LA STORIA DEGLI UTENSILI DA CUCINA

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  1. gheagabry
     
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    La storia della FORCHETTA





    Nei millenni ci si è sempre serviti delle mani, o dei coltelli appuntiti, per portare alla bocca i pezzi di cibo ancora caldi, anche se esistevano vari strumenti, fatti di materiali dall’osso al ferro, per infilzare le carni in cottura. Ma la forchetta, che arrivò dopo il cucchiaio e il coltello, quando e dove nacque?
    Secondo un reperto archeologico esposto presso il Museo di Ventimiglia sembra che fosse già in uso presso i Romani, ma il passaggio a un arnese a più denti per infilzare in tavola pare sia avvenuto nell’alto Medioevo alla corte di Bisanzio, dove un’acuminato pugnale si trasformò prima in un imbroccatoio (tipo spillone) e poi in una forchetta. Nella letteratura italiana dopo il mille, troviamo le forchette a Venezia, Pisa, Firenze, ma soprattutto in mano a borghesi e mercanti, mentre nelle corti vigeva ancora l’etichetta tradizionale di Ovidio delle tre dita, che imponeva di attingere direttamente dal piatto per pescare il cibo solido.
    Una notizia inequivocabile dell’uso della forchetta personale da tavola la dobbiamo a San Pier Damiani (1007-1072), il quale narra di una principessa bizantina, venuta a Venezia per sposare un doge, che non toccava il cibo con le mani preferendo usare una forchettina bidente. Il predicatore fece abbattere la collera celeste sullo strumento, giudicandolo un lusso diabolico e una raffinatezza scandalosa, ed usarlo venne anche ritenuto segno di debolezza da parte dei maschi nobili.
    Un’ulteriore testimonianza ci arriva da Ludovico Antonio Muratori, autore degli “Annali d’Italia”, che indica nel 1071 la presenza della forchetta alla mensa allestita per le nozze del doge Domenico Silvio con un’altra principessa bizantina, ma ancora in epoca tardo medioevale nelle corti si era giudicati raffinati se si mangiava “maestosamente” con le mani.
    In Italia una qualche posata a forma di forchetta sembra che iniziò ad essere usata abbastanza normalmente sino dal Trecento, per l'introduzione di un alimento "difficile" come la pasta, scivolosa e pericolosamente bollente.
    La probabile “svolta”, ossia l'imporsi dell'uso della forchetta singola come simbolo di buone maniere si verificò solo nel ‘500. Ma mentre la popolazione cittadina borghese e mercantile cercava di usarla tutti i giorni, i nobili la ritenevano non obbligatoria, da aggiungersi semmai ad altri indispensabili segni di civiltà quali: abbondanza di tovaglie e tovaglioli, e abluzioni ripetute prima e dopo i pasti.
    Dalle corti italiane la forchetta si diffuse lentamente in Europa, dove ancora nel Seicento gli aristocratici mostravano resistenze ad abbandonare l'uso delle dita (regali posate), come testimoniano le tradizioni della corte di Luigi XIV.
    A conferma di questa riluttanza verso la forchetta segnaliamo una cronaca che vedrebbe protagonista Caterina de' Medici . Sembrerebbe che quando la regina fece provare la posata a punte al marito Enrico II e ai commensali, questi si rivelarono piuttosto maldestri nel maneggiarla:
    "Nel portare la forchetta alla bocca, si protendevano sul piatto con il collo e con il corpo. Era uno vero spasso vederli mangiare, perché coloro che non erano abili come gli altri, facevano cadere sul piatto, sulla tavola e a terra, tanto quanto riuscivano a mettere in bocca".
    Per arrivare all’utilizzo diffuso della forchetta bisogna aspettare oltre la metà del ‘700, quando venne celebrato anche il famoso matrimonio con gli spaghetti (vermicelli). Pare infatti che sopratutto per agevolare la presa dei "fili di pasta", il ciambellano di re Ferdinando IV di Borbone abbia portato a quattro i rebbi della posata.
    (taccuinistorici.it)


     
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  2. gheagabry
     
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    La storia del BICCHIERE



    I primi bicchieri di cui si abbia notizia sono decisamente dei semplici oggetti presenti in natura. Conchiglie, cortecce o simili. Già il corno scavato, in uso presso gli Egizi, i Persiani e gli Italici, è un manufatto a suo modo evoluto.
    I Fenici, ai quali convenzionalmente si fa risalire la diffusione, se non l’invenzione del vetro, sono i primi a commercializzare recipienti trasparenti.
    In età pompeiana i bicchieri di cristallo giungono alla perfezione della tecnica e della forme. Il fondo, in particolare, fino ad allora decisamente piatto, diventa convesso. I bicchieri anche tempestati di gemme rare, sono talmente preziosi che romperli è una mezza sciagura o una gravissima offesa e, proprio per questi motivi nella quotidianità si beve su contenitori di legno, terracotta o metallo.
    Dal '500 in poi, la patria dei bicchieri in elegante vetro diventa Venezia. Le forme cilindriche si arricchiscono del piede, gli steli si allungano, e si allargano le coppe. Anche il variare delle decorazioni determina un fenomeno di dimensioni europee, e la manodopera veneziana emigra in Olanda, Germania, Spagna e Francia, dove con l’arrivo di Caterina de' Medici iniziano a svettare a corte delicati bicchieri in vetro di Murano.
    E' in questo periodo che si introduce: il cristallo nelle produzioni più raffinate, il vetro colorato o inciso al diamante, i bicchieri con alette dall'aspetto di merletti, e la sottocoppa.
    Sempre in questa epoca vengono canonizzate le caratteristiche necessarie per il bicchiere ideale a degustare il vino: “esso ha da essere trasparente ed incolore, di vetro o di cristallo, con le pareti sottili e prive di qualsiasi decorazione o intaglio.”
    Oggi ogni bevanda dovrebbere essere degustata in un bicchiere di forma appropriata.
    Il flùte, dai “fianchi alti e slanciati” come quelli di una fanciulla, è idoneo agli spumanti.
    Il panzuto ballon è adeguato per i vini rossi invecchiati.
    La mitica coppa, pare modellata sulle forme del seno della Pompadour, è appropriata per le inebrianti bollicine dello champagne.
    (taccuini storici.it)






    Nonostante conoscessero il vetro, gli egizi non pensarono mai di utilizzare questo materiale per fabbricare recipienti piuttosto grandi. Per ciotole, coppe, piatti e bicchieri destinati alla gente comune utilizzarono sempre la creta, mentre sulla tavola del faraone c'erano recipienti d'oro e d'argento. A Roma, invece, il vetro era apprezzato, i patrizi bevevano in coppe di vetro opalino. Il vetro, però é un materiale fragile e a quel tempo il prezzo di una coppa era molto elevato; perciò il bicchiere fu spesso sostituito dalla coppa o dal calice di metallo, dalla ciotola di legno o dalla valva di una grossa conchiglia, alla quale era stato aggiunto uno stelo.


    I popoli che invasero l' Italia provenienti dal Nord, provocando la caduta dell'impero romano, usavano coppe ricavate da corni di animali, oppure bevevano direttamente da otri di pelle d'animale, come fanno ancora oggi alcune popolazioni berbere dell'Africa settentrionale. I re non disdegnavano di bere da coppe rivestite d'oro, impreziosite da pietre incastonate con grande maestria dagli orafi del tempo. Solamente dopo l'anno 1000 si diffuse in tutta Europa l'abitudine di bere in bicchieri di vetro, che la fantasia e l'abilità di esperti vetrai sapeva trasformare in piccoli capolavori. Per citare un esempio, Lorenzo de' Medici, il signore di Firenze, possedeva una collezione di bicchieri realizzati in ametista e diaspro, impreziositi da una montatura d'oro, che oggi possiamo ammirare al museo degli argenti a Palazzo Pitti di Firenze.

     
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  3. gheagabry
     
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    La storia della TOVAGLIA



    La tovaglia rappresenta fin dall'antichità un segno di decoro, distinzione ed eleganza per la tavola apparecchiata.
    La tovaglia più antica e tradizionale sembra essere stata quella candida, ma vi sono anche notizie di tovaglie colorate utilizzate in Persia dal III sec. a.C.
    Nell’antica Roma, fino al periodo delle guerre puniche, la tavola veniva imbandita con lo stretto necessario, la frugalità era più importante del valore “rituale” del cibo.
    Solo alla fine dell'epoca repubblicana l’assunzione dei pasti e il rituale dell’apparecchiatura divennero espressione di civiltà, e la base di questa trasformazione fu costruita sulle tovaglie.
    Le prime di cui si abbia testimonianza erano pesanti tappeti dove lo spessore alto assolveva alla funzione di “mollettone”, in grado di attutire rumori e assorbire i cibi liquidi.
    Nel Medioevo , tovaglie bianche di lino, operate a spina o ad occhio di pernice, ornate di strisce e riquadrate con balze dai colori intensi erano usate per apparecchiare le occasione importanti. Talvolta si arrivava anche a profumarne i tessuti e a sovrapporne di diverse tinte in modo che si intonassere di volta in volta al colore delle pietanze servite.
    Negli usi cavallereschi dell'epoca, la tovaglia divenne segno di prestigio, ed esserne privati costituiva una forma di umiliazione. Durante le Crociate avveniva che alcuni cavalieri giuravano di non mangiare più con la tovaglia fino a che non avessero assolto l'impegno di combattere in Terra Santa. A metà del '300 era applicato un rituale infamante per radiare i cavalieri che avessero macchiato il proprio onore: si facevano sedere a tavola apparecchiata e davanti a loro veniva rimossa la tovaglia precedentementa tagliata a destra e a sinistra.
    Fra '400 e '500 l'uso della tovaglia entrò anche nella vita quotidiana delle classi più agiate, e Platina sconsigliava di utilizzare quelle colorate perché potevano infastidire i commensali. Nei banchetti del periodo si affermarono le "perugine" con fasce blu lungo i lati, presenti tradizionalmente nei corredi nuziali e nelle liturgie.
    Con il '500 in questi arredi divenne usuale inserire ricami e decorazioni. Nel secolo successivo si imposero le tovaglie lisce ornate di merletti.
    In epoca Barocca fecero capolino i tessuti damascati e i pizzi da sovrappore su drappi colorati.
    Dalla fine del ‘700 si ritornò alle tovaglie bianche, lisce e lunghe fino al pavimento.
    Fin dall'antichità l'uso di mangiare con le mani aveva reso necessario l'impiego di tessuti adatti ad asciugare le mani dopo averle bagnate con acqua. Nel Medievo questi erano spesso condivisi tra due commensali, ma già nel '500 si fece strada l'idea che i tovaglioli dovesse essere individuali, da usare con stile e decoro. Fu in quest'epoca che il tovagliolo prese anche un compito ornamentale con piegature spettacolari codificate nei trattati.
    Dal '700 questo pezzo di tessuto assunse la sola funzione di preservare l'abito del commensale, collocandosi esclusivamente sulle sue ginocchia.
    (taccuini storici.it)

     
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  4. gheagabry
     
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    La storia del cucchiaio





    Il termine "cucchiaio" proviene dal latino “cochlea” (conchiglia, chiocciola), forse perché il guscio di questi animali rappresentò il primo strumento naturale usato dall’uomo per portare i liquidi alla bocca. Nel romoto passato l'uomo cacciatore usava esclusivamente le mani per mangiare.
    Ancora al tempo dei Greci, popolo civile per eccellenza, non veniva sentito alcun bisogno di servirsi di posate, in quanto i cibi erano posti già sminuzzati davanti al commensale, e la mano destra era l'unico "strumento" usato. Lo stesso Ateneo informa che il problema dei cibi caldi veniva affrontato: "temprando con l'esercizio le dita" alla scottatura. Infatti tra una portata e l'altra le mani erano nettate con abluzioni di acqua profumata, anche perchè nelle corti e nelle case aristocratiche c'era abbondanza di servitori, ancelle (Ulisse ne aveva cinquanta), coppieri e mescitori che provveddevano a tutte le esigenze dei commensali.
    Sulla scena romana dell'età imperiale comparvero le prime posate, suggerite dalla passione per cibi adatti a stuzzicare l'appetito come ostriche, molluschi e frutti di mare. Questi arnesi erano di due tipi, con fattezze simili all'odierno cucchiaio:
    -il primo detto "ligula" (da lingua), aveva la pala ovale e il manico dritto o curvo, e lo si usava per dispensare le preziose salse di cui la cucina Romana era prodiga.
    -il secondo chiamato "cochlear", con la pala rotonda e piatta, e il manico dritto e appuntito, veniva utilizzato per scalzare il frutto dalla conchiglia e portarlo alla bocca, o per consumare le uova crude (con la punta si apriva il guscio e con la pala si sorbiva il contenuto).
    Gli ornamenti di questi utensili, per lo più forgiati in argento, variavano secondo le mode del momento: spesso vi erano incisi motti e dediche augurali, come il celebre "Utere Felix" (adoperalo felicemente), forse il primo "Buon Appetito" della storia.
    Lo scrittore Macrobio, descrivendo un menù completo del IV sec. ci dice che a quell'epoca comparve un cucchiaio speciale: il "cyathus" (capacità mezzo litro) utilizzato per versare il vino nelle coppe durante la parte finale del convivio.
    Con il diffondersi del Cristianesimo, il "cochlear" dei trionfali banchetti si trasformò anche in supellettile sacro, diventando quel "cucchiaio di consacrazione" ancora oggi presente nei riti greco-orientali.
    Nel ‘500 alcuni personaggi illustri, per mostrare la propria ricchezza, si fecero realizzare cucchiai da tavola in oro smaltato o tempestato di gemme. Nel ‘600 questa moda cambiò a favore dell’argento, più facilmente lavorabile e dal minor costo, permettendo una buona diffusione del cucchiaio di “rappresentanza” anche presso la ricca borghesia. Ma è verso la fine del ‘600 che si trasformò il modo d’impugnare il cucchiaio: da allora si usarono tre dita per reggerlo, invece di stringerlo nel palmo della mano come si era fatto sino a quel momento. In seguito all’affermarsi delle buone maniere, il cucchiaio assunse la forma odierna: più ovale e più piatto ai lati, con il manico più sottile al centro.




    "Born with a Silver spoon in one's mounth", in italiano "nato con un cucchiaio d'argento in bocca", dicono in Gran Bretagna di una persona fortunata riprendendo un detto assai diffuso nel 1500. Perché un tempo chi possedeva un cucchiaio, per di più d'argento, era sicuramente un privilegiato.
    E il fatto di averlo in bocca significava un ulteriore e ben più importante privilegio: non doversi mai preoccupare perché il pasto quotidiano era assicurato.

    Che il cucchiaio potesse diventare l'allegoria dell'abbondanza era assicurato.





    Cucchiaio pegno d'amore

    Sempre restando in Inghilterra, e precisamente nel Galles, assai curioso è che dal 1500 fino ai giorni nostri, il cucchiaio abbia assunto il significato di pegno d'amore. Non era dunque un anello quello che, nei rari e furtivi incontri, una fanciulla sia aspettava dal suo innamorato, ma semplicemente un cucchiaio. Quando la vita era povera e la prima necessità era quella di garantirsi un pasto e di assicurarlo alla famiglia, un cucchiaio poteva benissimo racchiudere il significato di un serio impegno.
    Lo si deduce anche nelle forme che la posata assumeva e nelle decorazioni di cui era impreziosito. I giovani contadini gallesi ricavavano dal legno del sicomoro cucchiai che intagliavano con i classici simboli dell'amore: un cuore per significare la purezza del sentimento, un lucchetto per dire "ti darò una casa", due pale unite dallo stesso manico come promessa di una vita sempre insieme.



    Cucchiai gioiello

    Il più raffinato cucchiaio medievale è quello custodito nella Torre di Londra, d'argento cesellato e dorato, con il manico ornato di perle e d'arabeschi: il suo uso era riservato alle cerimonie dell'incoronazione dei sovrani.
    Al Victoria and Albert Museum, sempre a Londra, è esposto un cucchiaio fiammingo con la pala in cristallo di rocca incastonato in una corona d'argento: bello e anche pratico, perché si pensava che il cristallo potesse rivelare la presenza di veleno nei cibi.
    I banchetti erano, infatti, occasione sia per incontri mondani, sia per vendette private e regolamenti di conti.





    Il boom del cucchiaio

    Nel 1700 l'arte di ricevere a tavola si fece più che mai raffinata, specialmente in Francia.
    E il cucchiaio dovette adeguarsi. Ecco, allora il cuiller à pot per la zuppiera, il cuiller à olives ajouré dotato di un foro per scolare le olive, il cuiller à sucre ajouré per cospargere lo zucchero e così via, con dimensioni più o meno grandi, pale più o meno profonde, manici più o meno lunghi.
    Si arrivò insomma alla specializzazione del cucchiaio, che si completò nel 1800, soprattutto in Inghilterra, con le varianti del cucchiaio per il tè, il caffè, i frutti di bosco, i dolci.
    Ormai il cucchiaio faceva parte del servizio di posate.




    fonte dal web.
    TAPPI


    Il cucchiaio



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    Il termine "cucchiaio" proviene dal latino “cochlea” (conchiglia, chiocciola), forse perché il guscio di questi animali rappresentò il primo strumento naturale usato dall’uomo per portare i liquidi alla bocca. Nel romoto passato l'uomo cacciatore usava esclusivamente le mani per mangiare.
    Ancora al tempo dei Greci, popolo civile per eccellenza, non veniva sentito alcun bisogno di servirsi di posate, in quanto i cibi erano posti già sminuzzati davanti al commensale, e la mano destra era l'unico "strumento" usato. Lo stesso Ateneo informa che il problema dei cibi caldi veniva affrontato: "temprando con l'esercizio le dita" alla scottatura. Infatti tra una portata e l'altra le mani erano nettate con abluzioni di acqua profumata, anche perchè nelle corti e nelle case aristocratiche c'era abbondanza di servitori, ancelle (Ulisse ne aveva cinquanta), coppieri e mescitori che provveddevano a tutte le esigenze dei commensali.
    Sulla scena romana dell'età imperiale comparvero le prime posate, suggerite dalla passione per cibi adatti a stuzzicare l'appetito come ostriche, molluschi e frutti di mare. Questi arnesi erano di due tipi, con fattezze simili all'odierno cucchiaio:
    -il primo detto "ligula" (da lingua), aveva la pala ovale e il manico dritto o curvo, e lo si usava per dispensare le preziose salse di cui la cucina Romana era prodiga.
    -il secondo chiamato "cochlear", con la pala rotonda e piatta, e il manico dritto e appuntito, veniva utilizzato per scalzare il frutto dalla conchiglia e portarlo alla bocca, o per consumare le uova crude (con la punta si apriva il guscio e con la pala si sorbiva il contenuto).
    Gli ornamenti di questi utensili, per lo più forgiati in argento, variavano secondo le mode del momento: spesso vi erano incisi motti e dediche augurali, come il celebre "Utere Felix" (adoperalo felicemente), forse il primo "Buon Appetito" della storia.
    Lo scrittore Macrobio, descrivendo un menù completo del IV sec. ci dice che a quell'epoca comparve un cucchiaio speciale: il "cyathus" (capacità mezzo litro) utilizzato per versare il vino nelle coppe durante la parte finale del convivio.
    Con il diffondersi del Cristianesimo, il "cochlear" dei trionfali banchetti si trasformò anche in supellettile sacro, diventando quel "cucchiaio di consacrazione" ancora oggi presente nei riti greco-orientali.
    Nel ‘500 alcuni personaggi illustri, per mostrare la propria ricchezza, si fecero realizzare cucchiai da tavola in oro smaltato o tempestato di gemme. Nel ‘600 questa moda cambiò a favore dell’argento, più facilmente lavorabile e dal minor costo, permettendo una buona diffusione del cucchiaio di “rappresentanza” anche presso la ricca borghesia. Ma è verso la fine del ‘600 che si trasformò il modo d’impugnare il cucchiaio: da allora si usarono tre dita per reggerlo, invece di stringerlo nel palmo della mano come si era fatto sino a quel momento. In seguito all’affermarsi delle buone maniere, il cucchiaio assunse la forma odierna: più ovale e più piatto ai lati, con il manico più sottile al centro.
    (taccuini storici.it)
     
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  5. gheagabry
     
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    La storia del coltello in cucina



    “In antico furono mani, unghie, denti l’armi degli uomini, poi le pietre e i rami spezzati dei boschi, poi appena noti, la fiamma e il fuoco. In seguito si scoprirono il bronzo e il ferro gagliardi”.
    Con queste parole il poeta latino Lucrezio (I sec. a.C.) espresse la progressiva elevazione dell’umanità da una primordiale età della pietra fino a quella del ferro.
    L’origine della coltelleria, così com’è concepita oggi, va collocata a cavallo dell’anno mille, epoca in cui la produzione dell'acciaio (massa ferrosa, carbone e aria), cominciò ad avere un certo sviluppo. Il metallo ottenuto, ricco d’ossido e scorie, veniva temprato con il sistema della martellatura e del riscaldamento. Realizzato in varie forme, dimensioni e impugnature più o meno elaborate, in relazione alla ricchezza del proprietario, quel tipo di coltello presentava diversi svantaggi: perdeva facilmente l’affilatura della lama, e richiedeva la pulizia (levigatura) delle macchie lasciate dalle sostanze contenute negli alimenti. Fino al XIII sec. le tavole non furono apparecchiate con coltelli individuali, i cibi venivano serviti già tagliati, e per infilare carni o vivande solide i commensali utilizzavano le lame personali da caccia o da combattimento. Una vera e propria industria di coltelli è documentata a Firenze a partire dal 1244, dove insieme alle forbici si esportavano coltelli nell'Impero bizantino e si ricevevano ordinazioni da parte della corte pontificia.
    Nel Rinascimento, con il migliorarsi delle tecniche di lavorazione dell’acciaio, la coltelleria italiana conobbe grande splendore grazie ai laboratori del Ducato di Milano e della Repubblica di Venezia. Mentre oggi i coltelli sono generalmente a punta tonda, fino all’inizio del ‘600 l’estremità della lama era aguzza, perché serviva per infilzare il cibo e portarlo alla bocca.
    (taccuini storici.it)
     
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  6. gheagabry
     
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    La storia del piatto



    Conosciuto e diffuso già nella civiltà cretese, greca, etrusca e romana, il piatto poteva essere prodotto nei materiali più vari, dal vetro al legno, dal coccio al cristallo fino alla terracotta, materiale estremamente comune. Sulle mense più ricche potevano esserci anche piatti d'oro o d'argento incastonati di pietre preziose, e quelli destinati ai riti religiosi romani venivano chiamati “patina”.
    La focaccia era sovente adoperata con simili funzioni, detta mensa, e il suo uso sembrò che perdurò anche dopo la fine dell'Impero Romano.

    ....... con il termine mensa si vuole indicare i dischi di pane distribuiti a mo’ di piatti all’inizio dei banchetti, poi destinati come avanzi ai servi. Ogni mensa, utilizzata da due persone, serviva in epoca classica ad ospitare e tagliare le carni, rimanendo così intrisa dei succhi e dei resti del cibo.
    In Italia, gia nel XII sec. molto tempo prima che in altri paesi, la mensa di pane venne sostituita dal tagliere, un disco di legno o di terracotta. Si cominciò così a dire “stare a tagliere” con qualcuno, indicando l'azione di cibarsi dalla stessa mensa. Solamente nel ‘400 si diffuse l’uso del piatto, e del bicchiere individuale......

    Durante tutto il Medioevo questo utensile venne per lo più ricavato dal legno, con alcuni esemplari in ceramica, e soltanto nel ‘500 comparvero materiali di maiolica (Faenza, Urbino e Pesaro), d’oro e d’argento, questi ultimi con ceselli, sbalzi, smalti e incastonature di pietre preziose. I piatti più “ricchi” non erano soltanto oggetti d’uso quotidiano ma venivano anche appesi alle pareti o incorniciati. Nell’età barocca e nel ‘700 i piatti conservarono un’importante decorazione pittorica, ma la forma da liscia si fece sagomata, con costolature e sbalzi in quelli di maiolica.
    Verso l’inizio del XVIII sec. la porcellana (nome derivato da una conchiglia orientale), nota ai cinesi sin dal III sec. a.C. ed importata in occidente tramite Bisanzio e Venezia, iniziò ad essere prodotta in Europa grazie alla scoperta della sua composizione fatta da Re Augusto II il Forte di Sassonia. Dalla terra tedesca, il segreto del “bianco oro” passò a Vienna, Venezia, Firenze e Napoli, dove nacquero le celebri fabbriche. A datare dal settecento si iniziarono a realizzare anche piatti di piccole proporzioni per caffè, tè, cioccolato, e si diffusero anche pezzi di grandi dimensioni, con funzione di vassoi.
    L'Ottocento vide il consolidarsi dell'uso del servizio di piatti formato da esemplari tutti uguali.(dal web)

     
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  7. gheagabry
     
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    Qual'è quel semplice utensile da cucina fatto con un pezzo di legno tornito?
    Chi è il padre di lasagne, tagliatelle, fettuccine, pizze o crostate?
    Cosa rappresenta il simbolo del potere della donna di casa?
    Tutte queste domande hanno una sola risposta: il matterello!


    LA STORIA DEL MATTERELLO



    Una delle tappe fondamentali nel lungo e sofferto cammino della civiltà è stata la scoperta della ruota. Una scoperta che ha abbreviato le distanze, ha reso facili gli scambi e i rapporti fra popolazioni diverse, ha consentito l’antropizzazione di territori sperduti e ha innescato, come in una reazione a catena, l’invenzione di tanti altri preziosi utensili. Fra questi va posto certamente il semplice, modesto, ma inestimabile matterello.
    Figlio primogenito della ruota e della felice intuizione del movimento rotatorio scoccata nella testa dell’uomo, questo straordinario attrezzo di cucina ha contribuito in modo determinante all’evoluzione della cultura del mangiare. Strumento fondamentale della cucina italiana, grande o piccolo, lungo o corto, liscio o rigato, ha saputo rispondere alle esigenze di ogni famiglia. Dalla sua azione indefessa sono scaturite meravigliose creazioni culinarie: tagliatelle e fettuccine, tortellini, lasagne, agnolotti, cannelloni, ravioli, quadrucci, “stricchetti”, ecc. Insomma, la sua apparizione sulla scena della storia ha fatto fare alla vita umana un salto di qualità incontestabile.
    L’utilizzazione del matterello ha radici profonde nel tempo. Noto già alle popolazioni più remote e agli antichi greci, agli Etruschi, come testimoniano gli affreschi della tomba “Dei rilievi” di Cerveteri, presso i Latini divenne celebre con il termine di fistula. Nella Roma imperiale veniva abilmente maneggiato da cuochi e cuciniere casalinghe con esso veniva forgiata una bella sfoglia (tractum o anche tracta), usata per avvolgere polli o altre carni cucinate al forno, per racchiudere succose farce o per farne pasta.
    La parola matterello sembra si affermò nel XIII sec. come derivazione di “mattero”, cioè randello, a chiaro riferimento della sua forma.
    In epoca medievale il matterello continuò a prestare il suo onorato servizio nelle cucine di sovrani, principi, vassalli e signorotti e in quelle di vescovi e conventi, soprattutto di monache. Ecco come il ben noto Libro di cucina del sec. XIV, il codice conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna, insegna a fare le lasagne, servendosi del nostro protagonista, il matterello:

    “Togli farina bona, bianca, distempera con acqua tiepida e fa che sia spessa. Poi la stendi sottilmente (col matterello ovviamente) e lassa sciugare. Debbonsi cuocere nel brodo di cappone o d’altra carne grassa. Poi mettile ne piattello col cascio grasso grattato, a suolo a suolo, come ti piace”

    .
    Col Rinascimento, a poco a poco, il matterello inizia la sua lenta apoteosi fino a diventare, almeno nella fascia di terra tra il Po e l’Appennino il re incontrastato della cucina. Parlare di ricette e di altre specialità gastronomiche ottenute grazie all’instancabile andirivieni sul tagliere del simpatico pezzo di legno tornito significa ripercorrere la storia.

    Nei secoli il mattarello è stato il protagonista di immagini voluttuose, caste, marziali od oniriche. Quelle voluttuose lo vedono congiungersi alla pasta, rappresentando lo sposo e la sposa che avvinghiati in una travolgente passione amorosa, si rotolano e si strusciano sopra al letto dalla spianatoia generando i figli tortellino, agnolotto, raviolo o pane.
    Le figurazioni caste lo mettono sulla tavola, illuminata dal sole del primo mattino, dove la nonna o la mamma rullano la sfoglia che diventa la base del dolce della festa.
    I ritratti marziali del mattarello nascono invece dal suo impiego come arma deterrente: la suocera che lo brandisce contro la nuora sciatta e vagabonda, o la moglie che lo alza sul marito fedifrago sono divertenti scene anche del teatro popolare.
    Infine, le immagini oniriche di questo strumento da cucina sono un segno di presagio: sognare di utilizzare un mattarello per fare la pasta sembra rappresenti la capacità creativa che sta per partorire frutti copiosi.
    Oggi il valore del mattarello pare in declino. La tradizione di regalarlo alla novella sposa come dote matrimoniale è quasi scomparsa, e anche i produttori di tavoli da cucina prevedono l'apposito scomparto dove riporlo solo su richiesta. Penso sia importante concludere con un auspicio: pur nella nostra era tecnologica auguriamoci che la tradizione della sfoglia fatta a mano a suon di matterello non tramonti mai, sia per il bene del nostro palato sia perchè in caso contrario perderemmo un pezzo della nostra cultura.
    (taccuini storici.it)
     
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  8. gheagabry
     
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    I MATERIALI PER LA COTTURA



    Quando l'uomo decise che tra il fuoco e l'alimento dovesse essere inserito un tramite, capì che questo doveva possedere almeno tre caratteristiche fondamentali: prima di tutto doveva essere un materiale impermeabile, in secondo luogo doveva resistere al fuoco e alle alte temperature ed infine essere in grado di trasmettere il calore all'alimento al suo interno, senza che questo interagisse chimicamente.

    Gli uomini primitivi cuocevano i cibi su un impacco di foglie o creta per conservare il grasso che colava. L’acqua veniva fatta bollire in contenitori di pietra durissima, che lentamente portava ad ebollizione il liquido.
    Come contenitori venivano utilizzate foglie intrecciate, ma anche lo stomaco di alcuni animali cacciati ed uccisi. In alcuni luoghi venivano impiegati anche i gusci delle tartarughe e dei molluschi più grandi. Più avanti negli anni, con l’uso della creta, si iniziarono a creare le prime scodelle resistenti all’acqua e al fuoco, che venivano rese impermeabili con alcuni materiali derivanti dalle piante.
    L'argilla, fu il primo elemento usato a tale scopo, nacquero i primi contenitori per la cottura in coccio. Tale materiale aveva una sua polivalenza per forme e dimensioni che si potevano realizzare e rispecchiava due delle tre caratteristiche. Per contro i contenitori in coccio non erano impermeabili, avendo una superficie porosa, di conseguenza i liquidi durante La cottura fuoriuscivano. Molti secoli più tardi le cose si sarebbero risolte, prima cospargendo le pareti interne con gomme vegetali e poi con il sistema della smaltatura. Ciononostante per risolvere un problema ne sorse un altro più grave: conquistata la impermeabilità con il coccio smaltato, si è scoperto il rischio d'avvelenamento chimico a causa dello smalto. Il coccio è stato il materiale più diffuso per la cottura in molte civiltà del passato, anche se esistevano pietre “ollari" adatte alla cottura.

    Per poter rintracciare nella storia le origini dei materiali di cottura, come li intendiamo oggi, si deve aspettare l'avvento dei metalli e della loro estrazione. Primo tra tutti fu il bronzo fuso, di cui erano fatti i grandi paioli, enormi pentoloni agganciati su dei treppiedi di ferro esposti ad un vivacissimo fuoco a cielo aperto.
    Il paiolo era sovente impreziosito con incisioni sacre e profane sulle pareti esterne. Ma è nelle case dell'antica Roma che il bronzo diviene il metallo preferito per le prime batterie di cucina. Testimonianze emergono dagli scavi di Pompei ed Ercolano, dove sono state ritrovate griglie, padelle, leccarde, tortiere, caldaie, schiumarole, forchettoni, marmitte.




    Con il passare degli anni, i sistemi di cottura andarono perfezionandosi, cambiarono i materiali e soprattutto le fogge dei singoli pezzi: l'arte culinaria stava diventando sempre più un costume radicato nella cultura dei popoli ed allo stesso tempo un segno di prestigio.
    Alle batterie dell'antica Roma nel corso dei secoli si andarono ad aggiungere nuovi accessori ed attrezzature minute, che si evolvevano di pari passo con le scoperte alimentari, ad esempio, ultimo fra tutti lo scolapasta. Le forme principali sono rimaste invariate negli anni, adattando di volta in volta i nomi dei recipienti alle nuove fogge ed ai diversi metalli di cui erano costituiti. Dopo il bronzo si è passati al ferro ed al rame, quindi all'alluminio e, in epoca molto più recente, all'acciaio inossidabile.

    E' solo nel periodo rinascimentale che compaiono le pentole in rame, destinate a restare largamente in uso fino al XIX secolo. Nel 1700, come testimonia Menon nella Cuisinière Bourgeoise, si produssero anche esemplari in argento, evidentemente destinati alle cucine più ricche.
    La forma dominante per tutte le pentole fino al XIX secolo è stata quella a otre, rigonfia e panciuta in vario modo. Questa forma era direttamente derivata dalle tecniche di lavorazione: la modellazione a mano per rotazione nel caso della terracotta, la fusione e la battitura o la tornitura rudimentale per i metalli.
    Tale forma era anche resa necessaria dal tipo di fonte di calore: le fiamme potevano infatti lambire da ogni lato il recipiente sospeso sul focolare. Con la Rivoluzione Industriale si diffusero torni più perfezionati per la lavorazione dei metalli in lastra, che permettevano di ottenere con relativa facilità forme cilindriche a parete perfettamente diritta.
    La comparsa delle piastre nelle stufe a legna o carbone, quindi della fiamma del gas e della piastra elettrica, richiese dei recipienti con la base quanto più larga possibile, perché il calore si rivolgeva solo ad essa e non più anche alle pareti.
    Dopo la Rivoluzione Industriale ed a partire da metà ottocento compaiono le pentole in ferro smaltato. E' solo a cavallo del secolo che comincia ad essere utilizzato l'alluminio destinato, in casa così come nella cucina professionale, ad una grandissima diffusione tra le due guerre mondiali. Infine, negli anni '30, appaiono le prime pentole d'acciaio inossidabile, metallo che dagli anni '60 prevale nettamente negli impieghi domestici.




    Il sauteuse è solo d'alluminio, la cassolette invece di rame ed ha un solo manico, mentre la pentola è preferibilmente d'acciaio. Del resto possiamo comprendere come i materiali impiegati e le loro forme siano direttamente collegati all'evoluzione nel tempo dei sistemi di cottura....E' da notare che questa chiacchierata padella a bordi alti, non trova lo stesso impiego in tutti i paesi, perchè fortemente condizionata dalla cultura gastronomica locale. In Italia il sauteuse, dal francese sauter; saltare appunto, si usa per saltare la pasta con i diversi intingoli, oppure per tutti quei contorni da fare al burro. In Francia, con lo stesso termine s'intende la casseruola conica a bordi medi e si usa per confezionare salse o creme, in Austria è in concreto inutilizzata.
    In molte cucine europee medioevali e rinascimentali, non mancavano mai il calderone (gran contenitore capace di raccogliere fino a 50 litri d'acqua, solitamente in rame o bronzo); la marmitta, per impieghi analoghi o per la produzione d'impasti pesanti e zuccherati come il torrone.

    Le padelle di ferro (fersore-farsora nel veneto cinquecentesco) prevalentemente usate per le fritture e le cotture veloci. Anche le fogge dei recipienti per cottura iniziano ad evolversi, i disegni non più circolari ma anche rettangolari, più adatti a carni e pesci di grandi dimensioni. In molti manoscritti inediti del 1600 e del 1700 nella lista degli inventari erano annotati elenchi di pentole, placche, piastre, caldiere, tutte affiancate dal loro impiego e utilizzo: caldiera per bollire verdure, rostiera per carni, farsora per frizzer; pignatta per minestre, ed altro ancora. Inoltre, la maestria del "cusinaro" rese possibile anche la nascita di nuovi formati dei contenitori di cottura. Si pensi alla pesciera nata per vezzo di qualche chef capriccioso che per cucinare i pesci non voleva romperli. I modelli delle attrezzature di cottura non sono valutati solo per la loro funzionalità o per ragioni d'estetica, ma anche per le caratteristiche fisiche che possiedono.






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    Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi.
    (James Joyce, Ulisse, 1922)


    IL CAPPELLO DEL CUOCO


    Ciò che più rappresenta uno chef è il cappello, simbolo di questa professione apprezzata e rispettata come se si trattasse di una vera e propria arte.
    Il cappello nasce in realtà a scopo pratico e igienico: proteggere i capelli dal fumo delle padelle e, allo stesso tempo, impedire che i capelli vadano a cadere nei piatti in preparazione e limitando, allo stesso tempo, la sudorazione. Accessorio che nel corso della storia e delle diverse epoche ha seguito mode differenti e si è distinto come simbolo, sebbene mutando e cambiando forma.

    La nascita risalirebbe al XVI secolo quando, alcuni cuochi si rifugiarono in un monastero greco ortodosso per sfuggire ad una persecuzione. Secondo la leggenda, per rendersi meno riconoscibili, decisero di travestirsi da preti tranne per il colore del cappello che vollero bianco, invece che nero. Da quel giorno i cuochi decisero che quello strano cappello sarebbe stato il loro elemento distintivo nonostante col passare del tempo il bianco copricapo abbia subito numerose variazioni. All'inizio del Cinquecento, negli anni in cui risalgono le prime rappresentazioni d’interni domestici, il cuoco indossa una berretta, una specie di basco piegato sul lato. Si nota dall'antiporta dell'Opera nova chiamata Epulario (1518) questo copricapo è comune ai tre personaggi al centro mentre l'inserviente di destra che mescola la minestra e quello di sinistra che squarta un'oca portano un semplice fazzoletto. Lo stesso cappello si nota nell'illustrazione che orna il ricettario di Cristoforo di Messisbugo (1549), con il capocuoco che esibisce i segni distintivi del suo ruolo, ornato da alcune piume.
    Ma fu solo nel XIX secolo che a quel "cappellaccio" fu dato il nome che conserva ancora adesso: Toque Blanche. Si dice che il colore bianco, a dimostrazione della pulizia, sia stato deciso da Maurice Boucher, cuoco dello statista Maurice de Talleyrand, alla fine del Settecento. Pare che i cuochi dell'epoca non fossero particolarmente contenti del nome del proprio copricapo: lo stesso Alfred Suzanne, cuoco francese del XIX secolo, narra che la corporazione dei cuochi non voleva dare al proprio copricapo lo stesso nome dato a quello dei professori universitari e magistrati.
    Secondo Suzanne, sarebbe stato più logico chiamarlo couvre-chef, con un piccolo gioco di parole sulla parola "chef" che in francese assume il duplice significato di "testa" e di "colui che dirige la cucina". Alfred Suzanne propone una diversa versione sulla nascita del toque blanche, non più ad opera di alcuni cuochi in fuga, ma grazie al cuoco Marie Antonin Careme. Pare che nel 1823, quando Careme si trovava alla corte di re Giorgio IV d'Inghilterra, ricevette in visita un giovane apprendista che lavorava alle dipendenze di un magistrato. Il giovane, come consuetudine, portava in testa una piccola toque bianca per differenziarsi dai magistrati che al contrario la portavano nera. L'elegante copricapo piacque così tanto a Careme che decise di sostituire tutte le cuffie di cotone utilizzate dagli addetti alla cucina, con delle toque blanche. Careme presenta un nuovo cappello con all'interno un disco di cartone di forma rotonda che conferisce maggiore ampiezza alla parte terminale che si fa scivolare all'indietro, in posizione verticale, ornata da un piccolo fiocco.
    Col passare del tempo, la toque ha seguito i capricci della moda e soprattutto i vari stili presenti nei diversi paesi. Gli Inglesi ad esempio, utilizzavano un bizzarro copricapo fortemente inamidato di derivazione Irlandese, mentre gli spagnoli usavano un berretto molto elegante di lana bianca, molto simile al copricapo dei toreri. Italiani e Francesi portavano una specie di cuffia da notte con un gran fiocco sul lato mentre, gli chef Tedeschi utilizzavano un cappello simile ad un copricapo militare. Intorno alla fine dell' 800 la toque blanche divenne, secondo molti lo strumento per classificare il carattere di uno chef. A seconda di come il cuoco lo portava, si potevano capire molte cose sulla sua indole: per esempio, chi portava la toque leggermente gonfiata sulla sommità e tirata indietro aveva un'indole collerica e autoritaria, al contrario di chi, invece, portava il berretto calcato sulla fronte che veniva considerato un pensatore. Chi lo portava inclinato da una parte, si diceva fosse un presuntuoso, mentre chi calcava la toque appiattita sulla sommità era considerato un cuoco negligente. La toque blanche era anche un ottimo rimedio per nascondere l'eccessiva bassezza degli chef: alcuni cuochi di modesta altezza, usavano portarla a foggia di "Tour Eiffel", ovvero eccessivamente allungata per farsi grandi agli occhi dei subalterni. Alla metà del Novecento il cappello ha assunto una nuova configurazione perfettamente cilindrica, sorretto dalle numerose pieghe e reso consistente da un'abbondante “apprettatura” che gli permette di innalzarsi fino a 40 centimetri. Negli anni Settanta diventa in breve il vessillo della “Nouvelle cuisine” e lo vediamo portato da Paul Bocuse, vate del nuovo credo culinario, come da tutta la generazione di cuochi che ha infiammato quegli anni ruggenti.
    Il "toque" dei veri chef ha 100 pieghe che rappresentano i 100 modi che uno chef conosce per cucinare un uovo.
    Recentemente il cotone è stato sostituito dalla carta assorbente o dal tessuto non tessuto, materiale “usa e getta” più pratico, economico e igienico e l'altezza si è ridotta a 30-35 centimetri (25 per i pasticceri) con rare eccezioni, localizzate soprattutto al sud della penisola.

    ...il cuoco...


    Oggi chi cucina si definisce chef. Chef non è una parola italiana e chi per professione cucina nei ristoranti o alberghi, è un cuoco, mentre l’addetto ad una mensa o comunità è un cuciniere. Quello del cuoco è un mestiere antico. Nell’antica Grecia il cuoco era ritenuto un personaggio importante e sono giunte sino a noi i loro nomi: Ladbaco e Miteco.
    In epoca romana è il noto Apicio a rappresentarli tutti. Il ruolo del cuoco cade in disgrazia con le invasioni barbariche e tale condizione perdura fino all’Alto Medioevo. Durante il Pieno Medioevo il cuoco assume una figura di scarso rilievo, con un ruolo poco importante in cucina.
    Durante tutto il Rinascimento il grado più elevato dei dipendenti della cucina è lo scalco, subito dopo c’è il trinciante, il bottigliere e per finire il cuoco. Il cuoco è persona ignorante che non sa scrivere e dipendente strettamente dallo scalco. Si aggiungono poi definizioni come “maestro” o “proto maestro”.
    Il cuoco avrà il suo riscatto professionale con la notorietà assunta dalla cucina francese nel XVIII secolo, dove lo scalco diventerà il maggiordomo e il cuoco verrà chiamato chef (capo).
     
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  12. gheagabry
     
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    Le dita sono state fatte prima della forchetta, e le mani prima dei coltelli.
    (Jonathan Swift)


    LA FORCHETTA



    Per millenni l'uomo usò solo le mani per mangiare, utilizzando ciotole di terracotta per zuppe e bevande. Alcuni esperti affermano che già dal Paleolitico gli uomini utilizzarono diversi tipi d’utensili per prendere il cibo, alcuni a forma di pala e alcuni con un po' di concavità. La forchetta inizialmente non era usata come utensile da tavola, bensì come rudimentale bastone biforcuto usato dall’uomo primitivo per girare le carni sul fuoco.
    La primissima traccia di un oggetto simile alla forchetta, ma non con lo stesso scopo, appare in Egitto; uno strano strumento a doppia punta era utilizzato in occasione di riti sacrificali per elevare l’oggetto del sacrificio.
    L'origine della forchetta non è chiara, probabilmente ha un'origine romana o comunque mediterranea, slegata agli utensili ricavati dalle ossa trovati in alcune tombe della cultura cinese Qijia (risalenti al 2400 - 1900 a.C.).

    I Greci, soprattutto se ricchi, per evitare di sporcarsi la punta delle dita, usavano degli strani ditali.
    La scoperta scoperta della forchetta continua a venir rinviata, nonostante in età imperiale fossero comparsi piccoli attrezzi, ad una o due punte, chiamati “ligula” o “lingula”, che però servivano esclusivamente per infilzare i datteri o piccole golosità di miele. Solo nel’anno Mille, grazie alla principessa bizantina andata in sposa a un Doge veneziano, la forchetta arrivò in Italia, portata come dote dalla giovine; con i suoi bauli colmi di piccoli oggetti vi era una piccola forchetta d’oro a due rebbi.
    La forchetta personale è stata inventata dai Bizantini i cui modi erano molto più raffinati rispetto a quelli degli europei. Dal X al XIII secolo le forchette erano comunemente usati dai ricchi a Bisanzio.
    Intorno all’anno Mille la figlia diciassettenne dell'imperatore bizantino Cristiano IX va a Venezia sposata del Doge Giovanni Orseolo II. Durante il banchetto mentre tutti erano intenti a mangiare con le mani, la raffinata principessa si portava alla bocca il cibo aiutandosi con una forchetta d'oro a due rebbi. Evidentemente nella cerchia bizantina l'uso di quest'accessorio era già diffuso, ma a Venezia ciò suscitò un tremendo scandalo: secondo le cronache dell'epoca «tale novità parve un segno di raffinatezza talmente eccessivo che la dogaressa fu severamente disapprovata dai preti, i quali invocarono su di lei la collera divina. Cosicché quando nel 1005 la sfortunata giovane si ammalò di peste e ne morì, nobili e popolani veneziani s'inventarono che ciò era la punizione di Dio per tanta aberrante e oltraggiosa perversione conviviale, frutto certo di peccaminose propensioni derivatele dalle dubbie e sospette usanze della corte Bizantina. La povera principessa non fu da sola ad usare la forchetta; anche la moglie bizantina del Doge Domenico Silvio, nel 1071, usava a tavola forchette personali, anche lei disapprovata.

    Le motivazioni profonde di tanto scandalo derivano dal clima di forte tensione creatosi in quell'epoca, a causa dello scisma tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa di Roma (1054). Questo strumento, associato al mondo bizantino, fu identificato dal clero cattolico come un simbolo del demonio e il suo uso bollato coma grave peccato. Ci vollero quasi cinque secoli prima che la struttura dei rapporti umani mutasse al punto di far perdonare il suo uso.
    La chiesa fu da subito contro l’utilizzo di quello “strumento infernale”, ritenuto tale perché dotato di due corna, così come si raffigurava il diavolo. Il predicatore San Pier Damiani lo giudicò un lusso diabolico e una raffinatezza scandalosa, ritenuta segno di debolezza da parte dei maschi nobili. Bisogna aspettare il XVI sec. perché l’uso della forchetta diventi simbolo di buone maniere: all’epoca fra gli oggetti più preziosi dell’imperatore Carlo V (1500-1558) si contavano una dozzina di forchette, ma l’uso di queste non era considerato di utilità, ma come civetteria, per non dire di mania. Personaggi come lo scrittore Montaigne, ma anche lo stesso Molière, nonché il Re Sole, preferivano decisamente le dita, chiamate anche “regali posate”, piuttosto che la forchetta. Un celebre dipinto di Ingrès ritrae Luigi XIV e Molière a cena, e la tavola è chiaramente imbandita senza forchette; il sovrano venne convinto ad usarle (ma soltanto nei pranzi ufficiali) solo con il trasferimento della corte a Versailles nel 1684. A conferma di questa riluttanza verso la forchetta, vi è un divertente aneddoto, che vede come protagonista Caterina de’ Medici; sembra che quando la regina fece provare la posata a punte al marito Enrico II e ai commensali, questi si rilevarono piuttosto maldestri nel maneggiarla: “ Nel portare la forchetta alla bocca, si protendevano sul piatto con il collo e il corpo. Era un vero spasso vederli mangiare, perché coloro che non erano abili come gli altri facevano cadere sul piatto, sulla tavola e a terra, tanto quanto riuscivano a mettere in bocca”. Tuttavia, il suo utilizzo cominciò ad espandersi gradualmente in tutta Europa sia come raffinatezza sia per salute. In effetti, nel tempo della peste nera (che spazzò via un terzo della popolazione europea), era necessario utilizzare singoli coperti per evitare il contatto troppo diretto tra i commensali. Fu nell'Italia del 1600 che diventò una posata da usare a tavola, e si narra che però anche allora il musicista Monteverdi, ogni volta che si vedeva costretto a impiegarla per buona creanza, si sentiva obbligato poi a far recitare tre messe per espiare il peccato commesso. Ma mentre la popolazione cittadina borghese e mercantile cercava di usarla tutti i giorni, i nobili la ritenevano non obbligatoria, da aggiungersi semmai ad altri indispensabili segni di civiltà quali: abbondanza di tovaglie e tovaglioli, e abluzioni ripetute prima e dopo i pasti.
    Per arrivare all’utilizzo diffuso della forchetta, si va oltre la metà del ‘700, quando venne celebrato il famoso matrimonio con gli spaghetti (vermicelli). Pare infatti che, soprattutto per agevolare la presa dei “fili di pasta” il ciambellano di re Ferdinando IV di Borbone abbia portato a 4 i rebbi della posata. Da questo momento in poi le autorità ecclesiastiche ripresero in esame “l’infernale strumento”, così come ritenuto da San Pier Damiani, che fra le mura dei conventi era fino ad allora proibito. Quando iniziarono a diffondersi le forchette anche nella piccola borghesia, il popolo, soprattutto quello contadino, considerò la cosa come una ridicola e stupida esibizione di finta nobiltà, oltre che un’inutile fatica. Ed è proprio da qui che “parlare e comportarsi in punta di forchetta” ha assunto il significato di “esprimersi e muoversi con esagerata ricercatezza”

    Nel XVI secolo nelle corti sorse l’esigenza di formalizzare con un manuale l’etichetta del comportamento a tavola; “il Galateo” di Monsignor della Casa costituì la risposta a questa richiesta, segnando una svolta nell’arte di stare a tavola, tradotto ed adottato in tutta l’Europa. Il termine “Galateo” deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che gli suggerì di scrivere un trattato sul galateo ovvero dei costumi.
    Si cominciò dunque a utilizzare la forchetta perché usare le dita delle mani era considerato da "cannibali", come un anonimo redattore scrisse nel 1589 nel suo libro The Habits of Good Society dove definì incivile usare le mani a tavola. Fu questa un’inversione di tendenza in linea con le nuove regole della courtoisie, secondo le quali era veramente sgradevole mostrarsi in società con le mani sporche e unte di sughi, condizione che fino ad un secolo prima non avrebbe destato alcun commento.

    Nei primi tempi la manutenzione delle posate, poneva dei problemi giacché si trattava di eliminare la ruggine dalle lame dei coltelli e dai rebbi delle forchette che in seguito a queste continue operazioni di sfregamento, di affilatura, di lucidatura, si consumavano ben presto e dovevano essere sostituiti. L'invenzione dell'acciaio inossidabile, nel 1914, produsse un radicale cambiamento della situazione poiché permise di realizzare lama e manico in un solo pezzo eliminando in tal modo la necessità di fabbricare separatamente i manici che, per tanti secoli, erano stati concepiti come pezzi ornamentali indipendenti.
    (tratto da Cucina-Casamia luglio 2014 e, www.carouselvenezia.eu/)
     
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  13. gheagabry
     
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    Ci dev'essere qualcosa di stranamente sacro nel sale.
    Lo ritroviamo nelle nostre lacrime e nel mare.
    (Kahlil Gibran)



    LA SALIERA



    Fino dai tempi antichi la saliera fu parte un importante del corredo della tavola, perché il sale rappresen-
    tava la vita, il sale era conser-
    vazione, ha stimolato scienziati e inventori, religiosi e pagani, e personaggi come Omero o Platone lo hanno perfino definito una sostanza divina. Dal sale sono nate nuove rotte del commercio, venne usato per preparare farmaci, per tingere tessuti o come semplice moneta di scambio. Perfino la Bibbia accenna al fatto che nel lontano passato serviva alla mummificazione dei defunti. Per questi motivi le saliere venivano realizzate in materia nobile dato il valore attribuito alla sostanza che avrebbe contenuto. I romani usavano una saliera rituale, il “salinum” che serviva per le offerte di sale, ai Penati, le divinità protettrici della casa.
    Nel Medioevo se ne hanno o se ne ricordano esempi artistici in metalli preziosi, special-
    mente in argento, non destinate all'uso quotidiano. Nell’uso quotidiano di usavano più comunemente quelle di piombo, di vetro e, nell'uso rustico, di legno. Nel '500, nell'Europa settentrionale si ebbe l'uso delle saliere in metallo e cristallo a forma cilindrica, a campana o quadrate, a coperchi sormontati da figure, che cederanno poi il passo a quelle più basse e semplici, circolari od ottagonali. In Italia sono citate, negli inventari quattrocenteschi, saliere d'argento come "una saliera coperchiata con 6 saliere dentro" come nell'inventario di Piero di Cosimo de' Medici, e ancora "una saliera di vetro di più colori" ibidem o di cristallo montate in argento talvolta dorato. Sebbene i Paesi orientali siano stati i primi a cimentarsi nel campo delle decorazione, l’Italia del Rinascimento poteva contare su abili artigiani, decoratori di maioliche che erano considerati veri pittori e che raggiunsero livelli estetici ed espressivi senza pari, influenzando il gusto di tutta l’Europa.
    Da Urbino a Faenza, da Gubbio ad Albissola o San Quirico d’Orcia, a quei tempi fu tutto un fiorire di smalti e arzigogoli, di putti, donzelle, trafori floreali, stemmi araldici, scene mitologiche, draghi: una vera gara creativa, attraverso la quale forme complesse e sempre più ornate entrarono a far parte del corredo da tavola di ogni famiglia agiata. Nel'500, si hanno molti esempi di saliere in maiolica, specie della fabbrica di Urbino che abbondò in forme plastiche ricche di motivi angolari, di coronamenti e su piedi. Famosa è la saliere di B. Palissy e quelle decorate a smalto dipinto di Limoges, o in avorio con montatura d'argento, nelle Fiandre.
    Le saliere erano monumentali ed erano di due tipi: montate in recipienti aperti come conchiglie o foglie in oro oppure chiuse a forma di navicella o cofanetto. Le saliere chiuse nacquero dall’esigenza di proteggere il prodotto e anche per la paura di eventuali avvelenamenti.
    Nel Rinascimento le saliere divennero più piccole ed assunsero una valenza simbolica poiché la loro preziosità era direttamente proporzionale all’agiatezza dell’anfitrione. La disposizione dei commensali intorno alla tavola seguiva un rigido protocollo, la saliera – posta al centro – segnava la demarcazione fra i convitati più o meno importanti. Nei secoli XVII e XVIII, le forme si fanno più variate (ovali, a navicella, ecc.) e sono frequenti, per l'uso comune, saliere piccole e semplici da mettersi presso il piatto di ogni convitato. Queste forme continueranno poi quasi costanti nello stile Impero e nel sec. XIX. Fu nel ‘600 che nacquero i contenitori con diversi scomparti, destinati a sale, pepe ed altre spezie.


    ..in Russia..


    La saliera che fu manufatto comune alle culture contadine di tutto il mondo, in Russia, verso la metà dell’Ottocento, si vestì d’argento e al valore intrinseco del materiale si aggiunge anche l’elaborata interpretazione dei maestri argentieri. Le classi sociali più elevate fecero a gara nel regalare questo piccolo capolavoro, simbolo di buon augurio e fertilità per i giovani sposi. Così per la prima volta nella storia dell’argenteria russa, l’arte e la vita del popolo diventano modelli artistici.
    La saliera d’argento a forma di trono divenne un manufatto tipico delle case di alto livello sociale, anche se il suo uso si limitò ad un arco temporale relativamente modesto: dalla metà circa del XIX sec. fino alla Rivoluzione del 1917. La spalliera del minuscolo trono evocava la classica isba russa con un evidente riferimento alla casa come simbolo degli affetti familiari, mentre i decori geometrici simboleggiavano la perfezione dell’unione matrimoniale. Spesso sullo schienale o incisi sotto la seduta erano decorati un gallo o una gallina a rappresentare la fertilità e l’amore. Però questo augurio non si ostentava all’esterno: appariva molto spesso, solo quando si apriva il sedile. Le saliere a volte vi erano incise o inserite a smalto, verità inconfutabili o detti popolari come: “Mangia pane e sale, però ascolta i consigli” oppure “Senza pane e sale il pranzo è a metà
    Questi pezzi misurano in genere dai tre ai venti centimetri di altezza e molti recano incise dediche o date commemorative, a ricordare momenti particolari. E' il caso della saliera proveniente dall’impresa di Aleksandr Ful’d, recante la scritta XX, l’incisione della dedica “A sua Serenità la principessa Marija Olimpievna Apakidze da parte di V.A. Tarantin” e la data 1.X.1897. La principessa Apakidze, moglie del consigliere di corte Ivan Davidovič Apakidze, possedeva un atelier di abiti per signora che gestiva insieme a sua figlia. Ed è probabilmente in occasione del ventesimo anniversario dall’inaugurazione dell’atelier che le venne regalata la saliera. Con la rivoluzione del 1917 si sono perse le tracce di molte persone ed anche di beni a loro appartenuti. La principessa Marija venne in Italia dove morì nel 1922, l’anno dopo morì anche sua figlia, sepolta insieme a lei a Roma. In Italia arrivò la saliera citata, acquistata da un antiquario di Londra nel 1995, quasi a volersi ricongiungere idealmente con la sua proprietaria.

    La saliera di Cellini


    La Saliera di Francesco I è un'opera scultorea in ebano, oro e smalto, realizzata da Benvenuto Cellini durante il suo soggiorno in Francia, tra il 1540 e il 1543. E’ di piccolo formato, alta 26 cm, è considerata universalmente il capolavoro d'oreficeria dell'artista. In Francia, Cellini trascorse uno dei momenti più prolifici e sereni della sua esistenza, grazie alla presenza colta e disponibile di re Francesco I di Francia.
    Il progetto iniziale della saliera fu di parecchi anni antecedente al soggiorno francese. Cellini ricevette una commissione simile dal cardinale Ippolito d'Este che aveva richiesto allo scultore una saliera «che avrebbe voluto uscir dall'ordinario di quei che avean fatto saliere». Per indirizzarlo sul tema, il cardinale avrebbe interpellato due colti letterati come Luigi Alamanni e Gabriele Cesano affinché potessero consigliargli l'iconografia più opportuna.
    Cellini, sebbene leggermente influenzato da alcuni suggerimenti del Cesano, finì col progettare l'opera interamente da solo, ribadendo il concetto di "fare", tipico degli artisti, contrapposto all'astratto "dire" dei letterati. L'artista eseguì quindi un modello in cera della saliera che avrebbe suscitato la meraviglia del cardinale e dei suoi consiglieri. Ma Ippolito, stupito dalla complessità dell'invenzione, rifiutò di mettere in pratica un simile progetto, giudicandolo troppo costoso e meritevole solo di un committente come Francesco I.
    Cellini, non dimenticò il consiglio del cardinale, e approfittò della sua nuova posizione presso la corte del re per realizzare la sua saliera.
    La saliera giunse alla casa d'Asburgo come dono da parte di Carlo IX di Francia all'arciduca Ferdinando del Tirolo, per ringraziarlo del suo ufficio di procuratore del matrimonio con Elisabetta d'Austria.
    Custodita all'interno del Kunsthistorisches Museum di Vienna, fu trafugata l'11 maggio del 2003, ma dopo una fallita richiesta di riscatto, di 10 milioni, l'opera fu recuperata il 22 gennaio 2006, all'interno di una scatoletta, in un bosco presso Zwettl, a circa 90 km dalla capitale austriaca.
     
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