entrati, fece sprangare la porta. Poi chiamò il cuoco e gli ordinò di accendere un gran fuoco sotto la stanza affinché‚ il ferro si arroventasse. Il cuoco obbedì e i sei, mentre sedevano a tavola, incominciarono a sentire un gran caldo e pensarono che fosse effetto del cibo; ma il calore aumentava sempre di più e, quando vollero uscire, trovarono porta e finestra chiusi; allora capirono che il re aveva cattive intenzioni e voleva soffocarli. -Ma non l'avrà vinta!- disse quello con il cappellino -farò venire un freddo tale, che il fuoco dovrà vergognarsi e nascondersi.- Drizzò il suo cappellino e subito venne un tale freddo che estinse ogni calore e i cibi incominciarono a gelare nei piatti. Trascorse un paio d'ore il re, credendo che il calore li avesse soffocati, fece aprire la porta e andò a vedere di persona. Ma quando la porta si aprì, erano là tutti e sei freschi e sani; e dissero che erano ben contenti di poter uscire a scaldarsi, perché‚, con il gran freddo che faceva nella stanza, i cibi si congelavano nei piatti. Allora, pieno di collera, il re scese dal cuoco rimproverandolo aspramente e chiedendogli perché‚ non avesse eseguito con maggior attenzione ciò che gli era stato ordinato. Ma il cuoco rispose: -Di calore ce n'è abbastanza, andate a vedere voi stesso-. E il re vide che sotto la stanza di ferro ardeva un gran fuoco e capì che con quei sei non l'avrebbe spuntata. Allora si mise nuovamente a pensare a come liberarsi di quegli ospiti sgraditi; fece chiamare il loro capo e disse: -Se accetti dell'oro e, in cambio, rinunci ai diritti che hai su mia figlia, ti darò quanto vuoi-. -Sì, maestà- rispose egli -se mi date quanto può portare il mio servo, rinuncio a vostra figlia.- Il re era soddisfatto, e quello proseguì: -Tornerò a prenderlo fra quindici giorni-. Poi fece radunare tutti i sarti del regno, che per quindici giorni, dovettero starsene seduti a cucire un sacco. Quando il sacco fu pronto, quello che sradicava gli alberi dovette metterselo sulle spalle e recarsi insieme al capo dal re. Il re disse: -Che razza di energumeno è costui che porta sulle spalle quel sacco di tela gigantesco!- e inorridì pensando a quanto oro si sarebbe trascinato via. Allora fece portare una tonnellata d'oro, che dovettero portare sedici dei suoi uomini più forti; ma il forzuto la prese con una mano, la mise nel sacco e disse: -Perché‚ non ne fate portare subito di più? Questo copre appena il fondo-. Così, poco per volta, il re dovette far portare tutte le sue ricchezze; l'uomo le cacciò nel sacco che non era pieno neanche a metà. -Portatene di più- gridò -le briciole non riempiono.- Così furono costretti a radunare, in tutto il regno, altri settemila carri colmi d'oro; e quello li mise nel sacco insieme ai buoi che vi erano attaccati. -Non sto a fare il difficile- diss'egli -prendo quel che capita, pur di riempire il sacco.- Quanto tutto fu dentro, ci sarebbe stato ancora dell'altro, ma egli disse: -Basta così: si può legare un sacco anche se non è del tutto pieno-. Poi se lo caricò sulla schiena e se ne andò con i suoi compagni. Il re, vedendo quell'uomo portare via tutte le ricchezze del paese, andò in collera e ordinò alla cavalleria di montare in sella e di rincorrere i sei uomini per riprendere il sacco. Ben presto i due reggimenti li raggiunsero e gridarono: -Siete prigionieri: mettete giù quel sacco con l'oro o vi travolgeremo!-. -Che cosa?- esclamò quello che soffiava. -Noi prigionieri? Prima dovrete ballare in aria tutti quanti.- Si chiuse una narice, mentre con l'altra soffiò contro i due reggimenti che si dispersero nell'aria, oltre i monti, uno qua e l'altro là. Un furiere implorò grazia, dicendo che aveva nove ferite, che era stato coraggioso e che, perciò, non meritava di essere punito. Allora l'uomo soffiò un po' meno forte, sicché‚ il soldato cadde a terra senza farsi male; poi gli disse: -Adesso ritorna dal re e digli di mandare pure dell'altra cavalleria: soffierei anche quelli per aria!-. Il re, quando udì il messaggio, disse: -Lasciateli andare, hanno il diavolo in corpo!-. Così i sei portarono a casa tutta quella ricchezza, se la divisero fra loro e vissero felici fino alla morte.

    (F.lli Grimm)
     
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  7. gheagabry
     
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    L'ondina
    Un fratellino e una sorellina giocavano accanto a una fontana e, mentre giocavano, vi finirono dentro. Là dentro vi era un'ondina che disse: -Adesso che siete in mio potere, vi toccherà servirmi per bene!-. Così alla fanciulla diede da filare del brutto lino tutto aggrovigliato e la costrinse a portare acqua in una botte forata, mentre il ragazzo doveva abbattere un albero con una scure senza più il filo; e da mangiare non ricevevano altro che gnocchi duri come pietre. Alla fine i bambini persero la pazienza, aspettarono una domenica e, mentre l'ondina era in chiesa, fuggirono. Finita la messa, l'ondina si accorse che gli uccellini avevano preso il volo e li inseguì a grandi balzi. Ma i bambini la scorsero da lontano e la fanciulla si gettò una spazzola dietro le spalle; e ne venne una montagna di spazzole con mille e mille setole pungenti, sulle quali l'ondina dovette arrampicarsi a gran fatica; ma alla fine riuscì a oltrepassarle. I bambini la videro e il ragazzo si buttò dietro le spalle un pettine; e ne venne fuori una montagna di pettini con mille e mille denti, ma l'ondina vi si aggrappò saldamente e riuscì a passare anche stavolta. Allora, la fanciulla gettò dietro di s‚ uno specchio e ne venne fuori una montagna di specchio, così liscia, ma così liscia che l'ondina non poteva arrampicarvisi. Allora pensò: "Andrò in fretta a casa a prendere la mia ascia e spaccherò il monte di specchio". Ma prima che tornasse e l'avesse spaccato, i bambini erano già fuggiti da un pezzo e l'ondina dovette andare di nuovo nella sua fonte.

    (F.lli Grimm)
     
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  8. gheagabry
     
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    Il ricco e il povero

    Nei tempi antichi, quando il buon Dio errava ancora sulla terra, fra gli uomini, una sera che era stanco gli accadde di essere sorpreso dalla notte prima di poter giungere a una locanda. Sul suo cammino, si trovavano due case, l'una di fronte all'altra: la prima era grande e bella, la seconda piccola e dall'aspetto misero. Quella grande apparteneva a un ricco, mentre la piccola a un pover'uomo. Nostro Signore pensò: "Al ricco non darò disturbo: busserò a lui". Il ricco, udendo bussare alla sua porta, aprì la finestra e domandò al forestiero che cosa cercasse. Il Signore rispose: -Vi prego di darmi ricovero per la notte-. Il ricco squadrò il viandante da capo a piedi, e siccome il buon Dio era vestito umilmente e non aveva l'aria di uno che ha molto denaro in tasca, scosse il capo e disse: -Non posso ospitarvi: le mie stanze sono piene di verdure e di sementi; e se dovessi dare alloggio a tutti quelli che bussano alla mia porta, potrei andare in giro a mendicare. Cercate una sistemazione altrove-. Detto questo, sbatté‚ la finestra e piantò in asso il buon Dio. Allora questi gli voltò le spalle, andò alla casetta di fronte e bussò. Aveva appena bussato che il povero già gli apriva la porta pregandolo di entrare e di trascorrere la notte in casa sua. -E' già buio- disse -per oggi non potete proseguire.- Il buon Dio ne fu contento ed entrò. La moglie del povero gli porse la mano, gli diede il benvenuto e gli disse si mettersi comodo: doveva accontentarsi perché‚ non avevano molto, ma quel poco che c'era lo davano volentieri. Poi mise delle patate sul fuoco e, mentre cuocevano, munse la sua capra per avere un po' di latte da bere. Quando la tavola fu apparecchiata, il buon Dio si sedette e mangiò con loro, e quel povero cibo gli piacque, perché‚ aveva accanto a s‚ dei visi lieti. Terminata la cena, quando fu ora di dormire, la donna prese da parte il marito e gli disse: -Senti, marito caro, questa notte ci distenderemo sulla paglia e lasceremo il nostro letto al povero viandante perché‚ si riposi: ha camminato tutto il giorno ed è certo stanco-. -Ben volentieri!- rispose il marito. -Vado a offrirglielo.- Andò dal buon Dio e lo pregò, se era d'accordo, di coricarsi nel loro letto per riposare le sue membra. Il buon Dio non voleva portar via ai due vecchi il loro letto, ma essi non lo lasciarono in pace finché‚ egli acconsentì a coricarvisi; essi, invece si coricarono per terra sulla paglia. Il mattino seguente si alzarono prima che facesse giorno e prepararono all'ospite una modesta colazione. Quando il sole brillò attraverso la finestrella, il buon Dio si alzò, mangiò di nuovo con loro e si preparò a riprendere il cammino. Ma quando fu sulla soglia di casa, disse: -Poiché‚ siete così pii e misericordiosi, chiedete tre cose, e io vi esaudirò-. Il povero disse: -Che altro potrei desiderare se non l'eterna beatitudine, e che noi due, finché‚ viviamo, ci manteniamo in salute e possiamo avere il nostro pane quotidiano? Quanto alla terza cosa non so cosa potrei desiderare-. Il buon Dio disse: -Non vuoi una casa nuova al posto di quella vecchia?-. Allora l'uomo rispose che sì, se avesse potuto avere anche quella, gli avrebbe fatto piacere. Allora il Signore esaudì quei desideri e trasformò la loro vecchia casa in una bella e nuova; poi li lasciò e proseguì il cammino. Il sole era già alto quando il ricco si alzò e, messosi alla finestra, vide di fronte una bella casa al posto della vecchia capanna. Fece tanto d'occhi, chiamò la moglie e disse: -Moglie, cerca di sapere come sono andate le cose. Ieri sera c'era ancora quella misera capanna e oggi c'è una bella casa nuova. Corri di fronte e senti com'è andata-. La donna andò a interrogare il povero che così le raccontò: -Ieri sera è arrivato un viandante che cercava ricovero per la notte; questa mattina, nel prendere commiato, ha voluto concederci tre desideri: l'eterna beatitudine, buona salute in vita e il nostro pane quotidiano e, al posto della nostra vecchia capanna, una bella casa nuova-. Quand'ebbe udito tutto ciò, la moglie del ricco corse a casa a raccontare ogni cosa al marito che disse: -Meriterei di essere picchiato e fatto a pezzi! L'avessi saputo! Il forestiero è stato anche da me, ma io l'ho scacciato-. -Affrettati!- disse la moglie -sali a cavallo, il viandante non è molto lontano, puoi ancora raggiungerlo ed esprimere anche tu tre desideri.- Allora il ricco montò a cavallo e raggiunse il buon Dio. Gli si rivolse in modo amabile e cortese dicendogli che non doveva prendersela se non lo aveva fatto subito entrare: aveva cercato la chiave della porta e, nel frattempo, egli se ne era andato. Se fosse tornato un'altra volta, avrebbe dovuto alloggiare da lui. -Sì- disse il buon Dio -se torno lo farò.- Allora il ricco domandò se anche lui poteva esprimere tre desideri come il suo vicino. Sì, rispose il buon Dio, poteva benissimo, ma non era un buon affare per lui, era meglio se non esprimeva alcun desiderio. Ma il ricco pensò che avrebbe scelto comunque qualcosa di vantaggioso per s‚, purché‚ fosse sicuro di essere esaudito. Il buon Dio disse: -Va' a casa; i primi tre desideri che esprimerai saranno esauditi-. Il ricco aveva raggiunto il suo scopo; si mise in cammino verso casa e si mise a pensare a ciò che poteva desiderare. Mentre rifletteva, lasciò andare le redini, e il cavallo si mise a saltare sicché‚ egli era continuamente disturbato e non riusciva a concentrarsi. Allora si arrabbiò e gridò spazientito: -Vorrei che ti rompessi il collo!-. Come ebbe pronunciato queste parole, il cavallo stramazzò a terra, morto stecchito; e il primo desiderio era esaudito. Ma siccome era avaro, non voleva abbandonare i finimenti: li tagliò, se li mise sulla schiena, e dovette andare a casa a piedi. Tuttavia si consolava pensando che gli restavano ancora due desideri. Mentre camminava nella polvere e il sole di mezzogiorno bruciava infuocato, gli venne un gran caldo e diventò di cattivo umore: la sella gli pesava sulle spalle e continuava a non sapere quello che doveva desiderare. Se gli veniva in mente qualcosa, un attimo più tardi gli sembrava troppo poco. Nel frattempo pensò che la moglie a casa se la passava bene, seduta in una stanza fresca a mangiare di buon appetito. Questo lo indispettì per bene, e, senza riflettere, disse: -Invece di trascinarmi questo peso sulla schiena, vorrei che ci fosse lei seduta su questa sella e che non potesse scendere!-. Com'ebbe pronunciato queste parole, la sella scomparve dalla sua schiena, ed egli comprese che anche il secondo desiderio era stato esaudito. Allora sentì ancora più caldo, si mise a correre e pensava, una volta a casa, di potersi chiudere in camera da solo, per riflettere e trovare qualcosa di grande per l'ultimo desiderio. Ma quando arriva e apre la porta, vede, in mezzo alla stanza, sua moglie seduta sulla sella, che piange e si dispera perché‚ non può scendere. Allora egli disse: -Calmati! Stattene lì seduta e ti procurerò tutte le ricchezze di questo mondo!-. Ma ella rispose: -Che cosa me ne faccio di tutte le ricchezze del mondo se non posso scendere da questa sella? Tu hai desiderato ch'io finissi qua sopra, adesso devi anche aiutarmi a scendere!-. Così, che lo volesse o no, egli dovette chiedere, come terzo desiderio, che sua moglie fosse libera e potesse scendere dalla sella; e il desiderio fu subito esaudito. Così da quella storia egli non ebbe che rabbia, fatica e un cavallo perduto. I poveri invece vissero felici, tranquilli e pii fino alla loro morte serena.

    (F.lli Grimm)
     
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  9. gheagabry
     
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    La morte della gallinella
    Una volta gallinella e galletto andarono sul monte delle noci e stabilirono che chi dei due avesse trovato un gheriglio l'avrebbe spartito con l'altro. La gallinella trovò una noce bella grossa, ma non disse nulla, perché‚ voleva mangiarsela da sola. Ma il gheriglio era così grosso che non riuscì a ingoiarlo; le rimase in gola e, temendo di soffocare, la gallinella gridò: -Galletto, ti prego, corri più in fretta che puoi e vai a prendermi dell'acqua, altrimenti soffoco-. Il galletto corse veloce alla sorgente: -Sorgente, devi darmi dell'acqua, la gallinella sul monte dei noci ha inghiottito un grosso gheriglio e sta per soffocare-. La sorgente rispose: -Prima corri dalla sposa e fatti dare della seta rossa-. Il galletto corse dalla sposa: -Sposa, dammi della seta rossa, la seta rossa devo portarla alla sorgente, la sorgente deve darmi dell'acqua, e l'acqua la porterò alla gallinella che è sul monte dei noci e sta soffocando per aver inghiottito un grosso gheriglio-. La sposa rispose: -Prima corri a prendermi la mia coroncina che è rimasta appesa a un salice-. Allora il galletto corse al salice, prese la coroncina dal ramo e la portò alla sposa, e la sposa gli diede in cambio la seta rossa, ch'egli portò alla sorgente, che gli diede in cambio l'acqua. Finalmente il galletto portò l'acqua alla gallinella, ma quando arrivò la gallinella era già soffocata e giaceva a terra stecchita. Il galletto era così triste che si mise a gridar forte, e tutte le bestie vennero a piangere la gallinella e sei topi costruirono una piccola carrozza, per accompagnarla alla sepoltura; e quando la carrozza fu pronta, vi si attaccarono davanti mentre il galletto guidava. Ma per strada incontrarono la volpe: -Dove vai, galletto?-. -Vado a seppellire la mia gallinella.- -Posso venire con te?- -Va bene, ma sali dietro all'istante, o per i topi sarai troppo pesante!- Allora la volpe si sedette dietro, poi giunsero anche il lupo, l'orso, il cervo, il leone e tutti gli animali del bosco. Così proseguirono il viaggio, finché‚ arrivarono a un ruscello. -Come facciamo ad attraversarlo?- domandò il galletto. Sulla riva c'era un filo di paglia che disse -Mi metterò di traverso, così potrete passarmi sopra-. Ma quando i sei topi si avviarono, il filo di paglia scivolò e cadde in acqua, e in acqua finirono pure i sei topi che annegarono. Non sapevano più che pesci prendere, quando sopraggiunse un tizzone e disse: -Sono grosso abbastanza, mi stenderò sopra l'acqua e voi mi passerete sopra-. Così anche il tizzone si mise sopra l'acqua, ma, disgraziatamente, la sfiorò: sfrigolò, si spense e morì. Un sasso assistette alla scena e volle aiutare il galletto mettendosi anch'esso sopra l'acqua. Questa volta la carrozza la tirò il galletto da solo; era appena passato ed era a riva con la gallinella morta, e voleva farci venire anche gli altri che sedevano dietro, ma ormai erano in troppi: la carrozza si rovesciò e tutti caddero in acqua e annegarono. Ora il galletto era di nuovo solo con la gallinella morta; le scavò una fossa, ve la depose e fece un tumulo. Si sedette là sopra ed era tanto addolorato che finì col morire anche lui; e così morirono tutti.

    (F.lli Grimm)
     
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  10. gheagabry
     
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    La fortuna di Gianni
    Gianni aveva prestato servizio dal suo padrone per sette anni, quando gli disse: -Padrone, ho terminato il tirocinio; ora vorrei tornare a casa da mia madre: datemi ciò che mi spetta-. Il padrone rispose: -Mi hai servito bene e con fedeltà: il compenso sarà pari al tuo servizio-. E gli diede un pezzo d'oro grosso come la testa di Gianni. Gianni prese di tasca il fazzoletto, e vi avvolse l'oro, se lo mise in spalla e s'incamminò verso casa. Mentre camminava, un passo dopo l'altro, vide un cavaliere che, fresco e giulivo, trottava su di un cavallo focoso. -Ah- disse Gianni ad alta voce -che bella cosa è cavalcare! Si sta seduti come su di una sedia; non si inciampa nei sassi, si risparmiano le scarpe e si va avanti senza accorgersene.- Il cavaliere che lo aveva sentito, gli gridò: -Ehi, Gianni, perché‚ tu vai a piedi?-. -Eh!- rispose Gianni -devo portare a casa questo peso: è vero che è oro, ma non posso tenere la testa diritta, mi preme sulle spalle.- -Sai un cosa?- disse il cavaliere. -Facciamo cambio, io ti do il mio cavallo e tu mi dai il tuo pezzo d'oro.- -Ben volentieri- disse Gianni -ma vi avverto che farete fatica a portarlo!- Il cavaliere smontò, prese l'oro e aiutò Gianni a salire a cavallo; gli diede le redini da tenere in mano, ben salde, e disse: -Se vuoi andare veloce, devi schioccare la lingua e gridare: "hop, hop!"-. Gianni era felice di essere in groppa al suo cavallo e di poter cavalcare a briglia sciolta. Dopo un po' gli venne in mente di andare più veloce, si mise a schioccare la lingua e a gridare: "hop, hop!". Il cavallo di mise a trottare forte e, in men che non si dica, Gianni fu sbalzato di sella e finì in un fosso che divideva i campi dalla strada. Il cavallo sarebbe scappato se non lo avesse fermato un contadino che veniva per la strada spingendo una mucca. Gianni si rimise in sesto e si alzò in piedi. Ma, indispettito, disse al contadino: -Bel divertimento andare a cavallo, soprattutto se ti capita un brocco come questo che inciampa e ti butta a terra rischiando di farti rompere l'osso del collo! Non ci salirò mai più! La vostra mucca invece sì che mi piace: uno se la tira dietro con tutto comodo, e, ogni giorno, latte, burro e formaggio sono assicurati. Cosa darei per avere una mucca simile!-. -Be'- disse il contadino -se vi piace tanto, cambierò la mucca con il vostro cavallo.- Gianni accettò tutto felice, e il contadino saltò in groppa al cavallo e corse via. Gianni menava ora la mucca tranquillamente davanti a se pensando al buon affare: -Mi basta avere un pezzo di pane, e certamente non mi mancherà, e posso mangiare burro e formaggio finché‚ ne ho voglia; se ho sete, mungo la mia mucca e bevo il latte. Cosa potrei desiderare di meglio?-. Quando arrivò a un'osteria, si fermò, mangiò allegramente tutto ciò che aveva con s‚, pranzo e cena e, con gli ultimi soldi che gli restavano, si fece portare un mezzo bicchiere di birra. Poi riprese a menare la sua mucca verso il villaggio di sua madre. Ma, verso mezzogiorno, il caldo si fece sempre più opprimente, e Gianni si trovava in una landa con un'ora di cammino davanti a s‚. Aveva un caldo tale che, per la sete, la lingua gli si era incollata al palato. "Devo fare qualcosa" pensò Gianni. "Mi metterò a mungere la mucca e mi ristorerò con il latte." La legò a un albero secco e ci mise sotto il suo berretto di cuoio, ma per quanto si desse da fare, non veniva neanche una goccia di latte. E siccome mungeva senza alcuna abilità, l'animale, impaziente, finì coll'assestargli un tale colpo alla testa con la zampa di dietro, ch'egli barcollò e cadde a terra; e per un bel po' non riuscì più a capire dove fosse. Fortunatamente, proprio in quel momento si trovava a passare un macellaio che aveva un porcellino su di una carriola. -Che brutti scherzi!- esclamò, e aiutò il buon Gianni ad alzarsi. Gianni raccontò quel che gli era successo. Il macellaio gli allungò la sua fiaschetta e gli disse: -Bevete un sorso che vi renderà le forze. Questa mucca non vi darà mai latte: è vecchia, e va giusto bene come bestia da tiro o da macello-. -Ahi, ahi- disse Gianni, passandosi una mano fra i capelli -chi l'avrebbe mai detto! Certo è una bella cosa poter macellare una bestia simile in casa propria! Quanta carne! Ma io non me ne faccio un gran che della carne di mucca: non la trovo abbastanza saporita. Un così bel maialino invece ha tutt'un altro sapore, senza parlar delle salsicce!- -Sentite, Gianni- disse il macellaio -vi farò un piacere e in cambio della mucca vi lascerò il porcello.- -Dio ricompensi la vostra cortesia!- disse Gianni; gli diede la mucca, fece slegare il porcellino dalla carriola e si fece mettere in mano la corda che lo legava. Gianni proseguì per la sua strada pensando come tutto gli andava bene: quando incappava in qualche contrattempo, subito riusciva a porvi rimedio. Poco dopo, s'imbatté‚ in un ragazzo che portava sotto il braccio una bell'oca bianca. Si salutarono e Gianni incominciò a raccontargli della sua fortuna, e degli scambi vantaggiosi che aveva fatto. Il ragazzo gli raccontò che portava l'oca a un pranzo di battesimo. -Provate un po' a sollevarla- soggiunse, afferrandola per le ali -com'è pesante ma è stata anche ingrassata per due mesi. A chi morde quest'arrosto, resterà la bocca unta!- -Sì- disse Gianni alzandola con una mano -è bella pesante, ma anche il mio maiale non scherza!- Il ragazzo prese allora a guardarsi attorno con aria pensierosa, e continuava a scuotere la testa. -Sentite- disse poi -per quel che riguarda il vostro maiale, deve esserci qualcosa sotto. Sono passato da un villaggio dove ne avevano appena rubato uno dalla stalla del sindaco. Temo proprio che si tratti di questo qui. Sarebbe un brutto affare se vi trovassero con l'animale come minimo vi ficcherebbero in gattabuia!- Il buon Gianni ebbe paura: -Ah, Dio- disse -aiutatemi a venirne fuori! Voi qui siete pratico della zona, prendetevi il maiale e lasciatemi la vostra oca.- -Certo è un bel rischio- rispose il ragazzo -ma non voglio che finiate nei guai per colpa mia.- Così prese in mano la corda e, in fretta, condusse via il maialino per una via traversa. Il buon Gianni, invece, liberato dalle sue preoccupazioni, proseguì il cammino verso casa con l'oca sotto il braccio. -A pensarci bene- diceva fra s‚ -ci ho guadagnato a fare cambio: per prima cosa c'è l'arrosto, poi tutto quell'unto che ne gocciolerà e darà grasso d'oca per tre mesi; e infine le belle piume bianche: con quelle ci farò imbottire il cuscino, così mi addormenterò senza bisogno di esser cullato. Come sarà contenta mia madre!- Attraversato l'ultimo paese, Gianni trovò un arrotino con il suo carretto; facendo girare la ruota per affilare i coltelli, egli così cantava:-Faccio l'arrotino, son svelto con la mola, giro e rigiro come una banderuola.-Gianni si fermò a guardarlo; alla fine gli rivolse la parola dicendo: -Pare proprio che ve la passiate bene, dato che siete così allegro!-. -Sì- rispose l'arrotino. -Chi conosce un mestiere è un uomo fortunato. Un bravo arrotino, quando mette la mano in tasca, ci trova del denaro. Ma dove avete comprato quella bell'oca?- -Non l'ho comprata, l'ho avuta in cambio di un maiale.- -E il maiale?- -L'ho avuto in cambio di una mucca.- -E la mucca?- -L'ho avuta in cambio di un cavallo.- -E il cavallo?- -Per averlo ho dato un pezzo d'oro grande come la mia testa.- -E l'oro?- -Eh, era la somma che mi spettava per aver prestato servizio sette anni!- -Avete sempre saputo arrangiarvi- disse l'arrotino. -Se adesso riuscite a sentir tintinnare i soldi in tasca, quando vi alzate, sarebbe fatta la vostra fortuna.- -E come potrei fare?- disse Gianni. -Dovete diventare un arrotino come me; per questo non serve che una mola, il resto viene da s‚. Ne ho qui una che è un po' rovinata, ma in cambio chiedo soltanto la vostra oca: siete d'accordo?- -E me lo chiedete?- rispose Gianni. -Diventerò l'uomo più fortunato di questa terra; se trovo del denaro ogni volta che infilo la mano in tasca, che cosa potrei desiderare di meglio?- e gli porse l'oca. -E ora- disse l'arrotino, raccogliendo una pietra qualunque che gli si trovava accanto -eccovi anche una bella pietra, su cui potrete picchiare per bene e raddrizzare i chiodi vecchi. Prendetela e serbatela con cura.- Gianni si caricò la pietra sulle spalle e proseguì il cammino con il cuore pieno di gioia; gli occhi gli luccicavano dalla contentezza, ed egli pensava fra s‚: "Devo proprio essere nato con la camicia! Tutto quello che desidero si avvera come se fossi venuto al mondo di domenica". Nel frattempo, siccome camminava dallo spuntar del giorno, incominciò a sentirsi stanco; inoltre lo tormentava la fame, poiché‚ aveva divorato in un colpo tutte le provviste, per la gioia di aver ottenuto la mucca. Ora avanzava a stento e doveva fermarsi in continuazione; e per di più le pietre gli pesavano terribilmente, Gianni continuava a pensare come sarebbe stato bello se non avesse dovuto portarle proprio allora. Lento come una lumaca, riuscì a trascinarsi fino a una sorgente, dove voleva sostare e rinfrescarsi con un bel sorso d'acqua fresca. Ma per non rovinare le pietre sedendosi, le posò con cautela accanto a s‚ sull'orlo della fonte. Poi si volse e si chinò per bere ma, per sbaglio, le urtò un poco e tutt'è due le pietre cascarono in acqua. Gianni, vedendole sprofondare, fece un salto di gioia e si inginocchiò a ringraziare Dio con le lacrime agli occhi per avergli concesso anche questa grazia: l'aveva liberato da quei pietroni in modo che egli non dovesse rimproverarsi nulla, era proprio quel che ci voleva per renderlo pienamente felice! -Felice come me- esclamò -non c'è davvero nessuno su questa terra!- A cuor leggero, e libero da ogni peso, corse via finché‚ arrivò a casa da sua madre.

    (F.lli Grimm)




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    Gianni si sposa

    C'era una volta un contadinello di nome Gianni. Suo cugino avrebbe voluto trovargli una moglie ricca, perciò un giorno lo mise a sedere dietro la stufa e fece accendere un bel fuoco. Poi prese una caraffa piena di latte e un bel po' di pane bianco, gli diede un soldo luccicante e nuovo di zecca e disse: -Gianni, tieni stretto il soldo, e il pane inzuppalo nel latte; e stai seduto qui senza muoverti finché‚ torno-. -Sì, lo farò- rispose Gianni. Il cugino infilò un paio di vecchi calzoni rattoppati, andò nel villaggio vicino, dalla figlia di un ricco contadino, e disse: -Non vorreste sposare mio cugino Gianni? Vi prendereste un uomo valido e capace che vi piacerà-. Il padre, avaro, domandò: -Come sta a quattrini? Ha di che bollire in pentola?-. -Caro amico- rispose il cugino -Gianni se ne sta seduto al caldo, qualche bel quattrino ce l'ha, né gli manca la zuppa. Inoltre di pezze ("Pezze": con questo termine si designavano le proprietà. Nota dell'Autore.) non dovrebbe averne meno delle mie!- E, così dicendo, si batté‚ le mani sui calzoni rattoppati. -Se volete incomodarvi a venire con me, vi sarà provato all'istante che le cose stanno come dico.- L'avaraccio non volle lasciarsi sfuggire quella bella occasione e disse: -Se è vero, non ho nulla contro questo matrimonio-. Così furono celebrate le nozze al giorno stabilito e quando la giovane moglie volle andare nei campi a vedere i beni dello sposo, Gianni si tolse il vestito della festa, indossò il camiciotto pieno di toppe e disse: -Il vestito buono potrei rovinarlo!-. Poi se ne andarono insieme nei campi e, per via, quando si vedevano i confini di un vigneto, di un campo o di un prato, Gianni li indicava con il dito, e batteva poi con la mano su di una pezza grande o piccola del suo camiciotto, dicendo: -Questo è mio, tesoro, e quello pure, guarda qui!-. E intendeva dire che la moglie non stesse a guardare i campi a bocca aperta, ma guardasse piuttosto il suo camiciotto, che era proprio suo. -Sei stato anche tu alle nozze?- -Eccome se ci sono stato! L'acconciatura era di burro, è venuto il sole e si è sciolta; il mio vestito era di ragnatela e si strappò passando fra le spine; le scarpe erano di vetro, ho inciampato in una pietra, hanno fatto "clink" e si sono spezzate!-

    (F.lli Grimm)
     
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  11. gheagabry
     
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    I tre uccelli

    Più di mille anni or sono nel nostro paese c'erano tanti piccoli re, e uno di essi abitava sul monte Keuter e gli piaceva molto andare a caccia. Una volta, mentre usciva dal castello con i suoi cacciatori, ai piedi del monte c'erano tre fanciulle che custodivano le mucche; e quando videro il re con tutta quella gente, la maggiore gridò alle altre due, indicando il re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. La seconda rispose, dall'altra parte del monte, indicando la persona che si trovava alla destra del re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. Allora la più giovane gridò, indicando la persona che si trovava alla sinistra del re: -Ehi, ehi! Se non ottengo quello, non voglio nessuno!-. E si trattava dei due ministri. Il re sentì tutto e, quando fu di ritorno dalla caccia, fece chiamare le tre fanciulle e chiese loro che cosa avessero detto il giorno prima ai piedi del monte. Esse non volevano dirlo, ma il re domandò alla maggiore se lo voleva per marito. Ella rispose di sì, e le sue sorelle sposarono i due ministri, poiché‚ erano tutt'e tre molto belle di viso, soprattutto la regina che aveva i capelli biondi come il lino. Ma le due sorelle non ebbero figli; e una volta che il re dovette partire, le fece chiamare per assistere la regina, che era incinta. Ella mise al mondo un maschietto con una stella rossa. Allora le due sorelle combinarono insieme di buttare in acqua quel bel bambino. Quando l'ebbero gettato nel fiume (credo che si trattasse del Weser), si alzò in volo un uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-All'udirlo, le due sorelle si spaventarono e fuggirono. Quando il re tornò a casa, gli dissero che la regina aveva partorito un cane. E il re disse: -Quello che fa Dio, è ben fatto-. Ma nei pressi del fiume abitava un pescatore, che tirò fuori dall'acqua il bambino ancora vivo e, siccome sua moglie non aveva figli, lo allevarono loro. L'anno dopo, il re dovette nuovamente assentarsi, e la regina mise al mondo un altro maschietto; le due sorelle malvagie lo presero e lo buttarono nel fiume, e di nuovo si alzò in volo l'uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-E quando il re tornò, le due sorelle gli dissero che la regina aveva di nuovo partorito un cane, ed egli ripeté‚: -Quello che fa Dio, è ben fatto-. Il pescatore tirò fuori dall'acqua anche questo bambino e lo allevò. Il re partì nuovamente e la regina partorì una bimba e le sorelle malvagie gettarono anche lei nel fiume. Di nuovo si alzò in volo l'uccellino che cantò:-Preparato per la morte fino a cambio della sorte, fra i mazzi di gigli c'è un dei miei figli?-Quando il re tornò a casa, gli dissero che la regina aveva partorito un gatto. Allora egli si arrabbiò e la fece gettare in carcere, dove rimase per lunghi anni. Nel frattempo i bambini erano cresciuti; una volta il maggiore andò a pescare con altri ragazzi, ma questi non lo volevano con loro e dicevano: -Vattene via, tu, figlio di nessuno!-. Egli ne fu molto addolorato e chiese al vecchio pescatore se fosse vero. Questi gli raccontò che una volta, pescando, l'aveva tirato fuori dall'acqua. Allora egli disse che voleva andare a cercare suo padre. Il pescatore lo pregò di rimanere ma egli non si lasciò convincere, e il pescatore finì col dargli il permesso. Egli si mise in cammino e camminò per giorni e giorni; finalmente arrivò a un gran fiume dove c'era una vecchia che pescava. -Buon giorno, nonnina!- disse il giovane. -Mille grazie!- -Credo che dovrai stare qui a lungo prima di prendere un pesce!- -E tu cercherai un bel po', prima di trovare tuo padre! Come fai ad attraversare il fiume?- disse la donna. -Già, lo sa Iddio!- Allora la vecchia se lo prese sulle spalle e lo portò sull'altra riva; ed egli cercò a lungo senza riuscire a trovare suo padre. Quando fu trascorso un anno, anche il secondo se ne andò a cercare il fratello; arrivò al fiume e tutto si svolse allo stesso modo. Ora a casa era rimasta solamente la fanciulla, e lamentava tanto la mancanza dei fratelli che finì anche lei col pregare il pescatore di lasciarla andare, poiché‚ voleva cercarli. Anche lei arrivò al grande fiume e disse alla vecchia: -Buon giorno, nonnina!-. -Mille grazie!- -Dio vi assista nella pesca!- All'udire queste parole, la vecchia divenne tutta gentile, la portò sull'altra riva, le diede una bacchetta e disse: -Continua sempre per questa strada, figlia mia, e quando passi vicino a un grosso cane nero, devi proseguire in silenzio e con coraggio, senza ridere e senza guardarlo. Poi arriverai a un grande castello aperto sulla cui soglia devi far cadere la bacchetta; e, andando sempre diritto, attraversa il castello ed esci dall'altra parte. Là c'è un vecchio pozzo e dal pozzo è cresciuto un grande albero al quale è appesa una gabbia con un uccello; prendila e prendi anche un bicchiere d'acqua dal pozzo e ritorna indietro per la stessa strada. Sulla soglia riprenditi la bacchetta e, quando passi nuovamente accanto al cane, picchialo sul muso, ma bada di colpirlo; infine torna da me-. La fanciulla trovò tutto come aveva detto la vecchia, e sulla via del ritorno trovò i due fratelli, che avevano girato mezzo mondo. Andarono insieme fino a dove si trovava il cane nero; ella lo colpì sul muso e quello divenne un bel principe, e li accompagnò al fiume. La vecchia era ancora là, e si rallegrò molto che fossero tornati tutti; li portò sull'altra riva e poi se ne andò anche lei poiché‚ ormai era libera dall'incanto. Gli altri invece andarono tutti dal vecchio pescatore ed erano tutti contenti di essersi ritrovati. La gabbia con l'uccello l'appesero al muro. Ma il secondo figlio non poteva stare fermo a casa; prese un arco e andò a caccia. Quando fu stanco, prese il suo flauto e suonò un'arietta. Ma anche il re era a caccia e l'udì; andò e quando incontrò il giovane disse: -Chi ti ha permesso di cacciare qui?-. -Oh, nessuno!- -Chi sei?- -Sono il figlio del pescatore.- -Quello non ha figli.- -Se non ci credi, vieni con me.- Il re andò e interrogò il pescatore che gli raccontò ogni cosa; e l'uccellino, alla parete, si mise a cantare:-La madre siede da sola, non c'è nessuno che la consola. Nobile Sire, potente Re, ecco i tuoi figli davanti a te! Due malvagie han tutto ordito, i bambini hanno rapito. Poi nell'acqua li han gettati, lui, per caso, li ha pescati.-Tutti inorridirono; allora il re portò con s‚ al castello l'uccello, il pescatore e i tre figli. Fece uscire di prigione la moglie che però era ammalata e consunta. Allora la figlia le diede da bere l'acqua del pozzo, ed ella ridiventò fresca e sana. Le due sorelle malvagie furono bruciate, e la figlia sposò il principe.

    (F.lli Grimm)
     
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  12. gheagabry
     
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    Gente furba

    Un giorno un contadino prese il suo rozzo bastone dall'angolo e disse a sua moglie: «Caterina, me ne vado in giro e tornerò fra tre giorni. Se nel frattempo il mercante di bestiame passa di qui e vuol comprare le nostre tre vacche gliele puoi vendere; ma solo per duecento scudi, non per meno, hai capito?».

    «Va' pure in nome di Dio - rispose la donna, - farò come dici».

    «Sì, sì tu! - disse il marito, - da bambina sei caduta sulla testa, e si vede ancora. Ma bada che se farai delle sciocchezze ti farò le spalle blu e senza adoperare colori, solo col bastone che ho in mano, e il colore durerà un anno intero, puoi stare tranquilla».

    E se ne andò.

    Il giorno dopo venne il mercante e la donna non ebbe bisogno di sprecare molte parole. Appena egli ebbe esaminato le mucche e seppe il prezzo, disse: «Lo pago volentieri, è un prezzo da fratelli. Porterò via tutte le bestie insieme». Le sciolse dalle catene e le spinse fuori della stalla. Ma quando stava per uscire dalla porta del cortile, la donna lo prese per le spalle e disse: «Dovete darmi prima i duecento scudi, altrimenti non vi lascio andare».

    «È giusto - rispose l'uomo - solo che ho dimenticato di prendere la borsa. Ma non preoccupatevi, avete la sicurezza che pagherò. Prenderò solo due mucche e vi lascio la terza, così avrete un buon pegno».

    Alla donna l'affare parve buono; lasciò partire il mercante con le sue mucche e pensò: «Come sarà contento Gianni quando vedrà che ho concluso l'affare così astutamente».

    Il contadino, come aveva detto, tornò a casa dopo tre giorni e domandò subito se le mucche erano state vendute.

    «Certamente, caro Gianni - rispose la moglie, - e per duecento scudi come tu hai detto. Esse li valgono appena, ma il mercante le ha prese senza contestare».

    «Dov'è il denaro?», domandò il contadino.

    «Il denaro non l'ho - rispose la moglie, - egli aveva appunto dimenticato la borsa, ma lo porterà subito, e mi ha lasciato un buon pegno».

    «Che pegno?», domandò il marito.

    «Una delle tre mucche, che non prenderà se prima non avrà pagato le altre. Ho condotto bene l'affare e ho tenuto la più piccola che mangia di meno».

    Il marito montò in collera, levò il bastone e voleva darle il colore promesso. Ma d'un tratto lo lasciò ricadere e disse: «Tu sei la più stupida delle oche che cammina barcollando sulla superficie della terra, ma mi fai compassione. Voglio andar sulla strada principale e aspettare per tre giorni, forse troverò qualcuno che sia ancora più balordo di te. Se mi riesce, sarai salva, ma se non lo trovo dovrai ricevere il tuo salario ben meritato e senza riduzione».

    Se ne andò sulla strada principale, si sedette su una pietra e aspettò le cose che dovevano venire. Finalmente vide avanzarsi un carro sul quale una donna stava ritta nel mezzo invece di sedere sul fascio di paglia, o di andare vicino ai buoi per guidarli.

    L'uomo pensò: «Eccone una di quelle che cerco», saltò su e corse di qua e di là dinanzi al carro come uno che ha perduto il cervello.

    «Che cosa desiderate, compare? - gli chiese la donna. - Non vi conosco. Di dove venite?».

    «Sono caduto dal cielo - rispose l'uomo, - e non so come ritornarci, non mi ci potete ricondurre col vostro carro?».

    «No - disse la donna, - non conosco la strada. Ma, se venite dal cielo, potete dirmi come sta mio marito che è là già da tre anni; l'avrete visto certamente!».

    «Certo che l'ho visto, ma non a tutti la va bene. Egli custodisce le pecore e le care bestie lo fanno ammattire; saltano sulle montagne e si perdono nella foresta e lui deve corrergli dietro e ricomporre il gregge. Tra poco gli abiti, che ha stracciati, gli cadranno di dosso. Lassù non ci sono sarti perché, come racconta la novella7, San Pietro non li lascia entrare».

    «Chi lo avrebbe immaginato! - gridò la donna. - Ma sapete cosa farò? Prenderò il suo abito della domenica che è ancora in casa appeso all'armadio e che potrà indossare lassù con onore. Siate gentile e portateglielo voi».

    «Non è possibile - rispose il contadino, - in cielo non è permesso portare vestiti, alla porta li sequestrano».

    «Sentite - disse la donna, - ieri ho venduto il mio grano e ho ricevuto un discreto gruzzolo, glielo voglio mandare. Se vi metterete la borsa in tasca, nessuno se ne accorgerà».

    «Certo - rispose il contadino, - questo piacere ve lo farò volentieri».

    «Restate qui - disse la donna, - andrò a casa, prenderò la borsa e sarò di ritorno fra poco. Non mi siedo sul fascio di paglia e sto in piedi sul carro perché le bestie siano più leggere».

    Stimolò i buoi e il contadino pensò: «Essa è proprio stupida e porterà davvero il denaro; mia moglie può dirsi fortunata perché in questo caso non riceverà nemmeno un colpo».

    Non passò molto tempo che la donna tornò di corsa con la borsa che lei stessa gli mise in tasca; e prima di andar via lo ringraziò ancora mille volte per la sua gentilezza.

    (F.lli Grimm)
     
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  13. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    Il dottor Satutto

    C'era una volta un povero contadino chiamato Gambero, che aveva portato con due buoi un carico di legna in città e l'aveva venduta per due scudi a un dottore. Mentre veniva pagato il dottore sedeva a tavola, e il contadino vide che mangiava e beveva così bene che c'era da lasciarci il cuore, e avrebbe fatto volentieri il dottore anche lui. Così rimase là ancora un pochino e poi chiese se anche lui poteva diventarlo. -Oh, sì!- rispose il dottore -è presto fatto. Prima di tutto devi comprare un abbecedario, cioè un libro con un gallo sul frontespizio; poi vendi il carro con i buoi e con il ricavato comprati dei vestiti e tutto ciò che occorre a un dottore; infine fatti dipingere un'insegna con le parole: "Io sono il dottor Satutto- e falla appendere in alto, sopra all'uscio di casa tua.- Il contadino fece tutto come gli era stato consigliato. Non aveva incominciato da molto a fare il dottore, quando rubarono del denaro a un gran signore. Questi sentì parlare del dottore Satutto, che abitava nel tal villaggio, e che doveva sapere dov'era finito il denaro. Allora il signore fece attaccare la carrozza, si recò al villaggio e gli chiese se egli fosse il dottor Satutto. Sì, lo era. Allora doveva accompagnarlo e ritrovare il denaro rubato. Sì, disse, ma doveva venire anche sua moglie, la Ghita. Il signore acconsentì, li fece salire in carrozza e partirono insieme. Quando arrivarono al palazzo nobile la tavola era pronta, e il dottore doveva prima pranzare con loro. Sì, disse, ma anche sua moglie, la Ghita; e sedette a tavola con lei. Quando arrivò il primo servitore con un vassoio colmo di cibo, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il primo-. E intendeva dire che era quello che portava il primo piatto. Il servitore invece pensò ch'egli avesse voluto dire: "E' il primo ladro- e siccome lo era davvero, ebbe paura e disse ai suoi compagni, fuori: -Il dottore sa tutto, ci va male: ha detto che io ero il primo!-. Il secondo non voleva entrare, ma vi fu costretto. Quando entrò con il vassoio, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il secondo-. Anche il secondo ebbe paura e si affrettò a uscire. Al terzo le cose non andarono meglio; il contadino disse nuovamente: -Ghita, questo è il terzo-. Il quarto dovette portare un piatto coperto; e il padrone di casa disse al dottore che doveva dar prova della sua arte e indovinare cosa c'era sotto; erano gamberi. Il contadino guardò il piatto e, non sapendo che dire, esclamò: -Ah, povero Gambero!-. All'udirlo, il signore gridò: -Guarda, lo sa! Allora sa anche chi ha il denaro!-. Ma il servo ebbe una gran paura e ammiccò al dottore che uscisse un momento. Fuori, gli confessarono tutti e quattro di aver rubato il denaro: erano ben contenti di restituirlo e di dargli anche una grossa somma in aggiunta, se egli non li tradiva: ne andava della loro vita. Poi lo condussero dov'era nascosto il denaro. Il dottore acconsentì, rientrò e disse: -Signore, adesso voglio cercare nel mio libro dov'è nascosto il denaro-. Ma il quinto servo si rannicchiò nella stufa, per sentire se il dottore ne sapesse di più. Questi aprì il suo abbecedario e lo sfogliò qua e là, cercando il gallo. Siccome non lo trovò subito, disse: -Eppure sei qui dentro e devi uscire!-. Quello che era nella stufa credette che stesse parlando con lui, saltò fuori pieno di paura e gridò: -Quest'uomo sa tutto!-. Il dottor Satutto mostrò al padrone di casa dove si trovava il denaro, senza però dire chi l'aveva rubato; fu ricompensato da ambo le parti con molto denaro, e divenne un uomo famoso.

    (F.lli Grimm)




    Favole Classiche

    Lo spirito nella bottiglia

    C’era una volta un povero taglialegna che lavorava dal mattino fino a notte tarda. Quand’ebbe finalmente racimolato un po’ di denaro, disse a suo figlio: “Sei il mio unico figlio: il denaro che ho guadagnato con il sudore della mia fronte voglio impiegarlo per la tua istruzione; se impari qualcosa per bene, puoi mantenermi da vecchio, quando le mie membra si saranno indurite e dovrò starmene a casa.” Così il giovane andò all’Università e studiò assiduamente, tanto da meritarsi le lodi dei maestri, e rimase là per qualche tempo. Aveva già frequentato un paio di corsi, ma non si era ancora perfezionato in tutto, che già quel poco denaro guadagnato dal padre era sfumato, ed egli dovette fare ritorno a casa. “Ah!” disse il padre tristemente, “non ho più nulla da darti, e in tempi così difficili non posso neanche guadagnare un centesimo in più del pane quotidiano.” - “Caro babbo,” rispose il figlio, “non crucciatevi tanto: se questa è la volontà di Dio, sarà per il mio meglio; mi adatterò. Rimarrò qui e verrò con voi nel bosco ad accatastare e a tagliar legna.” - “Ma figlio mio,” disse il padre, “faresti troppa fatica; non sei abituato ai lavori pesanti, non resisteresti; e poi ho soltanto un’ascia e non ho denaro per comprarne un’altra.” - “Andate dal vicino,” rispose il figlio, “vi impresterà la sua ascia finché‚ non avrò i soldi per comprarmene una.”

    Allora il padre andò dal vicino, si fece prestare l’ascia e il mattino dopo, all’alba, andarono insieme nel bosco. Il figlio aiutava il padre ed era tutto allegro e brioso. Quando il sole fu a picco, il padre disse: “Riposiamoci e mangiamo: dopo riprenderemo con maggior vigore.” Il figlio prese il suo pane e disse: “Riposatevi pure, babbo, io non sono stanco; andrò un poco in giro per il bosco in cerca di nidi.” - “Oh che sciocchino!” disse il padre. “Cosa vuoi mai andartene in giro a zonzo? Poi ti stanchi e non puoi più alzare il braccio; resta qui e siediti accanto a me.”

    Ma il figlio se ne andò nel bosco, mangiò il suo pane ed era tutto allegro, e guardava tra il verde dei rami, se mai scorgesse qualche nido. Così se ne andò di qua e di là finché‚ giunse a una grossa quercia dall’aria minacciosa, che certo doveva avere molti secoli, e cinque uomini insieme non avrebbero potuto circondarla. Si fermò a guardarla e pensò che qualche uccello doveva pur averci fatto il nido. D’un tratto gli parve di avere udito una voce umana. Tese l’orecchio, e sentì come un cupo grido: “Lasciami uscire, lasciami uscire!” Si guardò attorno, ma non vide nessuno; e gli sembrava che la voce uscisse da sotto terra. Allora gridò: “Dove sei?” La voce rispose: “Sono qua sotto, fra le radici della quercia. Fammi uscire, fammi uscire!” Lo studente si mise a rimuovere la terra sotto l’albero e a cercare fra le radici, finché‚ vi trovò una bottiglietta. L’alzò, e mettendola controluce, vide una cosetta simile a una rana, che saltava su e giù. “Lasciami uscire, lasciami uscire!” gridò di nuovo; e lo studente, che non pensava a nulla di male, tolse il tappo alla bottiglia. Subito ne uscì uno spirito che incominciò a crescere, e crebbe così in fretta che in un attimo davanti allo studente stava un orrendo mostro, grande come metà dell’albero. “Sai,” gridò con voce da far paura, “qual è la ricompensa che ti spetta per avermi liberato?” - “No,” rispose lo studente senza paura. “Come faccio a saperlo?” - “Allora te lo dirò io!” gridò lo spirito. “Devo romperti il collo!” - “Avresti dovuto dirmelo prima,” rispose lo studente, “e ti avrei lasciato dov’eri. Ma la mia testa rimarrà dove si trova; devi domandare ad altri.” - “Ma che altri!” gridò lo spirito. “Devi avere la tua ricompensa! Pensi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompere il collo.” - “Piano,” rispose lo studente, “non così in fretta! Prima devo sapere se sei davvero stato in quella bottiglietta e se sei proprio lo spirito vero; se sei capace di rientrarci, allora ti crederò e potrai fare di me quel che vorrai.” - “Oh!” disse lo spirito superbamente, “niente di più facile!” Rimpicciolì, e si fece così sottile e piccino come era stato all’inizio, in modo da poter passare attraverso il collo della bottiglia. Ma vi era appena entrato che lo studente rimise il tappo, gettò la bottiglia al suo posto fra le radici della pianta, e così lo spirito fu ingannato.

    Lo studente voleva ritornare da suo padre, ma lo spirito gridò con voce lamentosa: “Ah! Lasciami uscire, lasciami uscire!” - “No,” rispose lo studente, “non una seconda volta. Chi ha attentato alla mia vita, se l’acchiappo, non lo rimetto in libertà.” - “Liberami,” gridò lo spirito, “e ti ricompenserò per il resto della tua vita.” - “No,” rispose lo studente, “mi inganni come la prima volta.” - “Stai sprecando la tua fortuna,” disse lo spirito, “non ti farò niente, e ti ricompenserò invece, riccamente.” Lo studente pensò: “Voglio tentare; forse mantiene la promessa e non mi farà del male.” Tolse il tappo e lo spirito uscì come la prima volta, s’ingrandì e diventò come un gigante. Porse allo studente uno straccetto simile a un cerotto e disse: “Se con un capo tocchi una ferita, guarisce subito; e se con l’altro tocchi ferro o acciaio, lo tramuti in argento.” - “Devo prima provare!” disse lo studente; andò a un albero e ne scalfi la corteccia con l’ascia, poi la strofinò con un capo del cerotto: subito la ferita si richiuse e guarì. “E’ proprio vero!” disse allo spirito. “Adesso possiamo separarci.” Lo spirito lo ringraziò per averlo liberato, e lo studente ringraziò lo spirito per il suo dono e tornò dal padre.

    “Dov’eri finito?” domandò il padre. “Hai dimenticato il lavoro: io l’avevo detto subito che non avresti combinato nulla!” - “State tranquillo babbo, rimedierò.” - “Sì, rimediare!” disse il padre in collera. “Ci vuol altro!” - “Fate attenzione, babbo, voglio buttare giù con un solo colpo quell’albero, da farlo schiantare.” Prese il cerotto, lo passò sull’ascia e menò un gran colpo; ma siccome il ferro si era mutato in argento, il taglio si ripiegò. “Babbo, guardate un po’ che cattiva ascia mi avete dato; si è piegata tutta!” Allora il padre si spaventò e disse: “Ah, cos’hai fatto! Adesso devo pagare l’ascia e non so come fare: questo è il vantaggio che ho dal tuo lavoro!” - “Non arrabbiatevi” rispose il figlio “l’ascia la pagherò io.” - “Oh, sciocco!” gridò il padre “e con che cosa vorresti pagarla? Non hai niente all’infuori di quello che ti do io; hai soltanto grilli da studente nella testa, ma quanto a tagliar la legna, non ne capisci niente!”

    Dopo un po’ lo studente disse: “Babbo, non posso più lavorare, smettiamo.” - “Come!” rispose il padre. “Pensi forse ch’io voglia starmene con le mani in mano, come te? Devo lavorare ancora, tu vattene se vuoi.” - “Babbo, è la prima volta che vengo nel bosco, e non so trovare la strada da solo: venite con me.” Poiché‚ la rabbia gli era sbollita, il padre si lasciò infine convincere e andò a casa con lui. Allora disse al figlio: “Va’ a vendere l’ascia guasta e guarda un po’ quel che ne ricavi; il resto dovrò guadagnarlo io per poterla pagare.” Il figlio prese l’ascia e la portò in città da un orefice; questi la saggiò, la mise su di una bilancia e disse: “Vale quattrocento scudi, ma non ne ho abbastanza in contanti.” Lo studente disse: “Datemi quello che avete; del resto vi faccio credito.” L’orefice gli diede trecento scudi e restò in debito di cento. Poi lo studente andò a casa e disse: “Babbo, ho il denaro: andate a chiedere al vicino quanto vuole per l’ascia.” - “Lo so già,” rispose il vecchio, “uno scudo e sei soldi.” - “Allora dategli due scudi e dodici soldi; è il doppio e mi pare che basti. Guardate, ho denaro in abbondanza!” Diede al padre cento scudi e disse: “Non ve ne mancherà mai, vivete comodamente.” - “Dio mio,” disse il vecchio, “come hai fatto ad avere tutta quella ricchezza?” Allora il figlio gli raccontò com’erano andate le cose, e quale ricca preda avesse fatto nel bosco, confidando nella sua fortuna. Con il resto del denaro, tornò all’Università e continuò a studiare; e siccome con il suo cerotto poteva risanare tutte le ferite, divenne il dottore più famoso del mondo.

    (F.lli Grimm)
     
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  14. gheagabry
     
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    Il fuligginoso fratello del diavolo

    Un soldato in congedo non aveva di che vivere e non sapeva che pesci prendere. Andò nel bosco e, dopo aver camminato per un po’, incontrò un omino che era il diavolo. L’omino gli disse: “Che cos’hai? Hai un’aria così triste!” Allora il soldato rispose: “Ho fame e non ho denaro.” Disse il diavolo: “Se vuoi entrare al mio servizio e diventare mio servo, ne avrai abbastanza per tutta la vita. Devi servirmi per sette anni, poi sarai libero, ma a una condizione: non puoi lavarti n’ pettinarti, non devi soffiarti il naso, n’ tagliarti unghie e capelli, non devi asciugarti gli occhi.” Il soldato disse: “E sia se così dev’essere!” E se n’andò con l’omino che lo condusse dritto all’inferno. Poi gli disse quali erano i suoi compiti: doveva attizzare il fuoco sotto i paioli dov’erano i dannati, tenere pulita la casa, portare la spazzatura dietro la porta e badare che fosse tutto in ordine. Ma se avesse guardato anche una sola volta nei paioli, gli sarebbe andata male. Il soldato disse: “Va bene, provvederò a tutto.” Il vecchio diavolo tornò a uscire, e il soldato incominciò il suo servizio: accese il fuoco, scopò e portò la spazzatura dietro la porta. Quando il vecchio diavolo ritornò, si mostrò soddisfatto e uscì per la seconda volta. Il soldato si guardò bene attorno: tutt’in giro c’erano i paioli, e sotto era acceso un bel fuoco e si sentiva bollire e sfrigolare. Avrebbe dato l’anima per guardarci dentro, ma gli era stato vietato così severamente! Alla fine non pot‚ più trattenersi, si avvicinò e sollevò un pochino il coperchio del primo paiolo, guardandoci dentro. Ci vide seduto dentro il suo antico furiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Lasciò cadere in fretta il coperchio, attizzò il fuoco e aggiunse dell’altra legna. Poi andò al secondo paiolo, sollevò un poco il coperchio e diede un’occhiatina: dentro c’era il suo alfiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Chiuse di nuovo il coperchio e aggiunse un altro ceppo, che lo scaldasse per bene. Adesso volle vedere chi c’era nel terzo paiolo: c’era addirittura il suo generale. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Prese il soffietto e fece divampare il fuoco dell’inferno proprio sotto quel paiolo. Così prestò servizio per sette anni; non si lavò, non si pettinò, non si soffiò il naso, non si tagliò n’ unghie n’ capelli e non si asciugò gli occhi, e i sette anni passarono così in fretta che gli sembrò non fossero trascorsi più di sei mesi. Quando fu trascorso tutto quel tempo, venne il diavolo e disse: “Bene, che cosa hai fatto?” - “Ho attizzato il fuoco sotto i paioli, ho spazzato e portato la spazzatura dietro la porta.” - “Però hai anche guardato dentro ai paioli. Per tua fortuna hai aggiunto altra legna, altrimenti eri perduto. Adesso il tuo servizio è finito; vuoi tornare a casa?” - “Sì,” rispose il soldato, “vorrei vedere che cosa fa mio padre.” Disse il diavolo: “Perché‚ tu abbia il compenso che ti sei meritato, va’ a riempirti lo zaino di spazzatura, e portatela a casa. Devi andare senza lavarti, senza pettinarti, con i capelli e la barba lunga, con le unghie non tagliate e gli occhi cisposi; e se ti chiedono da dove vieni, devi dire: ‘Dall’inferno.’ E se ti chiedono chi sei, devi dire: ‘Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.’” Il soldato tacque e fece quello che gli aveva detto di fare il diavolo, ma non era affatto soddisfatto della sua ricompensa.

    Quando ritornò sulla terra e si trovò nel bosco, tolse lo zaino dalla schiena e voleva vuotarlo. Ma quando lo aprì, la spazzatura era diventata oro puro. Al vederlo, egli fu tutto contento ed entrò in città. Davanti all’osteria c’era l’oste, e vedendolo venire si spaventò perché‚ aveva un aspetto orrendo, peggio di uno spaventapasseri. Lo chiamò e gli disse: “Da dove vieni?” - “Dall’inferno.” - “Chi sei?” - “Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.” L’oste non voleva lasciarlo entrare ma, quando gli mostrò l’oro, andò ad aprirgli egli stesso la porta. Il soldato si fece dare la stanza migliore, si fece servire di tutto punto, mangiò e bevve a sazietà, ma non si lavò, n‚ si pettinò come gli aveva detto di fare il diavolo; infine si mise a letto. Ma l’oste continuava ad avere davanti agli occhi quello zaino pieno d’oro, e non ebbe pace finché, durante la notte, entrò di soppiatto e glielo rubò.

    Il mattino dopo, quando il soldato si alzò, voleva pagare l’oste e proseguire il cammino, ma lo zaino era sparito. Subito si dominò e pensò: “Della tua sfortuna non hai colpa.” E se ne tornò dritto all’inferno dove si lagnò con il vecchio diavolo della sua sventura e gli chiese aiuto. Il diavolo disse: “Ti laverò, ti pettinerò e ti soffierò il naso, ti taglierò unghie e capelli e ti pulirò gli occhi.” Quand’ebbe finito, tornò a dargli lo zaino pieno di spazzatura e disse: “Vai e di’ all’oste di ridarti l’oro, altrimenti vengo io a prenderlo e lo faccio lavorare al tuo posto.” Il soldato tornò su e disse all’oste: “Tu hai rubato il mio oro: se non me lo restituisci, finirai all’inferno al mio posto, e avrai l’aspetto orribile che avevo io.” Allora l’oste gli diede l’oro e n’aggiunse dell’altro ancora, pregandolo di tacere; così egli divenne un uomo ricco.

    Si mise in cammino per tornare da suo padre, si comprò un brutto camiciotto di tela e se n’andò in giro a suonare, poiché‚ all’inferno, stando con il diavolo, aveva imparato. Nel paese c’era un vecchio re, ed egli dovette suonare alla sua presenza; il re ne fu così contento, che gli promise in moglie la figlia maggiore. Ma quando costei udì che doveva sposare un uomo qualsiasi, con un camiciotto bianco, disse: “Piuttosto mi butterei in fondo a un pozzo.” Allora il re gli diede la più giovane, che acconsentì per amore del padre. Così il fuligginoso fratello del diavolo sposò la principessa e alla morte del vecchio re ereditò anche il regno.

    (F.lli Grimm)




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    Il re di macchia e l'orso

    Una volta, d'estate, l'orso e il lupo se ne andavano insieme a spasso nel bosco; l'orso udì un dolce canto d'uccello e disse -Fratello lupo, che uccello è questo che canta così bene?-. -E' il re degli uccelli- rispose il lupo -dobbiamo inchinarci davanti a lui.- E invece era il re di macchia. -Se è così- disse l'orso -mi piacerebbe anche vedere la sua reggia: vieni, conducimi da lui.- -Non è così facile come credi- disse il lupo. -Devi aspettare che torni Sua Maestà la regina.- Poco dopo giunse Sua Maestà la regina con un po' di cibo nel becco, e così pure Sua Maestà il re; e volevano imbeccare i loro piccoli. L'orso avrebbe voluto seguirli subito, ma il lupo lo trattenne per la manica e disse: -No, prima devi aspettare che il re e la regina se ne siano andati-. Così guardarono bene dove si trovava il nido e se ne andarono. Ma l'orso non aveva pace, voleva vedere la reggia, e poco dopo tornò là davanti. Il re e la regina erano volati via: egli guardò dentro e vide cinque o sei piccoli nel nido -Sarebbe questa la reggia?- disse l'orso. -E' un palazzo ben misero! E anche voi non siete principini, ma gentaglia!- All'udire queste parole, gli scriccioletti andarono su tutte le furie e gridarono: -No, questo non è vero, i nostri genitori sono gente onorata. Orso, questa ce la pagherai!-. Il lupo e l'orso si spaventarono, e scapparono a rifugiarsi nelle loro tane. Ma i piccoli scriccioletti continuarono a gridare e a strepitare, e quando i genitori ritornarono con il cibo dissero: -Non toccheremo neanche una zampetta di mosca, a costo di morir di fame, se prima non mettete in chiaro se siamo o no gente onorata: è venuto l'orso e ci ha insultati-. Allora il vecchio re disse -State tranquilli, tutto sarà chiarito-. Poi volò con Sua Maestà la regina davanti alla tana dell'orso e gridò: -Orso brontolone, hai insultato i nostri piccoli: peggio per te, risolveremo la cosa in una guerra sanguinosa-. Così dichiararono guerra all'orso e furono chiamati a raccolta tutti i quadrupedi: il bue, l'asino, il toro, il cervo, il capriolo e tutte le bestie che vi sono sulla terra. Il re di macchia, invece, radunò tutte quelle che volano, non solo gli uccelli grandi e piccoli, ma anche le zanzare, i calabroni, le api e le mosche. Quando venne il momento di incominciare la guerra, il re di macchia inviò delle spie per sapere chi fosse il comandante in capo del nemico. La zanzara fu più furba di tutti, vagò per il bosco dove si radunava il nemico e andò infine a posarsi sotto una foglia dell'albero dove si dava la parola d'ordine. C'era l'orso che chiamò la volpe e disse: -Volpe, tu sei il più astuto degli animali, devi essere generale e guidarci; quali segnali adopereremo?-. La volpe rispose: -Io ho una bella coda lunga e folta che sembra quasi un pennacchio rosso: se la tengo diritta, le cose vanno bene, e voi dovete andare all'assalto; se invece la lascio pendere, scappate via in fretta-. Dopo aver sentito questo, la zanzara volò via e riferì tutto per filo e per segno al re di macchia. Quando giunse il giorno in cui si doveva dare battaglia, olà, i quadrupedi arrivarono di carriera facendo tanto rumore che la terra tremava; anche il re di macchia giunse a volo con la sua armata che ronzava, strillava e svolazzava da far paura. Così mossero gli uni contro gli altri. Ma il re di macchia mandò giù il calabrone, che doveva posarsi sotto la coda della volpe e pungerla a più non posso. Alla prima puntura, la volpe saltò su e alzò una gamba, ma sopportò e tenne la coda diritta; alla seconda dovette abbassarla per un momento; ma alla terza non pot‚ più trattenersi, mandò un grido e si prese la coda fra le gambe. A quella vista, gli animali credettero che tutto fosse perduto e si misero a correre, ognuno nella sua tana. Così gli uccelli vinsero la battaglia. Allora il re e la regina volarono dai loro piccoli e gridarono: -Allegri piccini, mangiate e bevete a volontà: abbiamo vinto la guerra!-. Ma i piccoli scriccioletti dissero: -Non mangiamo ancora: prima l'orso deve venire davanti al nido a scusarsi e dire che siamo figli di gente onorata-. Allora il re di macchia volò alla tana dell'orso e gridò: -Orso brontolone, devi andare al nido dai miei piccini a chiedere perdono, e devi dire che sono figli di gente onorata, altrimenti ti romperemo le costole-. L orso, pieno di paura, andò a chieder perdono. Allora finalmente i piccoli scriccioletti si sedettero tutti insieme, mangiarono, bevvero e se la spassarono fino a tarda notte.

    (F.lli Grimm)



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    La pappa dolce

    C'era una volta una povera fanciulla pia, che viveva sola con sua madre; e non avevano più nulla da mangiare. Allora la fanciulla andò nel bosco e incontrò una vecchia che già conosceva la sua povertà, e che le regalò un pentolino. Doveva dirgli: -Cuoci la pappa, pentolino!- e il pentolino cuoceva una buona pappa dolce di miglio; e quando diceva: -Fermati, pentolino!- il pentolino smetteva di cuocere. La fanciulla lo portò a casa a sua madre: la loro miseria e la loro fame erano ormai finite, ed esse mangiavano pappa dolce ogni volta che volevano. Un giorno che la fanciulla era uscita, la madre disse: -Cuoci la pappa, pentolino!-. Quello fa la pappa ed ella mangia a sazietà; ora vuole che il pentolino la smetta, ma non sa la parola magica. Così quello continua a cuocere la pappa, e la pappa trabocca e cresce e riempie la cucina e l'intera casa, e l'altra casa ancora e poi la strada, come se volesse saziare tutto il mondo, ed è un bel guaio e nessuno sa come cavarsela. Infine, quando non restava una sola casa intatta, ritorna a casa la fanciulla e dice: -Fermati, pentolino!- e il pentolino si ferma e smette di fare la pappa; e chi volle tornare in città, dovette farsi strada mangiando.

    (F.lli Grimm)
     
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  15. gheagabry
     
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    Il saggio piccolo sarto

    C'era una volta una principessa molto superba: ogni volta che si presentava un pretendente, ella gli proponeva un indovinello, e se egli non sapeva risolverlo lo scacciava deridendolo. Fece sapere, inoltre, che colui che avesse indovinato l'avrebbe sposata; e poteva presentarsi chi voleva. Ora si trovarono insieme anche tre sarti: i due più vecchi pensavano che avevano azzeccato tanti bei punti e quindi avrebbero azzeccato sicuramente anche questa; il terzo invece era uno sbarbatello buono a nulla, che non conosceva neanche il proprio mestiere. E gli altri due gli dissero: -Resta pure a casa, tanto non andrai molto lontano con quel poco sale che hai in zucca!-. Ma il piccolo sarto non si lasciò confondere e disse che scommetteva la testa che se la sarebbe cavata; e se ne andò, come se fosse il padrone del mondo. Si presentarono tutti e tre alla principessa e le dissero che doveva proporre il suo indovinello: erano proprio i tipi giusti, con un ingegno così fino che lo si poteva infilare in un ago. La principessa disse: -Ho in testa capelli di due diverse specie, di che colore sono?-. -Se è tutto qui- disse il primo -saranno bianchi e neri come il cumino e il sale-. La principessa esclamò. -Sbagliato! risponda il secondo-. Il secondo disse: -Se non è bianco e nero, è rosso e bruno, come l'abito da festa di mio padre-. -Sbagliato!- esclamò la principessa. -Risponda il terzo, vedo che lo sa di sicuro.- Allora il piccolo sarto si fece avanti e disse: -La principessa ha in testa un capello d'argento e uno d'oro, e questi sono i due colori-. All'udirlo, la principessa impallidì e stava quasi per cadere dallo spavento, perché‚ il piccolo sarto aveva indovinato, ed ella era convinta che nessuno al mondo ci sarebbe riuscito. Quando tornò in s‚ disse: -Con ciò non mi hai ancora conquistata; devi fare un'altra cosa: giù nella stalla c'è un orso e tu devi trascorrere la notte con lui. Domani, quando mi alzo, se sei ancora vivo mi sposerai-. Ma pensava di sbarazzarsi così del piccolo sarto, perché‚ l'orso non aveva ancora lasciato vivo nessuno che gli fosse capitato fra le zampe. Il piccolo sarto rispose allegramente: -Farò anche questo!-. Quando venne la sera, il nostro piccolo sarto fu condotto giù dall'orso. L'orso voleva subito scagliarsi su di lui e dargli il benvenuto con la zampa. -Piano, piano!- disse il piccolo sarto -ti calmerò io.- Come se non avesse alcun timore, trasse di tasca delle noci, le ruppe con i denti e mangiò il gheriglio. Al vederlo anche l'orso ebbe voglia di noci. Il piccolo sarto mise la mano in tasca e gliene porse una manciata: ma non erano noci, bensì sassi. L'orso se li mise in bocca ma, per quanto mordesse, non riusciva a romperli. "Ehi" pensava "che razza di tonto che sei! Non sei neanche capace di rompere delle noci!" e disse al piccolo sarto: -Per favore, rompile tu-. -Vedi che tipo sei!- disse il piccolo sarto -hai una bocca enorme e non sai rompere una piccola noce!- Prese la pietra, ma in fretta si mise in bocca una noce e crac! eccola spezzata in due. -Devo provare ancora una volta- disse l'orso -vedendoti, mi pare che dovrei riuscirci anch'io.- Allora il piccolo sarto tornò a dargli le pietre e l'orso si mise a darci dentro con tutte le sue forze. Ma non credere certo che le abbia aperte! Poi il piccolo sarto tirò fuori un violino da sotto la giubba e suonò un'arietta. All'udirlo, l'orso non pot‚ resistere e si mise a ballare e dopo aver ballato un po' ci prese tanto gusto che disse al piccolo sarto: -Senti, è difficile suonare il violino?-. -Oh, niente affatto: vedi, ci metto sopra le dita della sinistra, e con la destra ci passo l'archetto; e allegria! trallallera, trallallà!- -Potresti insegnarmelo?- domandò l'orso. -Mi piacerebbe sapere suonare così, per poter ballare ogni volta che ne ho voglia.- -Di tutto cuore- rispose il piccolo sarto -ma se vuoi imparare, devi prima mostrarmi le zampe: sono terribilmente grandi, devo prima tagliarti un po' le unghie.- Allora prese una morsa e l'orso ci mise sopra le zampe, ma il piccolo sarto l'avvitò e disse: -Adesso aspetta che venga con le forbici!-. Lo lasciò brontolare finché‚ ne ebbe voglia, si sdraiò in un angolo, su di un fascio di paglia e si addormentò. Quella sera la principessa, sentendo l'orso brontolare così forte, pensò che brontolasse per la gioia e che avesse ucciso il piccolo sarto. Così al mattino si alzò tutta contenta, ma quando guardò verso la stalla vide il piccolo sarto vispo e arzillo come un pesce. Ormai ella non poteva più far nulla perché‚ aveva promesso pubblicamente; il re fece venire una carrozza, ed ella dovette andare in chiesa con il piccolo sarto per sposarsi. Quando furono saliti in carrozza, gli altri due sarti, che erano cattivi e gli invidiavano la fortuna, andarono nella stalla e liberarono l'orso. L'animale, pieno di rabbia, si mise a correre dietro la carrozza. La principessa lo udì sbuffare, ebbe paura e disse: -Ah, l'orso ci insegue e vuole catturarti!-. Ma il piccolo sarto si mise in fretta a testa in giù, sporse le gambe dalla finestra e gridò: -Vedi la morsa? Se non te ne vai, ci torni dentro-. A quella vista l'orso si voltò e corse via. Il nostro piccolo sarto se ne andò invece tranquillamente in chiesa, sposò la principessa e visse con le felice come un'allodola. Chi non ci crede, paghi uno scudo.

    (F.lli Grimm)
     
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