RACCONTI SOTTO L'OMBRELLONE

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    COME NOI


    Ipermercato di una grande città, sera.
    La gente spinge i carrelli, controlla i prezzi, prende qualcosa.
    C’è fila alle casse. Le cassiere si muovono veloci e il bip emesso dai lettori ottici al passaggio dei prodotti diventa una specie di concerto.
    A una di queste casse al lavoro c’è una donna di circa quarant’anni, capelli ed occhi chiari, qualche ruga e un’espressione serena. Sul cartellino appuntato sul camice bianco da lavoro c’è scritto il suo nome: “Gemma”.
    In un’altra parte della città siamo di fronte all’ingresso di un’officina. La saracinesca è aperta. Al di sopra un’insegna: MECCANICO. Dall’esterno si sentono rumori come un martello che batte sul ferro.
    All’interno ci sono delle automobili con i cofani aperti. Una è posta più in alto sollevata sul ponte idraulico. Il rumore continua ma non si vede nessuno in giro. Tutto intorno attrezzi vari sparsi sul banco di lavoro, qualche strofinaccio sporco d’olio, pneumatici, un calendario del 2010.
    Da sotto la macchina sul ponte, quasi imprigionato c’è un meccanico di circa 40 anni. Ha le mani sporche di grasso e un po’anche il viso; ha i capelli ricci brizzolati e gli occhi castani. Sta faticando con il mozzo della ruota: qualcosa non si vuole svitare.
    Alla cassa di Gemma la fila è lunga; lei con un gesto automatico sta passando i prodotti sopra al lettore ottico. All’improvviso da dietro due bottiglie di latte spuntano un paio di scarpette da ballo rosa. Gemma si blocca con le scarpette tra le mani mentre la cliente alla cassa è intenta ad infilare ciò che ha acquistato nelle buste della spesa.
    Un attimo dopo la luce va via nell’intero supermercato. I suoni si interrompono. Nella penombra Gemma si volta di scatto e si alza dalla sua postazione. Da un punto imprecisato dell’enorme sala arriva una grande luce.
    All’officina improvvisamente si sente il rumore di un pallone che, lanciato da chissà dove entra all’interno saltellando un paio di volte.
    Il meccanico ferma il suo lavoro e si volta incuriosito. Appena vede il pallone, posa gli attrezzi ed esce un po’ a fatica da sotto il ponte. Prende uno strofinaccio dal banco e si pulisce le mani.
    Illuminata dal riflesso Gemma cammina speditamente tra biscotti e saponi nelle corsie deserte in direzione della grande luce portando con sé tra le mani le scarpette rosa.
    Gemma mentre cammina, infila le scarpette in una tasca del camice poi raccoglie i capelli dietro la nuca e li blocca con un elastico in un piccolo chignon. Arriva ai bordi di uno spazio quadrato delimitato da scaffali e banchi frigo. Al centro dall’alto c’è un abbagliante fascio di luce. Gemma si ferma guardandosi attorno.
    Il meccanico va verso il pallone, lo raccoglie e lo stringe per sentire se è gonfio. Poi guarda fuori e comincia a correre uscendo dall’officina col pallone tra le mani.
    La corsa prosegue ma non è più il meccanico che vediamo correre di spalle; è un ragazzo tredicenne dai capelli ricci e gli occhi castani, vestito con dei calzoni corti che tenendo il pallone tra le mani giunge al centro di un campetto sterrato in mezzo alla campagna. Intorno a lui altri ragazzi con i calzoni corti che corrono e gridano. Alcuni di loro approntano una porta improvvisata con dei cappotti e delle vecchie cartelle di scuola. A ridosso del campo vi è una Fiat 128 e altre automobili in voga negli anni 70.
    Nell’ipermercato illuminato solo dal fascio di luce inizia la musica di un Notturno di Chopin. Su quelle note arriva danzando una ragazzina di circa quattordici anni il cui viso ricorda molto quello di Gemma e ha i capelli legati come lei. La ragazzina balla con passi semplici ma sicuri e il faro la segue.
    Gemma osserva la ragazzina e la sua espressione si intenerisce. Si siede in terra senza distogliere lo sguardo. La ragazzina continua a ballare con grazia e naturalezza.
    Nel piccolo campetto di periferia il ragazzo fa partire l’azione: passa la palla a un compagno che la triangola ad un terzo giocatore. Questo la rinvia al ragazzo che palleggiando come si deve scarta due avversari fino a trovarsi di fronte al portiere. Con un calcio perfetto il ragazzo tira e segna un gol festeggiato dai suoi compagni di squadra. Il ragazzo fiero corre a riprendere il pallone finito dietro la porta improvvisata. Poi tenendolo tra le mani continua a correre.
    Gemma guarda attentamente il balletto. All’improvviso le luci dell’ipermercato si riaccendono, la musica lascia posto al vociare della gente e al rumore dei carrelli. La ragazzina che danza è sparita e lo spazio ritorna a essere uno dei tanti incroci tra le corsie dell’ipermercato in cui le persone riprendono a camminare.
    Gemma si rialza e rifà la strada al contrario sciogliendosi i capelli. Ritorna alla sua postazione alla cassa, riprende le scarpette dalla tasca e le passa sul lettore ottico. Subito dopo chiude il conto e porge lo scontrino alla cliente che la guarda e le sorride, prende il portafoglio, paga e va via.
    Dentro l’officina vuota si sente qualcuno che arriva correndo: è il meccanico col pallone tra le mani. Prima di rientrare in officina si volta verso fuori e con un calcio lancia il pallone lontanissimo. Poi rientra un po’ ansimante e va a riprendere il suo lavoro sotto la macchina sul ponte.
    Gemma è alla cassa con il cliente successivo. Il suo viso sorridente sembra perdersi in un’immagine; difatti nel profondo dei suoi occhi riappare il faro bianco e ricomincia la musica del Notturno di Chopin. Stavolta il fascio di luce è proiettato su un vero palcoscenico di teatro e a ballare c’è una ragazza di circa vent’anni col viso che ricorda sia Gemma sia la ballerina del supermercato.
    Gemma ora è dietro le quinte vestita con un cappotto semplice e un foulard, ha un bellissimo fascio di fiori in mano e osserva la scena. La ragazza sul palcoscenico termina il balletto e il pubblico la applaude. La ballerina si inchina a ringraziare. Il pubblico le lancia dei fiori sul palco.
    Il meccanico ha ripreso gli attrezzi; nuovamente sente dietro di lui il rumore del pallone che saltellando entra dentro l’officina. Lui sorride e si volta. Arriva correndo un ragazzo di circa tredici anni coi capelli ricci a lui molto somigliante; indossa una perfetta tenuta da calciatore e porta con sé una borsa sportiva. Il ragazzo raccoglie il pallone e si ferma sull’ingresso.
    La ballerina lascia il palco tra gli applausi e va verso le quinte in direzione di Gemma. Gemma è raggiante e bacia la ballerina porgendole i fiori. La ragazza l’abbraccia, riceve i fiori e le dice: “Grazie Mamma”. Poi rientra sul palco a ricevere altri applausi.
    Gemma rimane lì sorridente e applaude. Con la mano fa per togliersi una lacrima mentre la ballerina fa un ultimo inchino per poi sparire dietro il sipario che si chiude.
    Il meccanico va sorridente verso il ragazzo, si china e lo bacia sui capelli. Il ragazzo lo saluta: “Ciao Papà” poi scappa via. Il meccanico resta lì a guardarlo correre e si appoggia sorridente con le spalle all’ingresso dell’officina.
    Sulla parete accanto, una foto ritrae insieme Gemma, il meccanico, la ballerina e il calciatore. (Peppino Crea)






    IL FUNAMBOLO


    Faccio un mestiere strano, sono un funambolo, in equilibrio sul filo, sospeso a un’altezza inverosimile. Non c’è nulla né sopra, né sotto di me, neanche intorno, ora che ci penso, solo vuoto che si espande e tenta di risucchiarmi.
    Il filo è la scrittura, è l’unico mezzo che mi consente di passare da una parte all’altra senza cadere, io ci cammino sopra e gli sono grata di esistere: quel filo rappresenta la mia salvezza. Senza di lui sarei schiantata a terra mille e mille volte, sarei diventata un ammasso di sangue e carne senza più sembianze, ma che bisogno c’è di stare in bilico sul mondo mischiati alle nuvole e alla curiosità della gente? Nessuno mi obbliga. Solo che non potrei rimanere tra quei volti che guardano, con il naso all’insù, sperando che io cada prima o poi, che auspicano la sciagura o gioiscono se barcollo, fingendo di trasalire. E’ il loro unico piacere. Perché non voglio fare parte di quella folla? Me lo chiedo spesso, anzi capita che tenti di mischiarmi alla ressa della metro, dei centri commerciali, delle vie. Che noia, però! Anzi un’ansia sottile da vigilia di Natale forzata.
    No, non posso stare tra loro, anche se spesso ci provo. Non è una scelta, è un imperativo categorico. Sono estranea alle sagome umane. La terra e il suolo mi creano disagio. Mi fanno sentire incollata a un luogo privo di movimento.
    Preferisco stare quassù, a rischiare di cadere e inseguire le parole che formano il filo su cui cammino, con l’asta dei miei pensieri che mi tiene in bilico, oltre i soliti discorsi scontanti.
    Unici amici, i libri, alcuni, li annodo al mio filo, alle due estremità, rappresentano i capisaldi ai quali si appende il mio percorso, e cammino impavida, perfino in un periodo di dolore profondo come questo, mentre devo pensare solo a rimanere in equilibrio sul vuoto.
    Mi vedo come in un trailer, pronta a essere dissolta dall’efferatezza di un’epoca che non perdona, che divora l’anima, che è schiava del web.
    A volte mi tengono compagnia i fantasmi dei brani di Cechov, Rimbaud, Baudelaire, Simenon, Blanchot, le note di Debussy e Schubert; è come se incontrassi dopo tanto tempo, all’angolo di un paese abbandonato, le loro fisionomie conosciute, svelate da lampioni generosi che illuminano l’oscurità e mi rallegro del mio procedere.
    Non devo distrarmi. Quando arrivo al centro del mio cammino, appesa quassù, a metà del filo, sento una sospensione sul resto che toglie il fiato, potrei morire e non accorgermene; quasi mi dimentico di esistere, di respirare, di soffrire. Non posso, però, dimenticare di camminare sul filo. Altrimenti cado, mi trasformo in una marionetta rotta.
    Mi concentro, attenta,un passo dietro l’altro, una parola sospinta dall’altra, come le vele in una regata. Aggiro i vuoti dei sogni che mi appaiono inaspettati. Cerco nella punteggiatura un sostegno al mio procedere. Ondeggio, barcollo, avanzo.
    Poi giungo, all’inevitabile traguardo, tocco la terra ferma, dopo la traversata, su un mare di aria rarefatta e crudele e mi stupisco della capacità di essere sopravissuta, ancora una volta, in modo inaspettato, sorprendente.
    Saluto tutte le persone, già pronte a dimenticare quel buffo funambolo che li ha intrattenuti per pochi minuti, che sono rimaste deluse perché non si è sfracellato, e scendo di nuovo, tra uomini soli e ammassati. Loro hanno avuto in dono la mia capacità di rischiare, ma tengo per me il segreto di questa parola scritta che va oltre la corruzione del tempo.
    Raggomitolo il mio filo con calma e me ne vado con un inchino da personaggio incomprensibile, lo so, per molti. (Letizia Pozzo)

     
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  2. gheagabry
     
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    bellissime, grazie rino
     
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    CITAZIONE (gheagabry @ 20/6/2012, 22:12) 
    bellissime, grazie rino

    Grazie Gabry
     
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  4. gheagabry
     
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    www.spaghettifile.com_img_585531


    "Il diavolo e la signorina Prym" di Paulo Coelho

    Un uomo, il suo cavallo ed il suo cane camminavano lungo una strada.
    Mentre passavano vicino ad un albero gigantesco, un fulmine li colpì, uccidendoli all'istante.
    Ma il viandante non si accorse di aver lasciato questo mondo e continuò a camminare, accompagnato dai suoi animali. A volte, i morti impiegano qualche tempo per rendersi conto della loro nuova condizione...
    Il cammino era molto lungo; dovevano salire una collina, il sole picchiava forte ed erano sudati e assetati. A una curva della strada, videro un portone magnifico, di marmo, che conduceva a una piazza pavimentata con blocchi d'oro, al centro della quale s'innalzava una fontana da cui sgorgava dell'acqua cristallina.
    Il viandante si rivolse all'uomo che sorvegliava l'entrata.
    "Buongiorno"
    "Buongiorno" rispose il guardiano.
    "Che luogo è mai questo, tanto bello? "
    "È il cielo"
    "Che bello essere arrivati in cielo, abbiamo tanta sete! "
    "Puoi entrare e bere a volontà".
    Il guardiano indicò la fontana.
    "Anche il mio cavallo ed il mio cane hanno sete"
    "Mi dispiace molto", disse il guardiano, "ma qui non è permesso l'entrata agli animali".
    L'uomo fu molto deluso: la sua sete era grande, ma non avrebbe mai bevuto da solo.
    Ringraziò il guardiano e proseguì.
    Dopo avere camminato a lungo su per la collina, il viandante e gli animali giunsero in un luogo il cui ingresso era costituito da una vecchia porta, che si apriva su un sentiero di terra battuta, fiancheggiato da alberi.
    All'ombra di uno di essi era sdraiato un uomo che portava un cappello; probabilmente era addormentato.
    "Buongiorno" disse il viandante.
    L'uomo fece un cenno con il capo.
    "Io, il mio cavallo ed il mio cane abbiamo molta sete".
    "C'è una fonte fra quei massi", disse l'uomo, indicando il luogo, e aggiunse: "Potete bere a volontà". L'uomo, il cavallo ed il cane si avvicinarono alla fonte e si dissetarono.
    Il viandante andò a ringraziare.
    "Tornate quando volete", rispose l'uomo.
    "A proposito, come si chiama questo posto? "
    "Cielo"
    "Cielo? Ma il guardiano del portone di marmo ha detto che il cielo era quello là! "
    "Quello non è il cielo, è l'inferno".
    Il viandante rimase perplesso.
    "Dovreste proibire loro di utilizzare il vostro nome! Di certo, questa falsa informazione causa grandi confusioni! "
    "Assolutamente no. In realtà, ci fanno un grande favore. Perché là si fermano tutti quelli che non esitano ad abbandonare i loro migliori amici... "

     
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  5. ringo47
     
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    L'importanza delle stringhe da scarpe

    Tutto cominciò con un paio di stringhe da scarpe, marroni, sottili, arrotondate.
    Naturalmente, anch'io, come gli altri ragazzi della scuola, la guardavo, valutavo i suoi seni, che apparivano sodi sotto la blusa accollata, ammiravo le sue lunghe gambe, forti, ma armoniose, con le quali aveva vinto la gara di salto in lungo femminile. Ma più di tutto mi piaceva la sua pelle, tenuemente rosa, con lentiggini sparse, e profumata naturalmente, come quella di un bebé di sei mesi. Bastava starle ben vicino, per sentirlo, quel leggero, delicato profumo.
    Gli altri ragazzi le ronzavano sempre intorno - lei era certo la ragazza più bella ed interessante fra quelle che frequentavano il liceo - e lei domava i loro bollenti spiriti con la freschezza del suo sorriso luminoso. Io invece, me ne stavo un po' in disparte, non mi sono mai piaciuti i posti affollati, e l'ammiravo da lontano. Ogni tanto ci capitava di scambiare qualche parola, specie durante le lezioni di francese, che avevamo in comune, benché io frequentassi il liceo scientifico, lei il classico. Sedevo nel banco dietro a lei, dove ogni tanto mi raggiungeva un alito del profumo della sua pelle.
    Ma per il resto, le stavo appunto distante, forse per timidezza, più probabilmente per insicurezza.
    Poi arrivò il giorno delle stringhe.
    Come quasi sempre accade, è la donna che sceglie l'uomo che la sceglierà; meglio ancora, sono spesso le donne che fanno il passo determinante perché una possibile storia abbia inizio.
    Quel giorno, erano circa le otto e un quarto di un bel mattino soleggiato, eravamo quasi tutti fuori della scuola, in attesa del suono della campanella che chiamasse alla prima ora di lezione, quando la vedo staccarsi dalla nube di corteggiatori che come sempre l'avvolgeva, e venire verso di me sorridendo. Non era mai successo prima.
    "Ciao, Francesco, come stai?" mi chiese.
    "Ciao, Valeria, bene, grazie, e tu?"
    "Senti, non ti offendere, ti ho comprato queste" e mi porse un paio di stringhe da scarpe, marroni, sottili, arrotondate.
    La guardai interrogativamente, senza capire bene cosa stesse succedendo.
    "È un po' che ho notato che le stringhe delle tue scarpe sono tutte rotte, penso che fai fatica persino a fare il nodo, e non è bello da vedere. Così ieri sono passata dal calzolaio e te ne ho comprato un paio. Voi ragazzi siete un po' pigri per queste cose!", mi disse ancora, sorridendo e continuando a porgermi le stringhe.
    Io le presi e non sapevo cosa dire; non sapevo se sentirmi umiliato per essere stato colto in peccato di sciatteria, o se essere esaltato per il fatto che lei mi avesse guardato con particolare attenzione e pensato a me, andando a comprare quelle stringhe, che ora stringevo nella mano.
    "Non me le devi pagare", aggiunse, sempre più sorridente,"magari sabato m'inviti a prendere un tè in pasticceria"
    Sono passati ormai più di venticinque anni da quella mattina. Abbiamo avuto due figli, ed oggi il primogenito, che fa anche lui il liceo scientifico, era raggiante: pare che la brunetta che gli piace tanto gli abbia portato un CD, da mettere su quando fa i compiti.
    Se tanto mi dà tanto... (dal web)


     
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    grazie Rino.... che carino...ah le donne!
     
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  7. ringo47
     
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    IL PENSATORE
    Un giorno, un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli: "Perchè le persone gridano quando sono arrabbiate?"
    "Gridano perchè perdono la calma" rispose uno di loro.
    "Ma perchè gridare se la persona sta al suo lato?" disse nuovamente il pensatore
    "Bene, gridiamo perchè desideriamo che l'altra persona ci ascolti"
    replicò un altro discepolo
    E il maestro tornò a domandare:
    "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?"
    Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.
    Allora egli esclamò:
    " Voi sapete perchè si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati?
    Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto.
    Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare.
    Quanto più arrabbiati sono tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro.

    D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate?
    Loro non gridano, parlano soavemente. E perchè ?
    Perchè i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola.
    A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano solamente sussurrano.
    E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi.
    I loro cuori si intendono. È questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
    In fine il pensatore concluse dicendo:
    "Quando voi discuterete non lasciate che i vostri cuori si allontanino,
    non dite parole che li possano distanziare di più, perchè arriverà un giorno in
    cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare."

    Mahatma Gandhi

     
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  8. gheagabry
     
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    ISTANBUL: LA FABBRICA DEGLI AQUILONI

    La felicità è fatta di niente, e in quel niente si nasconde il tuo tutto, la felicità è camminare vicini, la felicità è la mia gamba che sfiora la tua, la felicità è il tuo sorriso, la felicità è la tua risata, la felicità è la tua bocca morbida, la felicità è sapere che in un modo o nell’altro tu ci sarai sempre, la felicità è arrendersi all’amore, la felicità è non avere paura, la felicità è il primo bacio, la felicità ti passa sopra come questa porta a Istanbul, la felicità ti investe e ti lascia nudo…

    “C..., ma sono a dieta!”

    Sonora la risata di lei, occhi dolci e verdi quelli di lui, la guarda e le sorride, poi le sussurra: “Ti insegno la leggerezza”.
    Il sassofonista conosce molto bene quella zona, si addentra con passo deciso nei vicoletti più stretti, quei vicoli senza fine, pare essere uno del luogo anche se i tratti somatici dicono ben altro di lui.
    E’ pomeriggio e l’insegna dice “La fabbrica degli aquiloni”.

    La porta della bottega si apre lasciando entrare nelle narici un profumo di incenso e spezie, la musica nelle orecchie e nel cuore è dolce, uno sfioramento di anime…il maestro, un uomo piccolino e curvo con una folta barba bianca, prende la mano di lei, la fa accomodare e le parla piano dicendole che la leggerezza non è fisica, la leggerezza è dentro di noi e far nostra la leggerezza consentirebbe di volare in cieli alti facendo chissà quali acrobazie di volo.
    La leggerezza consentirebbe una nuova visuale.
    La leggerezza è uno stato mentale e non è da confondere con la superficialità, la leggerezza d’animo è uno stato al quale ambire, il nostro piccolo settimo paradiso.
    La parole che si muovono leggere, sono nel laboratorio di aquiloni, legate ancora tutte ad un filo, le parole sono un nuovo aquilone, le parole sono pronte per il volo.

    Questa è la storia di una donna che decise di far volare le sue parole in cielo, questa è la storia di una donna che vide le parole alte nel cielo e lasciò scivolare tra le dita, il filo che le teneva legate, perchè la felicità dura un istante.



    Pubblicato in: Timeless city Istanbul
     
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    Le due giare





    Un portatore d’acqua possedeva due ampie giare, ciascuna appesa alle estremità di un’asta che lui trasportava appoggiata sul collo. Una delle due giare aveva un’incrinatura, e mentre l’altra giara era perfetta e alla fine della lunga camminata dal ruscello alla casa del padrone trasportava sempre tutta l’acqua che conteneva, la giara incrinata arrivava solo mezza piena.

    Ciò andò avanti per ben due anni, ossia il portatore arrivava alla casa del padrone con una giara e mezza d’acqua. Ovviamente, la giara intatta era fiera di sé perché svolgeva perfettamente il compito per il quale era stata creata. La povera giara incrinata, però, si vergognava della sua imperfezione ed era triste perché riusciva a compiere solo la metà di ciò che era stata creata per fare. Dopo due anni che si sentiva un fallimento, un giorno, presso il ruscello, si rivolse al portatore d’acqua.

    "Mi vergogno di me stessa e vorrei scusarmi con te". "Perché?", domandò il portatore. "Di cosa ti vergogni?". "Nel corso degli ultimi due anni sono riuscita a trasportare solo metà del mio carico perché la mia incrinatura fa fuoriuscire l’acqua lungo tutto il percorso fino alla casa del tuo padrone. A causa delle mie imperfezioni, tu devi fare tutto questo lavoro ma non vieni compensato nel modo giusto per i tuoi sforzi", disse la giara.

    Il portatore d’acqua si dispiacque per la vecchia giara incrinata, e provando compassione affermò: "Mentre torniamo a casa del padrone, voglio che tu noti i magnifici fiori lungo il sentiero". Effettivamente, mentre risalivano la collina la vecchia giara incrinata notò che il sole riscaldava i bellissimi fiori a lato del sentiero, e si rallegrò un po’. Alla fine del sentiero, però, continuava a sentirsi in colpa perché aveva perso metà del suo contenuto, così si scusò di nuovo con il portatore per questa mancanza.

    Il portatore d’acqua disse alla giara: "Hai notato che vi erano fiori soltanto sul tuo lato del sentiero e non sul lato dell’altra giara? Questo perché ho sempre saputo della tua imperfezione e ne ho approfittato. Ho piantato semi di fiori sul tuo lato del sentiero e ogni giorno, mentre torniamo dal ruscello, tu li hai innaffiati. Per due anni ho potuto raccogliere questi magnifici fiori per decorare la tavola del mio padrone. Se tu non fossi proprio così come sei, lui non potrebbe godere di tutta questa bellezza che adorna la sua casa". (autore ignoto)



    Tutti noi abbiamo le nostre imperfezioni, e sono uniche. Siamo tutti giare incrinate. Ma sono le nostre incrinature e imperfezioni che rendono le nostre vite tanto interessanti e appaganti. Devi soltanto prendere ogni persona per quella che è e cercare ciò che di buono c’è in lei. C’è tanta bontà là fuori. C’è tanta bontà in noi! Beate sono le persone flessibili, perché non saranno deformate. Ricorda di apprezzare tutte le diverse persone nella tua vita! Se non fosse per tutte le giare incrinate che ci circondano, la vita sarebbe alquanto noiosa e davvero poco interessante...
     
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    Una casa di passaggio


    Greta Giugno 20th, 2012
    Era una casa di corte di fine ‘800, intonacata alla meglio, ed era sempre là che ci aspettava. Distava appena un centinaio di metri da noi e rispecchiava la meta unica delle nostre continue evasioni. C’era sempre qualcosa da andare a chiedere a Zia Carmina o a Nonna Maria. Così si chiamavano le donne della mia infanzia e con mia madre hanno contribuito a creare nella mia mente di bambina quello che sarebbe stato il mio ideale femminile. Donne diverse dal comune perché speciali agli occhi avidi di conoscenza delle nipoti.
    Quattro passi di corsa per arrivare lì col fiatone e col sorriso stampato in faccia. Il cancello in ferro sverniciato e arrugginito era abitualmente aperto per accogliere ma non trattenere nessuno: era un via vai continuo di zie e parenti che andavano a fare un salutino ai vecchi della famiglia e ripartivano rigorosamente con un ricordino di quella visita ordinaria. Abitualmente erano fiori i doni di nonna Maria: i profumati giacinti spuntavano annualmente nelle aiuole. Poi in piena primavera il profumo cambiava e diventava ancora più importante: mughetti. Io e mia sorella ci divertivamo da matte sotto il pino secolare a raccoglier fiori e quando non riuscivamo più a trattenerli nelle mani era il momento di entrare in cucina e avvolgere il gambo nell’alluminio per preservarne la freschezza. A maggio poi arrivava l’apoteosi del profumo delle rose. Ne potevi trovare di tutti i tipi. Non erano particolarmente curate nell’aspetto ma quelle rose sapevano d’amore. Così qualche volta il foglio di alluminio incartava anche ramoscelli pungenti e noi ripartivamo con il nostro carico prezioso.
    In estate poi veniva il momento dei gladioli e così in ogni stagione quel piccolo giardino riservava le sue sorprese ad ogni ospite di passaggio per un saluto e per un bicchiere di vino. Nessun adulto se ne andava senza. Zia Carmìna beveva il suo Lambrusco personale, quasi a segnalare la sua indipendenza dalla famiglia numerosa con la quale da sempre divideva casa. Carmìna era la sorella maggiore di nonno Giuseppe, primo uomo ad avere la macchina nel paese e credo unico taxista della zona. Non si era mai sposata zia Rosa, Carmìna, ma aveva contribuito attivamente alla crescita di cinque figlie femmine e tre figli maschi del tanto amato fratello. La sua piccola pensione le permetteva di acquistare giornalmente i suoi capricci dall’ambulante: prosciutto cotto, pane biscotto e un pacchetto di patatine per le sue nipotine, oltre ovviamente al suo Lambrusco.
    Ci amava in modo speciale, forse beneficiarie di un affetto speciale provato per nostro padre, figlio maschio più giovane della famiglia. La zia ci conduceva all’uscita posteriore con un pretesto, lontano dagli occhi indiscreti della cognata, e ci consegnava quel pacchettino di paradiso. Salate e croccanti cadevano in bocca una dopo l’altra.
    D’estate avevamo tutto il giorno per divertirci in corse tra le sedie, sotto il grande tavolo, dentro e fuori casa. Alla fine silenzio… era l’ora della preghiera. Non erano ammesse chiacchiere né disturbi. Nonna Maria e Zia Carmina si sedevano nelle loro sedie affiancate e sgranavano Ave Maria e poi altre litanie, che io non ricordavo mai, e poi ancora Ave Maria e ancora litanie… quindi veniva il momento delle storie. Era la zia a prendersi il compito di tramandare le vicende che avevano segnato il loro vissuto, nonna invece più schiva e riservata si occupava delle pentole che bollivano e dei fagiolini da raccogliere. Ne avrebbe portato in casa dall’orto una cesta piena e poi altre ancora dentro il grembiule annodato a dovere. Giù tutto sopra il tavolo ad indicare che chiacchierando potevamo anche renderci utili.
    Così zia Carmìna ci raccontava fatti di guerra, di fame, di sofferenza e di tanta paura degli aerei carichi di bombe, tanto realistici da inculcare quella tensione all’impressionabile Cristina, mia sorella maggiore, terrorizzata ad ogni passaggio dei possenti Hercules in fase di atterraggio al vicino Dal Molin. Erano scuri, pesanti e non appena ne percepiva la presenza si infilava sotto il primo riparo che trovava in attesa che la zona si sgombrasse. Era un po’ ridicola nei suoi atteggiamenti ma dava la sensazione di quello che avevano provato i nostri avi durante la guerra. Potenza dell’immedesimazione! La zia sapeva coinvolgerci nelle storie che drammatizzava e bastava la sensibilità marcata di mia sorella per rendere tutto reale. Io non potevo far altro che desistere da quelle paure, d’altronde c’era già una sorella sotto attacco.
    Adesso, a trent’anni suonati, osservo il ciclo della vita attraverso lo sguardo curioso di mia figlia che gioca a carte con la nonna e la nostalgia per quella casa di passaggio mi avvolge. Ripenso a quelle donne così forti e speciali che tanto ci davano e che non chiedevano altro che un po’ di freschezza per quelle gambe gonfie e stanche, e un po’ di allegria per quegli occhi che tanto dolore avevano visto.





    La casa di Mara
    è una piccola stanza di legno.
    A lato un cipresso l'adombra nel giorno.
    Davanti vi corrono i treni.
    Seduta nell'ombra dell'alto cipresso
    sta Mara filando.
    La vecchia ha cent'anni,
    e vive filando in quell'ombra.
    I treni le corron veloci davanti
    portando la gente lontano.
    Ell'alza la testa un istante
    e presto il lavoro riprende.
    I treni mugghiando
    s'incrocian dinnanzi alla casa di Mara volando.
    Ell'alza la testa un istante
    e presto il lavoro riprende.

    A.Palazzeschi

     
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  12. ringo47
     
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    PRIMA DI TUTTO





    Ogni giorno, dopo aver timbrato l’uscita dall’ufficio alle diciotto, attraverso il corso e raggiungo la fermata dell’autobus. Di solito ne passano parecchi a quell’ora e qualche volta anche uno in fila all’altro.
    Ieri sera, per esempio, è stato così.
    Allora ho deciso di salire sul mezzo che seguiva, immaginandolo più vuoto e quindi più confortevole.
    In effetti è con facilità che ho trovato posto a sedere. Una volta partiti, mi sono dedicato alla contemplazione del panorama. Solitamente leggo qualcosa, un quotidiano, una rivista oppure, ma più raramente, un libro. Mi piacciono i romanzi gialli, gli unici in grado di tenermi incollato alla lettura. Altrimenti mi dimentico qualche pezzo e ogni volta devo rileggere pagine che avevo già letto. No, non sono un gran lettore. Però sono uno che si fa gli affari propri.

    Giusto ieri pensavo a questo, uscendo dall’ufficio. Avevamo passato una giornata di noie a causa di parole incontrollate circolate tra i corridoi. Cose dette senza verificare davvero le informazioni, buttate lì a sproposito, per lo più. Certa gente parla solo perché ha la lingua in bocca. Ma forse bisognerebbe mozzargliela!
    Meglio non dilungarmi in questi discorsi, d’accordo, ma qui si sappia soltanto che io sono uno che sta al proprio posto.

    Pensavo a queste e altre simili cose, ieri sera, quando, dopo circa un’ora di tragitto verso la cintura della città, l’autobus era quasi del tutto vuoto. Poche persone, oltre me, hanno quindi visto salire questo quarantenne malconcio, con indumenti strappati e il viso scavato.
    Son passati pochi minuti e il malridotto ha subito preso a lamentarsi a voce alta e a chiedere qualche moneta ai presenti. Lo ha fatto con poca cortesia, a dir la verità, ed è appunto per questo, immagino, che un anziano seduto due posti avanti a me l’ha redarguito: “Prima di tutto, lei dovrebbe rivolgersi agli altri con più gentilezza, maleducato!”. L’uscita del signore avanti di età è stata una sorpresa per molti, me compreso, abituati come siamo a starcene a mugugnare sulle cose della vita in silenzio.

    Sono bastati pochi istanti, però, per risvegliare l’obiezione di una giovane donna, che verso l’anziano così si è espressa: “Prima di tutto, lei, signore, dovrebbe mostrare sensibilità per la sofferenza di questa persona!”.

    Non nascondo che io per primo sono rimasto attonito, ma devo aver condiviso con altri lo stato d’animo perché di lì a un niente un tizio con una protesi al braccio sinistro ha ripreso la giovane donna: “Prima di tutto, mi scusi, è lei signorina a dover portare rispetto per una persona anziana!”.

    La faccenda si è fatta seria in un attimo, non appena, cioè, una donna di colore con un piccolo bambino addormentato tra le braccia ha ricordato al signore con la protesi, articolando in questa lingua alla bell’e meglio: “Prima di tutto, lei si deve rivolgere a una donna con gentilezza!”.

    Nessuno in effetti potrebbe dir contro alcunché, non fosse che un giovane salito da poco e sedutosi a pochi sedili dalla scena ha rimproverato la donna di colore: “Prima di tutto, signora, abbia pazienza, ma tenga in conto che il signore è portatore di un handicap!”.

    Qui, ormai nel buio del tardo pomeriggio e ormai lontani dalle luci del centro città, una donna benvestita ha rimbrottato il giovane: “Prima di tutto, tu, ragazzo, mostra più tolleranza per persone di colore!”.

    A quel punto, e mi sorprendo ancora adesso visto che sono uno che si fa i fatti propri, non mi sono più tenuto e d’impulso ho gridato al conducente dell’autobus: “Prima di tutto, scusi, signor autista, per favore fermi il mezzo che ho la nausea per tanta buona creanza!”.

    Non è passato più di un secondo che all’unisono, tutti in coro, i passeggeri del mezzo mi rispondono: “Prima di tutto, lei dovrebbe sapere che è vietato rivolgersi al conducente!”.

    Alberto Robiati






    "Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

    - Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà.
    E per questo, bisognerà che tu la perdoni.
    - Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
    - Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
    - Che le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
    - Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
    - Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
    - Che la pazienza richiede molta pratica.
    - Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
    - Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
    - Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto te stesso.
    - Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
    - Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
    - Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.
    - Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
    - Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
    - La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti che è come se fosse stata la miglior conversazione mai avuta.
    - E’ vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
    - Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
    - Non cercare le apparenze, possono ingannare.
    - Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
    - Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
    - Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.
    - Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
    - Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
    - Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
    - Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
    - Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
    - Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
    - Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano.

    Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange".

    Paulo Coelho



     
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  13. gheagabry
     
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    Il pescatore.
    Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.
    Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo. Il pescatore risponde: ‘Non ho impiegato molto tempo’ e il turista: ‘Ma allora, perchè non è stato di più, per pescarne di più?’
    Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia. Il turista chiese: ‘Ma come impiega il resto del suo tempo?’ E il pescatore: ‘Dormo fino a tardi, pesco un po’, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’
    Allorchè il turista fece: ‘La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche… Potrà permettersi un’intera flotta! Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!’
    Il pescatore lo interruppe: ‘Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
    E il turista: ‘20, 25 anni forse’ quindi il pescatore chiese: ‘….e dopo?’
    Turista: ‘ Ah dopo, e qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!’
    E il pescatore:’miliardi? e poi?’
    Turista: ‘Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari e andare in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo qualcosa, suonando la chitarra e trascorrere appieno la vita’.(nostripensieri.altervista.org/)
     
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  14. ringo47
     
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    INNAMORARSI OGNI GIORNO
    C'è stato un periodo della mia vita durante il quale amavo dialogare con persone molto più anziane di me. Ne sentivo il bisogno. Pensavo forse di avvicinarmi al mistero dell'esistenza, chissà.
    Fra queste, un mio grande amico: Nereo.
    Era una persona speciale, non solo per me. Chi lo ricorda lo piange sempre, anche dopo anni.
    Ora lui è morto, ma sarebbe contento se leggesse che lo considero un filosofo.
    No, non in senso classico. Lui non è stato un cultore della sapienza e nemmeno un ricercatore della verità. Quella assoluta, perlomeno.
    Diciamo pure che sapeva prendere la vita per il verso giusto e riusciva a viverla con "filosofia", come si usa dire dalle mie parti.
    Nereo abitava a Trieste, a due passi da casa mia, ma era nato in un paesino della provincia di Ragusa. Il nome gli era stato dato dalla madre, che amava la mitologia greca e latina e desiderava che il figlio diventasse un marinaio.
    Aveva una grande considerazione per sua madre, e cosi l'accontentò.
    Dopo aver girato in lungo e in largo per il mondo, a bordo di navi di ogni tipo e stazza, si fermò a Trieste e, fra le tante cose che faceva, aprì anche una scuola di vela che chiamò: Vento in poppa.
    « Ermanno, devi innamorarti ogni giorno », mi ripeteva spesso quando uscivamo in mare per la solita lezione.
    Quando mi vedeva giù di tono, avvilito, demotivato e stanco allora rincarava la dose:
    « Innamorati, Ermanno, innamorati ogni giorno e vedrai quant'è bella la vita. »
    Io lo guardavo con gli occhi umidi perché erano i suoi occhi scuri, sempre liquidi di passione, che mi intenerivano.
    Nereo era un bell'uomo, anche a settant'anni. Piccolo ma proporzionato, capelli ondulati e leggermente brizzolati, pelle scura da marinaio navigato ed un viso angelico sul quale risaltava una dentatura perfetta e due occhi quasi neri, vivaci e curiosi come quelli di uno scugnizzo.
    A volte avevo voglia di abbracciarlo e stringerlo al petto per fargli capire quanto gli volessi bene.
    « E di cosa dovrei innamorarmi, Nereo? », gli rispondevo laconico, quasi assente.
    Dovevo avere un'aria disarmante mentre gli facevo questa stupida domanda. Eppure lui non si arrendeva, si faceva venire lucidi lucidi gli occhi con una pratica tutta sua di auto commozione e mi guardava fisso, come per scavarmi dentro. Io mi ci perdevo in quegli occhi.
    Poi, al pari di un treno che sbuffa, ma non si ferma mai, aggiungeva con calore:
    « Innamorati, ogni giorno. Di qualunque cosa, Ermanno. Non ha importanza. Io mi innamoro del mare, del vento, di questa bella piazza, del nostro bar, della barca, del porto, dei fiori su quel balcone. Guardali, non sono i miei preferiti, ma un mattino mi sono innamorato di quei due gerani, uno bianco e l'altro viola. Stanno bene insieme. E poi ci si innamora anche di una donna. Non è male. »
    Avevo ricominciato a prendere gusto alla vita ed anch'io cominciavo ad innamorarmi, sempre più spesso. Non proprio tutti i giorni, ma insomma.
    La vicenda del mio tentato suicidio, durante un lancio col paracadute, era ormai morta e sepolta. Mi ero convinto che dovevo viverla fino in fondo la mia vita e facevo di tutto per assecondare questa legittima aspirazione alla felicità.
    Potevo mettere all'attivo una spiccata simpatia per un gabbiano, Pippo, che zoppicava ad una zampa quando camminava sugli scogli; vecchio segno di una sassata del solito ragazzaccio.
    Mi ero invaghito di gatti e cagnette, avevo messo gli occhi su un gozzo in legno che mi piaceva da morire ed ero fortemente interessato ad allacciare una relazione con la cassiera del bar caffè San Marco, unica moretta in mezzo a tante bionde.
    Un mattino che andai presto in mare a pescare occhiate con Nereo, mi innamorai di una stupenda alba. Non l'avevo mai vista dal mare e solo allora capii come molti potessero innamorarsene. Capii un po' di più il mare ed i marinai.
    Poi fu la volta di un magico tramonto, e persino di una giornata di pioggia.
    Della bora invece non mi innamorai mai, anche se lei mi faceva un'assidua ed invadente corte, abbracciandomi e scuotendomi.
    Ma il gran giorno doveva venire; ero maturo per godermi le bellezze del creato. Tutte, senza esclusione di genere, razza, famiglia o specie.
    E la magia accadde in cielo, durante l'ennesimo lancio.
    Quel mattino sul Cessna della scuola di paracadutismo eravamo in parecchi. Quasi tutti istruttori e qualche veterano, con trascorsi militari a Pisa.
    Io socializzavo poco con i miei colleghi, anche perché non sono mai stato il tipo del superuomo, pur essendo seguace del grande Nietzsche ed avessi letto parecchio di lui e fossi interessato al suo concetto di Volontà di potenza, che conduce all'Oltreuomo.
    E poi avevo iniziato a fare paracadutismo, anni prima, solo per darmi la possibilità di togliermi la vita in modo spettacolare. Non per altro.
    Ora che ci penso, mi vengono i brividi. Nemmeno tanto, però.

    Dunque mi ero lanciato quasi per ultimo, come mio solito, per dimostrare che avrei aperto il paracadute in ritardo e solo dopo aver raggiunto tutti quelli che si erano buttati prima di me.
    Un mio vizio, lo ammetto. Forse volevo stupire, chissà.
    Ero in posizione a braccia chiuse per offrire la minima resistenza all'aria. Un chiodo umano che penetra in un fluido, anziché nel legno.
    Rannicchiato come un rapace che si getta sulla preda e che quindi la vuole raggiungere nel minor tempo possibile, mi sentivo nello stesso tempo libero dai pensieri non avendo alcunché da ghermire. Parecchi avevano già aperto il paracadute e, uno dopo l'altro, li stavo superando.
    Ad un tratto passai vicino ad una donna. Seppi dopo che si chiamava Giulia e che anche lei era un istruttore di paracadutismo ad ala.
    Ancor oggi non so come avessi potuto capirlo, che era una donna; forse dai suoi corti capelli che sbucavano appena dal caschetto o dalla tuta che indossava, nera come le altre ma con originali inserti color fucsia. O dalla grazia della sua posizione.
    Ormai ero sotto di lei cinquanta metri quando sentii l'impulso di rallentare. Mi aprii a ragno e tentai pure di voltarmi, per controllare se mi avesse notato. Era cosi. Si avvicinò a me e mi guardò. Dunque aveva avuto l'intenzione di raggiungermi perché si era chiusa fino al mio livello e poi si era aperta, restandomi vicina, alla stessa mia quota.
    Grande sensazione quella che provai. Un momento magico, una vibrazione, quasi una musica nello spazio. Il rumore del silenzio.
    La guardai negli occhi e le mandai un bacio. Mi ero innamorato. Non dico che fosse amore; quello non so proprio cosa sia, dopo quel che mi è successo. Ma il palpitare improvviso, il senso di calore che saliva alla testa e la gioia di scendere con lei, come due rondini di mare, mi aveva preso.
    E, in quel meraviglioso momento della mia vita, non potei fare a meno di pensare a Nereo, che era morto da poco, e gli dedicai uno dei più bei pensieri della mia esistenza. In quel pensiero c'era un grazie e c'era un ti voglio bene, Nereo, vecchio lupo di mare e maestro di "filosofia".
    Atterrati, io e Giulia ci presentammo e lei, che aveva un colorato sorriso che mi ricordava i gerani bianco e viola, mi disse carinamente:
    « Sei pazzo? Ti avviso:vado matta per i matti. »
    (dal web)
     
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13 replies since 20/6/2012, 15:28   1661 views
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