STORIA ...LA PREISTORIA

..... E L'UOMO ARRIVO'

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  1. gheagabry
     
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    PREISTORIA







    La preistoria è convenzionalmente indicata come il periodo della storia umana che precede l'invenzione della scrittura.
    Con la comparsa di testimonianze scritte infatti gli storici hanno a disposizione per la loro ricostruzione degli eventi una più vasta e chiara documentazione che giustifica questa periodizzazione convenzionale. La lunghissima fase della storia dell'uomo antecedente all'invenzione della scrittura a rigor di termini dovrebbe iniziare 200 mila anni fa quando nella regione dell'attuale Sudafrica appare un tipo umano detto Homo sapiens sapiens che dal punto di vista morfologico risulta in tutto identico all'uomo attuale.
    Tuttavia circa 2 milioni di anni fa, un tipo di ominide vivente nella regione intorno al Lago Vittoria (nel luogo dove attualmente confinano l'Uganda, il Kenia e la Tanzania) ha utilizzato per la prima volta degli utensili dando inizio alla storia della tecnica. Per estensione, si può ipotizzare una contemporanea origine del pensiero, che darà a sua volta inizio alla religione, all'arte, alla filosofia ed alla scienza pura.
    L'invenzione del primo strumento di lavoro potrebbe giustificare l'estensione della preistoria a circa 2 milioni di anni fa, con il primo utensile, anche se i gruppi di ominidi che utilizzarono utensili non erano fisicamente simili agli umani attuali (Homo sapiens sapiens).
    La preistoria viene convenzionalmente suddivisa in tre periodi: paleolitico (ossia pietra vecchia), mesolitico (pietra di mezzo) e neolitico (pietra nuova), per quanto sarebbe più corretto parlare di fasi in quanto i periodi preistorici sono caratterizzati da differente durata temporale e termine nelle diverse regioni geografiche.

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    Lo sviluppo dei mammiferi e di conseguenza l'evoluzione della specie umana devono probabilmente la loro esistenza alla scomparsa dei grandi rettili (dinosauri) sulla quale circolano molte differenti ipotesi. L'estinzione avvenuta nel Cretaceo superiore, circa 65 milioni di anni fa, lasciò libere numerose nicchie ecologiche che durante il Cenozoico furono occupate dal grupppo dei mammiferi.
    Tra i mammiferi primitivi, animali di piccole dimensioni simili agli attuali insettivori, alcuni svilupparono un modo di vita arboricolo, dando origine ai Primati.

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    Lo sviluppo dei mammiferi e di conseguenza l'evoluzione della specie umana devono probabilmente la loro esistenza alla scomparsa dei grandi rettili (dinosauri) sulla quale circolano molte differenti ipotesi. L'estinzione avvenuta nel Cretaceo superiore, circa 65 milioni di anni fa, lasciò libere numerose nicchie ecologiche che durante il Cenozoico furono occupate dal grupppo dei mammiferi.
    Tra i mammiferi primitivi, animali di piccole dimensioni simili agli attuali insettivori, alcuni svilupparono un modo di vita arboricolo, dando origine ai Primati.

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  2. gheagabry
     
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    Paleolitico







    L'età paleolitica (da paleos, antica e lithos, pietra) o età della pietra antica si sviluppa da 1.500.000 a.C. al 10.000 a.C.
    Durante questo periodo gli uomini vivono in comunità nomadi che praticano la raccolta di frutti spontanei, la caccia e la pesca; utilizzano le grotte e i ripari sottoroccia come abitazioni; imparano a lavorare la pietra e altri materiali e a trasformarli in utensili e in oggetti di culto; creano grandiosi dipinti parietali che raffigurano animali e uomini in modo naturalistico.



    Al Paleolitico antico (1.500.000 - 500.000 a.c.) risalgono i primi manufatti creati dall'uomo per difendersi, cacciare e per le altre necessità della vita quotidiana: ciottoli scheggiati, rudimentali utensili in pietra eseguiti con la tecnica della percussione diretta, bifacciali. Oltre alla pietra si utilizzavano anche altri materiali naturali come osso, avorio, corno o legno, di cui non sempre si sono conservati i resti.

    Nel Paleolitico medio (200.000 - 35.000 a.C.) compaiono utensili più elaborati, vari e ricercati nella forma (percussione indiretta ), lavorati non più solo su scheggia ma anche su lama, con superfici più regolari e taglienti.

    È solo nell'ultima fase del Paleolitico recente (35.00 - 10.000 a.C.) che si diffondono quei manufatti che esprimono i nuovi valori della religione primitiva dedicata al culto della Dea Madre e che rappresentano la realtà con un linguaggio figurativo sorprendentemente naturalistico (immagine di pitture rupestri, di animali in argilla, percussori).

    Quasi del tutto assente è l'architettura poiché come abitazioni si utilizzavano prevalentemente i ripari sottoroccia e le grotte. In alcune regioni dell'Europa centrale e orientale sono stati tuttavia rinvenuti resti di capanne fatte con tronchi, rami, frasche, ossa e pelli animali.

    Durante il paleolitico si sono avute una serie di glaciazioni (quelle alpine di Günz, di Mindel e di Riss). Durante le epoche glaciali i ghiacci avevano coperto il continente europeo e gran parte del Mar Mediterraneo. Avvenivano quindi contatti tra gli abitanti della penisola iberica e di quella italica. Con la fine dell'ultima glaciazione, tra 15000 e 10000 anni fa.

    I gruppi umani, prevalentemente nomadi o a sedentarizzazione periodica, erano caratterizzati da un'economia di caccia e raccolta, che si andò evolvendo con lo sviluppo di forme di caccia specializzata e con l'apparizione della pesca.
    Alcune teorie sostengono che soprattutto le donne con i bambini andassero a raccogliere erbe, radici e frutti selvatici. Invece gli uomini organizzavano battute di caccia in gruppo per animali di grossa taglia o si dedicavano alla pesca.
    Le abitazioni erano inizialmente semplici ripari naturali, a cui si aggiunsero capanne costruite con pelli di animali.
    In questo periodo si iniziò a controllare il fuoco e poi ad accenderlo. Il fuoco venne utilizzato come protezione dagli animali, ma anche per illuminare e per cucinare.



    L'arte del Paleolitico si divideva rispettivamente in due gruppi: arte parietale ed arte mobiliare. L'arte parietale è costituita da quattro periodi (detti anche stili) con i quali, nel corso del tempo, è stata migliorata:
    I stile: L'arte parietale non è ancora tale, i disegni vengono realizzati su massi;
    II stile: Sorge la vera arte parietale, con graffiti sulle pareti;
    III stile: Netta evoluzione dell'arte parietale, nuove raffigurazioni di mammiferi: corna raffigurate di profilo, testa piccola, ventri enormi e zampette che sbucano dai ventri;
    IV stile: L'ultima, grande evoluzione dell'arte parietale: miglior utilizzo della prospettiva e delle tecniche di luce.
    L'arte parietale era, per gli uomini del paleolitico, una rappresentazione del soprannaturale, i cui principi conduttori erano quelli dell'elemento maschile, rappresentato dal cavallo, e femminile, rappresentato dal bisonte.
    Bisogna ricordare in particolare una caratteristica dell'arte parietale, il negativo: quando i paleolitici volevano rappresentare la loro mano, di solito, appoggiavano la mano sul muro e tutt'attorno si spruzzava del colore, usando probabilmente la bocca.
    L'arte mobiliare: caratterizzata dalla rappresentazione di piccole statuette, le Veneri, dee che, risaputo dagli archeologi, erano collegate al culto della fecondità e che nella casa avevano, quindi, uno scopo religioso oltre che ornamentale. Tra queste ricordiamo la Venere di Willendorf,[6] che si stima sia stata realizzata fra il 23.000 ed il 19.000 a.C.



    Il paleolitico è caratterizzato dalla realizzazione degli strumenti in pietra con la tecnica della pietra scheggiata. Questa tecnica fu ancora utilizzata nei periodi successivi, ma mescolata ad altre di più recente introduzione.
    La classificazione dei manufatti può seguire le liste tipologiche di Bordes (suddivisa in strumenti su scheggia, nuclei e bifacciali), di Broglio-Kozlowski (suddivisa in pre-nuclei e nuclei, strumenti e armature) e di de Sonneville Bordes-Perrot.
    Le tecniche di scheggiatura possono essere: "a percussione diretta", "a percussione indiretta", "a percussione su incudine", "a percussione bipolare", "a pressione".
    Nel paleolitico inferiore gli utensili sono realizzati con ciottoli scheggiati (cultura dei ciottoli, o "Pebble Culture") o manufatti a forma di mandorla (bifacciali o amigdale); nel paleolitico medio con la lavorazione delle schegge staccate da un nucleo e nel paleolitico superiore con la lavorazione delle lame.



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  3. gheagabry
     
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    Paleolitico inferiore

    Da circa 2,5 milioni di anni fa a circa 120.000 anni fa, corrisponde al Pleistocene inferiore e medio e alle glaciazioni di Günz, Mindel e Riss con i periodi interglaciali intermedi. In questo periodo si diffondono l'Homo habilis e l'Homo erectus.

    Paleolitico medio


    Da circa 120.000 a circa 36.000 anni fa, corrisponde a parte del Pleistocene superiore comprendente il periodo interglaciale di Riss-Würm e parte del periodo glaciale di Würm. In questo periodo si diffonde in Europa l'Homo neanderthalensis.

    Paleolitico superiore

    Da circa 36.000 a circa 10.000 anni fa; corrisponde a parte del Pleistocene superiore comprendente parte del periodo glaciale di Würm. In questo periodo si diffonde in Europa l'odierno Homo sapiens sapiens.




    Esistono due filoni stilistici nella pittura parietale paleolitica:

    • il filone naturalistico che caratterizza tutto il Paleolitico
    • il filone geometrico-astratto che accompagna già il Paleolitico, ma poi emergerà meglio nel Neolitico.

    Il filone naturalistico è quello riferito ai soggetti animali e alle scene di caccia, e segue uno sviluppo stilistico sostanzialmente lineare.

    Il filone geometrico-astratto, compare insieme alle scene con gli animali, ma sembra seguire un criterio di espressione concettuale o simbolico anzichè figurativo, è di più difficile interpretazione ed avrà maggiore sviluppo nelle epoche successive. E' di un tipo di espressione precedente alle prime forme di scrittura.
    Si tratta comunque di un sistema segnico, basato su elementi geometrici che presenta una forte stilizzazione e sintesi. Ogni segno era probabilmente veicolo di qualche antico significato. E'stato anche ricollegato dagli studiosi anche alle "sigle" presenti sui ciottoli dipinti o incisi.


    Nel filone naturalistico, la linea di contorno, disegnata o incisa, caratterizza tutte le pitture paleolitiche ed è il principale elemento espressivo.
    Ma esiste anche un'evoluzione che è stata descritta con chiarezza da Leroi-Gourhan (i quattro stili della pittura paleolitica): si passa dai più antichi disegni sommari, con pochi segni in nero o bruno, che rendono immagini piatte, relativamente statiche, senza volume, al disegno particolareggiato e rifinito, con effetti di volume e movimento. Nel complesso, quindi, avviene una progressiva definizione dei particolari anatomici degli animali, si fa più attenta la resa di masse muscolari, movimenti, atteggiamenti.
    La gamma dei colori passa dal monocromo a una scelta sempre più ricca, e la stesura va dalla campitura piatta e uniforme alla sfumatura e ai passaggi di tono.

    A. Cocchi


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    Agricoltura



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    Nel Paleolitico gli esseri umani vivevano quasi esclusivamente di carne animale. L’alimentazione infatti si basava essenzialmente sulla caccia (di esclusiva competenza maschile) e, in misura minore, sulla raccolta di frutti e bacche commestibili (affidata alle donne): primo passo, quest’ultimo, verso la scoperta dell’agricoltura, che sarebbe avvenuta assai piú tardi.
    La vera novità del Neolitico fu proprio l’introduzione dell’agricoltura, la cui diffusione cambiò completamente l’aspetto della vita umana sulla Terra. Basti ricordare che l’agricoltura è rimasta la forma di economia fondamentale per tutte le società umane da allora fino a due secoli or sono, quando a essa si affiancò l’industria. E come si suole parlare di «rivoluzione industriale», cosí non è eccessivo parlare di «rivoluzione» anche a proposito del Neolitico, per sottolineare in particolare le trasformazioni decisive che la pratica agricola apportò alla vita degli uomini. Questa rivoluzione, che non fu improvvisa né rapida (come possono esserlo invece le innovazioni tecnologiche dei giorni nostri), fu tuttavia assai incisiva poiché investí tutti gli aspetti dell’organizzazione umana e pose le basi di un rapporto attivo dell’essere umano nei confronti della natura: egli infatti non si limitò piú a raccoglierne i frutti e a depredarla, ma imparò a sfruttarla ricavando col proprio lavoro nuove risorse. Le circostanze che permisero l’introduzione e lo sviluppo dell’agricoltura sono collegate innanzitutto ai mutamenti climatici avvenuti dopo la fine dell’ultima glaciazione: essi resero possibili insediamenti piú stabili, e modificarono flora e fauna nelle varie regioni della Terra.

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    Un’altra novità fu rappresentata dall’aver adottato la tecnica di bruciare parte della vegetazione, al fine di catturare e radunare animali selvatici: in queste zone germogliò e si accrebbe il pirolimax, una primitiva forma di cereale dal quale sarebbero successivamente derivati gli altri tipi di graminacee.
    Le donne, che da sempre si occupavano della prole mentre gli uomini si assentavano per le battute di caccia, avevano l’abitudine di raccogliere erbe, bacche e frutti commestibili che crescevano nelle vicinanze degli insediamenti abitativi. Nei secoli del nomadismo la raccolta era servita per integrare il cibo derivato dalla cacciagione, senza peraltro rappresentare una vera e propria alternativa. In un secondo tempo, grazie a soste sempre piú lunghe in uno stesso luogo, le donne della comunità, avendo probabilmente osservato che da alcuni semi, caduti casualmente a terra, nascevano piante simili a quelle raccolte, e intuendo il rapporto esistente tra seme e pianta, incominciarono a capire i cicli riproduttivi della vegetazione. Esse presero allora a interrare volontariamente i semi: dopo averli trasportati in prossimità delle capanne, li coltivavano, aiutandosi dapprima con le mani, e successivamente con attrezzi adatti. Si può dire, dunque, che fu la donna a «scoprire» l’agricoltura. L’affermazione dell’agricoltura e dell’allevamento diede impulso ad altre attività, quali la lavorazione della ceramica e la tessitura. Infatti, per contenere, conservare e cuocere il cibo ricavato dalla coltivazione della terra e dall’allevamento, era indispensabile avere dei recipienti adatti. Fu cosí che si affermò la ceramica, grazie al perfezionamento della lavorazione dell’argilla, già nota da tempo: si scoprí che mediante la cottura effettuata a determinate temperature, era possibile rendere l’argilla impermeabile e resistente al calore. Con le fibre (lino, lana) ricavate dall’agricoltura e dall’allevamento l’uomo imparò anche a realizzare indumenti diversi da quelli in pelle animale provenienti dalla caccia.
    Conseguenza prodotta dall’agricoltura e, in minor misura, dall’allevamento fu un grandissimo incremento demografico, dovuto alla nuova disponibilità di un’abbondante e sicura fonte di sostentamento. È stato calcolato che un’economia fondata sulla caccia e sulla raccolta era in grado di nutrire un abitante ogni dieci chilometri quadrati; invece un’economia agricola, per quanto elementare e primitiva, poteva sfamare cinque persone per chilometro quadrato, il che significa cinquanta volte tanto, con un incremento quindi del 5000 per cento.

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    La popolazione delle zone agricole crebbe perciò assai rapidamente e il suo aumento rese necessarie nuove colonizzazioni. A poco a poco il terreno adatto alla caccia si ridusse in favore di quello coltivato, la tecnica della semina e del raccolto fu trasmessa ai gruppi umani confinanti, e gradualmente la maggior parte dell’umanità fu costituita da agricoltori. Secondo l’ipotesi del genetista italiano Cavalli-Sforza, la diffusione dell’agricoltura dovette avvenire con un’onda di avanzamento di circa un chilometro all’anno in media. E grazie a questa diffusione anche il progresso della vita sociale si accelerò enormemente. Si consideri che, per giungere dalle sue origini all’epoca paleolitica, l’umanità ha percorso una faticosa via di centinaia di migliaia di anni mentre, grazie all’agricoltura e ai progressi da essa innescati, essa è passata, nello spazio di poco meno di 10 000 anni, dai primi tentativi di coltivazione dei campi all’età dell’industria e della tecnologia.
    Peraltro, l’agricoltura non fu solamente una tecnica di sfruttamento della natura. La nascita dell’agricoltura portò con sé, si può dire, la nascita della storia: la città, lo stato, ogni forma della vita sociale, della religione e della cultura antica ne sono la diretta conseguenza.
    L’introduzione dell’attività agricola in diverse regioni rese necessaria l’adozione di strumenti atti a favorire la lavorazione della terra. Fra gli strumenti dei primi agricoltori, si ricordano le asce in pietra dura levigata, usate per abbattere gli alberi e favorire cosí la creazione di campi per la semina (un altro modo sicuramente piú rapido per disboscare era l’uso del fuoco). Diversi erano gli utensili per scavare il terreno e prepararlo alla semina: tra questi si possono ricordare i bastoni ricurvi, usati per tracciare solchi, e le accette a manico che, avendo un’estremità ricurva, permettevano di zappare la terra con piú facilità. Per quanto riguarda l’inaugurazione dell’uso dell’aratro in Europa c’è incertezza fra gli studiosi: la testimonianza piú antica sembra essere un graffito rupestre, ritrovato sul monte Bégo, in Francia, al confine con l’Italia, che raffigura un aratro condotto da un contadino e tirato da due bovini. Questo graffito risale all’inizio del II millennio a.C., e quindi all’età del bronzo. Tuttavia i resti piú antichi di aratri che si siano ritrovati non vanno oltre il I millennio a.C. (l’aratro di Ledro, in Italia) e risalgono all’età del ferro, cosí come alcuni aratri di legno ritrovati nella penisola danese dello Jutland. Nonostante le testimonianze siano recenti, gli studiosi sono tuttavia convinti che la presenza dell’aratro in Europa sia invece molto piú antica e possa essere datata al III millenio (come sembrerebbero dimostrare alcuni graffiti rupestri della Val Camonica) se non addirittura al IV millennio a.C. Un altro utensile molto importante era il falcetto: alcuni popoli dell’Europa sudorientale lo costruivano utilizzando corna di cervo che venivano incise nel senso della lunghezza e munite di frammenti di selci affiancati gli uni agli altri; in altre zone sono stati ritrovati manici diritti di legno con una lama di selce conficcata obliquamente. Le macine del Neolitico erano pietre piatte o concave, di diverse dimensioni; il grano veniva raccolto in mortai di pietra o di legno e triturato con pestelli.

    Per alcune centinaia di millenni l’uomo preistorico ha condotto la sua esistenza uccidendo prede selvatiche per nutrirsi, difendendosi a sua volta dalle specie animali più aggressive.
    L’allevamento del bestiame e la coltivazione furono tappe rivoluzionarie nell’emancipazione dell’uomo, in quanto gli offrivano la possibilità di controllare le proprie riserve alimentari.
    Per la grande maggioranza delle popolazioni dell’Eurasia la fase formativa dell’economia agricola e pastorale risale alla preistoria recente: da circa diecimila anni si è manifestato un diverso rapporto/controllo dell’uomo sulla natura con la domesticazione totale o parziale di alcune specie faunistiche.
    Moventi iniziali dell’allevamento possono essere stati: la potenziale mansuetudine di certe specie, incentivata dall’uomo, la tendenza al “commensalismo” di alcuni animali, tollerati ai margini dei primi insediamenti; la opportunità di costituire, con la cattività entro primitivi recinti, scorte vive di cibo, o di vittime per sacrifici, da attuarsi in tempi ritualmente propizi. Singoli esemplari raccolti in giovane età, ammansiti con la distribuzione di cibo e addestrati opportunamente, possono essere stati usati come ausiliari nella caccia o nella pesca.
    Con l’allevamento in gruppi di animali, con totale o parziale dipendenza dall’uomo per il nutrimento, con il progressivo controllo dei processi riproduttivi, si è giunti nel tempo alla creazione e alla progressiva selezione di specie domestiche, con caratteristiche biologiche e attitudini diverse da quelle delle originarie specie selvatiche.

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    L’allevamento del bestiame è sorto nell’ambito delle culture neolitiche, che avevano avviato il fenomeno della sedentarizzazione degli insediamenti e avevano intrapreso la coltivazione anche di specie vegetali. I gruppi umani dediti all’agricoltura avevano infatti disponibilità di foraggi con cui nutrire il bestiame per l’intero ciclo annuale.
    Pur permanendo nel tempo forme di economia “mista”, con allevamento stanziale all’interno di villaggi agricoli, per l’accrescersi delle mandrie, divenute una minaccia per i campi coltivati e per l’esigenza della ricerca di nuovi pascoli si aprono quindi per gli allevatori, dediti alla pastorizia e al nomadismo, nuove forme di sussistenza. Nascono forme intensive e specializzate dell’allevamento: con l’accrescersi dell’importanza economica degli armenti, l’uomo si adatta alle loro esigenze, nella ricerca di nuovi pascoli, con forme di transumanza anche stagionale. La vita a stretto contatto con le greggi condiziona la struttura sociale, la mentalità e la formazione culturale delle popolazioni dei pastori nomadi.
    A seguito delle risultanze degli scavi archeologici, si può affermare che se forme domesticate del cane sono attestate nella preistoria europea già nel Mesolitico, la domesticazione degli ovicaprini, dei bovini e dei suini ebbe luogo tra il IX e il VII millennio a.C. nel Vicino Oriente, dove vivevano gli antenati selvatici di tali specie.
    Negli altipiani circostanti la “mezzaluna fertile”, dove cominciavano a costituirsi gruppi di coltivatori sedentari, il primo animale ad essere domesticato fu la capra (presente nei livelli antichi di Jarmo), che con la pecora divenne la prima specie allevata in greggi.
    L’allevamento dei bovidi è più tardo, attestato in Mesopotamia, nell’altopiano iranico, nel Turkestan e in seguito nei siti del neolitico egiziano e nelle civiltà della valle dell’Indo. L’importanza di questa specie è maggiore ai fini dello sviluppo culturale del mondo antico, per la grande varietà di usi cui si presta.
    Il maiale deriva dal cinghiale comune; è animale tipico delle società agricole “da villaggio” per l’indole pigra e per la tendenza all’impinguamento, ricercato per la carne ed il concime. Compare precocemente nei livelli neolitici europei ed asiatici. Assume un ruolo rilevante anche come vittima nei sacrifici.
    Il cavallo compare più tardi: la domesticazione ha avuto origine dalla fine del V millennio a.C. nelle regioni steppiche orientali, tra Turkmenistan e Kazakistan, culla di pastori nomadi, diffondendosi precocemente verso gli altopiani iranici, la valle dell’Indo, le steppe russe; in Ucraina in particolare sono note culture in cui il cavallo è la specie domestica predominante.

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    Nelle regioni dell’Asia occidentale e dell’Europa è attestato non prima del III millennio a.C.
    Come per altre specie, il primo stimolo alla domesticazione può essere stato economico-alimentare e religioso: sono note gare ippiche a carattere rituale, sacrifici, offerte di simulacri di cavalli o di ossa o crani, sepolture rituali con o senza i cavalieri. Rientra nella sfera di aspetti ideologici legati alla domesticazione di questa specie il rinvenimento a Maccarese presso Roma di un pozzetto circolare in un sito eneolitico, in cui era deposto un cavallo fatto a pezzi, con sovrapposti due cuccioli di cane.
    Nella prima fase non vi è traccia di un allevamento intensivo, rimanendo una specie elitaria, usata verosimilmente come cavalcatura dai ricchi o nobili. L’uso come mezzo da traino viene fatto risalire all’apparizione di veicoli con ruote raggiate sullo scorcio del III millennio a.C., divenendo diffuso anche l’impiego per la trazione di carri da guerra: dai regni babilonese, assiro, dall’Egitto si diffonde presto anche in Europa.
    I nuovi elementi culturali della neolitizzazione si espansero verso occidente: trasmessi da popolazioni appartenenti a diverse correnti culturali arrivate dalle regioni del Danubio e per mare lungo le coste del Mediterraneo orientale, con una navigazione tra le isole. A partire dalla metà del V millennio a.C. gruppi neolitici in Italia iniziarono uno sfruttamento più ampio delle risorse locali: si sviluppa la domesticazione di specie disponibili alla stato selvatico, come bovini e suini, con una economia “mista” di interazione tra agricoltura e allevamento in insediamenti prevalentemente stabili.
    Nell’ambito dei movimenti di genti dell’Eneolitico, durante il III millennio a.C. arrivarono in Italia popolazioni provenienti dall’Anatolia, dall’Egeo e dalla penisola iberica, in possesso di tecniche metallurgiche progredite. Nomadi e dediti alla pastorizia, erano spesso dotati di armi; hanno introdotto nuovi culti e riti sepolcrali, il diffondersi dei monumenti megalitici, nuove forme di ceramica e di ornamenti. In alcuni casi si fusero con gli indigeni agricoltori, con una forma di economia mista. Tracce di disboscamento e di frequentazione di siti a quote elevate sembrano attestare uno sviluppo delle attività di allevamento mobile.
    Nell’Età del Bronzo nell’arco del II millennio a.C. il processo di stabilizzazione degli insediamenti è da collegarsi anche a forme più intensive di sfruttamento del suolo, legate all’uso dell’aratro. Si riscontra una divisione in aree, con diverse influenze culturali, nella penisola. I territori settentrionali sempre più gravitarono vero le correnti culturali transalpine: gli abitati lacustri padani e le terramare sul margine meridionale della pianura paludosa sono villaggi agricoli, con allevamento stanziale del bestiame. Nell’Italia centro-meridionale si venne a formare nel Bronzo medio una omogeneità culturale con la Civiltà Appenninica.
    Era caratterizzata da un’economia mista, in cui il prevalere dell’allevamento di tipo pastorale o dell’attività agricola dipendevano in parte dalle diverse situazioni ambientali. E’ indubbia l’importanza dell’allevamento, di cui si sfruttavano anche i prodotti secondari; tale attività comportava forme limitate di transumanza, tra aree distinte adatte al pascolo invernale e a quello estivo, in un sistema integrato di sfruttamento del territorio, con la coltivazione dei campi e l’allevamento sia stanziale che itinerante. Nell’ambito di questa cultura l’uso dei pascoli montani ha favorito la comunicazione e l’interscambio per le comunità dei versanti dell’Appennino, influendo nell’uniformare lo stile della caratteristica ceramica lungo la penisola.
    Se dallo studio dei reperti osteologici provenienti dagli scavi, non sempre è agevole individuare differenze morfologiche nelle prime specie domestiche, altri indicatori possono essere la composizione delle mandrie e le curve di mortalità degli animali: la prevalenza di animali macellati in età giovanile è il risultato di un allevamento che ha come scopo principale lo sfruttamento della carne e dei pellami; la presenza di ovicaprini e bovini adulti è indizio di una economia più articolata, con sfruttamento dei prodotti “secondari”, quali concime, lana, latte, formaggio, o come forza lavoro.
    Altre informazioni provengono da raffigurazioni o da oggetti e strumenti legati all’allevamento e ai prodotti derivati (morsi equini, aratri in legno, colini, bollitoi e recipienti per la lavorazione del latte, fuseruole e pesi da telaio connessi con la filatura e tessitura…). Incisioni e pitture rupestri in Algeria e nel Sahara documentano l’uso dei bovini come cavalcature da parte dei pastori preistorici. In Italia scene di aratura in cui vengono impiegate coppie di buoi sono ampiamente documentate nelle incisioni rupestri alpine del monte Bego e della Val Camonica, dall’età neolitica, attestando l’importanza dell’allevamento bovino per la rivoluzionaria innovazione che ha permesso l’agricoltura arativa.
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  8. tomiva57
     
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    grazie gabry
     
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  9. gheagabry
     
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    Uomo Primitivo



    2wm3rte




    Che l’uomo del nostro remoto passato coprisse il suo corpo con indumenti rudimentali è una certezza riscontrata nei numerosi reperti archeologici ritrovati finora dagli studiosi esperti di archeologia antropologica, ma la mancanza di testimonianze tangibili e soprattutto tastabili con mano hanno reso particolarmente difficile la ricostruzione sistematica dell’abbigliamento primitivo, spesso identificata da vere supposizioni e laute ipotesi formulate tramite raffigurazioni evidenti di vario genere.
    Ragion per cui studiarne la vera storia diventa alquanto difficile, se non attraverso tali forme d’espressione. In effetti, a differenza degli stessi manufatti ritrovati nei periodi primitivi dell’umanità, il vestiario antico è stato soggetto a facile deperimento, tranne in alcuni casi di eccezionale conservazione. Le uniche vere fonti autorevoli su cui poter attingere le informazioni storiche inerenti il costume tipico del periodo preistorico è mediante l’arte figurativa rupestre e, successivamente, la rappresentazione di testi scritti, ovviamente di inverosimile documentazione databile nei periodi più antichi della preistoria. E’ da considerare infatti che la scarsa conoscenza di nozioni sugli sviluppi culturali prima della tarda età del bronzo e dell’inizio dell’età del ferro è pressoché infruttuosa al fine di determinarne una classificazione dettagliata. Infatti da numerosi scavi effettuati si possono datare oggetti e resti fossili risalenti al Paleolitico (da circa 2,5 milioni a 11-10 mila anni fa), ma nessun riferimento attendibile che possa dimostrare con certezza l’utilizzo di indumenti da parte degli ominidi di quel periodo.
    Il ritrovamento di alcune statuette propiziatorie in avorio, tra le prime quella della “Venere di Lespugue”, ritraente una donna nuda nelle classiche pose paleolitiche e succintamente vestita con tessuto di fibre elicoidali sfilacciate sul fondo, datata 25.000 a.C., inoltre di pitture parietali del Paleolitico Medio-Superiore e di alcuni utensili di pietra, sovente di selce, realizzati con la tecnica della scheggiatura (o pietra scheggiata) rinvenute nel periodo Magdaleniano (18.000 a.C.) e usati per raschiare, scarnificare, tagliare, fanno supporre la presenza di un vestiario usato come copertura corporea, probabilmente pelli di animali selvatici, forse renne, che venivano rudimentalmente conciate con appositi strumenti realizzati manualmente. L’uso del pellame primitivamente conciato non era soltanto un metodo di difesa dalle pressanti intemperie a cui si era fortemente soggetti, ma assumeva un significato prettamente simbolico propiziatorio, quando indossarlo equivaleva a identificarsi con la tipologia della specie specifica dimostrando la propria forza e il valore per averlo ucciso.
    Probabilmente l’introduzione della pelle, usato come indumento per coprire il proprio corpo, potrebbe addirittura assumere un primordiale senso del pudore, anche se l’uomo nudo percepiva la propria diversità in rapporto alla consuetudine e quindi tendeva a conformarsi al gruppo pur di non essere emarginato.


    a cura di Marius Creati

    Edited by gheagabry1 - 12/1/2020, 15:16
     
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    Idromele



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    L’Idromele è la più antica bevanda alcolica attestata nel lessico comune indoeuropeo, ed era tra le bevande alcoliche più utilizzate nel mondo antico, prima che la diffusione della vite nel bacino del mediterraneo ed in Europa, introducesse l'uso del vino.

    Questa bevanda si diffuse ampiamente in epoca preistorica, soprattutto nelle pianure settentrionali ed orientali dell’Europa, anche in zone climatiche fredde. Il suo nome deriva dalle parole greche "hydor" (acqua) e "mèli" (miele), e qui sta l'essenza di questo prodotto, una mescita fra acqua e miele, per ottenere la naturale fermentazione alcolica. L'idromele si fa solo in questo modo.


    La sacralità dell'ape quale animale messaggero del cielo, che trasforma il sole in miele, e l'acqua vista come la linfa vitale che scorre nelle vene della madre terra rendono l’Idromele sacro presso i Celti, come essenza del divino nell’unione fra cielo e terra.

    Nella mitologia indoeuropea l’Idromele è la bevanda tipica dell’aldilà, nel mondo celtico come in quello germanico.
    Non era il soddisfacimento del gusto la ragione produttiva dell’idromele quanto l’elaborazione di una bevanda dalla consistente alcoolicità, che inducesse stati alterati della coscienza, i quali facilitano quel contatto con la divinità che essi ricercavano; non è una novità che molte religioni utilizzano alcool, droghe o tecniche psicologiche per indurre tali stati.

    Il vino veniva fatto con uve scarsamente zuccherine ed aveva una debole gradazione alcolica, non parliamo poi della birra che era una pappina leggermente alcolica; per l’idromele invece era sufficiente aggiungere ancora miele alla miscela in fermentazione per avere una bevanda dalla gradazione piuttosto alta; notiamo ancora che la presenza di zuccheri residui nell’idromele rendeva molto più veloce l’assorbimento dell’alcol da parte dell’organismo; possiamo dire che era il loro superalcolico.

    Non a caso l’idromele non è mai stato per gli antichi “bevanda da pasto”, ma piuttosto la bevanda rituale con cui aspergere i sacrifici prima del fuoco purificatore, o componente della panacea, la bevanda che cura tutti i mali sia del corpo che dello spirito.

    Nell’Europa celtica (IX°-I° sec. a.C.) era bevuto dai Druidi e dalle tribù nelle cerimonie sacre che scandivano il ritmo delle stagioni. Si consumava nelle feste di Samonios (l’odierno Ognissanti a novembre) capodanno celtico, ad Imbolc (il giorno della Candelora a febbraio) festa di fine inverno e rinascita della natura, a Beltane (maggio) festa propiziatoria di fertilità durante la quale venivano celebrati i matrimoni, a Lugnasad (agosto) festa di ringraziamento per i doni della stagione agricola, ed infine agli equinozi di autunno e primavera e nei solstizi d'estate e d'inverno. L'uso era finalizzato ad ottenere l'ebbrezza alcolica per potersi avvicinare al divino fino ad incontrarlo.

    Ma per ricercare le origini dell’idromele dovremo tornare molto indietro nel tempo, e dovremo tornare così tanto indietro che dovremo farlo con il supporto di semplici deduzioni e non quello di documenti o di ricerche archeologiche.

    Le ricerche sulla produzione del vino si fanno sulla scorta di ritrovamenti di torchi o di palmenti o di vinaccioli o di orci o di anfore: siti dunque o attrezzature che l’uomo primitivo utilizzava per la produzione del vino; ma per l’idromele niente di tutto questo, l’unico residuo di questa primitiva produzione erano solo la deperibilissima cera e l’altrettanto deperibile contenitore, l’otre di cuoio.

    Quando noi diciamo che l’idromele è assai più antico del vino lo facciamo pensando che per fare il vino l’uomo primitivo ha dovuto prima sedentarizzarsi, imparare a coltivare la vite e solo dopo casualmente scoprire che dal succo di quel grappolo poteva ricavare una bevanda inebriante; per l’idromele invece non ha dovuto imparare ad allevare le api, era già cacciatore di miele da sciami selvatici quando era una scimmia, e non ha dovuto costruirsi il recipiente di terracotta per la fermentazione, aveva già a disposizione il primitivo ma funzionale otre di cuoio, il contenitore per eccellenza delle popolazioni nomadi.

    le origini antiche di questa bevanda sono confermate dal ritrovamento in un vaso, associato ad un ricco corredo funebre in una tomba, di una sedimentazione di una bevanda fermentata, cui era stato aggiunto del miele.
    Questa tomba, situata ad Egtved in Danimarca, è datata al VI sec. a,C.

    Per praticamente tutte le bevande fermentate antiche come la birra, ma forse l'idromele è da considerarsi la prima "inventata" o "scoperta" dall'uomo, abbiamo residui in reperti archeologici.

    Inoltre essendo considerata una bevanda "sacra" l'idromele era sicuramente contenuto in grandi bacini come testimoniato dai corredi funebri, e quindi poco coerente risulta l'utilizzo del "povero" contenitore di cuoio come l'oltre, che rimane pur sempre un buon mezzo x il trasporto dei liquidi.



    Per quanto riguarda il processo produttivo poi, tutti gli apicoltori sanno che per togliere i residui di miele dai favi strizzati o dagli opercoli il sistema più semplice è immergerli in acqua: il miele si scioglierà istantaneamente. Una volta fatta questa operazione la miscela di acqua e miele inizia a fermentare da subito, naturalmente, ad opera dei lieviti indigeni presenti nel miele ed è già bevibile, anzi l’idromele non è come il vino che sviluppa i suoi aromi solo dopo la fermentazione primaria, ma come la birra col suo profumo di lieviti ed il frizzante della fermentazione.





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    come vestivano gli uomini primitivi




    Nonostante si pensi che la primitiva concia potesse adottare una metodica apparentemente semplice e obsoleta, bisogna redarguire dicendo che le tecniche erano abbastanza difficili e complesse, a tal punto che l’uomo dovette superare molti ostacoli prima di trovare una soluzione ottimale.
    La pelle d’animale è morbida non appena scuoiata dall’involucro di carne, ma diventa dura da trattare una volta esalati tutti i vapori corporei. L’inconveniente era di non poterne mantenere la sofficità dopo il deperimento fisiologico post-mortem per conservarne lo stato naturale. Soltanto due erano i metodi possibili utilizzati a tal scopo: immersione completa nell’acqua e, una volta riemersa, successiva percussione con un mazzuolo di legno o masticazione durevole. Queste due tecniche venivano adottate frequentemente poiché la pelle lavorata non conservava a lungo la morbidezza desiderata, specialmente dopo le prime tempeste.
    L’uomo primitivo sperimenta quindi le prime forme d’ingegno mediante la sperimentazione diretta cercando di impedirne l’indurimento. Primo tentativo tramite immersione nell’olio, o succedaneo naturale, dopo averla saputamente ammorbidita nei modi conosciuti, ma considerando l’usura e la completa asciugatura nel tempo della sostanza liquida untuosa, adotta un nuovo metodo mediante immersione nell’acqua intrisa di un estratto preso dalla corteccia degli alberi, adatto a conferire morbidezza permanente e maggiore impermeabilità. Questo fu l’inizio della tannatura, derivante dal trattamento dell’acido tannico, sostanza che si trova appunto nella corteccia di certi alberi che a contatto con l’acqua produce il suddetto acido e dal quale si ottiene la concia del pellame, procedimento attualmente usato nelle aziende concerie.
    Dopo aver risolto siffatto inconveniente assai scomodo, inizia a definire delle forme concrete da avviluppare o cingere con legacci intorno ad esso al fine di valorizzare la classica coperta, finora usata come ombrello contro le intemperie e gli agenti atmosferici, in modo tale da indossarne il prodotto ottenuto. Fase successiva alla soffice conservazione della impermeabilità durevole diventano il taglio e la presunta confezione delle pelli trattate, altamente rudimentali, impiegati per modellarne le parti da assemblare per ottenere l’abito, più complesso nel procedimento, ma meno ingombrante da trasportare. Sono vari i reperti a forma di punteruoli di silice e d’osso, o altri attrezzi similari, adatti alla lavorazione del cuoio. Infatti si pensa che le pelli, una volta tagliate in presunti modelli, fossero unite da appositi lacci, perforandone gli orli mediante tali arnesi con una serie di buchi entro cui si infilava una striscia sottile di cuoio o di legaccio. Anche se grossolani, ruvidi, malconci e possibilmente maleodoranti questa nuova tipologia di vestiario rappresentava per l’uomo preistorico un indumento resistente e sicuro.
    Successivamente la confezione dell’abito primitivo si avvale di una nuova innovazione ingegnosa, l’ago d’osso o di avorio che permetteva di poter cucire, in modo più flessibile, piuttosto che legare con lacci tramite l’uso di un filo più sottile e punti meno evidenti. I primi ritrovamenti attestanti la presenza di codesti piccoli utensili da lavoro risalgono al Paleolitico Superiore.
    Assolutamente da non dimenticare l’uso del colore come presunto accessorio complementare al succinto vestiario adottato dall’uomo primitivo, circa 30.000 anni fa, usato non solo per dipingere le caverne, come da testimonianze riconosciute dall’archeologia preistorica, ma altresì per decorare il proprio corpo a protezione, mimetizzazione del medesimo e per incutere timore al nemico animale o umano, a seconda delle circostanze.
    Gli indumenti creati attraverso la lavorazione della pelle di animali selvatici erano ideali per nomadi che vivevano sulle montagne e per le popolazioni residenti nel Nord dove il clima era indubbiamente molto rigido, ma sicuramente diveniva meno opportuno per le civiltà stabilitesi più a Sud, nel Mediterraneo e nell’Asia Minore, in quanto scomodi e meno funzionali per praticità e intolleranza al clima. L’inconveniente principale era nella mancanza di materia prima leggera confezionabile. In codeste zone climaticamente più calde, i primi prototipi di vestiario sono riconducibili a leggere cortecce d’albero bagnate con acqua e cucite tra loro. La soluzione ottimale arriva con l’avvento della lana e successivamente delle varie fibre vegetali.
    Il primo metodo adottato per l’ottenimento del tessuto è la feltratura, un procedimento consistente nel cardare i fiocchi di lana, inumidirli, disporli paralleli e batterli fino all’infeltrimento, producente un tessuto omogeneo compatto e unitario. Nonostante la lunga lavorazione il materiale ottenuto era ancora troppo pesante e inadatto al clima.
    Successivamente l’uomo primitivo inizia ad avvalersi delle prime forme di tessitura, che permisero di produrre i primi tessuti, piccole pezze di stoffa ottenute mediante rudimentali strutture in legno, per poi inventare i primi telai adatti a produzioni più numerose. Il telaio primitivo era un macchinario piuttosto pesante per essere trasportato da popolazioni nomadi, quindi essendo vincolato dalle dimensioni e dal peso, era utilizzato solo dalle civiltà più sedentarie. La lana fu la prima materia, di origine biologica, ad essere tessuta con telaio, ma ben presto furono scoperti anche il lino, la canapa e il cotone, tutti materiali di origine vegetale dalle fibre più leggere, durevoli e duttili da lavorare.
    La tessitura nell’antichità investe un ruolo lavorativo a carattere familiare divenendo un occupazione di ampio prestigio, persino elogiato nelle grandi civiltà nascenti della storia antica. Infatti dalle prime testimonianze tramandate dei grandi imperi dell’antichità si deduce che il tessitore, e quindi in generale la tessitura, riscontrasse un grandissimo valore come simbolo di status.
    In questo frangente storico del costume emergono due tipologie di vestiario ben distinte a seconda della zona di appartenenza, Nord o Sud, in definizione di un clima differentemente esigente. Con il perdurare dei secoli tra continue migrazioni, conquiste, rapporti commerciali e scambi furono abbattute le enormi barriere del vestiario tra i diversi popoli esistenti, ma all’inizio della nostra storia, nella prima età del bronzo, le grandi civiltà del passato vivevano in un costante isolamento volontario, talmente evidente che neppure le vie del commercio riuscirono ad influenzarne il cosmopolitismo positivamente, limitando l’approfondimento culturale degli usi e costumi tipici del periodo.
    a cura di Marius Creati



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    Le prime informazioni registrate





    Frammento di pendaglio in osso scoperto nel sito
    di Tossal de la Roca presso AliCante (8000 a.C.).
    Questo oggetto è lavorato sulle due facce con quattro gruppi
    di brevi incisioni disposte in file parallele (il dettaglio
    delle incisioni è mostrato per una faccia). L'analisi
    al microscopio mostra che ciascuna serie è stata realizzata
    con uno strumento differente e diverse tecniche d'incisione.




    L'analisi microscopica dei segni incisi su manufatti del Paleolitico superiore rivela che i primi sistemi destinati a conservare informazioni risalgono a quell'epoca


    La scrittura non è un semplice sostituto visivo della parola, e l'analisi dei più antichi sistemi di segni dimostra che la sua storia non può essere seguita come un percorso ideale che vada dalla pittografia alla scrittura alfabetica. Per questo motivo è legittimo chiedersi se sia ancora utile basare lo studio delle prime scritture e dei più antichi sistemi concepiti per registrare informazioni sul legame più o meno forte che questi sistemi possiedono con il linguaggio. La risposta data da ricercatori come Roy Harris dell'Università di Oxford è negativa: essi propongono un'analisi indipendente dei segni, per mettere a punto teorie globali della comunicazione. In quest'ottica, lo studio dei sistemi di segni viene
    a includere quello dei «sistemi di scrittura». Il suo obiettivo diventa l'analisi della capacità degli esseri umani di tipo moderno di elaborare sistemi di segni, a partire da almeno 35.000 anni fa, all'inizio del Paleolitico superiore, in Europa e probabilmente da circa 60.000 anni fa in Africa.
    È certo che, per esprimersi nella cultura materiale e tramandarsi di generazione in generazione, simili sistemi richiedono l'acquisizione preliminare di un linguaggio orale articolato. Il linguaggio è in effetti il solo sistema di comunicazione che possieda intrinsecamente un metalinguaggio in grado di permettere la creazione e la trasmissione di codici grafici simbolici. Ma una volta creati, questi sistemi, anche nel caso mantengano un legame relativamente stretto con la lingua, rispondono a regole proprie, che è fondamentale comprendere.
    Dalla scoperta, avvenuta oltre un secolo fa in giacimenti del Paleolitico superiore, in Francia, di frammenti ossei recanti serie di incisioni, gli archeologi hanno proposto un gran numero di ipotesi per interpretare questi oggetti: si tratterebbe di «annotazioni di caccia» (per tenere il conto delle prede uccise), metodi per ricordare canti, indicazioni del numero di persone partecipanti a una cerimonia o anche sistemi di notazione o di calcolo.

    Se incidiamo una tacca su un bastone ogni volta che deve essere memorizzato un fatto, il codice di questo sistema si basa sull'accumulo nel tempo di elementi che veicolano informazioni. In effetti, se le tacche non sono differenziabili a occhio, la loro morfologia non potrà avere alcun ruolo nel codice. Questo è vero anche per la posizione delle tacche sull'oggetto: è possibile aggiungerne di nuove in uno spazio ancora libero del bastone, o intercalandole a tacche già presenti, senza modificare l'informazione registrata. La distribuzione spaziale non rientra nel codice. L'aroko, utilizzato dai Jebu dell'Africa occidentale, è un SAM il cui codice si basa sul numero e sulla distribuzione spaziale; esso è costituito da file di conchiglie, che veicolano messaggi diversi a seconda del loro numero e della posizione reciproca.
    Il materiale etnografico rivela che ciascun codice include uno, due, tre o anche tutti e quattro i fattori citati in precedenza (forma, distribuzione, accumulo nel tempo, numero): le associazioni possibili sono 15. Questi fattori, inoltre, possono organizzarsi in maniera gerarchica all'interno del codice.
    Il quipu, impiegato dagli Inca, illustra questa organizzazione gerarchica. Esso è formato da parecchie cordicelle di diverse lunghezze e colori, appese a una fascia portata alla cintola. La posizione e il tipo dei nodi su ciascuna cordicella denotano il numero e il tipo di oggetti o di esseri viventi rappresentati. Questo sistema funziona con un codice basato sulla distribuzione spaziale (posizione della corda e del nodo) e sull'aspetto degli elementi che recano l'informazione (colore della corda, tipo di nodo). Per registrare o recuperare l'informazione, si considera in primo luogo una cordicella determinata da posizione e colore, e poi si esamina la posizione dei nodi e la loro forma.


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    Il tema della comparsa e dell’evoluzione dell’uomo è un tema “scottante”. In questo campo il lavoro scientifico è difficile perché difficilmente viene “lasciato in pace” a causa delle ideologie filosofiche e religiose che influenzano, inconsapevolmente o no, le teorie scientifiche. Gli atei tenderanno a rigettare qualsiasi teoria evoluzionistica o anche semplicemente finalistica, i credenti si arrampicheranno sugli specchi per negare qualsiasi ipotesi evoluzionistica. Per fortuna esiste un modo per sgombrare la mente da ogni preconcetto e ideologia per procedere in modo diretto verso la ricostruzione dei fatti. Si tratta del metodo scientifico che, se applicato in maniera rigorosa, ci permette di capire la realtà che ci circonda a prescindere da ciò che ci piace o che non ci piace o indipendentemente da ciò in cui crediamo o non crediamo.

    Partiamo ad esempio dal concetto di “anello mancante”. L’anello mancante sarebbe un fossile di una specie che completerebbe le linee evolutive dell’uomo. Secondo coloro che non accettano la teoria dell’evoluzione il mancato ritrovamento di questo ipotetico fossile sarebbe una prova che l’evoluzione non ha avuto luogo. Tuttavia l’anello mancante è semplicemente un errore concettuale e, di fatto, non esiste. Anzi, il fatto che non esiste avvalora l’ipotesi evoluzionistica.... un esempio per spiegare meglio. Supponiamo che sin da quando eravate bambini vi siete fatti una fotografia ogni giorno. In questo modo potrete montare un filmato in cui nel primo fotogramma c’è un bambino o una bambina e nell’ultimo c’è un uomo o una donna. Secondo voi esisteranno, in mezzo al filmato, due fotogrammi in cui nel precedente c’è un bambino e nel successivo c’è un adulto? Ovviamente no, perché il passaggio dall’infanzia all’età adulta è graduale e continuo, cosicché non è possibile individuare un giorno specifico in cui è avvenuto il passaggio.

    Allo stesso modo non esiste un passaggio netto tra ominidi e uomo e nemmeno tra scimmie e ominidi. Il passaggio è stato graduale ed è durato milioni di anni. L’uomo è tutt’ora in evoluzione e tra alcuni milioni di anni potrebbe avere una fisionomia ben diversa da quella attuale.

    A questo punto ci chiediamo cosa succederebbe se un biologo proveniente da un altro mondo visitasse la Terra. Immaginiamo che tra le decine di milioni di specie viventi del nostro pianeta, vada alla ricerca della più intelligente. Probabilmente comincerebbe dalle scimmie. Sembrano tutte abbastanza intelligenti. Uno scimpanzè può fare quasi tutto quello che può fare un bambino di due anni e mezzo. Se confrontasse il loro DNA il nostro investigatore alieno scoprirebbe che sono quasi identici. Biologicamente non esiterebbe a classificare noi umani come una sottospecie degli scimpanzè. Ma se si fermasse ad osservare come vivono e si comportano gli uomini, si renderebbe subito conto di un divario enorme tra le nostre capacità e quelle degli altri primati. Vedrebbe la specie umana dominare la Terra.

    Perché l’homo sapiens si è evoluto così diversamente dagli altri primati?

    E’ una storia lunga e affascinante durata ben 5 milioni di anni che vale la pena di conoscere.

    Edited by gheagabry1 - 12/1/2020, 15:17
     
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