TORTE, DOLCI e la loro storia

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  1. gheagabry
     
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    LA STORIA DEL PROFITTEROL



    Il profiterole è un tipo di dolce ottenuto con un bignè riempito di crema pasticciera, crema chantilly, panna o gelato, e poi ricoperto con una crema di cioccolato o di caramello. La presentazione più comune è quella si disporre i singoli bigné formando una "montagnetta" chiamata croquembouche.

    Il profiteroles trae le sue origini dal Rinascimento; Caterina de Medici, andando in sposa a Enrico II di Francia, e diventando in seguito regina, portò con se dalla sua terra d’origine (la Toscana) tutte le sue ricette di gastronomia; uno dei suoi chef, un certo Popelini, creò nel 1540 la pasta per choux (per bignè), che divenne molto famosa in Francia (come molte altre ricette di origini italiane), e con essa anche i profiteroles; la fama di questo dolce si diffuse però dopo il XVII secolo, periodo in cui si sviluppò la vera arte pasticcera.

    Le origini sono molto umili e l'etimologia incerta: pare che il primo uso attestato del termine venisse riferito a un tipo di pane ripieno, cotto sotto le ceneri; mentre una ricetta di fine XVII secolo, e citata da Alfred Franklin in un'opera edita nel 1888, lo definisce come una pallina di pane secco, ripiena di tartufo e carne di cervo, da gustare immersa in brodo di mandorle e scarola. Ne si ha una citazione colta anche nel Gargantua e Pantagruel di Rabelais, un'attestazione che fa riferimento al significato del termine stesso: "profiter-" che significa fare profitto più la desinenza "-ole" come diminutivo, risultando quindi "piccolo profitto". E infatti la servitù francese veniva spesso pagata con piccoli pezzi di carne, provenienti dalle battute di caccia dei padroni, e unite a croste di pane raffermo.
    Secondo altre testimonianze il termine trarrebbe origine dalla composizione di "profit" e "rolle", dei tondini che danno guadagno. Nasce salato dunque e tuttora c'è chi lo prepara così, eppure il profitterol è più conosciuto senza dubbio nella sua versione dolce: nata in Francia molto probabilmente nel 1540 in seguito al matrimonio tra Caterina de Medici ed Enrico II di Francia, la creò il famoso chef Popelini (chef italiano al seguito di Caterina) quando ideò la pasta Choux, poi nota per la sua larga applicazione anche in altri preparati. (www.mychef.tv/)


    ....La storia del Bongo....



    "Quando, come e perché sia apparso in città per la prima volta, non possiamo dirlo con certezza. Quello che è certo è che quel dolce ottenuto dalla composizione, assicurata da una copiosa colata di cioccolato fuso, di bigné ripieni di panna montata o crema (i quali, al riparo di questa coltre, possono a loro volta essere sovrapposti in forma di cono più o meno pronunciato), a Firenze si chiama soltanto bòngo. Il fatto, cioè, che quella stessa prelibatezza possa essere individuata dal nome profiterole, o addirittura profiteroles (come vuole tra gli altri il Grande dizionario italiano dell'uso di De Mauro, che ritiene di dominio generalizzato "italiano comune" proprio la voce che esibisce la marca del plurale), a Firenze viene registrato con un misto di sorpresa e scetticismo: come se questo inatteso e sospetto francesismo potesse incrinare il rapporto di familiarità che i fiorentini intrattengono con questo dolce anche in virtù del suo nome buffo e colorito, ritenuto capace di esprimerne in modo quasi onomatopeico l'avvolgente pastosità.[..]I fiorentini tendono a collegare il nome – immediatamente percepito come un africanismo – al colore marrone scuro prodotto dalla coltre di cioccolata che avvolge interamente la composizione di bigné. Bongo, insomma, viene subito sentito come nomignolo antonomastico degli abitanti del "continente nero", che verrebbe opportunamente assunto per indicare quello che a Firenze è, altrettanto per antonomasia, il "dolce nero".
    [..] Perché, infatti, un dolce di cui fanno esperienza comune i palati di tutta la Penisola, solo a Firenze si chiama bongo? Ora, gli studiosi della lingua italiana sanno bene che nel nostro Paese la gastronomia propone, accanto alla ricchezza delle diverse tradizioni "regionali", un proliferare di denominazioni [..]. Da un lato abbiamo così le diverse cucine regionali accompagnate dal loro "irriducibile" lessico, dall'altro possiamo osservare spesso il diverso modo in cui, nelle diverse aree linguistiche, ci si riferisce allo stesso piatto[..].Per tornare al nostro dessert, c'è però da chiedersi come mai solo i fiorentini si oppongano al resto d'Italia – che, stando alla lessicografia, dice profiterole o profiteroles (ma l'effettiva pronuncia della -s è ben difficile da cogliere nel "parlato comune italiano") – nel prevedere una denominazione che, con il riferimento alla "negritudine", isola come elemento distintivo del dolce il suo color cioccolata. Anche perché, se ci pensiamo un momento, è un'usanza diffusa, cioè non solo fiorentina, chiamare affettuosamente cioccolatini i nativi dell'Africa. In questo caso, invece, solo Firenze coglie ed esprime il richiamo per così dire "visivo" 'cioccolata = Africa'. E infine: perché bongo viene usato con il valore di 'africano'?
    Prima di tutto, bisogna dire che le complesse caratteristiche della sua preparazione, che oltretutto non prevedono l'uso di ingredienti tipici del territorio, non consentono di annoverare il nostro dolce tra i piatti tradizionali, preparati anche tra le mura domestiche (pensiamo, per contrasto, al castagnaccio: cfr. Lorenzi 1978). Dunque, si tratta di un tipico prodotto di pasticceria. Possiamo allora chiederci quando questo dolce ha preso piede nelle pasticcerie d'Italia, e quando a Firenze ha cominciato ad assumere il nome di bongo.
    A quanto si rileva dalla consultazione dei vocabolari, il dolce che ci interessa comincia a circolare in Italia nei primi anni Sessanta: è Bruno Migliorini a registrare profiterole nella corposa Appendice di parole nuove che, nel 1963, accompagnerà la decima edizione del Dizionario moderno del Panzini (un lessico che a sua volta, a partire dai primi anni del secolo, registrava periodicamente le parole considerabili in via di acclimatamento nell'italiano dell'epoca). In Francia, dove il termine ha origine con il valore di ‘piccola indulgenza, gratificazione’ (da profiter 'approfittare'), il riferimento al prodotto dolciario è attestato già a metà del Cinquecento.
    Va peraltro rilevato che Migliorini descrive il profiterole come "dolce leggiero riempito di crema e glassato di zucchero cotto": quello che, si direbbe, noi siamo abituati a chiamare bigné, e che per Migliorini non prevede l'apporto di cioccolato come copertura. Dunque, la prima attestazione italiana di profiterole sembra rimandare solo al singolo componente-base del dolce che oggi (con -s o meno) si chiama in quel modo: insomma, perlomeno ai suoi esordi, profiterole sembra entrare in concorrenza con il già acclimatato bigné, il cui uso, come deprecabile francesismo, veniva stigmatizzato nel Settecento dall'erudito veronese Scipione Maffei.
    Del resto, profiterole, nel suo percorso di faticosa acclimatazione (ancora all'inizio degli anni Settanta più di un vocabolario italiano non lo prevede tra le sue pagine) troverà una sua precaria autonomia semantica proponendosi semmai come 'sorta di piccolo bigné da guarnizione'. Soltanto dalla fine degli anni Ottanta, di fatto, la lessicografia mostra un consolidamento della presenza nella lingua comune di profiterole(s), e del suo valore di 'dolce composto da bigné ricoperti di cioccolato', che a partire da questi anni si propone (specialmente quando esibisce la -s finale) come equivalente "italiano" del fiorentino bongo.
    Che però, a Firenze, con ogni probabilità circola ormai da qualche tempo, e in totale autonomia, se è vero che una delle prime fonti che ne parla, cioè il fortunatissimo ricettario del Petroni (1974), lo cita non come sinonimo locale di profiterole, ma a conclusione della procedura indicata per preparare i bigné: «Una volta cotti si potranno glassare e, con la siringa, riempire di crema, cioccolato o panna; potranno essere utilizzati anche per preparare un ottimo "Bongo"» (p. 68). D'altronde, l'illustrazione che accompagna la ricetta, presenta proprio i bigné interamente avvolti da un manto di cioccolato, dunque inequivocabilmente coinvolti nella formazione del nostro dolce. [..]
    Un indizio, invece, sembra indicare che il costituente-base del dolce aveva cominciato a circolare, a Firenze, con una denominazione che a suo modo prefigura gli sviluppi onomastici futuri. Infatti nel Nòvo dizionario universale della lingua italiana (1884-1890), impostato secondo la prospettiva manzoniana di uniformare sull'uso toscano (e soprattutto fiorentino) la lingua dell'Italia postunitaria, il pistoiese Policarpo Petrocchi registra, tra la lingua viva, la voce affricana (di cui, come si vede, viene proposta la pronuncia fiorentina, che prevede in questo caso la -f- geminata), come "Sorta di pasta collo zabaione dentro, e ricoperta di cioccolata". Con affricana, dunque, Petrocchi propone una forma della lingua "viva" (presumibilmente fiorentina) che di fatto costituisce una risposta anti-francese a bigné, e che, collegando l'aspetto del dolce caratterizzato dalla copertura di cioccolata a quell'Africa con cui gli italiani stavano familiarizzando per le vicende della colonizzazione, sembra anticipare in qualche modo l'avvento di un "africanismo" qual è bongo.[..]A livello di lessicografia italiana, questo valore di africano è presente solo nel Vocabolario della lingua italiana di Pietro Fanfani (1865).
    A partire, come sembra, dall'edizione 1918 del già ricordato Dizionario moderno del Panzini, africano è il nome con cui i vocabolari dell'italiano, salvo pochissime eccezioni, registrano la presenza, tra i più comuni dessert, di dolci (in genere, ma non esclusivamente, di marzapane) che presentano una superficie di cioccolata.[..]
    Ma, al di là della misteriosa attribuzione a tutta l'Italia di un tipo di dolce che sembra familiare e condiviso soprattutto tra i lessicografi (beati loro, verrebbe da dire), e di un'altrettanto curiosa consonanza tra "parole e cose" in Toscana e Salento, conta rilevare che esiste una consuetudine diffusa a collegare l'etichetta africano all'aspetto scuro dei dolci (che sia conseguito per cottura o per l'apporto del cioccolato in superficie).
    In questo contesto è possibile che l'antica affricana, registrata come si ricorderà a fine Ottocento dal Petrocchi come sorta di bigné ricoperto di cioccolato, nel corso degli anni abbia cominciato a risentire a Firenze dell'interferenza negativa rappresentata dalla vitalità, in aree limitrofe, di affricano 'uovo sbattuto con lo zucchero e cotto in forno'; al tempo stesso, come ulteriore elemento di disturbo, il termine africano andava a quanto pare diffondendosi (perlomeno a partire dalla metà del Novecento) come modalità ampiamente diffusa di indicare la pasticceria ricoperta di cioccolato.E allora, volendo continuare a esprimere linguisticamente l'africanità attraverso l'immagine della cioccolata, rispettando al tempo stesso gli specifici connotati di un dolce che a sua volta rappresentava uno sviluppo in termini di composizione dell'affricana del Petrocchi, si può pensare che a Firenze l'originale intuizione di un mastro pasticciere (di cui a quanto sembra si sono perse tracce) abbia risolto la questione battezzando l'evoluzione dell'affricana con il buffonesco pseudo-africanismo che in quegli stessi anni stava celebrando, con gran favore di pubblico, il protagonista di una canzone, "Bongo Bongo Bongo" (1947), a sua volta destinata, con la voce inconfondibile della star Nilla Pizzi, a spopolare a Firenze e nell'Italia intera, e a individuare in bongo, da quel momento in poi, un nome-simbolo dell'africanità."
    (tratto da www.accademiadellacrusca.it, articolo di Neri Binazzi - 14.2.14)
     
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  2. gheagabry
     
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    "C’era una volta una cosa semplice,
    ma non è detto che le cose semplici
    non siano degne della migliore tavola...."


    LA PANNA COTTA



    La Panna cotta è un tipo di budino italiano, ottenuto unendo panna, latte e zucchero, miscelandoli con colla di pesce e lasciando raffreddare il tutto. Si tratta di un dolce di origine piemontese, la cui data di nascita viene fatta risalire agli inizi del '900.
    Per alcuni è stato inventato nelle Langhe, da una signora di origini ungheresi; alcuni sostengono che la prima versione del dessert sia stata realizzata cercando di ottenerne una versione più leggera di un dolce tipico della pasticceria francese, la bavarese. Altri ritengono che la paternità derivi sia del Biancomangiare, dolce siciliano portato dalla dominazione Araba e diffuso in tempi brevissimi nel nord Italia, dove al latte di mandorle si sostituì il latte vaccino.
    Dolci simili alla panna cotta possono essere trovati anche in altre nazioni europee tra le quali la Francia, la Grecia e l’Inghilterra.


    LA CHEESECAKE



    La cheesecake (o torta al formaggio) è una torta fredda composta da una base di pasta su cui poggia un alto strato di crema di formaggio fresco zuccherato e trattato con altri ingredienti. La base è solitamente costituita da biscotti sbriciolati e poi rimpastati con l'aggiunta di tuorlo d'uovo o burro, oppure può essere fatta di pan di Spagna o pasta frolla, oppure da biscotti inumiditi di caffè, sciroppo o liquore. I formaggi che si utilizzano per preparare la crema sono formaggi freschi e molto morbidi come la ricotta.
    Il primo riferimento letterario, secondo Callimaco, è da attribuirsi a Egimio, autore di un testo sull'arte di fare torte di formaggio, il πλακουντοποιικόν σύγγραμμα plakountopoiikón sýngramma. Catone il censore nel De Agri Cultura cita la placenta, un dolce realizzato con due dischi di pasta condita con formaggio e miele e aromatizzata con foglie di alloro. Nell’isola di Delos invece, nel 776 a.c., veniva servito agli atleti dei primi giochi olimpici un dolce a base di formaggio di pecora e miele. I romani esportarono dalla Grecia la ricetta e si propagò in tutta Europa, secoli dopo apparve in America.
    Nel 1872 un lattaio americano di nome James L. Kraft, nel tentativo di creare il formaggio francese Neufchatel, inventò il formaggio fresco pastorizzato che poi chiamò Philadelphia. Si narra poi che attorno al 1880 avvenne la grande diffusione di questo prodotto e il suo utilizzo per la preparazione della moderna cheesecake. I migliori produttori di cheesecake, secondo quanto affermano gli stessi americani, si trovano a New York.
    “Paese che vai, usanza che trovi” - se ne possono trovare le varianti con ingredienti tipici del paese in cui viene riproposto. Ad esempio In Irlanda, Australia e Nuova Zelanda la torta al formaggio è tipicamente fatta con una base di biscotti sbriciolati e burro e sormontata da un composto di frutta. Il ripieno comune è una miscela di crema di formaggio, zucchero e panna, e non è cotto. Si può anche trovare dello sbrosciosissimo caffè, tè, il cioccolato, Irish Cream, cioccolata bianca e anche quei cosi gommosi e sintetici a palla dei marshmellows. La cheesecake irlandese può contenere un mix di panna e Baileys tra gli strati. (www.casasquirters.com/, web)



    IL PAN DI SPAGNA



    Il Pan di Spagna è una creazione italiana origina-
    riamente chiamata “Pâte Génoise”, ossia la Geno-
    vese. Tutto il mondo chiama questa pasta col nome di Génoise, solo noi italiani la chiamiamo pan di Spagna.
    La sua genesi sembra essere molto antica: si hanno notizie già a partire dal 1500, servito tra le pietanze dei commensali della Repubblica genovese, raggiunse la notorietà intorno alla metà del XIX secolo quando venne inserito dalla scuola di Berlino nella prova di esami per maestri pasticceri.
    Più o meno a metà del Settecento, la Repubblica di Genova, probabilmente avendo relazioni commerciali via mare con altri stati tra cui, com’è noto Spagna e Portogallo, inviò un suo ambasciatore alla corte di Madrid, da re Ferdinando VI di Spagna. L’ambasciatore in questione, era il marchese Domenico Pallavicini, rampollo di una facoltosa Famiglia, il quale rimase a Madrid dal 1747 al 1749. Domenico Pallavicini, alla sua partenza, oltre ai vari consiglieri diplomatici, portò con sé il personale della sua casa, ovvero erano presenti un maggiordomo, i cuochi, i portantini, etc. Tra gli uomini al seguito del Pallavicini, c’era un giovane pasticcere, Giovanni Battista Cabona,detto Giobatta, già da anni al servizio della famiglia dell’ambasciatore. In occasione di un ricevimento a Madrid, il Pallavicini gli commissionò un dolce che non fosse uno dei soliti. Con la semplice manipolazione degli ingredienti, partendo dal classico Biscotto di Savoia, creò una pasta battuta, di estrema leggerezza; una volta assaggiato il dolce, tanto fu lo stupore e l’entusiasmo alla corte spagnola, che si ritenne doveroso battezzare tale meraviglia di leggerezza col nome di Génoise. Da questa, inoltre, derivò una versione leggermente semplificata che prese il nome di Pan di Spagna, per onorare la corte spagnola che aveva decretato la fortuna della preparazione.
    La fama fu rapidissima tanto che già nel 1855 nel severo programma di esami per maestri pasticceri, della scuola di Berlino, tra le materie da dimostrare agli esaminatori, due sono le prove obbligatorie: la battuta al cioccolato e mandorla per la Torta Sacher e quella della Génoise.
    Differenze tra pâte génoise e pan di Spagna - La pâte génoise viene preparata a caldo mescolando gli ingredienti in una terrina il cui fondo poggia nell'acqua in leggera ebollizione di una pentola. Sbattendo ripetutamente gli ingredienti con un frullino o frusta da cucina, questi divengono spumosi per effetto del calore sulle uova. L'impasto viene quindi cotto in forno per assumere la sua forma definitiva.
    L'impasto del pan di Spagna, invece, viene preparato a freddo mischiando in una terrina poca farina o fecola di patate, zucchero, tuorli d'uovo e bianchi d'uovo montati a neve fermissima.
    In entrambi i casi il dolce risulta spugnoso e soffice grazie alla massiccia presenza di uova: la ricetta tradizionale, infatti, non prevede l'uso di lievito.
     
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  3. gheagabry
     
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    “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”
    (da “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa)


    LA CASSATA SICILIANA


    La cassata siciliana è una torta tradizionale siciliana a base di ricotta di percora zuccherata, pan di Spagna, pasta reale e frutta candita. È una produzione tipica della Sicilia come tale è stata ufficialmente riconosciuta e inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (Mipaaf), su proposta della Regione Siciliana. Deve il suo nome all’arabo qas’at, “bacinella” Secondo altri il nome deriva dal latino "caseum" (formaggio), ma nella parlata locale siciliana il vocabolo "cassata" è impiegato anche per definire una "bella ragazza in carne".
    Questa torta, perpetuata la sua origine araba, per via all’utensile adoperato (quas’at = casseruola) di forma circolare. Si racconta che un contadino arabo amalgamando del formaggio fresco di pecora con della canna da zucchero e ponendolo all’interno di un pentolino, alla richiesta di qualcuno che chiedeva cosa stesse facesse rispose qas’at con il nome della scodella, l’astante invece capì che si riferiva all’intingolo addolcito. Viene preparata con uno stampo in metallo a forma di cilindro con il bordo svasato, unendo al pan di Spagna, ricotta, pasta reale, frutta candita e pezzi di cioccolato. La vera singolarità consiste nella sua decorazione: frutta candita di cui si preferisce i mandarini, pere, fichi, nastri di zuccata, ciliegie e arance, fiorellini di ostia colorate e confettini argentati e, rifinita con della glassa di zucchero e merlettature di zucchero nei versanti.
    Regale alla vista per le sue cromie che risaltano in un bianco candore, per la forma perfetta che richiama antiche simbologie, rotondo come il sole, ricordava il suo tramonto e il suo risorgere, così come ogni anno si ricorda la passione, morte e resurrezione del Cristo, giustifica il ruolo di protagonista in un’occasione, cerimonia, festa, e per questo motivo essa divenne il dolce della Pasqua. "Cu nn’appi nn’appi cassateddi i Pasqua" dice un vecchio detto, non mangiare cassate il giorno di Pasqua e quasi un segno di poca devozione per i palermitani, magari si può fare a meno di entrare in chiesa, ma la cassata deve onorare il banchetto. Dalla sensibilità dei cuochi dei monasteri, a quelli delle case nobiliare, che ingentilirono il dolce, il percorso fu breve tanto da essere inserita come "termine" cassata nel vocabolario siciliano-latino scritto da Angelo Senisio, abate del monastero di San Martino delle Scale nel XIV secolo.

    Si contrappone, alla cassata estiva comunemente chiamata dai palermitani "Bbumma" o "Cassarulata" in quanto preparata in una casseruola particolare, a forma di cupola con gelato alla crema e panna, imbottito di pan di Spagna, pezzi di frutta canditi e scaglie di cioccolato.

    Nell'epoca Romana prese il nome di caseatus, un impasto dolce che veniva rinchiuso in una sfoglia di pasta e infornato. Petronio racconta che fu un dolce confezionato con la pasta del pane, ricotta e miele, (l'antesignana iris al forno dei giorni nostri). Lo troviamo riprodotta in un affresco della famosa villa di Oplontis. Nella Grecia antica e nella Magna Grecia si faceva già un dolce di cacio, sicuramente di ricotta, addolcito con il miele.
    La cassata non è nata così come tutti la conosciamo, ha subìto dei mutamenti, degli accorgimenti, apporti nuovi da più parti, diverse influenze come diverse sono state le dominazioni straniere in Sicilia.
    Le radici della cassata risalgono alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo). Intorno all'anno Mille, e a Palermo vi erano centinaia di moschee, giardini di grandi dimensioni, sorgenti di acqua limpida. Presso la Kalsa sorgeva il Palazzo dell'Emiro, dove i cuochi si dilettavano ad accostare i sapori e i colori contrapposti delle mandorle, della vaniglia, della ricotta e della cannella, che rappresentano gli ingredienti principali della cassata, caratteristici della cucina saracena. Gli arabi avevano introdotto a Palermo la canna da zucchero, il limone, il cedro, l'arancia amara, il mandarino, la mandorla. Questi prodotti insieme alla ricotta di pecora, che si produceva in Sicilia da tempi preistorici, erano gli ingredienti base della cassata, che all'inizio non era altro che un involucro di pasta frolla farcito di ricotta zuccherata e poi infornato.
    Nel periodo normanno, intorno alla fine del 1100, a Palermo presso il convento della Martorana, le suore crearono la pasta reale, un impasto dolcissimo fatto di farina di mandorle e zucchero che, colorato di verde con estratti di erbe, sostituì la pasta frolla come involucro. Si passò così dalla cassata al forno a quella composta a freddo. Arrivati gli spagnoli in Sicilia anche loro introdussero altri prodotti, come il cioccolato e il Pan di Spagna, chiamato così proprio per le sue origini. Il Pan di Spagna entrò a far parte della ricetta, insieme alle gocce di cioccolato che arricchirono la ricotta. È con il barocco che si completa il capolavoro, la ricchezza degli stucchi che hanno abbellito la Sicilia si riflettè sulla cassata con le ricche decorazioni di frutti canditi in una molteplicità di gusti e colori, un’esplosione di opulenza e sfarzo che diedero a questo dolce il suo aspetto finale.
    La decorazione caratteristica della cassata siciliana con la zuccata fu introdotta nel 1873, in occasione di una manifestazione che si tenne a Vienna, dal pasticciere palermitano cav. Salvatore Gulì, che possedeva un laboratorio in corso Vittorio Emanuele a Palermo, che si fregiava del titolo di “Confetturiere di Casa Reale” affiancando nel suo logo, per una sorta di par condicio politica, re Ferdinando di Borbone e re Vittorio Emanuele II.
    Gulì immaginò di utilizzare la sua prestigiosa produzione di frutti canditi per decorare il dolce di Pasqua. Ne stravolse, naturalmente, la preparazione, sostituendo la pasta frolla che avrebbe comportato una cottura al forno, con quella che fu una sua invenzione: la copertura di glassa di chiara d’uovo e zucchero. Essendoci già una cassata pensò bene di chiamarla “cassata alla siciliana”. Anche se i palermitani si ostinarono a chiamarla “la cassata di Gulì”. Il successo fu immediato. I Florio la regalarono alle teste coronate di tutta Europa, a magnati e giornalisti del Nuovo Mondo, ben imballata in scatole di latta decorate, oggetto di collezionismo. Portò lontano il profumo della Sicilia.

    ... la zuccata ...


    La Sicilia possiede molte materie prime vegetali, è ricca di zucchine di ogni genere, così "inventa" la zuccata, che un tempo le abili suore della Badia del Cancelliere di Palermo producevano in abbondanza nell’orto del loro convento, la faranno diventare un tipico ingrediente della pasticceria isolana. Di solito si usa la qualità di zucca lunga (a tromba), in dialetto è detta "Cucuzzuni" o Cocuzza Baffa allungata e cilindrica, essa è conosciuta in botanica con il nome latino di "Cucurbita Lagenaria" e raggiunge grandi dimensioni con un peso ragguardevole.
    Questo ortaggio veniva tagliato a pezzi di piccole dimensioni dalla lunghezza di 20-30 centimetri e dalla grossezza di appena un dito, posta in salamoia, alternando per tre giorni l’immersione in acqua naturale. In un secondo tempo, i pezzi, si sciacquavano in acqua corrente e quindi asciugati al sole, una volta asciutti si mettevano a bagno in uno sciroppo a base di zucchero, li rimanevano per un certo periodo. Rimosse dallo sciroppo si mettevano ad asciugare a temperatura ambiente. La frutta seguiva lo stesso procedimento.
     
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  4. gheagabry
     
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    "Torte! A tutti piacciono le torte, le torte hanno gli strati."
    (Ciuchino, dal film Shrek)


    LA STORIA DELLO STRUDEL


    Lo strudel (dal tedesco Strudel = vortice) è un dolce a pasta arrotolata o ripiena che può essere dolce o salata, ma nella sua versione più conosciuta è dolce a base di mele, pinoli, uvetta e cannella. E' originario delle aree dell'Impero Bizantino. Fu dal 1526 che il sultano Solimano avrebbe diffuso la ricetta nell'area, sconfiggendo gli Ungheresi e iniziando i quasi duecento anni di dominazione ottomana. L’evoluzione del “baclava” in strudel avvenne con l’introduzione tra gli ingredienti delle mele, quasi del tutto assenti in Turchia, ma molto popolari nell’area magiara. Con la conquista dell’Ungheria da parte dell’Austria (1699) lo strudel fece il suo ingresso trionfale a Vienna per arrivare poi nelle Tre Venezie. In Italia tradizionalmente viene preparato nei territori un tempo compresi nell'Impero, principalmente Alto Adige, Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia.
    Ogni luogo ha poi la sua ricetta: con la pasta frolla, con pasta da strudel o con pasta sfoglia. Ne esistono diverse versioni con altra frutta: pere, albicocche, frutti di bosco; nella formula salata, ad esempio con verdure, crauti e salumi.

    La versione dolce dello strudel sembra risalire al VIII secolo a.C.; un dolce destinato alla corte dell’imperatore assiro venne descritto in un testo di cucina mesopotamico come una composizione a strati di noci tritate, miele e sottili sfoglie di pane non lievitato. Dolci simili si trovavano anche nella antica tradizione greca, come una torta di noci detta "gastris" citata nel Deipnosophistae nel III secolo a.C., e nella cucina Bizantina, poi ereditata da Ottomani e Turchi, come il güllaç, un dolce di sfoglia bagnata nel latte e servito con noci e melagrana. Il güllaç vie descritto da un medico turande, Y inshan Zhenyao, che viveva alla corte mongola nel 1330 d.C. Probabilmente non è solo merito dei mercanti Arabi e dei viaggiatori che, lungo la Via della Seta, portavano tra Asia ed Europa Orientale merci, conoscenze e tradizioni, ma è anche all’etnia turanide che questo dolce si è diffuso dalla Mesopotamia di Assurbanipal fino alla Turchia.

    Col passare delle epoche, ha assunto forme e nomi diversi a secondo il luogo, si perfezionò nelle cucine di corte del Topkapi ed assunse il nome di "baklava", che sembra significhi “arrotolato su se stesso” nella lingua mongolo/turca, o “noci/semi” se di origine araba. Nella sua forma attuale l’antico dolce di origine assira consiste in una serie di strati di pasta fillo e frutta secca, tagliati a losanghe o arrotolati a piccoli sigari, cotti in forno e imbevuti di sciroppo.
    Gli ingredienti base sono sempre acqua, farina e un poco di grasso, come la pasta matta - come spiega Artusi: "si chiama matta non perché sia capace di qualche pazzia, ma per la semplicità colla quale si presta a far la parte di stival".

    Con le guerre ottomano-asburgiche tra il XVI ed il XIX secolo, le truppe turche incontrarono l’Europa Orientale.I continui contatti tra le due culture portarono inevitabilmente anche conseguenze positive nello scambio gastronomico.
    Gli Ungheresi trasformarono il dolce turco in una versione arrotolata con ripieno, da bocconcino grande come un dito diventò un unico grosso dolce; esclusero i sciroppi e cominciarono a sperimentare sfoglie sottili e farciture differenti con i loro prodotti locali, che comprendevano le noci, ma anche mele, castagne, semi di papavero, prugne, amarene, albicocche, uva passa e formaggina. Da qui nacquero molti dolci tipici ungheresi come i beigli e le rétes, il vero e proprio “strudel ungherese”, ma anche specialità salate a base di zucca, rape o cavoli.
    Con il ritorno dell’Ungheria sotto l’Impero Austriaco, il dolce venne conosciuto anche a Vienna, dove fu denominato strudel ovvero “vortice” e fu preparato, secondo il gusto dell’Impertore, con una sfoglia molto sottile. Ben presto lo strudel entrò ufficialmente a far parte della tradizione gastronomica austriaca, con le molte varianti locali: l’Apfelstrudel viennese con mele e uvetta, il Topfenstrudel di Osttirol e Carinzia che aggiunge alla farcia del viennese panna e formaggio, lo strudel tirolese alle ciliegie, quello styriano con uva e mandorle, quello di Ebensee farcito di pane ammollato nella panna acida, uova e uva passa…
    (tratto liberamente da un articolo "Da Assurbanipal a Maria Teresa d’Austria: il lungo viaggio dello strudel" di Annalena De Bortoli, www.mtchallenge.it/)
     
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  5. gheagabry
     
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    Storie di dolci....

    LO ZUCCOTTO



    Lo zuccotto è un tipico dolce della tradizione culinaria fiorentina. Secondo alcuni studiosi è uno dei primi semifreddi della storia, troverebbe la propria origine nella Firenze del XVI secolo. Originariamente era noto con la denominazione di "Elmo di Caterina", si caratterizzava con ingredienti totalmente diversi da quelli che ne contraddistinguono la moderna versione.
    All'origine lo zuccotto si preparava con ricotta addolcita con zucchero, mandorle e canditi. L'impasto veniva trasferito in un apposito recipiente semisferico, precedentemente rivestito di pan di spagna tagliato a fettine sottili e imbevuto di alchermes, per poi essere messo al fresco su ghiaccio. Esiste una versione cinquecentesca che prevedeva un ripieno di ricotta dolcificata con miele e zucchero, arricchita con fichi secchi, canditi e mandorle tritate.

    Lo Zuccotto fiorentino era conosciuto già ai tempi della regina Caterina II de’ Medici. Si ritiene che l’autore sia stato Bernardo Buontalenti, il noto architetto toscano, al servizio di Cosimo I, appassionato di pasticceria, inventore del gelato semifreddo così come oggi lo si conosce.
    Si racconta che i Medici, sempre disposti a meravigliare i loro ospiti, in occasione dell’arrivo dell’ambasceria di Spagna, incaricarono il Buontalenti di preparare sontuosi e stupefacenti banchetti tali da “far rimanere come tanti babbei gli stranieri, e spagnoli per giunta”. Per il banchetto inaugurale. Buontalenti preparò i suoi dolci ghiacciati sperimentando una nuova miscela da gelare, a base di latte, miele, tuorlo d’uovo e un tocco di vino. Il risultato ottenuto grazie all’uso di materie grasse fu un dolce freddo più vellutato e gradevole al palato

    In principio era chiamato “Elmo di Caterina” proprio in onore della sovrana, perché si dice che i primi esemplari siano stati realizzati all’interno di un piccolo elmo chiodato da combattimento chiamato appunto zuccotto, in uso alla fanteria di quell’epoca; altri sostengono che il nome è probabilmente ricollegabile alla calotta colorata degli alti prelati, chiamata zucchetto, molto simile alla forma del dolce e vi è anche la convinzione che la forma di cappuccio sia ispirato alla forma della cupola del Duomo di Firenze, spiegando il suo stampo concavo.. .. Era un dolce molto diverso da quello che oggi si trova in commercio, a partire dal colore: era monocolore bianco, perché in origine la ricetta prevedeva della ricotta con scorza di agrumi, provenienti dalla zona delle residenze medicee, e del gruè di cacao, la granella ottenuta dalle fave di cacao frantumate, tostate e poi sbucciate. L’esterno, invece, aveva la colorazione rosso acceso perché veniva aromatizzato con l’alchermes. I ” sorbetti ” che Caterina de’ Medici porto’ in Francia altro non erano che dei semifreddi; ricotte e creme gelate, non ghiacciate anche perche’ nel ‘ 500 non esistevano i frigoriferi, per cui se si voleva fare il gelato ” abbisognava serbar la neve “. Mancando la maniera di scendere sotto zero, si utilizzare la neve raccolta durante l’inverno, "serbata in profonde buche nelle cantine", ed il ghiaccio naturale ,conservato con lo stesso sistema. Buontalenti mise il suo genio anche al servizio delle feste e dei banchetti offerti dai Medici, studiando e realizzando gli apparati scenografici e le macchine teatrali. Per i festini e i banchetti il Buontalenti ideava e fabbricava anche fuochi artificiali e giochi pirici da interni, tanto che lo chiamavano "Bernardo delle girandole". Poliedrico inventore, pare che abbia inventato il sorbetto. Ideò e costruirì una macchina a forma di scatola chiusa, con pareti isolanti tra le quali inseriva neve e sale. La neve veniva conservata fino all'inizio dell'estate all'ombra o in cantina, coperta con della paglia. All'interno della "macchina" era posto un recipiente metallico nel quale inserire le sostanze da raffreddare, che si consolidavano grazie a spatole mosse di continuo da una manopola esterna. Si preparavano anche dei sorbetti mescolando le creme di latte o frutta con la neve ed il ghiaccio tritato, con una aggiunta di liquore e le ” gramolate ” che consistevano in frutta schiacciata, zuccherata e ghiacciata.
    La ricetta dello zuccotto è stata riscoperta soltanto negli Anni Trenta e da allora in poi è andata incontro a molteplici variazioni. Negli anni '70 e '80 non c'era quasi Domenica che non vedesse in tavola lo zuccotto, un fresco fine pasto. Negli anni successivi e' stato via via snobbato in cerca di modernità e finezze, tanto che oggi e' raro trovarlo nelle pasticcerie e per gustarlo bisogna ordinarlo appositamente.


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  6. gheagabry
     
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    TORTA MAZZINI
    Giuseppe Mazzini e Giuditta Bellerio Sidoli




    Nella casa marsigliese al n° 57 di rue Féreol, Giuditta e Pippo si amarono intensamente fin dal loro primo incontro, come avrebbe potuto accadere fra due qualsiasi ventenni. Vi nacque una lunga storia d’amore appassionata e tormentata, nonché un’intensa collaborazione politica: lei, infatti, oltre che l’amante, era diventata la sua fedele confidente facendo da tramite verso gli affiliati alla “Giovine Italia” e rimanendogli vicina nei momenti dello sconforto, specialmente durante il tentativo della spedizione in Savoia, che d’altra parte si dimostrò un fallimento, e dovuto al quale Mazzini fu costretto a stare rinchiuso in casa perché rischiava l’arresto.
    Lei si allontanava fino in Svizzera, ai confini con l’Italia, per portare i messaggi del Maestro ai giovani “Fratelli d’Italia” e quando ritornava dai suoi spostamenti, insieme con libri, documenti e messaggi segreti, riportandogli anche il suo amore incondizionato, Pippo la riceveva con la tavola apparecchiata e colma con i suoi manicaretti. E per dessert non mancava mai una fetta della deliziosa “Torta di mandorle”, la cui ricetta gli aveva insegnato una cuoca del luogo.



    Di quella torta Mazzini era talmente ghiotto che nel 1835 inviò a sua volta la ricetta, con un’affettuosa lettera, alla madre Maria Drago:
    “…Eccovi la ricetta di quel dolce che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai…”.
    E poi la spiegava, passo a passo:
    “Alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze in cattivo francese.
    Pestate tre once di mandorle, altrettante di zucchero.
    Sbattete il succo d’un limone e due torli d’uovo, montate a neve gli albumi e mescolate il tutto.
    Unta di burro una tortiera, mettete sul fondo la sfoglia, sulla quale verserete il miscuglio suddetto.
    Zuccherare e mettere in forno”.


    ...la ricetta...

    Ingredienti:

    250 g di mandorle pelate
    250 g di zucchero
    2 uova freschissime
    1 limone
    Burro
    1 confezione di pasta sfoglia
    50 g di zucchero a velo


    Togliere la pellicina alle mandorle immergendole per qualche minuto in acqua bollente;dopo averle fatte asciugare bene, pestatele o tritatele finemente con lo zucchero; sbattere i tuorli con il succo del limone e unirli al miscuglio di mandorle e zucchero; infine aggiungere mescolando con attenzione gli albumi montati a neve.

    Riempire con questo composto una tortiera foderata con la pasta sfoglia, spolverare di zucchero e cuocere a forno moderato per 35-40 minuti. Una volta tiepida cospargere di zucchero a velo.



    In una delle lettere che G. Mazzini scriveva alla madre (1834-46), da Grenchen (Svizzera):

    “Prima di dimenticarmi, voglio mantenere la mia promessa. Eccovi la ricetta che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai, traduco alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze (della casa ove M. abitava) in cattivo francese: Pelate e pestate fine fine tre oncie* di mandorle, tre once di zucchero fregato prima ad un limone, pestato finissimo. Prendete il succo di un limone, poi due gialli d’uovo, mescolate tutto questo e muovete, sbattete il tutto per alcuni minuti , poi sbattete i due bianchi di uovo quanto potete: “en neige”, dice essa, come la neve, cacciate anche questi nel gran miscuglio, tornate a muovere. Ungete una “tourtiere”, cioè un testo da torte, con butirro fresco, coprite il fondo della tourtiere con pasta sfogliata, ponete il miscuglio nel testo, su questo strato di pasta sfogliata, spargete sopra dello zucchero fino e fate cuocere il tutto al forno.”



    tratto da un articolo di Marina Cepeda Fuentes, www.totalita.it/ , web
     
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  7. gheagabry
     
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    Si potrebbe sostenere
    che ci sia un elemento di divertimento in ogni torta,
    come ogni torta è di per sé una sorpresa
    in virtù della crosta che l’avvolge.
    (Janet Clarkson)


    TORTA CAPRESE


    La torta caprese è un dolce tipico della penisola sorrentina, originario di Capri e diffuso soprattutto nella Penisola Sorrentina e in Costiera Amalfitanato il napoletano. Dagli abitanti del luogo viene spesso chiamata semplicemente "caprese".

    Si narra che la caprese sia stata creata, assolutamente per caso. Era il 1920, in un laboratorio artigianale dell’Isola di Capri, un cuoco di nome Carmine di Fiore, solo nel sua piccola cucina, circondato dai suoi utensili e ogni sorta di ingredienti, era impegnato nella preparazione di una torta alle mandorle per tre malavitosi giunti a Capri per comprare una partita di ghette ad Al Capone. Tutto procedeva al meglio ma forse per distrazione, forse per la fretta di finire, forse per altro, commise un errore che gli sarebbe sicuramente costato caro alla sua reputazione: dimenticò di aggiungere la dose di farina necessaria per completare l’impasto della torta. Infornò l'impasto. Poco prima della fine della cottura, si accorse che su tavolo era rimasta la farina, iniziò a sudare freddo pensando alle conseguenze ma, con sommo stupore, la torta risultò una vera e propria prelibatezza: morbida al centro e croccante fuori. I tre americani furono talmente soddisfatti da chiederne la ricetta. Da quel giorno Carmine continuò a preparare la torta che piacque tantissimo, ed ebbe un gran successo.


    "A' caprese è na' torta 'e Napule tradizziunale.
    Se prepare 'mpastanne insieme mandurle, cacae, 'ove, nu poche 'e farine e zzucchero.
    Se mette pure 'o lievite dint'a nu poche 'e latte.
    Se coce dint'o furne e quanne se tire 'a fore se mette 'u zzucchero 'a velo.
    Une 'mo se po' dumanda' comme è nate sta torta, chi l'a 'nventate.
    A' storie dice che i rre 'e Napule se 'nzuravene cu 'e principesse austriache.
    Quanne ste principesse venivano a Napule vulevano 'na torta
    che se faceva 'e parte lloro e si chiamme "Sacher Torte".
    E' cuoche du palazzo reale nun cunuscevane a ricetta
    e pure 'e principesse sapevane di' sulamente comme era fatte a torta,
    ma nun sapevane come se faceve.
    Allora 'sti cuoche s'ngegnarene a fa' 'na cosa simmile e allora è nate a Caprese.
    A' caprese, allore, è cupiate da "Sacher torte",
    ma è venute a cussì bbone che ancore 'mo tutte e pasticcere 'e Napule 'a fanne."



    Altri associano la caprese alla sacher torte viennese, rifacendosi ad una leggenda secondo la quale Maria Carolina d'Austria, sposando di Ferdinando IV di Borbone, arrivò a Napoli e chiese ai cuochi di palazzo di prepararle la sacher torte, dolce tipico della sua Patria. I cuochi napoletani pero' non conoscevano la ricetta di questa torta, tantomeno la principessa austriaca, cosi sotto la descrizione approssimativa fatta da Maria Carolina s'ingegnarono a creare un dolce simile e il risultato fu cosi buono che la caprese diventò la torta di Napoli.


    ..la ricetta..



    La ricetta originale della caprese non prevede l’uso di farina, né lievito. Si tratta di una torta dalla consistenza molto particolare. Il “segreto” sta tutto nella lavorazione che deve inglobare piu’ aria possibile per non avere l’effetto “mattone”.

    Ingredienti
    per una torta da 26 cm. di diametro
    300 g mandorle (ne’ tostate, ne’ spellate)
    250 g cioccolato fondente
    250 g burro morbido
    200 g zucchero
    5 uova
    zucchero al velo per guarnire


    Preparazione

    Separare gli albumi dai tuorli. Fondere il cioccolato a bagnomaria. Tritate le mandorle fino ad ottenere una polvere non eccessivamente fine. Montate il burro a spuma con 150 g zucchero. Sempre montando aggiungete un tuorlo alla volta. Aggiungete il cioccolato fuso e intiepidito e le mandorle. Montate a neve gli albumi con il resto dello zucchero.
    Incorporate una cucchiaiata di albumi montati al composto al cioccolato per ammorbidirlo. Aggiungete quindi il resto degli albumi mescolando con una spatola e facendo attenzione a non smontarli.
    Versate il composto in una teglia imburrata ed infarinata. Cuocere in forno, a 180° per circa un’ora.
    Verificate la cottura con la prova dello stecchino. Sfornate e lasciar raffreddare e cospargetela di zucchero al velo.



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  8. gheagabry
     
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    "Immagina una fiera, una grande fiera negli Stati Uniti di fine 800, creata per celebrare i quattrocento anni dalla scoperta dell’America. Immagina che a questa fiera, che si tiene a Chicago, vada moltissima gente ogni giorno, uomini e donne. I fast food ancora non esistono e la maggior parte delle persone, generalmente, si porta il pranzo da casa per poter trascorrere fuori l’intera giornata. Ma come fa una signora di classe a mangiare un dolcetto senza sporcarsi le mani e senza fare brutta figura attentando una fetta di torta?"



    I BROWNIE



    Il brownie è noto anche come chocolate brownie o Boston brownie. È una torta tagliata a piccoli quadrettini. Possono essere ricoperti con della glassa e possono contenere delle scaglie di cioccolato o nocciole o aromatizzati a vari gusti, come ad esempio vaniglia o menta.
    I principali ingredienti sono farina, zucchero, cioccolato generalmente fondente, o in abbinamento al cioccolato al latte e al cioccolato bianco, burro, uova e facoltativamente nocciole. Nella ricetta originale non è previsto il lievito. Esistono comunque molte ricette differenti per i brownie tra cui una versione bianca del brownie, chiamata blondie, preparata senza cacao, spesso con del cioccolato bianco al suo posto. La consistenza del brownie è molto particolare, qualcosa che viene definito “a metà tra una torta e un biscotto” e può essere più asciutto o più morbido e fondente a seconda degli ingredienti e delle loro quantità.

    Brownie è il folletto più famoso d'Inghilterra, alto 60 cm e ricoperto di peli scuri, nudo o rozzamente vestito. Brownie è servizievole nei lavori di casa e aiuta l’uomo in cambio di dolci e latte, ma come tutti i folletti è un po’ permaloso, ma l'origine del dolce si pensa sia statunitense e che il nome deriva dal colore scuro. Esistono varie versioni sull'origine del dolce, quella classica racconta di un cuoco sbadato che dimenticò di mettere il lievito nella torta al cioccolato che stava preparando.
    Secondo la tradizione, i brownies nascono dall’esigenza di trovare un dolce “pratico”: più semplice da mangiare rispetto a una fetta di torta e abbastanza piccolo da stare in una lunchbox. E che fosse anche pieno di gusto. A porsi il problema per prima fu la signora Bertha Palmer, filantropa e donna d’affari nonché presidentessa del Board of Lady Managers della World’s Columbian Exposition, del 1893. Le indicazioni della signora Palmer furono precise: bisognava creare un dolce con la consistenza di una torta ma più piccolo, e che fosse poco “sbricioloso”. Così, dopo molto confabulare con lo chef del Palmer House Hotel nacque il primo brownie. Che, in realtà, di “brown” aveva ben poco: nelle primissime versioni, questo dolce aveva un glassa all’albicocca e un impasto al sapore di nocciola.

    Il nome brownie è comparso per la prima volta nel Boston Cooking School Cookbook, nel 1896, dove furono descritti come piccole torte cucinate con della melassa. E' un dolce sono abbastanza “moderno” da avere una carta di identità piuttosto precisa: la prima ricetta, che compare nel 1904 sul celeberrimo ricettario American Cookery, dà tutte le indicazioni per cucinare una torta non lievitata da tagliare a quadretti.
    Solo dopo il 1920, avviene la svolta per mano di Maria Williet Howard, che modifica la ricetta aggiungendo più uova e più cioccolato, creando un brownie più ricco e morbido, quasi più simile al fudge. I brownies entrarono subito in cima alla classifica degli snack e dei dolcetti più amati dagli americani per non uscirne mai più.


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  9. gheagabry
     
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    “Devi amare quello che fai.
    Ogni dolce ha la sua storia: la persona per cui lo prepari, i sentimenti che provi mentre lo prepari...
    ogni cosa entra nelle mani e mentre impasti pensi con le mani, ami con le mani e crei con le mani.”

    ALESSANDRO D'AVENIA


    LA MARLBOROUGH PIE



    Il Marlborough Pudding è una torta inglese che i coloni hanno portato in America. E' una ricetta per le feste, in particolar modo per il Ringraziamento. Nel New England, era servita allo stesso tempo come il tacchino e le verdure.

    Le mele sono l'ingrediente base per la Marlborough Pie. Uno dei modi più semplici e più antichi di cucinarla è quello di affettare e bollire le mele, con circa mezza tazza di zucchero bianco e marrone, cannella e succo di un limone, per ottenere una salsa, poi messa in bottiglia per almeno un mese riponendola in un luogo freddo. La salsa può durare da ottobre ad aprile. Poi si prepara una base con farina da pane, zucchero, un pizzico di sale, burro a dadini e acqua fredda. La ricetta originale prevede per il ripieno, parti uguali fra uova, salsa di mele e sherry secco. I tradizionalisti asseriscono che una buona torta prende tutta una vita propria quando si utilizza la salsa di mele fatta in casa.
    Non è una torta di mele, né una torta alla crema, ma qualcosa di simile a una torta di mele crema pasticcera.

    Le mele utilizzate erano quelle quasi marce, si pulivano e si recuperava la parte sana per non sprecare nulla. Non si sa come mai questa torta sia scomparsa dalle tavole americane. E 'possibile che con l'avvento del moderno metodo di conservazione di mele fresche e di buona qualità, il frutto divenne così ampiamente disponibili che un dessert fatto di mele appassite diventatò inutile. Un'altra possibile causa fu l'ascesa del movimento della temperanza. "Senza lo sherry nella torta, semplicemente non lo stesso sapore".
    Secondo il libro "Apple Lover Cookbook" di Amy Traverso, la prima ricetta per una torta di mele fatta con crema pasticcera e uova è elencato in un libro inglese 1660 chiamato "La Accomplisht Cook" da uno chef inglese formatosi in Francia di nome Robert May
    L'Hartford Courant rileva che l' uso degli ingredienti come la noce moscata, limone, e sherry, iniziò quando cominciarono ad apparire in Gran Bretagna, a metà del 1600 attraverso il commercio con l'Asia, la Spagna, e paesi del Mediterraneo.
    Non è chiaro il motivo per cui la torta venne chiamata Marlborough, anche se è probabile che il nome derivi da una città in Inghilterra o nel Massachusetts.
    La prima ricetta documentata di "Marlborough Pie" negli Stati Uniti si trova in un libro di cucina, scritto da Amelia Simmons nel 1776.

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  10. gheagabry
     
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    LA STORIA DEL PAMPAPATO



    L’unicità del dolce “Pampapato di Ferrara” è la sua apparte-
    nenza alla provincia che viene confermata da numerose fonti documentali, oltre 500 anni di storia fanno riferimento al prodotto ed alla ricetta. Vito Cavallini, nel trascrivere la cucina di Casa d’Este, sottolinea con assoluta fermezza che il Pampapato “non fatto in case d’altri paesi, e tanto meno da fabbriche forestiere”.
    Il territorio ferrarese è stato per secoli sotto il dominio della Chiesa e la ricetta nacque probabilmente nei conventi di clausura del ferrarese, attorno al XV secolo. Sull’anno e sul luogo di origine della ricetta vi sono alcune divergenze.
    Taluni sostengono che il dolce sia nato da un’antica ricetta di Pontelagoscuro, una località alle porte di Ferrara ma, secondo la bibliografia locale più accreditata, nel '600 le monache del Monastero del Corpus Domini di Ferrara, traendo ispirazione da un’antica ricetta del grande cuoco rinascimentale Cristoforo da Messisbugo, crearono un dolce da inviare alle grandi personalità dell’epoca. Il cacao, appena giunto in Europa dall'America, era un bene di lusso, destinato a pochi e venne aggiunto come fosse un gioiello, una polvere preziosa. A forma di zuccotto, ha un impasto impreziosito da mandorle o nocciole, da canditi ed insaporito con spezie, ma non è presente il pepe anche se il nome può trarre in inganno; la calotta è ricoperta da cioccolato fondente. Lo storico toscano Righi Parenti descrive la forma “a forma di cupoletta, come lo zucchino degli alti prelati, reso bruno da un’abbondante glassa di cioccolato che gli donava una certa aristocrazia in quel tempo quando il cacao era alimento prerogativa dei signori ”.
    Così nasce il "Pan del Papa". Secondo Righi Parenti, il dolce ricevette la forma tipica in onore del cardinale Ippolito II d’Este, ed in occasione del grande banchetto che pare abbia avuto luogo a Ferrara nel 1566, quando il nipote Alfonso gli succedette nel governo del Ducato. Al contrario, secondo il testo di G. Longhi, storico della gastronomia ferrarese, la tipica forma del dolce fu impressa per la prima volta dalle monache. Anche V. Cavallini riporta asserisce che il dolce “è nato in qualche convento della città, composto dalle suore di clausura che lo mandavano poi in omaggio, per il Natale, agli alti prelati”
    La presenza delle spezie tra gli ingredienti confermano le origini storiche del dolce all’interno dei Conventi: le droghe come cannella, noce moscata e chiodi di garofano erano rare e costose ed il loro utilizzo esclusivo delle classi più agiate, dei prelati e dei religiosi. Le spezie non avevano la funzione attuale di aromatizzazione i cibi, ma erano utilizzate come medicinale nella cura delle malattie, i monaci, le suore e le Confraternite le impiegavano come placebo nella preparazione degli unguenti, i farmaci di quell'epoca. Solo in seguito si diffuse in gastronomia, in parte come conservante degli alimenti, ma, soprattutto come "status" sociale visto il loro costo.
    Secondo alcuni testi, la ricetta originale, custodita gelosamente con molta probabilità dai gesuiti, è stata perduta. Quando vennero attribuite proprietà afrodisiache al cacao, il nome del dolce cambiò da Pampapato a Panpepato e per non incorrere in accuse di eresia, le ricette custodite nei monasteri e nelle canoniche, vennero distrutte.
    Nella provincia ferrarese, le origini storiche dell’arte culinaria sono legate alle fastose tradizioni della Corte degli Estensi dove il dolce era apprezzato. Nel Libro della Interada della Casa Estense, si racconta che il Duca Borso d’Este, l'11 novembre del 1465, consegnò ad un suo maggiordomo “un ducato d’oro da mettere dentro un panpepato che sarebbe poi stato offerto agli invitati”.
    Alla Corte di casa d’Este vi era uno dei più famosi cuochi dell'epoca, Cristoforo da Messisbugo, nel suo trattato di scalcheria, una raccolta delle preparazione gastronomiche offerte alla corte, vi erano anche i Panpepati di zucchero.

    Nel 1800 il divenne popolare all’interno della città di Ferrara “in ogni casa il pranzo di Natale non poteva dirsi completo se non si chiudeva con una dolce fetta di panpepato” ma, la vera rivoluzione nella tecnica di preparazione del dolce risale ai primi del 1900. Guido Ghezzi, pasticcere di origini milanesi che, nel 1902, dopo aver appreso in Svizzera l'arte della lavorazione del cioccolato, avviò, a Ferrara, un laboratorio di pasticceria nel pieno centro storico della città.
    "... riprese un’antica ricetta ferrarese del secolo XVI, ne perfezionò la formula e ricoprì questo pane, di cioccolato. Fu un grande successo." Prima dell’innovazione di Ghezzi, la superficie del dolce era decorata unicamente con i diavulin, piccoli confettini di zucchero colorati. Di lì a poco, il prodotto ottenne numerosi consensi, nel 1908 ottenne un riconoscimento all’Esposizione di Parigi, nel 1909 a quella di Londra e nel 1910 a quella di Bruxelles. Ma, il maggior riconoscimento lo riscosse nel 1911, quando, all’Esposizione di Torino, allora capitale della lavorazione del cioccolato, venne premiato con la massima onorificenza: il “Diploma d’Onore”.
    Nel 1953, il pasticcere ferrarese Bindo Agosti fu incaricato di omaggiare Stalin con una forma del peso di 5 Kg.

    ...il pampepato di Terni...



    Si pensa che l'origine di provenienza sia il lontano oriente, portato dalle carovane che trasportavano spezie, intorno alla metà del Cinquecento. Poi, la tradizione italica aggiunse altri sapori locali come le noci, gli agrumi e un ingrediente "segreto", il mosto cotto ("sapa" o "saba" nell'epoca romana), difficile da trovare, a Terni viene imbottigliato appositamente per la preparazione del pampepato. Nella ricetta originale non si trovano le dosi esatte di alcuni ingredienti, perché non esistono indicazioni precise; vengono aggiunti "quanto basta", finché non ha il giusto sapore.
    Il Pampepato Ternano viene preparato rigorosamente l'8 dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, all'inizio delle festività ma il periodo, a volte, si prolunga fino al 14 febbraio, festa di San Valentino, patrono della città e degli innamorati. Tradizione vuole che almeno un esemplare resti incartato fino al giorno di Pasqua, o fino al 15 agosto, giorno dell'Assunzione: il che testimonia la capacità del dolce di mantenersi a lungo senza conservanti.

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  11. gheagabry
     
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    STORIE DI DOLCI...


    I CANELES



    Si narra che gli antenati dei canelés sono stati inventati nel XVIII secolo dalle monache del convento dell’ Annunziata presso la chiesa di sant’ Eulalia a Bordeaux: questi dolci, era un impasto tirato sottile ed arrotolato su delle canne, prima di essere fritto in strutto bollente, molto diversi da quelli attuali. La recente riqualificazione di questo convento, ha portato ad approfondire attraverso scavi archeologici le origini dei questo luogo sacro. Tra i tanti oggetti recuperati , risalenti ad epoche diverse, tuttavia nessuno sembra assomigliare ad uno stampo per Canelés.
    Una storia più attendibile risale al XVII secolo. A Bordeaux vi era un pane preparato con l’aggiunta di tuorli e detto canaulé o canaulet. Bordeaux fu un importante porto fluviale, vaniglia, zucchero e rum arrivavano dalle colonie passando prima da mare e poi trasportate sul fiume. I tuorli, all’epoca erano un sottoprodotto rispetto agli albumi che venivano utilizzati, montati a neve per chiarificare il vino rosso. Nel bordolese, terra di vini, centinaia di albumi venivano usati e i tuorli donati ai conventi per la produzione di dolci. Tutti le fonti affermano che i canelés nacquero dalla necessità di utilizzare i rossi d'uovo. Questo prodotto fu talmente famoso che gli artigiani preposti alla sua produzione si chiamarono canauliers e si riunirono in una corporazione registrata nel 1663. Nei documenti della registrazione vennero definiti nei dettagli ciò che essi potevano produrre: per non fare concorrenza ai pasticceri, i dolci non dovevano avere nell'impasto ne latte ne zucchero. ma nel 1755, dopo lunghe battaglia, i canauliers ottennero la possibilità di utilizzare anche latte e zucchero nella loro produzione. L’accesso alla professione venne inizialmente limitato a otto mastri canauliers in città ma, ancora una volta le regole vennero aggirate e nel 1785 Bordeaux contava almeno 39 mastri canauliers. La Rivoluzione rimosse tutte le Corporazioni, ma non la professione di canaulier, così che i canelés continuano ad essere prodotti anche nel periodo del Terrore.
    I canelés, dopo un periodo di regressione, nel primo quarto del XX secolo il cannelé riappare, anche se è difficile datare con precisione il suo ritorno. Una pasticceria sconosciuta ripropone l'antica ricetta dei canauliers e ne migliora l'impasto.
    Nel 1985 a Bordeaux viene fondata una Confraternita dei Canelè che cancella la seconda "n" dal nome originale per affermare meglio la sua identità. Il nome canelé diventa un marchio collettivo, depositato presso l'Istituto Nazionale di Proprietà Industriale dalla Confraternita. Dieci anni dopo la presentazione della denominazione, ci erano 800 produttori in Aquitania e 600 nella Gironda . Nel 1992 il consumo di canelés nella Gironda fu stimato intorno ai 4,5 milioni di unità.

    Per una buona riuscita dei cannelés bisogna rispettare alcuni accorgimenti: il rum non può mancare, quindi nessuna sostituzione, in quanto permette all'impasto di fermentare; il latte va aggiunto solo una volta freddo, altrimenti l'alcool evaporerà; il riposo lungo serve per far lievitare l'impasto e donare all'interno, durate la cottura, la tipica morbidezza; gli stampi scanalati di rame, devono essere imburrati così che l'esterno si caramellizzi in cottura e diventi bruno e croccante.
    I cannelés vanno serviti tiepidi.


    Ricetta ORIGINALE:

    - 500 ml de lait
    - 1 gousses de vanille
    - 250 gr. de sucre glace
    - 2 oefs entiers
    - 100 gr de farine
    - 50 gr de beurre
    - 15 gr de Rhum

    Portez le lait à ébullition, ajouter les gousses de vanille émincées finement. Laissez infuser une trentaine de minutes et refroidir. Faites blanchir le sucre glace avec les œufs entiers et les jaunes puis ajoutez la farine tamisée et le lait. Incorporez finalement le beurre fondu et refroidi puis le rhum .
    Versez l’appareil dans des moules à cannelés en Cuivre et les remplir les moules aux 3/4 pour obtenir une cuisson homogène, sinon les cannelés peuvent se mettre à gonfler avec exagération et prendre une forme inesthétique en débordant du moule.
    Enfournez à mi-hauteur à 250 °C pendant une dizaine de minutes puis à 180 °C pendant une petite heure. Au terme de la cuisson laissez refroidir légèrement avant de démouler. Démoulez les cannelés en donnant une légère pression sur le fond du moule du moule.


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  12. gheagabry
     
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    “Io faccio in assoluto i migliori biscotti del mondo,
    ma non li faccio spesso
    perché non è giusto... verso gli altri biscotti.”


    I SAVOIARDI



    I savoiardi sono dei biscotti dolci e leggeri dalla consistenza molto friabile e spugnosa. La forma è un cilindro schiacciato con gli spigoli smussati, ricorda un grosso dito, in inglese vengono chiamati lady fingers, cioè dita di dama, mentre in Francia vengono chiamati biscuit à la cuillère, cioè biscotto a cucchiaio. Tutte le regioni d'Italia che subirono l'influenza dei Savoia, conoscono questo prodotto. In Sardegna, dove prendono il nome di “Pistoccus de caffè”.In Molise sono conosciuti come prestofatti. Sono diffusi anche in Sicilia, che ebbe un re sabaudo nel Settecento; la ricetta è stata reinterpretata dalla tradizione isolana, in particolare a Caltanissetta dove vengono chiamati raffiolini.

    La loro origine è incerta, alcune fonti li fanno risalire al tardo XV secolo. I "Biscotti di Savoia" videro la luce nel tardo Medioevo, e sarebbero stati creati dal cuoco della corte di Amedeo VI, per un fastoso pranzo organizzato intorno al 1348,in onore di una visita dei reali di Francia. In seguito, grazie al successo ottenuto nel memorabile banchetto, questi biscotti fregiati del nome di “Savoiardi”, vennero adottati “ufficialmente” dalla Reale Casa Savoia diventando golosità molto ambita dai giovani eredi della dinastia. Una ricetta cinquecentesca ne mostra la preparazione: «Si fanno con un poco di farina, albume d’uovi e zuccaro». Pur essendo stati adottati dal Piemonte, dove il Savoiardo viene chiamato familiarmente el biscotìn, hanno continuato a essere prodotti anche in Francia, in particolar modo nella zona di Yenne, sul lago del Bouget, che originariamente apparteneva al territorio dei duchi di Savoia.
    Ricetta tra le più antiche della nostra gastronomia, pubblicato sul Dictionnaire de cuisine et gastronomie edito da Larousse. "El biscotin" pur essendo di origine piemontese, arrivò nelle aree d'influenza dei Savoia. Nel 1873, sono citati nel Grande dizionario di cucina di Alexandre Dumas.
    Dalla Francia alla Sardegna i Savoiardi hanno perso parte delle uova è quindi più leggeri, con la pasta meno biscottata e la forma più appiattita. Dalla Sardegna alla Sicilia, hanno perso ancora delle uova, per l'esattezza degli albumi, e sono diventati Savoiardi forti, più biscottati e duri; sono serviti sempre con morbide creme o vini.


    “No gh’è a sto mondo, no, più bel biscotto,
    - più fin, più dolce, più liniero e san –
    per mogiar nela cìcara o nel goto, - del Baicolo nostro Veneziàn”

    Non c'è al mondo biscotto più fino,
    dolce e sano da intingere nella tazza o nel bicchiere
    del nostro Baicolo Veneziano


    BAICOLI VENEZIANI



    I biscotti veneziani per eccellenza sono i “baicoli” che creati due secoli fa, nelle offellerie e panetterie per le botteghe del caffè, sono ancora oggi tra i biscotti più delicati e saporiti. Sono biscotti tipici di Venezia, venduti in tradizionali scatole gialle di latta.
    I biscotti si presentano come dei tranci di pane biscottati,con forma allungata, ovoidale e uno spessore molto sottile. Vengono prodotti con farina bianca, burro, oli vegetali, zucchero, lievito di birra, una chiara d’uovo, un po’ di latte e un po’ di sale.

    Nelle Venezia del settecento era di moda servire questi biscotti con lo zabaione, famosissimo dolce secco da “tociar” (intingere). I biscotti della Serenissima, parte integrante delle provviste delle navi mercantili grazie al loro ottimo sapore e alla loro capacità di conservazione, durante i lunghi viaggi dei veneziani commercianti Il nome “baicolo” è stato dato per la sua forma molto simile a quella dei piccoli branzini di laguna che portano, appunto, questo nome.
    In letteratura vengono citati:
    “Pasta reale condita di zucchero, spugnosa, biscottata, che s’inzuppa nel caffè o simili bevande. Dicesi baicolo per similitudine, benché grossolana, alla figura dei piccolissimi cefali, chiamati appunto Baicoli”, così venivano descritti da Giuseppe Boerio nel suo “Dizionario del dialetto veneziano” pubblicato nel 1856.
    "I “baicoli” veneziani sono molto considerati anche dai turisti stranieri i quali spesso si ricordano della loro bontà e li richiedono a distanza di anni”. Da “Il Veneto in cucina” di Ranieri Da Mosto, Giunti Martello Editore, 1978.


    I pani dei marinai


    Come spesso capita le cose più buone possono nascere da errori o distrazioni. E i biscotti sembrano rientrare in questa casistica. La leggenda lega la loro nascita al mito degli Argonauti e del loro coraggioso condottiero Giasone. Secondo la tradizione epica il cuoco di Giasone, durante l’ultima infornata di pane da caricare sulla nave Argo, si addormentò. Al risveglio, in forno trovò un pane ridotto di volume, appiattito, secco, ma ancora buono tanto che Giasone decise di stiparlo in cambusa insieme al resto delle provviste…e fu l’unico “pane” a non ammuffire e a sfamare gli Argonauti durante il viaggio alla ricerca del vello d’oro. Questo sembra spiegare perché i latini, oltre al termine “biscoctus” (cotto due volte) per indicare gli antenati dei biscotti erano soliti usare l’espressione “panis nauticus”, la “galletta” dei marinai. Proprio in epoca romana i biscotti acquistano il tratto della dolcezza che li caratterizza ancora oggi.(http://iocominciobene.it/)
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  13. gheagabry
     
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    "Dio ha inventato le api ed il miele:
    il diavolo….i pasticceri"

    IL PASTICCIOTTO



    Il pasticciotto è un dolce tipico della zona del Salento in Puglia. Questo dolce che ha contribuito a rendere famosa la tipica cucina salentina. La tradizio-
    nalità del prodotto è assicurata dalla provenienza locale delle materie prime e dal metodo di produzione che avviene secondo tradizioni familiari. E' stato scelto, e di conseguenza pubblicato, come "simbolo del Natale 2015" dal New York Times.
    Spennellato di albume d'uovo prima della cottura in forno, il pasticciotto raggiunge la sua tipica doratura ambrata e lucida. Va consumato ancora caldo per rendere al palato tutte le migliori peculiarità del suo sapore: il profumo della crema e la consistenza della pasta frolla appena sfornata. La pasta frolla deve essere rigorosamente lo strutto e non margarina o burro, in quanto all'epoca della sua nascita, alla fine del Settecento, i prodotti che venivano usati dai contadini e dalle massaie, erano quelli che si producevano in casa, uova, farina, latte, ed avendo maiali appunto lo strutto.È tipica abitudine dei salentini consumare questo dolce appena sfornato e ancora caldo durante le prime ore della giornata per la prima colazione.
    La città di Lecce lo ha riconosciuto come dolce tipico leccese ed è presente nell'elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali redatto dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. 30 aprile 1998, n. 173).

    Oltre ad essere preparato nella sua classica forma di un piccolo tortino ovale, esiste anche nella forma di una torta rotonda, la torta pasticciotto che è molto simile alla torta basca, dolce tipico dei Paesi Baschi. Di questa torta esiste anche una variante napoletana, il pasticciotto napoletano che nel ripieno, oltre alla classica crema, è presente anche dell'amarena. Si trovano in commercio anche il pasticciotto profumato all'arancia, il pasticciotto con crema pasticcera e marmellata di amarene, il pasticciotto con crema al cioccolato e il pasticciotto nero di pasta folla al cacao con all'interno o crema gianduia o crema al cioccolato o crema pasticcera e pezzetti di cioccolato. Si dice che il pasticciotto al gusto di crema al limone fosse uno dei dolci preferiti del cantante Frank Sinatra. Il fatto è citato anche in una puntata del reality Il boss delle torte.
    Derivato del pasticciotto invece è il fruttone, il cui ripieno è di pasta di mandorle fresca e marmellata (di mele cotogne nella versione classica) e il tutto ricoperto da uno strato di cioccolato fondente. A differenza del pasticciotto, il fruttone va servito freddo.

    La prima fonte documentata che testimonia dell'esistenza del pasticciotto nella foggia corrente risale al 1707: come si scopre nell'archivio della Curia Vescovile di Nardò, nell'inventario redatto il 27 luglio 1707 in occasione della morte di Mons. Orazio Fortunato, tra le masserizie compaiono: «barchiglie di rame da far pasticciotto numero otto».
    Ma secondo la tradizione locale, la nascita del pasticciotto sembrerebbe risalire al 1745 a Galatina nella bottega pasticciera della famiglia Ascalone durante le festività di San Paolo. Dalla ricerca storica condotta da Zeffirino Rizzelli, ex sindaco di Galatina, un anonimo cronista del tempo narra che il pasticcere «si arrovella per trovare un qualche richiamo capace di attrarre soprattutto i forestieri» in occasione della festa del santo patrono. «Tra un dolcetto e una torta, piuttosto nervoso, Ascalone si ritrova un impasto e un po’ di crema» riporta Rizzelli «che non sono sufficienti a manipolare un altro pezzo. Decide allora di utilizzare quei resti ponendoli in un piccolo recipiente di rame e facendone una piccolissima torta alla crema». La sua creazione non gli riesce bene, il pasticcere è insoddisfatto per quel vero e proprio “pasticcio”, ma oramai decide di farlo cuocere. Così, una volta sfornato e pronto il dolce, lo regala a don Silvestro, il parroco del paese che come ogni mattina gli fa visita. Don Silvestro apprezza caldamente quello strano miscuglio, si complimenta con Ascalone e chiede di poterne avere altri per portarli in famiglia. Sorpreso e contento, il pasticcere promette di prepararglieli e da quel giorno si diffonde la voce dell’invenzione di quella prelibatezza e in breve tempo giunge a tutti i paesi limitrofi, portando a Galatina centinaia di golosi in cerca del «pasticciotto de lu Scalone».

    Si vocifera che, sua Santità Giovanni Paolo II dopo la visita pastorale del 1980 nella Terra D’Otranto, in occasione della sua tappa a Galatina, abbia così tanto apprezzato il sapore del Pasticciotto che, nell’arco del suo pontificato, più d’una volta a settimana il dolce di Andrea Ascalone veniva portato a Brindisi al mattino presto, e da lì col volo delle 6.00, partiva alla volta di Roma, e giungeva nella Città del Vaticano giusto in tempo per la colazione del Santo Padre.
     
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  14. gheagabry
     
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    A PROPOSITO DEL 19 MARZO,
    FESTA DEL PAPA'


    "Napoli inventò le zeppole,
    tutta Italia se ne leccò le dita"
    (Epigrafe che Emmanuele Rocco avrebbe voluto su un monumento cittadino)


    LE ZEPPOLE DI SAN GIUSEPPE



    La zeppola è una ciambella o frittella dolce tipica di alcune regioni dell'Italia meridionale, è presente nel lessico della parlata napoletana dove indica oltre che una tipica ciambella o frittella dolce (zeppola di san Giuseppe), anche una frittella rustica " ‘a zeppulella", una sorta di balbuzie che impedisce di esprimersi correttamente e chiaramente (tené'a zeppula'mmocca= avere la zeppola in bocca, come chi parlasse masticando un pezzo di quella frittella(zeppola) dolce o rustica.

    La zeppola di San Giuseppe è fatta con la pasta choux , quella dei bignè, che però vengono cotti al forno ma, quella vera rimane quella fritta. Nel '600, il 19 marzo i friggitori, in omaggio a S.Giuseppe, loro santo patrono oltre che dei falegnami, allestivano dei banchetti davanti alle loro botteghe, per friggere e servire le zeppole direttamente in strada. Col tempo allo zucchero e alla cannella fu sostituita con la crema pasticcera e l’amarena come guarnizione.

    ...storia...



    Nell’antica Roma, il 17 marzo si celebravano le "Liberalia", feste in onore delle divinità del vino e del grano. Per omaggiare Bacco e Sileno, precettore e compagno di gozzoviglie del dio, il vino scorreva a fiumi e per ingraziarsi le divinità del grano si friggevano frittelle di frumento.
    A San Giuseppe, che si festeggia solo due giorni dopo, le protagoniste sono le discendenti di quelle storiche frittelle: le zeppole di S.Giuseppe. Nella versione attuale, nasce,secondo alcuni, nel convento di S.Gregorio Armeno, secondo altri in quello di Santa Patrizia. Ma c’è anche chi ne attribuisce “l’invenzione” alle monache della Croce di Lucca, o a quelle dello Splendore. Le vere zeppole erano di farina buttata nell’acqua bollente arricchita da un po’ di vino bianco, e poi fritte, passate nel miele e infine cosparse di confettini. Fu il pasticcere Pintauro a farcirle di crema. Lui, come tutti gli zeppolari, allestiva dei banchetti davanti alla bottega di Via Toledo, friggeva e serviva direttamente in strada. La ricetta originale la indica come una pasta bignè fritta dal gusto neutro che fa da “scatola” ad una crema dolcissima, su cui si poggia una nota aspra di una ciliegia sotto spirito o amarena, di quelle che un tempo venivano “cotte al sole”. Nacquero a forma di serpe avvitata su sè stessa, una serpula, da cui pare presero il nome. Si racconta che sarebbero state inventate da un cuoco dei Borbone cui sarebbe stato chiesto di preparare un dolce per la Quaresima privo di uova e di grassi animali, allora proibiti. Altri, invece, dicono che la maternità sia da attribuire alle monache dei decumani. Mangiarle era tra i “privilegi” del Vicerè di Napoli Juan II de Ribagorza nel 1400.
    La prima ricetta di zeppola di San Giuseppe che sia stata scritta, fu in lingua napoletana e risale al 1837, grazie al celebre gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino.
    Il 19 marzo si è sempre festeggiato inoltre la fine dell’inverno (la primavera è ormai nell’aria): durante i cosiddetti “riti di purificazione agraria” vengono accesi in molti paesi del meridione dei grandi falò, e preparate grosse quantità di frittelle.
    Un tempo a S.Giuseppe, patrono dei falegnami, si festeggiava la loro festa e venivano messi in vendita tutti i tipi di giocattoli di legno. Tutti i bambini ne riceveva in dono dai genitori qualcuno.


    ... una leggenda ...




    La bottega era in fondo alla via, tutti quanti sapevano dove.
    Fa Giuseppe: “Adorata Maria, molto presto sarà il diciannove;
    vola il tempo, a gran passi s’appresta. Invitiamo qui a casa gli amici.
    E’ il mio nome, lo sai; la mia festa. Che ti pare, Marì? Che ne dici?”
    Alza gli occhi Maria dal ricamo, risplendenti di grazia divina.
    “Peppe mio, tu lo sai quanto t’amo, però sono un disastro, in cucina.
    Ti ricordi dell’ultima volta? Mi ci sono davvero impegnata,
    ma mi venne uno schifo, la torta, e alla fine l’abbiamo buttata.
    Ma stavolta andrà meglio, lo sento, lo vedrai: non ti dico di più.
    Voglio farti davvero contento, con il nostro figliolo Gesù!”
    E così ci provò. Poveretta, ben tre giorni passò a cucinare,
    ma non era una cuoca provetta.
    Questa volta riuscì! Nella stanza in cui stava la Sacra Famiglia
    si diffuse una dolce fragranza.
    Che languore! Che gran meraviglia!
    Su un vassoio fan mostra di sé zeppoloni di pasta bignè
    ben guarniti di crema e amarena.
    San Giuseppe però storce il naso. “Moglie mia, chi può averti aiutato?
    Non mi dire che è frutto del caso; tu lo sai, la menzogna è peccato.
    E non fare quel viso contrito! Dai, sorridi, mia cara Maria:
    l’aiutante, l’ho bell’e capito, si nasconde costì, in casa mia.
    Vieni qua, figlio mio, fatti avanti. I miracoli son limitati,
    vanno usati per cose importanti; se li impieghi così, son sprecati!”
    Ma Gesù, ch’era ancora un bambino lo guardò con grandissimo amore,
    e gli disse: “Mio caro papino, stai facendo – perdona – un errore:
    questa zeppola dolce, squisita da gustare in un giorno di festa
    rende un poco migliore la vita: la magia quotidiana è anche questa.
    E’ un miracolo lieve, leggero;
    una semplice, morbida cosa, che anche al giorno più cupo e nero
    dà una piccola mano di rosa”.
    Il papà sentì in gola un magone.
    “Caro figlio, non critico più. Su ‘sti zeppole hai proprio ragione:
    io so’ Santo, ma tu sì Gesù!”

     
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  15. gheagabry
     
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    Ho dei gusti semplicissimi;
    mi accontento sempre del meglio.
    (Oscar Wilde)


    LO ZABAJONE



    Lo zabajone (zabaione o zabaglione) è una crema dolce e spumosa a base di tuorli d'uova , zucchero e vino o vino liquoroso. Diede origine, in Italia, a noti liquori come il Vov e lo Zabov, due marchi registrati: il primo prodotto, Vov, è del 1845, lo Zabov è del secondo dopoguerra.
    Lo zabaione ha parecchi secoli di storia. La provenienza delle sue origini ed del suo nome sono incerte. Qualunque sia l'origine dello zabaione la ricetta si è diffusa ovunque, legata ai diversi vini liquorosi tradizionali Porto, Marsala, Xeres, Rivesaltes. La parola Zabaione potrebbe provenire, in assenza di altre etimologie, dal termine dell’antica Illiria sabaja, o zabaja, derivante da sabaium, che era una bevanda molto diffusa.

    Gli ateniesi la conobbero come zhytos e fu importata specialmente da Pelusio, in Egitto. Era la birra, molto simile alla bevanda sumera, che sia i greci che i popoli mesopotamici, trovandola torbida, la sbiancarono aggiungendo farina o latte. Era una bevanda a metà tra bere e mangiare,con l'aggiunta di farina, o latte, o uova, o tutto assieme, e fermentata fino a raggiungere un certo tenore alcolico.
    Era amata anche dagli Illiri e dai Romani, che la chiamavano sabaja. Il nome deriva da un Dio chiamato Sabatius, o Sabazius, un antico popolo dell’Anatolia, adorato dai Frigi . I Greci cominciarono pian piano a presiedere alcuni culti misterici legati all’ebbrezza di questo dio, che col tempo diverrà un aspetto di Dioniso, poi Bacco per i Romani.
    Il sabatium arrivò in Italia molti secoli prima al seguito delle Legioni di uno dei tanti imperatori illirici.

    La più antica attestazione di una preparazione dello Zabaglione viene da Napoli: “Per fare quatro taze de Zabaglone, piglia .xii. rossi de ova frasca, tre onze de zucaro he meza onza de canella bona he uno bucale de vino bono dolce, he fallo cocere tanto che sia preso como uno brodeto. Et poi levalo fora he ponello in uno grando piatello davante alli Compagnone. Et se vorai, gli potrai ponelre uno pezo de butiro fresco.” Questa ricetta compare in un manoscritto risalente alla metà del XV secolo ed è oggi conservata nel Ms. Bühler, 19, ff 1-76, presso la Pierpont Morgan Library di NY.(1450 ca.).
    Grazie alla reperibilità degli ingredienti una bevanda simile allo zabaione sembra fosse già nota nel 1533, quando era servito in forma ghiacciata alla corte di Caterina de' Medici. Sul finire del XV secolo, la ricetta venne riproposta in un famoso ricettario di Maestro Martino da Blenio, per diventare successivamente patrimonio dei principali testi gastronomici italiani.
    Nel celeberrimo “Opera di Bartolomeo Scappi”, in sei libri, pubblicato a Venezia nel 1570. DaI libro di Bartolomeo Scappi “(…) Per fare brodetto detto zambaglione. Piglinosi sei rossi d’ova senza chiare crude, e fresche, e oncie sei di malvagia amabile, oncie tre di zuccaro, un quarto di cannella pista, oncie quattro d’acqua chiara, mescolisi ogni cosa insieme, e passili per lo colatoro o foratoro, facciali cuocere nella caldarina con acqua bollente (…)”. Specifica persino i vini da usare: Malvasia o Trebbiano di Pistoia.
    La precisione dello Scappi fu tale che a distanza di oltre 500 anni si può seguire la ricetta passo passo. La ricetta dello zambaglione è nel sesto libro, quello dedicato alle preparazioni più adatte agli infermi e ai conva-
    lescenti; Scappi era molto ferrato sull’ argomento, essendo il cuoco personale di un Papa e avendo ristorato molti anziani prelati. In verità, si pensa che lo zabaione sia nato proprio come cibo ricostituente, forse nelle campagne e derivi dal semplice uovo sbattuto, proprio come la maggior parte delle creme. In contraddizione, il fatto che nella sua preparazione ci sia lo zucchero, lo pone su tavole molto ricche, specie fino ad inizio ‘600, quando lo zucchero era solo di canna e di importazione. Ma lo zucchero nella ricetta originale non era indispensabile: la ricetta di Scandiano parla di farina, e ancora oggi a Reggio Emilia si usa sbriciolare nello zabaione pane secco.
    La sensazione è che si sia partiti da un miscuglio di farina o pane di vario genere, uova e vino, più o meno dolce, forse nemmeno cotto; poi si sia raffinata la ricetta. Così, lo zabaione ha preso due strade diverse: ricostituente casereccio, e dolce raffinato; in un libro del 1622 si trovano le due diverse vocazioni, ben distinte.
    Bartolomeo Stefani, cuoco di corte dei Gonzaga di Mantova, pubblica nel 1662 “L’Arte di ben cucinare” dedicato ad Ottavio Gonzaga, nel quale si legge:
    «Per far un zambalione: Si pigliarà ova fresche sei, zuccaro fino in polvere libra una e meza, vino bianco oncie sei, il tutto si sbatterà insieme, e poi si pigliarà un tegame di pietra vitriato a portione della detta composizione, si mettarà due once di butiro a disfar nel tegame, quando sarà disfato si butterà la composizione dandogli fuoco sotto e sopra. Se si vorrà mettere nella composizione cannella pista se ne mettarà un quarto, se si vorrà ammuschiar conforme il gusto, avertendo però alla cottura che non si intostisca troppo. Puoi fare ancora il zambalione in questa maniera: pigliarai oncie due di pistacchi mondi, pellati e poi pistati nel mortaio e stemprali con il vino, che va fatto il zambalione, e questo zambalione serve assai per i cacciatori, perché alla mattina, avanti vadino alla caccia, pigliano questo; se per sorte perdessero il bagaglio possano star così sino alla sera; se può fare con il latte di pignoli, come di sopra, e per convalescenti, che non possono pigliar forza, si fa col seme di melone.»

    Nel libro di Giorgio Maioli, “I racconti della tavola a Reggio Emilia (GES, 1980)”, si racconta di Paolo Panciroli secondo il quale lo Zabajone sarebbe stato inventato a Reggio Emilia, per la precisione nei dintorni di Scandiano. Il termine Zabaione, secondo Panciroli, sarebbe di estrazione francese: da buillon (brodo), uno dei lasciti delle tante occupazioni militari delle nostre terre. La stessa versione è ripresa anche da Athos Nobili e Numa Ciripiglia, al secolo Luigi Camparini. Pare che nel 1471 un capitano di ventura, Giovanni Buglione, si accampò vicino Scandiano e sguinzagliati i vivandieri per procurare il cibo per le truppe ebbe la sorpresa di vederli tornare solo con poche uova, farina e vino bianco data la povertà che regnava nelle campagne dell’epoca, dovute al saccheggio degli eserciti. Buglione fece mescolare gli ingredienti in un calderone e ottenne così una crema calda semiliquida, che da quel giorno fu chiamata Brodo di Giovanni; poi, di lì a Jean Bouillon, Zvàn Bujon, zambujon e zabaione il passo venne naturale, man mano che il nome veniva assorbito dal dialetto del reggiano.

    Un'altra traccia si ha a Torino, dove nel 1722, la Pia Associazione di Cuochi Privati e Famigli d’ambo i Sessi creò lo squisito dolce, battezzandolo Crema di San Baylon, poi Sanbayon; ancora oggi, in Piemonte lo si chiama sanbajon, e un ricettario del 1923 di Giuseppe Ciocca cita: “(…)Vuolsi eziandio che questo delizioso camangiare fosse stato servito, per la prima volta, alla mensa del prefato duca di Savoia, sullo scorcio del XVI secolo, e che al duca fosse tornato assai gradito (…)”, credendo potesse essere una derivazione della “rossumada lombarda. Fra’ Pasquale de Baylon (1540-1592), del Terzo Ordine dei Francescani, approdato a Torino per il suo apostolato presso la Parrocchia di San Tommaso, consigliava alle sue penitenti che si lamentavano delle prestazioni del consorte, una sua ricetta che, sintetizzata in 1+2+2+1, avrebbe restituito vigore al soggetto.
    Santificato nel 1680 da Papa Alessandro VIII entrò rapidamente nella leggenda, probabilmente più per la crema portentosa che per la sua virtù, tanto che le donne torinesi si scambiavano la sua ricetta per beneficiare del miracolo del Santo il cui nome, in dialetto torinese, fu subito abbreviato in San Bajon (o=u).
     
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