I MESTIERI PERDUTI NEL TEMPO

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  1. gheagabry
     
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    Il garzone del fornaio



    Venditore di rane



    Il bottaio

     
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  2. gheagabry
     
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    I NIVAROLI



    Già mille anni or sono, infatti, esistevano i nivaroli, ossia coloro che d’inverno raccoglievano la neve (dall’Etna o dai monti Nebrodi) per conservarla in apposite ghiacciaie chiamate neviere, scavate sotto terra e ricoperte di cenere. D’estate, al contrario, i nivaroli prelevavano la neve e la trasportavano, coperta di paglia e felci, nelle città e in riva al mare.
    I "nivaroli" carica i blocchi di ghiaccio all'interno di sacchi di juta. In precedenza, le "nivarole" erano state protette dallo scioglimento coprendole con polvere lavica e sterpi

    “Per il medesimo motivo, la neve del vulcano è preferita al ghiaccio prodotto industrialmente… Ogni mattina verso mezzogiorno, una carovana di carretti grondanti d’acqua discendono da oltre duemila metri di altitudine verso i centri abitati. Sono carichi di sacchi di neve.
    Dove la prendono, se d’estate sull’intero massiccio dell’Etna non se ne vede traccia? Dalle ‘nivarole’, che sono vere e proprie miniere di neve rese invisibili da una camicia di lava farinosa. Questo materiale vetroso ha un elevato potere isolante del calore, e basta che uno strato di pochi centimetri venga steso alla fine dell’inverno perché questo si conservi per l’intera estate. Il personale dell’Istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania ha recentemente scoperto un giacimento vecchio di almeno un secolo!
    Un tempo le ‘nivarole’ alimentavano un florido commercio: i velieri trasferivano la neve perfino in Egitto, dove era venduta a prezzi favolosi.
    Ora siamo agli sgoccioli: le ‘nivarole’ si contano sulle punte delle dita ed è probabile che fra qualche anno il ghiaccio e più ancora il frigorifero avranno il definitivo sopravvento.
    I carrettieri che si dedicano alla distribuzione della neve sono però convinti che tale calamità è lontana perché il suo uso nelle case come nei locali pubblici sopravvive più che altro perché quella neve ha un sapore del tutto particolare che la rende adatta ad allungare e rinfrescare i forti vini etnei”.

    (GUSTAVO TOMSICH)

     
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  3. gheagabry
     
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    Il Saponaro



    Accattivante anche se faticosa e poco remunerabile era la lavorazione per la produzione del sapone ottenuto utilizzando la “muria” (morchia, residuo dell’olio d’oliva) che il saponaro comprava nel frantoio locale ed in quelli dei paesi limitrofi o reperiva attraverso i “murialori” (commercianti che l’acquistavano in giro per i paesi). La muria veniva raccolta e conservata negli “utra” (otri, recipiente in pelle di capra) e poi lavorata con l’aggiunta di cenere (ottima quella di scorza di mandorle) il cui alto contenuto di potassio dava origine al processo dell’idrolisi alcalina degli acidi grassi. Il tutto veniva versato in una “quarara” (recipiente tipico) e fatto bollire nell’apposita “fornacella” (struttura o fornello in conci di tufo od in pietra lavica). Dopo cinque ore di cottura il sapone che via via si formava, attraverso dei tubi collegati, si riversava nelle vasche di raffreddamento da dove veniva rimosso e conservato in recipienti di latta od in barili, pronto per essere collocato in commercio. Il sapone prodotto a Capaci veniva usato per lavare la biancheria ed era prevalentemente di tipo molle e perciò veniva chiamato “trema-trema”. Il colore verde era ottenuto con l’aggiunzione di “pale” (foglie di ficodindia) nella prima fase di cottura.(www.capaci.info/)

    A Napoli, il saponaro (sapunaro) fu presente a Napoli fino alla prima metà del XX secolo.
    I saponari passavano di casa in casa raccogliendo oggetti vecchi di cui la gente voleva disfarsi o vecchia mobilia, anche se in cattive condizioni. In cambio il saponaro non rendeva denaro, ma pezzi di sapone, da cui deriva il nome.
    In napoletano, una persona sciatta, disordinata, poco attenta e che fa qualcosa controvoglia viene detta, in maniera dispregiativa, saponaro.

     
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  4. gheagabry
     
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    "Si può resistere all’invasione degli eserciti,
    ma non a quella delle idee"


    I COLPORTORI



    Tra le sculture di ghiaccio esposte, ai piedi del ghiacciaio Jandri, sopra la stazione sciistica di Deux-Alpes, nella Francia sud-orientale, una rendeva omaggio a un mestiere un tempo diffuso tra gli abitanti delle montagne: quello del colportore. Per secoli, i colportori sono andati di mercato in mercato e di casa in casa offrendo le mercanzie che portavano sul collo da qui il termine francese colporteur, poi italianizzato, è fatto derivare dai termini per “collo” e per “portare”)
    I venditori ambulanti italiani, i colporteurs francesi, i buhoneros spagnoli, singoli o organizzati in compagnie, furono i vettori di una trasmissione della pagina stampata nelle realtà più marginali, dove l’analfabetismo diffuso o la stessa assenza di vie di comunicazione, come le librerie, ostacolavano l’accesso di larga parte della popolazione alla parola scritta. Con i loro libretti contribuirono a divertire il popolo, a modellarne i gusti, a creare un universo di evasione, ad istruire o avvicinare alla fede. Essi hanno comunque aperto una via alla lettura e al progresso culturale di ampi strati della società.

    Con la loro biblioteca ambulante raccolta in una borsa, in un carretto, o, nel migliore dei casi, in una vera e propria carrozza trainata da un cavallo -“la carrozza biblica”, i colportori furono attivi soprattutto nelle realtà rurali. Si fermavano nei paesi durante le fiere e i mercati settimanali, frequentavano le locande e bussavano ai casolari isolati, accompagnavano la vendita di libri. Una iniziativa geniale sotto diversi punti di vista: non solo il colportore costituiva una “libreria a domicilio”, che metteva nelle condizioni di poter comprare tutti i libri che volevi senza dover correre ogni volta fino alla Città Lontana ma si trasformava anche in un operatore della cultura itinerante, in un divulgatore porta-a-porta.
    Un coraggioso libraio-predicatore itinerante che, senza mai fermarsi, affrontava le impervie delle vallate alpine per raggiungere, con la sua libreria, anche quel paesello lontano, lassù in cima a quel monte, dove ci sono famiglie che forse desiderano acquistare un libro.

    Vendere libretti, fogli volanti, canzoni nelle strade, presupponeva talvolta la loro presentazione, una vera messa in scena, illustrata su pannelli che visualizzavano le storie da vendere, per richiamare la gente e per meglio convincere il pubblico all’acquisto. Il colportore, nel passato, veniva spesso assimilato ad una sorta di cantastorie che raccontava vicende di amori infelici, miracoli, fatti di cronaca nera e storie leggendarie. La lettura ad alta voce, la rappresentazione nelle piazze, la vendita per pochi soldi di libretti in brossura, stampati su carta di modesta qualità, permettevano così la circolazione di una variegata biblioteca di testi: i romanzi della letteratura colta del Cinquecento, come le storie cavalleresche dei paladini di Carlo Magno, I Reali di Francia, I quattro figli di Aimone, le imprese di Guerrin Meschino, le leggende della Pia de' Tolomei o della Ginevra degli Almieri, riadattate per un pubblico popolare, gli amori di Piramo e Tisbe, Florindo e Chiarastella, Paris e Vienna, gli almanacchi dal Casamia al Barbanera, i lunari, le profezie, i trattati di medicina popolare, i segretari d’amore, ma anche le leggende agiografiche, le storie morali impresse nelle vite dei Santi e nei miracoli.
    I colportori oltre che vendere libri e opuscoli dal prezzo contenuto, destinati ad alimentare la fantasia e l’immaginario collettivo, erano intenti a suggerire consigli pratici o modelli di vita edificanti. Spesso rappresentavano gli intermediari della diffusione di edizioni clandestine nel secolo dei Lumi, delle battaglie politiche in piena Rivoluzione, della propaganda dell’Italia Risorgimentale, della diffusione della fede cristiana. Nella Francia rivoluzionaria, il terreno fu preparato dalla diffusione di testi clandestini, miranti a desacralizzare la figura dei sovrani, e a delegittimare la cultura dominante. Si trattava dei mauvais livres, di opuscoli proibiti, stampati oltre i confini, e giunti in patria nascosti nelle borse dei colportori. E furono ancora dei colportori-cantastorie a sostenere gli eventi che caratterizzarono gli anni rivoluzionari. Più che i catechismi politici e i giornali, furono le canzoni, impresse sui fogli volanti, e accompagnate dalla musica del violino, a modellare, grazie alla loro forza comunicativa, la pubblica opinione.
    Anche in Italia durante le guerre d’indipendenza che condussero all’Unità, ai colportori fu affidato l’incarico di diffondere programmi ed iniziative promosse da associazioni patriottiche. Infine, questi librai ambulanti, contribuirono alla diffusione della cultura evangelica nell’Italia del secondo Ottocento. A piedi, con un sacco o una cassetta piena di bibbie, porzioni, commentari, romanzetti edificanti, “evangelini”, racconti di vita cristiana (venduti tre a un soldo), almanacchi; il colportore evangelico percorreva chilometri e chilometri, dal Nord al Sud della penisola, in un terreno spesso ostile alla loro opera. Venditori e predicatori, questi uomini, tra mille difficoltà, contribuirono alla diffusione di una diversa visione della fede, tra alcune comunità nell’Italia del tempo.

    Le reti di circolazione dei colportori potevano essere limitate a piccole porzioni di territorio, oppure estendersi su vasta scala nazionale se non addirittura su scala europea, come i librai-ambulanti provenienti dalle valli alpine francesi del Delfinato o i tesini di Bassano. Nel Settecento gli abitanti di Briançon conquistarono una parte importante del commercio di materiali a stampa nell’Europa del Sud, in particolare in Spagna e Portogallo. Nelle loro mani si concentrò il commercio librario, ma anche quello delle carte geografiche, delle stampe, dell’orologeria, delle tele, delle calze, dei berretti, Di fatto gli abitanti di Briançon aprirono un centinaio di botteghe distribuite tra Portogallo, Spagna, Sud della Francia e Italia. Diventarono corrispondenti dei grandi librai svizzeri – i Cramer, Gosse, la Société Typographique di Neuchâtel, ma, spesso si fecero loro stessi stampatori e lavorarono sempre gli uni con gli altri. In tal modo finirono per controllare buona parte del mercato almeno per quanto riguarda l’Italia e il Portogallo. Le reti erano fondate sulla mobilità degli uomini e sulla flessibilità dei circuiti.

    Da secolo a secolo ci fu un netto incremento, venne infatti duplicato se non quasi triplicato il numero della forza lavoro, permettendo così di coprire aree sempre maggiori. Nel 1881 il numero di Colportori con permesso era circa di 552. Alcuni di loro si misero in proprio ed aprirono delle librerie pur mantenendo stretti legami con la casa editrice. Furono attivi anche in altre parti di Europa raggiungendo persino l’America Latina.

    ....storia....



    L’attività dei colportori iniziò nel tardo Medioevo. I primi furono montanari che vivevano sull’arco alpino, sui Pirenei o sulle Highlands scozzesi. Molti erano agricoltori che, terminata la raccolta, si dedicavano al commercio itinerante.
    Uno di questi mercanti ambulanti fu un francese di nome Jehan Gravier. Nel XVI secolo, viveva con la famiglia nella regione montuosa nota come La Grave. Spinto dalla scarsa fertilità del suolo, Gravier cominciò a soddisfare la richiesta di prodotti che venivano dalla montagna — come legno, cuoio, lana e sale — da parte delle città nelle valli.
    Gravier, tuttavia, non si limitava a vendere oggetti. Dai documenti risulta che era indebitato con un tipografo, un certo Benoît Rigaud, il che dimostra, al pari di molti altri colportori, commerciava in libri. Ai suoi tempi l’Europa stava vivendo il periodo del Rinascimento, e il commercio di libri stava fiorendo. Tra il 1500 e il 1600 in Europa furono stampati dai 140 ai 200 milioni di libri. Un quarto d’essi fu stampato in Francia, a Lione. Ma mentre uomini come Gravier vendevano libri per guadagno, nacque un’altra categoria di colportori che distribuivano libri per motivi strettamente religiosi.

    Con l’avvento della macchina da stampa la richiesta di libri, opuscoli e volantini di carattere religioso salì alle stelle. La Bibbia venne stampata dapprima in latino e poi nelle lingue volgari. In Germania ne vennero stampate milioni di copie, e i colportori la distribuirono velocemente a chi viveva in campagna. Ma non tutti vedevano di buon’occhio questa distribuzione. Nel 1525 il Parlamento francese proibì la traduzione della Bibbia in francese, e l’anno dopo proibì anche il possesso di Bibbie in volgare. Nonostante ciò, dalle macchine da stampa uscivano migliaia di Bibbie, e molte venivano diffuse di nascosto in tutta la Francia, grazie agli sforzi di intrepidi colportori. Uno di questi era un giovane di nome Pierre Chapot, che nel 1546 fu arrestato e messo a morte.
    Infine, nel 1551, la Francia cattolica adottò misure più energiche e proibì del tutto ai colportori di vendere libri, visto che portavano “in segreto” libri “provenienti da Ginevra”, cioè di origine protestante. Questo divieto, però, non sortì l’effetto sperato. In Francia continuarono ad arrivare Bibbie in tutti i modi possibili. Essendo spesso di formato ridotto, venivano nascoste nei doppi fondi di botti di vino, in barili di castagne oppure nelle stive delle navi.
    Durante tutto il XVI secolo questi ‘contrabbandieri della fede’, come sono stati chiamati, vissero in costante pericolo. Molti colportori furono arrestati, mandati in prigione o sulle galere, esiliati o martirizzati. Anche se la storia ha tramandato solo una manciata di nomi, è stato grazie a una nutrita schiera di questi individui coraggiosi che la maggior parte delle famiglie protestanti poterono procurarsi una Bibbia.

    Nel XVII secolo la Chiesa Cattolica continuò a proibire alla gente comune la lettura della Bibbia. Al suo posto, ai fedeli venivano dati libri d’ore e vite di santi. In contrasto i giansenisti, cattolici con vedute “eretiche”, sostenevano che si dovessero leggere le Sacre Scritture. Contemporaneamente, nella bisaccia del colportore cominciò a comparire un nuovo tipo di libri a buon mercato. Fu grazie a questi libri, che rimasero in circolazione fino all’Ottocento, che molti in Francia impararono a leggere, ricavandone istruzione e diletto. I francesi li chiamavano bibliothèque bleue, “biblioteca blu”, a motivo del colore della copertina. In Inghilterra si chiamavano chapbooks, in Spagna pliegos de cordel. Contenevano racconti di cavalieri medievali, folclore, vite di santi e così via. Come si può immaginare, i colportori erano attesi con ansia, che arrivassero d’estate (come quelli provenienti dai Pirenei) o d’inverno (come quelli provenienti dalle Alpi del Delfinato).
    I colportori soddisfacevano il bisogno sia delle persone istruite che di quelle non istruite. Uno scrittore del XVIII secolo osservò a proposito dei contadini della Guienna, nella Francia sud-occidentale: “Durante le lunghe sere d’inverno i contadini leggono per una mezz’ora, a tutta la famiglia radunata, le vite dei santi o un capitolo della Bibbia. . . . In mancanza d’altro, leggono . . . la biblioteca blu e altre futilità che ogni anno i colportori portano nelle campagne”.
    I colportori furono “gente attiva, laboriosa ed estremamente sobria”, ma il loro successo era dovuto anche all’attaccamento che provavano per la famiglia, il villaggio e la religione. Molti di loro erano protestanti che rimanevano in contatto con chi era andato in esilio durante le persecuzioni.
     
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  5. gheagabry
     
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    Venditore di ghiaccio



    Girava con una carrozza trainata da un cavallo con dei grandi sportelli posteriori e rivestita all'interno di lamiera zincata. Egli trasportava blocchi di ghiaccio lunghi circa un metro, acquistati nelle fabbriche del ghiaccio che sezionava con un punteruolo per venderli al dettaglio. Solitamente indossava un grembiule impermeabile e dei stivali di gomma e faceva accorrere i clienti con tegami e pentole per trasportare il ghiaccio acquistato nelle ghiacciaie delle proprie abitazioni.


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  6. gheagabry
     
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    Il cocchiere


    Era il conducente delle carrozze delle famiglie gentilizie, i mezzi di comunicazione più diffusi nei ceti alti. A lui spettava il compito di accudire i cavalli, pulire i finimenti e la stalla. Indossava una livrea con tanto di mantello e cilindro. Col permesso del datore di lavoro, noleggiava la carrozza agli sposi del paese che poi conduceva personalmente.






    Il banditore


    Il suo compito consisteva nell’andare in giro a pubblicizzare prodotti per decantarne i pregi richiamando l’attenzione dei potenziali acquirenti: lo faceva facendosi annunciare da uno squillo di tromba. Frequenti erano i suoi “spot” per la vendita di vino, ma spesso veniva ingaggiato anche da chi aveva smarrito qualche oggetto o per rendere pubblici provvedimenti della Pubblica Amministrazione come ordinanze o disposizioni particolari.



     
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  7. gheagabry
     
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    L’acquaiolo


    Prima caricando barili su muli e cavalli e poi issando botti su camion percorreva le strade del paese per vendere acqua potabile. La pescava dai pozzi in campagna per poi cederla alle abitazioni o alle piccole attività. Figura man mano estintasi con il progressivo diffondersi delle rete idrica. Il camion dell’acquaiolo ha percorso fino a qualche anno fa le vie periferiche che, per motivi diversi, non erano ancora servite dal servizio pubblico di erogazione dell’acqua potabile. Al posto dei barili e delle botti una cisterna in metallo. Meno tradizionale ma sicuramente più capiente.





    Il terrazzano


    Figura ancora frequente nei mercati ortofrutticoli. Nel passato era colui che rastrellava le campagne per “spigolare” i resti del raccolto nei campi o trovare le erbe spontanee che, per intere generazioni, hanno rappresentato il piatto forte della cucina povera. Erbe che si riproducevano nei pascoli o nelle maggesi e poi rivendute al mercato proponendo quella che oggi viene definita una filiera corta. Erbe - le cosiddette fogghie a misk – ancora oggi poste in vendita e utilizzate per succulenti contorni o come necessario ingrediente per il rinomato pancotto. I “Terrazzani” è anche il nome del neonato Gruppo Folklorico promosso dalla Pro Loco di San Severo.


     
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  8. gheagabry
     
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    Il bombolonaio


    “…..con la sua bicicletta/triciclo a punta, come quella del gelataio, preparava la pasta ancora calda fatta di zucchero e caramello colorato. Ce lo trovavamo dappertutto, in tutte le feste ed ogni giorno davanti alle scuole all’uscita ed all’entrata con le sue caramelle carruba (che erano le mie preferite) e i bomboloni di ogni colore che andavano dal giallo limone, al viola delle more, al rosso fragola ed emanavano un gradevole odore che metteva l'acquolina in bocca a piccoli e grandi. Il bombolanaru della mia infanzia si chiamava "Don Saru". Casualmente e con piacere, nel 1971 e mi ricordo bene, l'ho rivisto ad un cinema di Milano dove vendeva nell'intervallo caramelle, patatine e bibite. Aveva cambiato luogo ma non mestiere.”



     
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  9. gheagabry
     
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    Il ramaio


    Lavorando lastre di rame realizzava pentole, bracieri o accessori per la casa spesso componenti della dote della sposa.




    Lo stagnino


    Chi non poteva permettersi utensili in rame, optava per quelli realizzati in stagno. E chi produceva questi oggetti spesso stagnava anche i vasi in rame per adattarli alla cottura dei cibi sul fuoco. Un vero e proprio procedimento antesignano delle moderne pentole padelle “antiaderenti”.


     
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  10. gheagabry
     
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    Venditore di castagne alla Fiera degli Oh Bej! Oh Bej! 1966
    (Foto di Massimo A. Gardini)



    Edited by gheagabry1 - 19/6/2021, 12:55
     
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    Impagliasedie

    La “cadrega” nel dialetto milanese è la sedia.
    Il “cadreghée” è il venditore di sedie.
    Il “cadregatt” è colui che impaglia la sedia.

    (Foto di Nino Lumbau)



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    Edited by gheagabry1 - 19/6/2021, 12:48
     
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    Milano, 1939, Viale Montenero

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    Londra, UK -
    Un gelataio ambulante lungo il Tamigi, nel quartiere di Putney, primo agosto 1932.
    (Central Press/Getty Images)

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    Napoli, Italia
    Un ragazzino vende pizze in strada, negli anni Sessanta.
    (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

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    Londra, UK
    Ragazzini leggono fumetti e mangiano mele caramellate fuori dallo stadio di cricket Oval, in attesa dell'inizio della partita, 14 agosto 1948.
    (Keystone/Getty Images)

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    Washington DC, USA
    Un uomo vende cibo da un carretto ambulante: i piatti costavano venti centesimi l'uno ed erano acquistati soprattutto dagli impiegati che uscivano dagli uffici in pausa pranzo. La foto è stata scattata negli anni Venti.
    (AP Photo/Library of Congress)

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    New York, USA
    Un uomo vende pretzel nel Lower East Side, nel 1955.
    (Evans/Three Lions/Getty Images)

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    Londra, UK
    Un uomo in cravatta e gilè vende banane a Park Lane, nel 1938.
    (London Express/Getty Images)

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    Napoli, Italia
    Una ragazza vende cozze alla Festa di Piedigrotta, nel settembre del 1949.
    (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

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    S’ACCABADORA


    Accabadora-bosa-2

    Il termine sardo femina accabadora, femina agabbadòra o, più comunemente, agabbadora o accabadora (s'agabbadóra, lett. "colei che finisce", deriva dal sardo s'acabbu, "la fine" o dallo spagnolo acabar, "terminare") denota la figura storicamente non comprovata di una donna che si incaricava di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso in cui queste fossero in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima a richiederla. In realtà non ci sono prove di tale pratica, che avrebbe riguardato alcune regioni sarde come Marghine, Planargia e Gallura. La pratica non doveva essere retribuita dai parenti del malato poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione.

    La leggenda narra che:


    Fino a qualche decennio fa in Sardegna si praticava l'eutanasia. Era compito di ''sa femmina accabadora'' procurare la morte a persone in agonia.
    S'accabadora era una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva ad ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva ad evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.
    Sa femmina accabadora arrivava nella casa del moribondo sempre di notte e, dopo aver fatto uscire i familiari che l’avevano chiamata, entrava nella stanza della morte: la porta si apriva e il moribondo, dal suo letto d’agonia, la vedeva entrare vestita di nero, con il viso coperto, e capiva che la sua sofferenza stava per finire.
    Il malato veniva soppresso con un cuscino, oppure la donna assestava il colpo di ''su mazzolu'' provocando la morte.
    S'accabbadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, ed i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.
    Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte.
    Il termine ''accabadora'' viene dallo spagnolo ''acabar'' che significa finire.
    ''Su mazzolu'' era una sorta di bastone appositamente costruito da ramo di olivastro, lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permette un'impugnatura sicura e precisa.
    In Sardegna s'accabbadora ha esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti di ''accabadura'' avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la signora vestita di nero.
    La sua esistenza e' sempre stata ritenuta un fatto naturale,come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s'accabadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona e che il suo compito si distinguesse dal colore dell'abito (nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).
    Questa figura, espressione di un fenomeno socio-culturale e storico, e' la pratica dell’eutanasia e nei piccoli paesi rurali della Sardegna e' legata al rapporto che i sardi avevano con la morte, considerata come la conclusione del naturale ciclo della vita.
    (Fonte - MonolituM)


    Non c'è unanimità storica su questa figura: alcuni antropologi ritengono che la femina agabbadora non sia mai esistita. Non ci sono prove della femmina agabbadora come tale, ma di donne che portavano conforto nelle famiglie dove c'era un moribondo, accompagnandolo fino all'ultimo istante. Aiutavano nell'agonia e davano sostegno, perciò erano rispettate da tutta la comunità, ma non uccidevano come invece pare avvenisse altrove. Il tutto si potrebbe spiegare con l'usanza tutta sarda dei racconti fantastici allo scopo di incutere paura "sos contos de forredda" (i racconti del focolare), poiché di solito il luogo della narrazione era accanto al fuoco di un camino.

    Alcuni autori non descrivono come strumento principale dell'agabbadora una mazza, ma un piccolo giogo in miniatura che veniva poggiato sotto il cuscino del moribondo, al fine di alleviare la sua agonia. Questo si spiega con uno dei motivi principali per cui si credeva che un uomo fosse costretto a subire una lenta e dolorosa agonia in punto di morte: se lo spirito non voleva staccarsi dal corpo era palese la colpa del moribondo, il quale si era macchiato di un crimine vergognoso, aveva bruciato un giogo, o aveva spostato i termini limitari della proprietà altrui, oppure aveva ammazzato un gatto. Altro rito che veniva compiuto era quello di togliere dalla stanza del moribondo tutte le immagini sacre e tutti gli oggetti a lui cari: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo.

    "è stentata l'agonia di chi in vita abbia violato un termine o bruciato un giogo […] per alleviarla è d'uopo mettere sotto il capezzale del morente una pietra o un giogo nuovo, una chiave ovvero una scure. In certi paesi di Sardegna, quando il moribondo tarda ad esalare l'ultimo respiro i parenti avvicinano alla sua testa o al collo un pettine o un giogo per alleviargli le sofferenze.”
    (Folklore pugliese, volume secondo, 1988, pagina 238-9).


     
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    Affilacoltelli francesi


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    Siamo a metà del XIX secolo e l'industria della coltelleria è in pieno fermento. A quel tempo, il business delle posate occupava 25.000 persone. Nella valle le fabbriche battono il ferro e i filatoi affilano le lame. In città assembliamo, lucidiamo, commerciamo, ripariamo... Thiers e dintorni vivono e respirano coltelli tutto il giorno. Una delle specificità della coltelleria di Thiers è la fabbricazione di coltelli regionali, il più famoso è il Laguiole (dal nome di un villaggio dell'Aveyron).

    Tuttavia, nulla ha predestinato Thiers a questa specializzazione. Non ci sono miniere di ferro o acciaio o cave di arenaria sul sito. Ma c'è il possente fiume Durolle , la cui forza idraulica fornirà l'energia necessaria a mulini e fabbriche di coltellinai. Per non parlare della tremenda ostinazione e motivazione di una popolazione che occupa un territorio difficile e scosceso. Inoltre, a partire dal XVII secolo, i coltelli fabbricati a Thiers venivano esportati dai porti di Bordeaux e Nantes, attraverso la Spagna e l'Italia, verso il Levante. Ma è proprio nel diciannovesimo secolo che le posate cresceranno in modo fenomenale.

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    Costruite lungo le sponde del Durolle, in quella che oggi è conosciuta come «Vallée des Usines» detta anche «Le Creux de l'Enfer» , le officine sfruttano appieno l'energia fornita dal fiume per produrre e rifornire massicciamente i negozi di ferramenta grossisti dalla Francia e dalla Navarra. E questo, grazie a una riuscita organizzazione del lavoro, basata sulla frammentazione: il lavoro è suddiviso tra una moltitudine di officine che eseguono solo una fase della lavorazione. Quindi ci sono tanti mestieri quante sono le fasi di fabbricazione di un coltello . Si tratta di lavoro a domicilio regolato da uno specifico contratto collettivo.

    È qui, nel cuore di uno di questi filatoi, che un certo Blaise Dozorme inizia la sua attività professionale di smerigliatrice . Soprannominato “il lupo” dai suoi coetanei, acquisisce un know-how inestimabile nel trattamento dell'acciaio e nella molatura . Sfruttando questa competenza acquisita nel tempo, decide di installare in casa sua un piccolo laboratorio di coltelleria. Siamo nel 1902, nascono le posate Dozorm.

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    La memoria locale ricorda ancora le “pance gialle”, queste centinaia di macinatori (che danno il filo alle lame) sdraiati fianco a fianco sul ventre sopra le ruote con i loro cani adagiati sulle gambe per scaldarli. Questa posizione specifica nel settore delle posate francesi ha permesso loro di sostenere la lama sulla ruota di arenaria per darle il suo primo filo. Una posizione tutt'altro che comoda ma sicuramente la più stabile per compiere questo passaggio cruciale nella fabbricazione di un coltello. Va ricordato che l'arrotino ha un ruolo primario e il suo lavoro è sicuramente il più prestigioso nella linea di produzione di un coltello. Infatti, questa fase di molatura della lama per affinarla determinerà la longevità e la qualità del tagliente della futura lama, la qualità del suo taglio e la capacità di ricostruire il coltello più volte dopo l'uso!
     
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