RELITTI...e storie di mare

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  1. gheagabry
     
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    "Sono sicuro, tra questi fondali ci sono ancora molti tesori sommersi,
    nascosti tra la sabbia e le rocce ed io li troverò"
    (Teddy Tucker)


    ...storie di relitti...

    L' ATOCHA



    Era l’anno 1622 era un anno cruciale per la Spagna, in guerra da oltre trenta anni.
    Il problema era essenzialmente di tipo economico,e il re contava moltissimo sui carichi di oro e pietre preziose che provenivano dal Sud America e dai Carabi.Il 4 settembre 1622 la nave Nostra Signora di Atocha,protetta da 20 cannoni,si apprestava a lasciare il porto di l’Avana,a Cuba,con il suo carico di 265 passeggeri, ma soprattutto con un carico sicuramente più venale e decisamente importante per la Spagna composto da oro, argento e pietre preziose, per un valore che oggi si aggirerebbe attorno al miliardo di euro. Una somma enorme che serviva in maniera così urgente da far rischiare un viaggio alla nave diretta in Europa che doveva superare i rischi delle navi pirata,sempre in agguato,e quello delle tempeste.
    La nave aveva sei settimane di ritardo sul cammino tracciato;e si accinse a lasciare il porto di l’Avana proprio nel momento peggiore, con il rischio di tempeste che avrebbero messo in seria difficoltà l’equipaggio della nave. La nave salpò e si allontanò dalla riva aveva scelto il momento peggiore per partire, perché qualche ora dopo si scatenò un violentissimo uragano. Venti formidabili resero ben presto impossibile governare la nave, che divenne preda sia dei venti che del mare in tempesta, fino a quando, completamente in balia degli agenti atmosferici,finì per urtare contro la barriera corallina. Pochi minuti dopo la nave affondava con tutto il suo carico.
    De Vargas, un marinaio spagnolo, nel mese di ottobre dello stesso anno riuscì a trovare il relitto e a scendere fin sulla tolda , ma non riuscì in nessun modo ad aprire i portelli...cercò quindi di formare una squadra per il recupero, quando tornò sul posto del naufragio la nave non c’era più....Spezzata in due parti, fu trascinata lontano dalle tempeste e niente più permise più di ritrovare il relitto.
    (paultemplar, dal web)



    .......350 anni dopo........


    Quello era un giorno importante per la famiglia Fisher: dieci anni prima, il 20 giugno 1975, Dirk, uno dei figli di Mel Fisher, era scomparso nelle acque delle isole Keys, al sud della Florida, mentre cercava un tesoro sommerso.
    Mel aveva poca voglia di scherzare, ma rivolse ai suoi quello che era ormai il motto della Treasure Salvors Inc. da almeno 16 anni:

    «Today’s the Day!».

    Fu a quel punto che la radio prese a gracchiare. «Sospendete le ricerche: l’abbiamo trovata!», disse Kane, un altro dei figli di Mel. Con quelle parole si concludeva una caccia al tesoro cominciata nel 1622. Quando i Conquistatori spagnoli si imbatterono nelle civiltà precolombiane, si stupirono del fatto che popoli così incivili e primitivi navigassero letteralmente nell’oro e nelle pietre preziose. Il Nuovo Mondo era una miniera a cielo aperto e il sangue fu la moneta di scambio con cui i popoli evoluti pagarono le razzie compiute a danno dei territori appena scoperti. Spesso però i carichi non giungevano a destinazione: proibitive condizioni climatiche o attacchi di pirati celarono per sempre negli abissi i tesori e le mirabili opere d’ingegno navale che li trasportavano.
    I galeoni erano navi massicce, dal peso di circa 600 tonnellate e lunghe attorno ai 40 metri. Erano armate con tre alberi, due a vele quadre e la mezzana a palo. La loro potenza di fuoco era notevole: almeno dieci cannoni di grosso calibro difendevano ogni lato oltre alle colubrine. La principale caratteristica costruttiva del galeone risiedeva nel castello di poppa molto alto. Il 4 settembre 1622 una flotta di 28 navi salpò dall’Avana e prese il largo. La Nuestra Señora de Candeleira, un galeone, apriva il convoglio mentre un altro, La Nuestra Señora de Atocha, lo chiudeva. Ciascuno trasportava un tesoro pari a mezzo miliardo di dollari. Nella notte del 5 settembre una tempesta si abbatté sul convoglio, facendo perdere il contatto tra le navi. In poche ore la tempesta diventò uragano. La Candeleira e altre venti navi riuscirono a doppiare lo stretto di Florida e ridossarono nelle acque del Golfo del Messico. La Atocha giunse in prossimità di una barriera corallina. In un estremo tentativo di salvare la nave, il comandante ordinò di gettare le ancore per salvare la nave dall’impatto con le scogliere. Ma tutto fu inutile e un velo d’acqua cristallina divenne, per secoli, il solo custode del tesoro.
    Il relitto dell’Atocha giaceva in soli quindici metri d’acqua, a poche miglia da una spiaggia nelle isole Keys.



    " A volte l’urlo dell’uragano ancora scuote le isole Keys. La burrasca trasporta l’affanno impaurito di chi affronta il mare in tempesta e l’odore acre del salmastro capace di inondare l’anima di cupi presagi. Ma anche il profumo inebriante di tesori sepolti da secoli. Tesori che solo il mare può decidere quando e a che prezzo restituire alla brama degli uomini."
    (Marco Buticchi -Tratto da n.2/2010)



    Guizza nei mari
    solcati da galeoni nella tempesta
    ricerca d'un riparo tra mani di sirena
    Rosa dei venti s'innalzano le vele
    a tutta dritta
    un canto di conchiglia
    l'isola del Tesoro
    Viaggio a Phantasia
    è già sorto il mattino
    sogno o son desto?
    Con occhi stropicciati
    nel mondo delle fiabe
    ~ Eufemia ~




    ..............................................

    Edited by gheagabry - 8/3/2013, 21:44
     
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  2. gheagabry
     
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    STORIE DI RELITTI


    La laguna di

    T R U K


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    Sorvolando le isole della Micronesia mai si potrà avere l'impressione di trovarsi in un angolo di mondo che ha avuto per mesi l'apparenza dell'inferno, anziché quella del meraviglioso paradiso che appare sotto i nostri occhi. Eppure, nel corso della seconda guerra mondiale, gli atolli e le isole del grande Oceano Pacifico diventarono naturali teste di ponte utilizzate da Giapponesi ed Americani per portarsi reciprocamente offesa.
    La laguna di Truk era uno di questi capisaldi. Un atollo apparentemente inespugnabile, uno specchio di acqua tranquilla difeso da una cintura di corallo di 140 miglia di circonferenza dalla furia delle tempeste, e protetto da cento postazioni contraeree e potenti forze aeree dagli attacchi americani. E così Truk divenne un atollo strategico, una base importantissima dove riunire e proteggere le grandi navi da trasporto indispensabili per il continuo approvvigionamento delle truppe e delle unità aeronavali. Alla fonda nella laguna di Truk si trovavano bastimenti carichi di munizioni, uniformi, medicinali, automezzi, armi, provviste, pezzi di ricambio e di tutto quello che permette alla macchina bellica di esprimere al massimo il suo distruttivo potenziale. Un potentissimo arsenale galleggiava, dunque, sulle placide acque della laguna, in attesa di venire utilizzato nella guerra del Pacifico. E attorno a questo luogo si concentra l'interesse dell'Intelligence americana, che lo individua, non a torto, come un obiettivo primario per infliggere un duro, forse risolutivo colpo all'armata nipponica.


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    ......nella storia.....


    Un breve sguardo alla situazione generale, che consentirà di comprendere meglio la pagina di storia che è stata scritta nella laguna di Truk. La battaglia delle Midway ha segnato nel giugno del 1942, l'inizio della grande controffensiva americana nel Pacifico. Una controffensiva su grande scala combattuta per mezzo di unità aeronavali che in breve tempo portò gli americani alla riconquista di Guadalcanal, delle isole Salomon e di gran parte della Papua ad opera degli alleati australiani. Un episodio molto importante nel corso di queste operazioni fu l'abbattimento, il 18 aprile 1943, del grande ammiraglio giapponese Yamamoto impegnato in una ricognizione aerea. Fu in questo contesto che, in gran segreto, venne preparata l' "operazione Hailstorm": l'attacco alla base giapponese di Truk, con il preciso obiettivo di giungere al suo completo annientamento. Una serie di attacchi alle isole Marshall all'inizio del 1944 fu il preludio dell'operazione, mentre la potente flotta del contrammiraglio Spruance si avvicinava cautamente all'obiettivo. L'attacco venne lanciato all'alba del 17 febbraio. La sorpresa riuscì in pieno, e quando vennero avvistati dalle postazioni difensive i primi ricognitori americani, era ormai troppo tardi. In breve 72 caccia americani "F6F Hellcat", i "Gatti dell'inferno" piombarono sulla quarta flotta imperiale, prima che l'Ammiraglio Koga potesse trasferirla e metterla in salvo. I velocissimi caccia volavano nei cieli dell'atollo a seicento chilometri all'ora, bersagliando gli obiettivi con le sei mitragliatrici che costituivano l'armamento di bordo, provocando ingenti danni. Nel frattempo la flotta americana pattugliava le acque attorno all'atollo, alla ricerca di eventuali navigli che avessero potuto sottrarsi all'imboscata e cercare rifugio in mare aperto. Alle 6.30 del mattino una squadriglia di Zero riuscì a decollare, ma fu in breve annientata dai caccia americani che proseguirono l'incursione fino alle 9.30. Le ore successive furono solo il preludio ad un dramma ancora più grande per la flotta giapponese: dai ponti delle portaerei americane al largo dell'atollo stavano infatti decollando i bombardieri Dauntless e gli aerosiluranti Avenger. In breve le calme acque dell'atollo si trasformarono in un inferno, sotto un violento bombardamento che si protrasse per tutta la notte e la giornata seguente ininterrotto. Il bilancio alla fine dell'attacco era drammatico: 500 le tonnellate di bombe sganciate dalle forze aeree americane, perduti dai giapponesi 265 aerei e 40 navi, oltre naturalmente all'assoluto annientamento del sistema difensivo di terra. La base di Truk era oramai distrutta, tuttavia i giapponesi iniziarono un'opera di febbrile ricostruzione che indusse gli americani ad un nuovo attacco: 800 tonnellate di bombe cancellarono definitivamente questa base nipponica dallo scacchiere bellico alla fine del mese di aprile. La storia militare dell'atollo di Truk terminò con un totale di 416 aerei distrutti, 60 navi affondate e 423 costruzioni ridotte in macerie, oltre naturalmente alle migliaia di vite umane perdute, tra civili e militari, giapponesi ed indigeni. Truk capitolò definitivamente il 15 agosto del 1945 e da allora venne dichiarata "off limits" dalle autorità americane.


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    ............oggi...........


    Per 25 anni, dunque, la giungla tropicale ricoprì completamente i resti delle difese costiere, mentre le acque della laguna conservavano i navigli affondati nelle medesime condizioni in cui si trovavano nei tragici giorni dell'affondamento.
    E quello scenario si presenta oggi di fronte ai nostri occhi. Le navi adagiate sul fondo, con la catena dell'ancora che esce dalla cubia e si perde nella sabbia, le stive ricolme di merci, di carichi accuratamente sistemati. Le suppellettili sparse un po' ovunque. In alcune sale macchina troviamo l'armadietto degli utensili con le chiavi inglesi, il martello, le pinze, tutti al loro posto; oppure un tornio, un trapano a colonna, un generatore... Tutto come era quel giorno oltre cinquant'anni fa, tutto come alla fine della tragedia, quando la nave, lentamente, lasciava la superficie, l'atmosfera sconvolta dalle fiamme degli incendi, dai boati delle esplosioni, dalle urla degli uomini impazziti dal terrore, e si inabissava, appoggiandosi dolcemente sul sedimento del fondo in un mondo improvvisamente di silenzio e di quiete.
    Tutto come allora, è vero, ma con una differenza: qui sembra che la natura si sia impegnata ad adornare questo che può essere a ragione considerato un vero e proprio sacrario, un monumento in ricordo di quegli uomini che in quei giorni di guerra persero la vita.

    Inutile negarlo: lo spettacolo offerto dal relitto di una nave affondata è in genere uno spettacolo triste, angosciante. E questa è la prima sensazione che proviamo mentre pinneggiamo verso l'alto picco di carico della Fujikawa Maru. Ne scorgiamo il profilo, attraverso l'acqua carica di plancton. Appare tetro, lontano, adorno di alcionari che si lasciano penzolare, aggrappati alle strutture. Basta avvicinarsi un pochino, illuminare le lamiere da vicino, per lasciarsi andare alla meraviglia più totale all'incredibile spettacolo offerto dai brillanti colori delle creature marine. Sfumature di rosso, di giallo, di porpora che si sommano le une alle altre, che dipingono mirabilmente uno scenario altrimenti cupo e monocromatico. In breve ci abituiamo a questa strana contraddizione, a questi colori di gioia che convivono con queste testimonianze drammatiche. In breve il fascino dell'esplorazione, della scoperta ci conquista, e così ci insinuiamo nelle stive, negli alloggi, nelle sale macchine.
    Osserviamo con attenzione il fango che ricopre il fondo degli interni. Scopriamo piatti di porcellana, tazze, utensili da cucina. E poi maschere antigas, stivali in gomma, pneumatici per automobili ed autocarri. Addirittura una pila di vecchi dischi in bachelite, antichi 75 giri, con tanto di spartiti in discreto stato di conservazione. In un angolo, semisommerso dal fango, un teschio sembra osservarci, ammonirci di rispettare il teatro di un così grande dramma. Percorrendo un corridoio ci avviamo verso la luce. In breve ci troviamo in una grande stiva aperta. E' piena di casse di munizioni, di proiettili per fucili, mitragliatrici, cannoni. Un poco più lontano, lontano dalla luce che invade la stiva dalla grande apertura, troviamo la fusoliera di uno Zero. Ci affacciamo al cockpit, dove notiamo ancora tutti gli strumenti al loro posto. Ancora un corridoio, buio, angusto. Ancora una pallida luce lontana: in breve ci affacciamo all'ennesima sala macchina. Nuotiamo lungo le rampe di scale metalliche fino ai piani più bassi dove scopriamo due grandi manometri di pressione al loro posto: "Martelli Brothers", è scritto sul quadrante. Risaliamo verso il ponte, ancora un breve corridoio, ed eccoci nei locali della plancia di comando. Al centro, isolato, spicca il telegrafo di macchina, testimone della navigazione a motore di un'era, di un giorno ancora oggi non troppo lontano. Ci affacciamo alle grandi finestre della plancia. E' come affacciarci su di uno splendido giardino da una finestra incorniciata da grappoli di alcionari colorati. Da questa finestra usciamo dalla nave, sorvoliamo nell'acqua azzurra questo relitto che è ormai divenuto un reef corallino e lentamente ci avviamo verso la superficie.
    (nautica.it)



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    Edited by gheagabry - 22/9/2011, 23:04
     
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    TRUK

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    Immaginate di volare sopra il grande Oceano Pacifico. Immaginate di affacciarvi al finestrino e spingere lo sguardo lontano, di lasciarlo correre sul blu della superficie del mare, fino a scoprire una scintillante cintura di sabbia candida e palme dal verde brillante che imprigiona una laguna dal colore dello smeraldo.Una immagine di paradiso di questo Oceano che nel corso dell'ultima guerra divideva ed al tempo stesso univa due tra le maggiori potenze militari impegnate nell'orrendo conflitto.La grande America e l'agguerrito Giappone si affacciavano da sponde opposte sull'Oceano Pacifico, ed entrambi attraverso l'oceano lanciavano le flotte da guerra, gli uni volgendo le prue verso il sole del tramonto, gli altri verso quello dell'alba.Miglia e miglia di acqua salata dividevano le due superpotenze, ma al tempo stesso rappresentavano una via grande e sicura per portarsi reciprocamente offesa.Splendidi atolli corallini divennero perciò importanti teste di ponte, munite basi militari in cui si ammassavano uomini e mezzi, munizioni ed armi, medicinali e vestiario, destinati alle truppe o alle navi da combattimento che incrociavano al largo, alla ricerca del nemico.E' per questo che uno di quegli atolli che ora osserviamo dal finestrino dell'aereo, un giorno doveva avere l'aspetto dell'inferno, avvolto da fuoco e fiamme, devastato dagli orrori di una battaglia senza quartiere.Siamo nell'atollo di Truk, nel mare della Micronesia, una cintura di corallo che racchiude una decina di isole coperte da una giungla fittissima e le acque tranquille e poco profonde di una laguna interna.Le oltre cento miglia della circonferenza dell'atollo offrivano un formidabile riparo alla flotta mercantile giapponese di appoggio alle operazioni militari.Decine di navi alla fonda, cariche all'inverosimile attendevano di smistare il loro cargo, protette dai coralli dell'atollo dalla furia delle onde e dai cannoni da eventuali incursioni aeree americane.In quei giorni Truk sembrava davvero inespugnabile: solo quattro pass aperte nella barriera consentivano l'accesso a quelle acque tranquille.Pass guardate da lontano da potenti cannoni a lunga gittata in grado di distruggere qualsiasi nave nemica avesse tentato di forzare l'ingresso attraverso uno di quei passaggi obbligati.Intanto cento batterie contraeree controllavano i cieli, mentre un ingente numero di caccia era pronto al decollo per intercettare un'eventuale attacco di bombardieri nemici.

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    Eppure proprio su questo obiettivo apparentemente inespugnabile si concentrò l'attenzione dell'"Intelligence" americana.E la notte del 17 Febbraio 1944 il paradisiaco atollo si trasformò in un vero e proprio inferno.Una violentissima incursione di caccia Hellcat si scagliò contro gli aerei pronti al decollo e contro le postazioni antiaeree, seguita da un immane attacco di bombardieri che con tonnellate e tonnellate di bombe cancellarono l'atollo di Truk dallo scacchiere bellico del Pacifico.Le difese furono annientate e fu colato a picco tutto il naviglio della grande flotta mercantile con il suo prezioso carico.Le navi, ancora alla fonda, colarono a picco sul posto, nella medesima posizione in cui si trovavano.Costrette dalle pesanti catene delle ancore, inchiodate in quel punto preciso da una micidiale grandine di bombe, siluri e proiettili.1300 tonnellate di bombe furono lanciate nell'attacco.416 aerei giapponesi e 60 navi furono perduti, 423 costruzioni ridotte in macerie.Il 15 Agosto del 1945 la base giapponese di Truk capitolò, e da allora venne dichiarata "off limits".Per 25 anni l'atollo di Truk venne dunque dimenticato dal mondo.Per tutto quel tempo le navi dell'antica flotta giapponese riposarono sul fondo, mentre la vegetazione tropicale sferrava l'ultimo attacco alle fortificazioni giapponesi inglobandole completamente e cancellandone quasi ogni traccia.Intanto, sul fondo della laguna, erano i minuscoli polipi di corallo che aggredivano le lamiere dei bastimenti che offrivano loro un substrato rigido e lontano dal fango del fondo da colonizzare. Per venticinque anni, dunque, Le acque dell'oceano conservavano i navigli affondati nelle medesime condizioni in cui si trovavano nei tragici giorni dell'affondamento. E quello stesso scenario si presenta oggi di fronte ai nostri occhi.Le navi adagiate sul fondo, con la catena dell'ancora che esce dall'occhio di cubia e si perde lontano, sulla sabbia, oltre i limiti della visibilità.Le stive ricolme di merci, di carichi accuratamente sistemati, oggi nelle stesse posizioni in cui furono disposti oramai più di 50 anni fa. Suppellettili sono sparse ovunque sul fondale, sulle strutture dei ponti devastati dalle bombe.Tutto è come quel giorno di oltre cinquant'anni fa, tutto come alla fine di quella tragedia, quando la nave lentamente lasciava la superficie. Mentre l'atmosfera era sconvolta dalle fiamme degli incendi, dal fragore delle esplosioni, dalle urla degli uomini impazziti dal terrore e la nave si inabissava, appoggiandosi dolcemente sul sedimento del fondo, in un mondo improvvisamente di silenzio e di quiete. Tutto è come allora, è vero, ma con una differenza: qui sembra che la natura si sia impegnata ad adornare questo che può essere a ragione considerato un vero e proprio sacrario, un monumento in ricordo di tutti quegli uomini che in quei giorni di guerra persero la vita.

    Zero

    Oggi possiamo visitare queste antiche navi affondate. Non serve essere subacquei espertissimi.E' sufficiente aver conseguito un qualsiasi brevetto di sub per lanciarsi nella coinvolgente avventura dell'esplorazione di questi antichi relitti.Le profondità sono sempre piuttosto limitate. Le acque della laguna ci proteggono dalle onde e non sono interessate da intense correnti.La visibilità è di solito ottima e la temperatura piacevolmente elevata. E' inutile negare che lo spettacolo offerto da una nave affondata è comunque uno spettacolo triste, talvolta angosciante.E questa fu la prima sensazione che provammo mentre pinneggiavamo verso l'alto picco di carico della Fujikawa Maru.Il suo profilo ci è apparso attraverso l'acqua carica di plancton.Tetro, lontano, grondante di alcionari che si lasciavano penzolare, aggrappati alle strutture.Ma fu sufficiente avvicinarci un pochino, illuminare da vicino le lamiere con un potente faro subacqueo, per lasciarsi andare alla meraviglia più totale, all'incredibile spettacolo offerto dai brillanti colori delle creature marine.Sfumature di giallo, di rosso, di porpora, che si sommavano le une alle altre, che dipingevano mirabilmente uno scenario altrimenti cupo e monocromatico. Rapidamente ci abituammo a questa strana contraddizione, a questi colori di gioia che convivono con queste testimonianze drammatiche.Costruzioni di corallo modificano le strutture metalliche, ne divengono parte, ne stravolgono le forme. Ci siamo trovati a pinneggiare sui ponti delle grandi navi.Ingombri di lamiere contorte, di argani, di cavi d'acciaio. E ancora i vividi colori delle spugne, dei coralli, degli alcionari che avvolgevano le battaiole, le bitte, i picchi di carico.Affascinati da questo incredibile ed insolito ambiente, ci siamo trovati a nuotare lungo i corridoi, ad affacciarci all'interno delle navi attraverso gli oblò.Un giorno esplorando una nave siamo giunti all'altezza della plancia di comando.I vetri delle grandi finestre non erano più al loro posto e così ci siamo potuti agevolmente spingere all'interno. Di fronte a noi abbiamo trovato il telegrafo di macchina: testimonianza di un antico modo di andare per mare.A quel tempo azionando la leva del telegrafo si trasmetteva alla sala macchine l'ordine di rallentare i motori, di accelerarli, di fare macchina indietro.

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    Oggi, sulle navi moderne, l'ufficiale al comando può agire direttamente sui potenti motori mediante comandi riportati in plancia. Dal ponte di comando ci siamo lasciati andare verso il basso.Con attenzione siamo scivolati sempre più in profondità attraverso stretti passaggi, nuotando a testa in basso attraverso le anguste scale d'accesso.Durante il percorso la luce della torcia ha scoperto resti di ceramica, piatti interi, una grande lanterna per terra, in un alloggio.Continuammo a spingerci sempre più in profondità verso l'interno del relitto, a scendere decisi sempre più verso l'oscurità, attraversando cabine e corridoi.Fino a quando non fummo attratti da una luminosità lontana.Istintivamente ci siamo avviati in quella direzione, ritrovandoci ben presto all'interno di una enorme stiva.La luce filtrava dall'alto scomponendosi in fasci di raggi azzurrognoli.Ci muovevamo cautamente, attenti a non sollevare con le pinne o con un movimento maldestro la coltre di sottilissimo limo che ricopriva ogni cosa e che avrebbe in un attimo azzerato la visibilità.Ad un tratto un bagliore attirò la nostra attenzione: una grande quantità di bottiglie si trovavano ammassate in un angolo.Bottiglie di vetro marrone, ancora al loro posto nelle casse nelle quali erano state stivate, impilate le une sulle altre.Più la altre bottiglie, più piccole.Di certo bottiglie di medicinali, come confermato più tardi dalla scoperta di casse colme di bendaggi.Attraversammo una paratia e la natura del carico cambiò completamente.Ecco qui casse e casse di munizioni, di proiettili di ogni tipo.Un carico enorme che ci da un'idea dello sforzo che il Giappone stava mettendo nella guerra.Poco lontano scopriamo la fusoliera di un caccia Zero, con le ali smontate e appoggiate in terra a breve distanza.Ci affacciamo all'interno della cabina del pilota, osserviamo il sedile, gli strumenti di bordo, ancora tutti al loro posto.Ma ancora un raggio di luce ci attirava verso un punto isolato nell'oscurità.Superammo un paio di corridoi per arrivare ad affacciarci da alcune grandi aperture nella fiancata.Fu come affacciarsi su di uno splendido giardino da una finestra incorniciata da grappoli da alcionari colorati.Il rassicurante azzurro tenue del mare dei tropici ci attirava irresistibilmente.E così passammo attraverso la finestra e uscimmo dalla nave, per sorvolarne il relitto, ormai divenuto un vero e proprio reef corallino e, lentamente avviarci verso la superficie.Gli oggetti più bizzarri da cercare sui relittiSe un giorno avrete la ventura di trovarvi a fare immersione sui relitti della laguna di Truk, non dimenticate di aguzzare la vista, alla ricerca di quello che può essere il reperto più bizzarro.Nulla è stato toccato dopo i naufragi, tutto è ancora al proprio posto.Un po' ovunque troverete maschere antigas, munizioni in gran copia, automezzi.Ma non stupitevi di trovare tazze e piatti, bicchieri, utensili da cucina.Noi ci siamo spinti nella sala macchine e abbiamo trovato un'officina.Attaccati al muro, ancora al proprio posto, c'erano martelli, cacciaviti, chiavi inglesi.E poco lontano un tornio ed un trapano a colonna.Ci siamo stupiti di trovare un manometro con scritte i Italiano: Fratelli Martelli, era scritto sul quadrante dello strumento.Ma quello che ci ha sorpreso di più è stata la scoperta di una pila di vecchi dischi a 75 giri e di un buon numero di spartiti musicali.Datevi da fare, allora, alla ricerca del reperto più curioso, ma non dimenticate: i fondali della laguna di Truk sono considerati un vero e proprioMuseo.Guardare e non toccare assolutamente nulla, è dunque la regola principale.



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    PUBBLICATO DA AEROSTORIA
     
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    Storie di relitti

    Il " CROESUS"



    Nel 1853, approfittando dell’inarrestabile decadenza dell’Impero Ottomano, la Russia aveva dichiarato guerra alla Turchia, contando anche sul possibile intervento delle grandi potenze europee, interessate alla spartizione degli estesi territori del fatiscente impero, considerato ormai “il malato d’Europa”. Risultavano però evidenti le mire dello Zar Nicola I sui Balcani, per assicurarsi uno sbocco sul Mediterraneo. Tali propositi erano invece in palese contrasto con gli interessi di Francia e Inghilterra che, dimentiche della loro secolare inimicizia, entrarono in conflitto in sostegno alla Turchia, per contrastare l’espansione della Russia, mentre l’Impero Austro-Ungarico si manteneva neutrale. Di questa situazione seppe approfittare, con lungimirante capacità politica, il Primo Ministro del piccolo Regno di Sardegna, Camillo Benso conte di Cavour, che riuscì a convincere il sovrano, Vittorio Emanuele II, ad entrare nel conflitto in alleanza con Francia e Inghilterra.


    ....Un secolo e mezzo fa, a San Fruttuoso di Camogli....



    Aprile 1855; nel porto di Genova, alla presenza di Cavour e Rattazzi, fervevano i preparativi per gli imbarchi su bastimenti inglesi dell’esercito piemontese destinato in Crimea.
    Il 24 mattina salpò il “Croesus” grande nave a propulsione mista (vela e motore) carica di ufficiali e soldati di sussistenza, medici, infermieri, medicinali anticolera e attrezzature varie di un ospedale da campo da cento letti; e poi muli e cavalli, un milione e quattrocento razioni di viveri, acquavite, fieno, carbon fossile come carburante: doveva rimorchiare il “Pedestrian”, bastimento a vela che trasportava munizioni e una Batteria da campagna.
    Il Comandante del Croesus era John Vine Hall, uno dei capitani più esperti della General Screw Steam Shipping Company, compagnia inglese che armava altre dieci unità e aveva noleggiato il Croesus al governo di Sua Maestà, per l’impiego in Crimea.
    Il Croesus, che aveva un equipaggio di 180 unità, prima di questa missione aveva già effettuato diversi viaggi di trasporto emigranti per le Americhe e l’Australia.
    Dopo circa due ore di navigazione tranquilla, improvvisamente un grido d’allarme squarcia l’aria: “fuoco a bordo!”. Le fiamme si erano sviluppate nel carbonile e si stavano estendendo rapidamente. Il Comandante Hall ordina immediatamente di tagliare il cavo di rimorchio del Pedestrian, carico di esplosivi, che ritorna a Genova, non senza problemi a causa dei danni all’alberatura subiti alla partenza.
    Il carbon fossile si era evidentemente incendiato per autocombustione e purtroppo, allora, siamo ai primi tempi della navigazione a vapore, le stive e i carbonili non erano ancora provvisti di impianti di spegnimento a vapore o gas inerte che, saturando l’ambiente, eliminano l’ossigeno e provocano lo spegnimento dell’incendio.
    Ben presto il Comandante Hall si rende conto che il fuoco è incontrollabile e non può essere domato con le sole pompe di bordo.
    Ordina quindi il gettito a mare di tutti gli esplosivi e munizioni, che generalmente in questi viaggi venivano stivati sopra coperta, per evitare un grave peggioramento della situazione.
    Possiamo immaginare la confusione che si sta creando a bordo: la brezza marina obbliga a forzate e rapide manovre delle vele, ormai l’unico mezzo di propulsione, ma contemporaneamente contribuisce alla rapida propagazione dell’incendio.
    Gli ufficiali impartiscono a gran voce ordini in inglese; i soldati piemontesi e sardi, per la maggior parte novizi del mare, sono impauriti, non capiscono cosa sta succedendo e cosa debbono fare, sono impotenti e confusi di fronte a tanto caos.
    Improvvisamente dinanzi alla nostra costa si sta consumando un’inaspettata e tremenda tragedia!
    Il Comandante Hall, visto il peggiorare della situazione, decide di avvicinasi alla costa al fine di poter arenare la nave e tentare così di salvare gran parte dello scafo e del carico, ma soprattutto l’equipaggio e quei soldati che non sanno nuotare e che le loro pesanti uniformi potrebbero trascinare velocemente a fondo. E’ quasi mezzogiorno e purtroppo la scoscesa costa di Portofino non fa intravedere nessun punto di facile approdo.
    Il Comandante Hall dirige allora verso la piccola baia di San Fruttuoso, dove Maria, Caterina e gli altri abitanti del borgo seguono con trepidazione quella navigazione morente. La nave va ad arenarsi sulla punta che divide le due spiagge del borgo.



    Sicuramente la scena deve apparire infernale: l’enorme nave che brucia, le concitate grida di aiuto in lingue e dialetti sconosciuti che giungono da bordo, soldati, medici ed equipaggio che si gettano in mare, altri invece meno temerari che restano a bordo in attesa di soccorsi.
    E questi non si fanno attendere: dalla spiaggia vengono messi a mare gli unici due gozzi disponibili, uno governato dalle due sorelle e l’altro dal marito di Maria, Giovanni Oneto. I due mezzi, instancabili, compiono velocemente innumerevoli viaggi per trasportare i naufraghi da quel rogo alla salvezza. Purtroppo durante uno di questi tragitti, il gozzo delle sorelle Avegno viene afferrato da troppe mani di naufragi disperati e rovesciato. Maria e Caterina, abilissime nuotatrici, sbalzate in mare tentano ancora di portare in salvo i naufraghi che si sono aggrappati alle loro vesti, ma vengono trascinate a fondo.
    Maria non emergerà più, mentre Caterina, semiaffogata, riuscirà a guadagnare la riva con l’aiuto di un marinaio inglese.
    I soccorsi da Camogli giungono nel primo pomeriggio e continuano sino a sera quando tutti gli uomini sono evacuati dalla nave o raccolti in mare. Le autorità coordinano il rientro dei soldati e dell’equipaggio a Recco e successivamente a Genova. Sulla spiaggia si contano cinque morti, ma nei giorni successivi il mare restituirà altre salme.
    Le vittime del naufragio saranno 24 e verranno sepolte nel borgo, alle spalle dell’abbazia.



    Il Croesus giacerà in fiamme nella baia di San Fruttuoso ancora per alcuni giorni, rendendo così impossibile ogni operazione di recupero della nave e di parte del suo carico; poi una tempesta lo spezzerà in due tronconi facendolo definitivamente affondare. Il suo ingombrante relitto ridotto dalle fiamme a scheletro, venne venduto il 14 maggio per 100 mila lire a un commerciante di ghisa, ma dieci giorni dopo un’altra tempesta lo fece affondare definitivamente.

    Solo vent’anni dopo un gruppo di recupero, formato da palombari, tenterà di far riaffiorare tutto il materiale possibile, scampato all’incendio e alla corrosione del mare, compresa la preziosa motrice.
    Un altro recupero verrà effettuato nel 1937, nel periodo delle sanzioni, per la necessità di ottenere materiali ferrosi per l’industria. Ci sono rapporti che indicano che nel 1970, a 10 metri di profondità, fosse ancora possibile vedere tracce di una lunga carena. Oggi non resta più nulla di quel terribile disastro.
    Al Museo Marinaro “G.B. Ferrari” di Camogli è conservato il sestante del Croesus, di fabbricazione inglese, un prezioso reperto contorto dall’enorme calore provocato dall’incendio.

    Grazie alle due eroine di San Fruttuoso le vittime furono relativamente poche; in seguito il Corriere Mercantile aprì una sottoscrizione in favore della famiglia Avegno, l’Inghilterra la risarcì con 1500 franchi e insignì Maria della prestigiosa Victoria Cross seguito a ruota da Cavour con la Medaglia d’Oro alla Memoria (fu la prima donna italiana a riceverla); infine i principi Doria disposero che Maria (e poi Caterina quando in seguito morì, sempre per le conseguenze della faticosissima impresa) venissero sepolte con tutti gli onori nella loro cripta nell’abbazia sanfruttuosina dove tuttora riposano. Il nome di Maria Avegno è scritto persino nel libro d’oro della Cattedrale di Notre Dame a Parigi: abbiamo infatti una nota scritta a S.E. il ministro degli Interni del Regno di Sardegna da monsieur Cormenin, fondatore di un’associazione che ha lo scopo di celebrare una messa quotidiana, in una cappella della Cattedrale, in suffragio di tutti coloro che sono morti per salvare la vita del prossimo.
    (dal web)



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  6. gheagabry
     
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    Storia di relitti


    SS THISTLEGORM



    Thistlegorm è uno dei relitti più famosi al mondo e Ras Mohammed offre tra le visioni di vita marina migliori di tutto il Mar Rosso.

    Sprofondato nel 1941, Thistlegorm è andato “perduto” fino al 1955, quando venne riscoperto da Jacques Cousteau in una delle sue prime esplorazioni del Mar Rosso. Poi è andato “perduto” di nuovo ed è stato riscoperto nel 1992 per diventare un’attrazione per i sub nei giorni nostri.
    Thistlegorm è una nave britannica da rifornimento della Seconda Guerra Mondiale che si era fermata all’ancora in attesa di istruzioni per passare attraverso il Canale di Suez e rifornire le truppe britanniche in Nord AFRICA. Non l’aveva mai fatto. Bombardieri tedeschi di lungo raggio fuori Creta stavano perlustrando l’area e avvistando la grande nave liberarono le proprie bombe, colpendo direttamente la stiva delle munizioni, facendo esplodere la nave in due, affondandola all’istante e uccidendo 9 persone dell’equipaggio. Ora essa si trova eretta ad una profondità massima di 31 metri con gran parte del suo carico intatto.



    ....racconto di un'immersione.....


    Una volta pronti per la prima immersione ci si tuffa in acqua e in fila come grani del rosario ci si calerà lungo una cima che dalla boa galleggiante arriva direttamente sulla prua della nave.
    Personalmente ho avuto la fortuna di andare tre volte su questo meraviglioso relitto e tutte le volte la prua della nave mi è apparsa davanti all’improvviso e nonostante sapessi esattamente dove stessi andando, l’emozione ogni volta è stata forte. Sarà che calandosi lungo la cima si tiene la testa in alto e quindi lo sguardo è limitato parzialmente dalla maschera. Sarà che nei primi minuti di un’immersione siamo sempre attenti al computer, alla macchina fotografica, a non andare addosso a chi ci precede lungo la cima di discesa e a non prendersi pinnate da chi ci segue. Sarà quello che volete, ma tutte le volte di colpo, una incerta macchia scura diventa improvvisamente la prua della nave. Enorme, solenne, incredibilmente silenziosa. L’unico suono percepito è quello dell’aria aspirata dalla bombola e soffiata dall’erogatore. Sembra incredibile che attorno alla nave ci sia quel silenzio. Una nave perfettamente dritta, è molto facile immaginarla attraccata a un molo mentre effettua le operazioni di carico e scarico. E intanto siamo scesi di qualche altro metro. Un carangide ci passa vicino, una coppia di pesci farfalla si lascia cullare dalla corrente.
    La prima immersione servirà a girare intorno alla nave guardandone l’esterno. Dal meccanismo salpa ancora di prua voliamo letteralmente sul ponte della nave. Mai come su questo relitto facendo un’immersione si ha la sensazione di volare. Voliamo sopra la nave, sopra siluri inesplosi, sopra il ponte di comando. A destra e a sinistra vagoni di treni, gru per caricare le merci a bordo.
    Particolari. Dettagli. Un pesce luna, la ruota di un vagone, una cernia, una scala. Chi ha l’hobby della fotografia non riesce a staccare il dito dal pulsante dello scatto. Chi ha la telecamera subacquea ha l’impressione di essere nel più fantastico set subacqueo del mondo!



    Il nostro volo prevede una planata, si scende lungo la fiancata della nave, si passa sotto. E’ quasi incredibile! Nonostante la nave sia in posizione orizzontale timone e eliche sono perfettamente visibili. L’esplosione che ha quasi spezzato in due la nave, ha consentito alla poppa di ruotare di circa 40 gradi, lasciano in vista timone e eliche. Enormi eliche, impressionanti! Sono immobili ma ancora bellissime, ci si aspetta che da un momento all’altro possano iniziare a ruotare sollevando dall’abisso tutta la nave.
    Si ruota attorno alla poppa e si risale a bordo. E ci appare subito un bellissimo cannoncino, molti si siedono sul seggiolino che usava l’addetto al fuoco. E poco più in là una mitragliatrice pesante. Scatti e scatti, il dito sul pulsante di scatto non riesce a fermarsi. Perdiamo la cognizione del tempo, della profondità. Se non ci fossero le guide gli incidenti da decompressione sarebbero quotidiani. Per fortuna siamo in colonna, dobbiamo procedere. Ecco lo squarcio provocato dalla bomba, la nave in quel punto mostra la ferita che l’ha resa immortale. Quasi sbalzato fuori dalla stiva ma ancora tenacemente abbarbicato alla nave un carro armato leggero capovolto. I cingoli, la torretta nascosta. Lo sguardo si allontana dalla nave e un’irreale locomotiva solca perfettamente posizionata la sabbia del fondo pochi metri più avanti. Una murena, un banco di maestosi pesci luna ci ricordano che siamo nel Mar Rosso. Risaliamo sul ponte della nave e ricominciamo a volare percorrendo a ritroso la strada dell’andata. La guida ci fa cenno di muoverci, uno sguardo al computer ci dice che siamo immersi da 45 minuti! QUARANTACINQUE????? Ma se sono appena arrivato?!?! sicuramente il computer si è guastato! Porca miseria, ci mancava solo questa!! E quello cosa stressa?? Pechè ci manda alla cima di risalita?? Devo ancora fare delle foto!! Risalgo lungo la cima fino a tre metri di profondità. Tutti attaccati alla cima di risalita, ci guardiamo e a gesti cerchiamo di farci capire! Avremmo mille cose da dire, ma l’erogatore ci impedisce di parlare. Aria! Porca miseria, sono in riserva di aria! Sento che faccio fatica a respirare. Non è più una cosa automatica, devo succhiare letteralmente l’aria fuori dalla bombola! Meno male che la guida ci ha fatti risalire in tempo!!!
    Tre minuti di sosta e poi su, verso la luce, verso l’aria! Tolgo la maschera e intorno a me decine di voci eccitate: hai visto questo? hai visto quello? come non lo hai visto, era lì? come sono venute le foto? Hai fotografato la murena che usciva dalla bocca del cannone. Eccitazione pura!
    Questo è il Thistlegorm. E per ora abbiamo visto solo la parte esterna. Ora si sale a bordo, si mangia qualcosa e tra un paio di ore l’avventura ricomincia. Le stive col loro incredibile carico ci aspettano!
    (I MARCO63, dal web)




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  7. gheagabry
     
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    RELITTI nel MAR BALTICO



    La Svezia ha una storia interessante con un periodo di grande potenza navale tra il 1611-1721, e il conseguente affondamento di numerosi vascelli (tra cui Ricksnyckeln, Riksäpplet e Vasa).
    Sono migliaia di vascelli lungo le coste svedesi, circa 9.000-10.000 affondamenti registrati e documentati di navi sia in legno che in acciaio. I ricercatori stimano un totale di 40.000 relitti localizzati nel Mar Baltico che vanta condizioni ottimali, per cui gli scafi sono rimasti pressoché inalterati grazie ai bassi livelli di salinità e alle qualità di preservazione dell’acqua.
    E' molto affascinante che la storia si sia fermata esattamente quando sono affondati i vascelli lasciando tracce preziose sulle cause di affondamento e sulla vita di bordo. Andare alla ricerca di un tesoro sommerso è come viaggiare nella macchina del tempo.

    Gli ingegneri che sorvegliano il Mar Baltico per il progetto di un gasdotto hanno scoperto un vero e proprio cimitero di navi sommerse, con nove relitti storici affondati in un tratto relativamente raccolto di fondale; tra essi una “longboat” vichinga vecchia di 1000 anni e diverse navi risalenti a un periodo che va dal XVI al XVIII secolo. La scoperta è avvenuta vicino all’isola svedese di Gotland ed è stata effettuata mediante scansioni sonar del fondale...“Tre dei relitti sono di grande valore storico e hanno ancora i loro scafi completamente intatti. E ciò è davvero molto insolito”, ha dichiarato Peter Norman, archeologo dell’Amministrazione del patrimonio nazionale svedese.
    I relitti sono in buone condizioni poiché si trovano a una profondità di oltre 100 metri, dove le acque che li circondano hanno caratteristiche ideali per la conservazione dei materiali organici come il legno, ed è proprio questo che ha contribuito a garantirne la buona conservazione. Inoltre, Norman ha spiegato come nel Mar Baltico non vivano le teredini, quegli animali marini simili a che si nutrono del legno delle navi, soprattutto quelle affondate. (da Redazione il 11 maggio 2010)



    "Una squadra di sommozzatori stava effettuando ricerche nel mar Baltico al largo delle isole Åland (finlandesi, ma abitate da una minoranza svedese) quando il 6 luglio 2010 scopre un relitto di una nave sconosciuta: sui resti non ci sono indicazioni per risalire al nome dell'imbarcazione. La visibilità sul fondo a 55 metri di profondità è bassissima: «Meno di un metro, non si vedeva niente. Allora ho trovato una bottiglia e l'ho portata in superficie, sperando che ci potesse dare un'indicazione», ha raccontato Christian Ekström, a capo della squadra di subacquei. «Sul tappo c'era il simbolo di un'ancora e, dopo alcune ricerche, la Moët & Chandon ci ha detto che un tempo la Veuve Clicquot usava questo simbolo per i suoi prodotti ed era l'unica marca di Champagne a utilizzarlo. Allora abbiamo chiamato un'enologa per vedere se era ancora bevibile. Non solo lo era, ma la conservazione perfetta (assenza di luce, temperature basse e costanti sul fondo del mare) gli ha permesso di mantenere tutte le sue caratteristiche». Queste bottiglie però potrebbero avere un'importanza non solo enologica, ma anche storica. «Potrebbe addirittura trattarsi di un dono del re di Francia Luigi XVI alla casa regnante russa», spiega l'enologa. «Moët ha trovato documenti che parlano di una spedizione che non arrivò mai a destinazione. Se la data e la provenienza delle bottiglie ritrovate nel Baltico fossero confermate, si tratterebbe del più vecchio Champagne del mondo».....«La Veuve Clicquot cominciò la sua produzione nel 1772 e le prime annate sono state pronte una decina di anni dopo, quindi non più tardi del 1782», continua Ekström. «Ma queste bottiglie non possono essere datate dopo il 1788-1789, perché sappiamo che con la Rivoluzione francese si arrestò la produzione. Magari si tratta proprio delle prime bottiglie prodotte e sarebbe fantastico averle trovate». Sul tappo si riesce a leggere ancora la scritta «Juclar», i laghi di Andorra da dove proveniva il sughero. Finora il più vecchio Champagne «bevibile» è un Perrier-Jouet del 1825, stappato l'anno scorso da alcuni enologi in Gran Bretagna. «Di questo del Baltico ne ho conservato ancora un bicchiere che tengo in frigorifero e non riesco a staccarmi da lui: ogni cinque minuti vado là a inebriarmi con il suo aroma», ha confessato l'enologa Ella Grüssner Cromwell-Morgan, che ha assaggiato il vino e compiuto ricerche storiche. «Il suo colore è oro ambrato. Il profumo è molto intenso, con note di tabacco, ma anche di uva e di frutti bianchi, di rovere e idromele. Il boccato è veramente sorprendente, molto zuccherino ma allo stesso tempo con la giusta acidità. Lo si spiega con il fatto che a quel tempo lo Champagne era molto meno secco di oggi perché non si riusciva a gestire bene il processo di fermentazione», spiega l'enologa."
    (Paolo Virtuani)


    ...il " VASA"



    Stoccolma, 10 agosto 1628. L’aria è densa, il sudore della ciurma si mescola all’odore del legno e delle corde strette tra loro, le voci di migliaia di persone si accalcano lungo il porto fino a perdersi nel vento e in quella quiete apparente del mare. La nave da guerra più imponente della marina svedese è lì, in disparte, mentre gli armatori si danno da fare a caricare i suoi sessantaquattro cannoni cadenzando lo sforzo fisico con un ritornello che ha il sapore di un epoca di cui non si è certi sia mai esistita.
    La parola sfugge al controllo del tempo e dello sguardo severo di una tradizione di mercanti che ricorda ancora cosa vuol dire stare attenti al linguaggio del mare. Di sottecchi un uomo seduto sulla banchina guardando quelle onde increspate da un aria testarda chiude gli occhi immaginando il suo viso perdersi oltre quell’orizzonte che solo i marinai senza una famiglia osano sfidare. La Polonia di Sigismondo è lontana ma quelle venti navi da guerra avevano la sicurezza e la temperanza di un vichingo che ha già visto cadere in mare molti dei suoi più valorosi compagni senza smettere di guardare negli occhi il nemico.
    Poco distante da quel caos di luci, rumori stridenti e urla, Gustav II re di Svezia guarda con fascino e orgoglio quel vascello che lui ha desiderato, per presentarsi davanti a suo cugino con il vascello da guerra più imponente del pianeta, chiamando a corte un costruttore navale olandese e affiancandogli oltre quattrocento persone tra maestri d’ascia, carpentieri, scultori, pittori, vetrai, velai, artigiani da ogni parte. Dopo due anni le sue vele sono spiegate e pronte a impreziosire la sala dei trofei con la prima vittoria e a questo pensiero il reale lascia trapelare dal suo sguardo arcigno una bozza di sorriso.

    Stoccolma, 10 settembre 2009. L’aria è densa, i postumi di un’estate particolarmente calda non vengono spazzati via neanche in questo angolo di terra ritagliata a sud dell’Artico. Ho davanti a me lo scheletro di un veliero gigantesco, straordinariamente affascinante e mi sento un privilegiato anche solo poterlo ammirare con i miei occhi. La prua taglia l’aria come la punta di una sciabola che affonda nel petto del suo avversario con eleganza e rapidità. Ai suoi piedi un’ancora scolpita dalla salsedine è sdraiata su un manto di marmo che rende profondo un mare che non c’è.Il Vasa, leggo in una locandina illustrativa, ha rivisto la luce il 24 aprile 1961 restando per 333 anni nel fondale marino senza che nessuno si accorgesse di lui. Migliaia di oggetti di arredamento in legno, oltre settecento sculture ad ornare un vascello che doveva dare lustro alla monarchia svedese dell’epoca, sono i tasselli preziosi di quel mosaico storico artistico che non lasciano traccia nella nostra cultura della mediocrità ma che se sai cercare e sei curioso ti arricchiscono.
    Ogni oggetto salvato dalla ruggine e dallo zolfo ha un segreto da suggerire, un pettegolezzo da liberare, un aneddoto da condividere con chi per un istante resta a guardarlo e io avido come sono, decido di dedicare ad ognuno di loro il tempo che basta per calamitare queste arcane confidenze... Quell’odore di legno e di mare, i miei occhi iniziano a viaggiare all’interno delle stanze di stiva della nave per poi salire vorticosamente fin sopra il ponte, il vento mi stordisce per un attimo finché le vele si spiegano, si gonfiano e mi scaraventano contro una passerella di legno.
    Mi guardo indietro, la costa non è molto distante ma già le voci ovattate si allontanano lasciandomi da solo. La bocca del porto si sta chiudendo alle mie spalle quando una raffica di vento piega ancora una volta sul fianco il vascello. Ondeggio, il mare mi raddrizza, ancora una raffica, mi piego così tanto da poter sfiorare con le dita la schiuma nera delle onde. L’acqua inizia a insinuarsi nelle aperture sui fianchi dei cannoni, sento che l’acqua ormai ha preso la direzione del timone e trascina a fondo il Vasa. Nel grembo del veliero, in quel limbo di immobilità e leggerezza non cerco più la via del ritorno.
    ( Stefano Coppi, il reporter)




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  8. gheagabry
     
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    Il relitto VASA


    Il Museo Vasa rappresenta allo stato attuale il museo più visitato dell’intera Scandinavia....La realizzazione del museo è strettamente connessa ad un ritrovamento eccezionale, quello del celebre relitto del galeone Vasa.
    La storia del galeone Vasa è una storia duplice: da una parte testimonia la grandezza dell’architettura navale svedese della prima metà del XVII secolo, dall’altra attesta senza ombra di dubbio l’estremo amore del popolo svedese per le sue radici, un amore testimoniato da numerose e fortunate iniziative tese alla valorizzazione del patrimonio culturale svedese. Il Vasa non era solo un galeone: era il sogno di Re Gustavo II Adolfo di Svezia.
    Dotato di 64 cannoni, il galeone rientrava perfettamente nella politica del giovane re svedese, intenzionato a potenziare il controllo del Mar Baltico e sventare di conseguenza il pericolo danese attraverso un programma di costruzione navale senza precedenti. La grandezza del Vasa è soprattutto figlia di una tecnica costruttiva di derivazione olandese ed inglese, ovvero dei due paesi che agli inizi del XVII secolo avevano una tradizione consolidata ed affermata nel campo navale. Il materiale di costruzione era legno di quercia, proveniente dall’ isola di Angso e dalla costa di Smaland. La nave misurava 69 metri, era larga 11.7 metri e alta 52, per un peso complessivo di circa 1210 tonnellate; artisti intagliatori e pittori si incaricarono di ornare riccamente la nave, spesso rappresentando in chiave simbolica i segni del potere regio.


    Ma la storia del Vasa è soprattutto la storia di un sogno di gloria infranto.
    Il 10 agosto 1628 il Vasa partì per il suo viaggio inaugurale dal porto di Stoccolma ma dopo aver percorso poche miglia si inclinò sotto una raffica di vento, l'acqua entrò dai portelli dei cannoni facendola capovolgere ed affondare nel mar Baltico. Le vittime del naufragio furono circa 50: una disfatta del genere portò in poco tempo all’apertura di un’ inchiesta regia mirata a comprendere le cause dell’affondamento, ma nessun risultato in tal senso fu mai raggiunto. Parte dei preziosi cannoni del Vasa furono recuperati nell'ottobre del 1663, attraverso l’uso di una campana subacquea, un intervento che purtroppo implicò una parziale distruzione di ponti e delle strutture sovrastanti. Il relitto fu recuperato in tutte le sue parti solo nel 1961, ed in quella occasione si trovarono più di 26.000 manufatti, tra i quali ricordiamo vasellame, cristallerie, accessori di abbigliamento, dotazione di sala e di cucina, attrezzature militari. Un vero tesoro d’informazioni per la ricerca archeologica mondiale.
    (Valentina Pascal)



    Per poter meglio comprendere i motivi per i quali una grande nave come il Wasa forte di 64 bocche da fuoco, 57 metri di lunghezza tra le perpendicolari ed un albero maestro alto più di 50 metri dalla linea d'acqua, possa avere avuto una vita così breve, sarà bene rammentare a quale livello tecnico ed organizzativo erano giunti i cantieri navali dei primi anni del XVII secolo. Non esistevano ancora ne architetti navali ne regole codificate e la costruzione di una nave era affidata, qualunque ne fosse la grandezza, ad un maestro d'ascia.
    Questo provvedeva ad impostare la chiglia seguendo le indicazioni base che venivano fornite dal committente che chiedeva una nave con le caratteristiche navali e potenzialità di fuoco superiori a quelle nemiche, che spesso erano semplici indicazioni di massima.
    Sulla chiglia proseguiva edificando la nave e basandosi quasi esclusivamente sulla propria esperienza e su semplici calcoli empirici. Non esisteva ancora l'uso di disegnare le navi e calcolarle e neppure l'abitudine, venuta in uso in epoca successiva, di costruirne il modello da sottoporre all'approvazione del committente. Perciò il maestro d'ascia applicava le regole da lui conosciute per la costruzione di navi precedenti di una medesima categoria.
    Quando poi, come nel caso del Wasa, si intendeva costruire una nave più grande o più veloce delle precedenti, mancava al maestro d'ascia anche l'esperienza fatta su navi similari e doveva pertanto procedere per tentativi. Tutto ciò non deve in alcun modo sminuire la figura del maestro d'ascia il quale spesso aveva delle intuizioni sorprendenti e risolveva dei problemi costruttivi di considerevole complessità. Anzi, oggi si solleva il dubbio che un architetto o ingegnere navale possa realizzare una costruzione navale senza l'ausilio del progetto.

    E nel caso del Wasa si trattava veramente di una nave fuori del comune, considerando che nel 1637 veniva costruita in Inghilterra la Sovereign of the seas che costò una cifra notevole da costringere all'applicazione di una forte quanto impopolare tassa per il suo pagamento e che la Victory, costruita un secolo e mezzo più tardi, era lunga soltanto 10 metri più del Wasa, si avrà l'idea sufficientemente precisa delle dimensioni del Wasa rapportate alla sua epoca.
    La sua costruzione fu ordinata da Gustavo Adolfo II re di Svezia che, temendo una guerra da parte del Regno di Prussia, intendeva con questa grande nave con un elevato volume di fuoco dimostrare la propria supremazia e destare timore all'eventuale futuro nemico. Quindi il Wasa era armata con 64 cannoni di bronzo, mentre per la sua costruzione erano stati impiegati legnami della migliore qualità ricavati con l'abbattimento di 16 ettari di foreste. Il gran velaccio di maestra raggiungeva la considerevole altezza di 50 metri dalla linea di galleggiamento, che in proporzione alle case molto basse del porto di Stoccolma, proponeva uno spettacolo impressionante.
    La nave prevedeva 133 uomini di equipaggio e 300 fanti di marina. Dislocava 1400 tonnellate ed era riccamente decorata e per quell'epoca rappresentava non solo la più grande nave della flotta svedese ma anche una delle più grandi navi esistenti.

    Il varo avvenne nel pomeriggio del 10 agosto 1628 sotto lo sguardo ammirato di tutta la popolazione di Stoccolma, il Wasa salpava le sue ancore accingendosi al suo primo viaggio in mare aperto. Il Capitano di vascello Serin Hannson si accingeva alla cena soddisfatto di culminare la sua carriera al comando dell'ammiraglia della flotta di sua Maestà Re Gustavo Adolfo II mentre il Wasa randeggiava lungo il Sodermalm.
    La navigazione procedeva tranquillamente, quando all'improvviso un colpo di vento più forte fece sbandare pesantemente la nave a babordo, il primo ufficiale Erik Jonsson si precipitò sottocoperta ordinando agli uomini di spostare i cannoni di babordo a tribordo e di chiudere i sabordi inferiori. Ma era ormai troppo tardi, l'acqua iniziò ad entrare in quantità tali fino a che in un brevissimo arco di tempo il Wasa si inabissò adagiandosi su un fondale di 32 metri di profondità.
    Le imbarcazioni che sopraggiunsero poco dopo poterono recuperare soltanto pochi superstiti. Fu una sciagura enorme per il popolo svedese che con la perdita di una così grande nave vide svanire le speranze di una sicura difesa. Alcuni anni più tardi si svolse un processo per accertare le responsabilità, ma non fu provato nulla ed il comandante ed i pochi superstiti vennero assolti e lasciati liberi.

    Molti ardimentosi da ogni paese si recarono in Svezia per tentare il recupero del prezioso relitto ma ogni tentativo risultò vano. Soltanto nel 1663 un ex ufficiale dell'esercito svedese, certo Hans von Treileben, ottenne qualche risultato con la sua invenzione, che consisteva in una grande campana di piombo con all'interno una piattaforma e con questa poté immergersi usufruendo dell'aria immagazzinata all'interno della campana stessa.
    Dopo 35 anni di permanenza sul fondale il Wasa si era completamente ricoperto di detriti e fango, ma i cannoni in bronzo erano ancora intatti e Treileben tentò con la campana il recupero di questi, durante il corso di un anno oltre alla campana della nave recuperò ben 50 cannoni su un totale di 64. Successivamente a questo recupero nessuno si interessò più del recupero della nave e tutta la storia del Wasa si dimenticò fino a perdere addirittura la posizione del relitto.

    Il recupero del relitto del Wasa, avvenuto 300 anni dopo, è frutto di una combinazione tra la perseveranza di Anders Franzen di Stoccolma ed il caso. Franzen aveva sempre avuto la passione dei recuperi ed aveva trascorso innumerevoli ore su una lancia motore in cerca di qualche relitto. Fin da bambino rincorreva il sogno di Recuperare il relitto di una nave. Qualche anno dopo conobbe lo storico svedese Nils Ahnulnd che, durante le sue ricerche, si era imbattuto in un piccolo reperto del Wasa. Fu lui a spingere Franzen verso la ricerca di questa stupenda nave e gli indicò anche la posizione approssimativa del relitto o quella da lui presunta tale.
    Dato che il Wasa era presumibilmente affondato all'interno del grande porto di Stoccolma, all'imbocco del lago Malaren, Franzen pensò che la temperatura piuttosto fredda delle acque non avrebbe consentito la sopravvivenza alla teredine e che pertanto il relitto sarebbe stato ancora in buone condizioni. Dal 1952 al 1956 Franzen, aiutato da Per Falting capo sommozzatore della marina svedese, sondò i fondali in cerca di qualche traccia del Wasa, ma senza il minimo risultato che potesse incoraggiarlo a perseverare nelle ricerche. Soltanto nel 1956 ebbe l'accortezza di consultare una vecchia mappa del porto, da questa rilevò una grossa protuberanza del fondo in prossimità dell'isola di Beckholmsudden e, successivamente, reperì una lettera inviata dal Consiglio del Regno al Re Gustavo Adolfo II nella quale si descriveva il disastro precisando che il Wasa si inclinò per un colpo di vento a Beckholmsudden. Quindi Franzen, sempre aiutato da Falting, iniziò una serie di sondaggi sul punto dove esisteva la protuberanza scoperta sulla mappa. Dopo tre mesi di sondaggi continui recuperarono un vecchio cuneo di quercia annerito. Franzen sapeva che la quercia impiega almeno 100 anni per annerire in acqua e considerò che soltanto le grandi navi del '500 e '600 venivano costruite con legnami tanto pregiati, perciò suppose che doveva trattarsi di un componente del Wasa. Equipaggiati di attrezzatura idonea si recarono sul punto del ritrovamento del perno e Falting si immerse. Una volta immerso la visuale risultò scarsa a causa del fango rimosso, ma appena questo si depositò Falting intravide una serie di aperture quadrate disposte in fila e comunicò immediatamente in superficie la scoperta. Si trattava senz'altro di una nave da guerra perché proseguendo nell'esplorazione del relitto individuò un'altra fila di aperture quadrate e a questo punto comunicò a Franzen che era convinto che si trattasse proprio del relitto del Wasa.

    La sensazionale notizia del ritrovamento del Wasa fece il giro del mondo. Infatti fino ad allora l'unica nave più vecchia della quale si conoscevano tutti i particolari era la Victory di Nelson conservata a Portsmouth. Il Wasa lo precedeva di quasi 150 anni. Le operazioni di recupero durarono molti anni comportando spese notevoli.
    Si scavarono sei gallerie al disotto dello scafo per consentire il passaggio dei cavi di recupero e si iniziò lo spostamento del Wasa portandolo ad un livello di pochi metri di profondità, in attesa che fosse pronta un'adeguata struttura che potesse consentire il mantenimento di un alto grado di umidità necessario alla conservazione dello scafo.

    Nel grande edificio costruito all'epoca del suo ritrovamento il Wasa con la sua imponente bellezza è visitato da centinaia di migliaia di persone ogni anno che possono ammirare questa spettacolare opera prodotta dalle mani dell'uomo e oltre allo scafo anche tutti gli effetti personali compreso il servizio da tavola del comandante; una testimonianza unica di quella che era la vita dei marinai a bordo di una nave da guerra del '600... è una nave impressionante, soprattutto quando la osservi dal livello del terreno, ma l'unica maniera di conservarla bene sarebbe ributtarla in mare oppure costruirci un mega acquario attorno.
    (dal web)



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  9. gheagabry
     
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    Oggi il relitto giace su un fondale di 36 metri di profondità in Sudan a Wingate Reef, nelle acque di Port Sudan.
    La sua posizione protetta da onde e maree
    ha reso possibile nei decenni l'insediamento nel relitto di spugne, pesci e coralli.


    L'UMBRIA



    L' "Umbria" era stata concepita come nave da carico e passeggeri (60 cabine e 8 lance di salvataggio). Di costruzione tedesca, fu varata nel 1923 e chiamata "Baia Blanca" durante un periodo passato in Argentina. Con propulsione a carbone, stazzava 10.127 tonnellate. Aveva un cassero centrale, due coperte e due corridoi. Diventata "Umbria", apparteneva al Lloyd Triestino, ma in quel periodo ci fu un'unificazione di compagnie di navigazione, come il Lloyd Sabaudo e la Cosulich.

    In ques'ultimo viaggio l'equipaggio era composto di 77 persone, e venivano trasportate 360.000 bombe pari a 6.000 tonnellate, circa 60 casse di detonatori, spezzoni incendari e migliaia di tonnellate di cemento, automobili, moto con side-car e altre merci di secondaria importanza, come bottiglie di vino, bottigliette di profumo e teodoliti. Il carico, fatto a Genova e Napoli, era diretto ai porti di Massaua e Assab, per gli italiani dell'Africa orientale, e infine a Calcutta.
    Partita il 28 maggio 1940, passa attraverso il canale di Suez il 4 giugno, dopo essersi rifornita a Porto Said di 1000 tonnellate di carbone e 130 di acqua. A bordo salgono 23 persone della marina britannica più due piloti.
    Il passaggio del canale dura due giorni, invece delle solite tre ore, perché chiaramente gli inglesi temporeggiavano in attesa dello scoppiare della guerra per impadronirsi del carico, cosa impossibile in quel momento perché era un mercantile di uno stato ancora neutrale. Scesi il 6 giugno a Suez, gli inglesi fanno scortare l' "Umbria" della nave "Grimsby" della Royal Navy, mentre dirige per Massaua, e il giorno 9 giugno, a largo di Port Sudan sul Wingate Reef, viene fermata per un controllo.



    Vengono buttate le due ancore su un fondale di 25 metri a prua e dall'incrociatore neozelandese "Leander" inviano sull' "Umbria" un tenente di vascello, Mr. Stevens, e 22 uomini di guardia per il controllo di documenti riguardanti il carico, che si sistemano per passare la notte a bordo. E siamo così al fatidico 10 giugno 1940. Nel pomeriggio il comandante Lorenzo Muiesan fa lavare il ponte sporco di carbone e alle 17,00 (locali) torna in cabina e accende la radio del suo salottino. Improvvisamente, in italiano, una trasmissione da Addis Abeba annuncia: "Trasmissione straordinaria per le truppe dell'impero e gli operai dell'AOI. La guerra sarà dichiarata alle 19,00. Le ostilità cominceranno alle ore 24,00". Prima di tutto il comandante chiamò il suo cameriere, affidandogli tutti i documenti compromettenti e i codici di buttare nella caldaia della cucina, poi fece venire Zarli, il primo ufficiale, per dirgli che era scoppiata la guerra e che bisognava fare di tutto per affondare la nave. L'ordine venne dato al direttore di macchina che con un po' di riluttanza andò a... provvedere.
    Intanto il sig. Zarli avvertiva il tenente Stevens che si sarebbe svolta una normale esercitazione di salvataggio, accettata giustamente. In sala macchine i due sabotatori spaccarono con una mazza le due lupe di ghisa connesse alle prese a mare principali, quella ausiliaria e la porta stagna della galleria porta-assi. I due marinai inglesi di guardia, accorgendosi della marea di acqua che entrava, sono corsi da Stevens per informarlo dell' "avaria" e a quel punto il capitano Muiesan ha dato l'ordine di abbandonare la nave, realmente.

    Il tenente Stevens andò in cabina dal capitano e gli disse: "Captain, what happens on this ship? (cosa succede su questa nave?)". "Mi dispiace, Mr. Stevens, ma ho sentito che è scoppiata la guerra, la nave sta affondando e l'unica cosa da fare anche per lei è di raccogliere la sua gente e partire".
    Così, inglesi e italiani, tutti sulle scialuppe, salvo Mr. Stevens e il capitano Mueisan che, pronti a scendere, con la nave ormai sbandata, si facevano i complimenti... "Prima lei - disse Muiesan - vado per ultimo anche se 'now I am you prisoner' (ora sono suo prigioniero)". Allora Mr. Stevens rispose: "No, you are my friend (no, lei è mio amico)". Era tutto emozionato.

    Il prezioso carico dell' "Umbria" sprofondò così in due ore, scongiurando il pericolo di finire in mani nemiche. Iniziava così per il suo equipaggio una prigionia lunga cinque anni in quella terra bollente.
    L'"Umbria", palcoscenico del primissimo atto eroico italiano della seconda guerra mondiale, giace ancora lì, reclinata su un fianco, con i paranchi per le scialuppe di salvataggio che spuntano sull'acqua e col corallo che la ricopre sempre di più.
    (nautica.it)


    .............l'ultimo segreto................


    "...Finimmo la nostra esplorazione passando per la sala da pranzo. In testa alla fila indiana c'era Angelo, mentre io la chiudevo. Con la mia torcia Mini-Flash Cressi mandavo fasci di luce a destra e a sinistra nei buchi e antri più oscuri. Era dall'inizio dell'immersione che sentivo che avrei trovato qualcosa di importante; è inspiegabile, ma avevo nella mia immaginazione proprio il tipo di oggetto che poi rinvenni. Credevo impossibile che ci fossero ancora reperti del genere dopo più di quarant'anni di permanenza del relitto su quel luogo conosciutissimo e battuto, dopo che Cousteau, Hans Hass e Roberto Merlo l'avevano esplorato in lungo e in largo, e che gruppi di turisti da tutto il mondo ci si erano immersi.

    Invece la ormai debole luce della torcia colpì un qualcosa di bianco nella melma, in un piccolo e buio sgabuzzino proprio sotto il corridoio d'uscita. Entrai e m'avvicinai, facendo attenzione a non smuovere troppo con le pinne i detriti, mentre gli altri proseguivano verso l'esterno della nave. Presi ciò che spuntava dal fango, sollevando una scia nera di sospensione. Andai fuori, alla luce, e vidi che avevo in mano una tazza di porcellana bianca, con disegnato sul davanti un nodo Savoia e una C maiuscola con una corona. Sotto c'era la firma di fabbricazione: Richard Ginori, 1936. Immediatamente andai fuori a richiamare qualcuno. Trovai Amedeo e a gesti gli dissi di seguirmi. I nostri autorespiratori erano entrati in riserva e avevamo perciò pochi minuti di autonomia d'aria.

    Rientrammo nella stanzetta buia e affondammo le mani nella nera poltiglia. Riuscii ad estrarre altri oggetti di porcellana - piatti, tazzine, ecc. - mentre Amedeo non trovava nulla. Finalmente con le mani tirò fuori un malloppo incrostato, ma lo rigettò in cerca di porcellane. Al momento di andar via, poiché era a mani vuote, raccolse l'oggetto pieno di incrostazioni e sgusciò fuori. L' "oggetto" si rivelò poi una teiera d'argento, con una meravigliosa ostrica attaccata su un lato. Da quel momento si è scatenata una specie di "febbre del tesoro", con storie simili a un film di Walt Disney, con atti di spionaggio, fughe di notizie, giochi d'azzardo, scomparse misteriose, scenette comiche, e tanti altri oggetti ritrovati, tra cui tre bellissime salsiere d'argento: e in quel buio sgabuzzino ormai non rimane più niente. "
    ( Luca Sonnino Sorisio)



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    Nel numero di aprile 1987 di "Nautica" la lettera dall'ex primo ufficiale di coperta Nave "Umbria", Rodolfo Zarli da Grado, versione integrale



    LA VERITÀ SULL'UMBRIA



    Ho avuto occasione di leggere l'articolo del relitto "Umbria" ed ho notato diverse mancanze che, per ragione di verità, ritengo necessario far conoscere. Oltre alle 6.000 tonnellate di bombe e 600 casse di detonatori, spezzoni incendiari, avevamo imbarcato 200 tonnellate di alto esplosivo di 12/ma e 13/ma categoria, stivato nelle celle frigorifere e 100 tonnellate di armi varie nonché 2.000 tonnellate di cemento ed altre merci varie.
    Il 28 maggio 1940, alle ore 17,30, siamo partiti da Messina diretti in A.O.I.. Dopo la fermata a P. Said per rifornimento di combustibile, acqua e viveri, il 4 giugno si naviga nel canale con due piloti e 23 marines armati della Royal Navy, la traversata dura due giorni. Il 6 giugno a Suez si sbarca la scorta armata ed i due piloti e si inizia la navigazione nel Mar Rosso. Il 7 giugno alle ore 4,30 nella posizione geografica: Lat. 20 gr. 19' Nord e long. 38 gr. 13' Est, si viene fermati da due unità da guerra, l'incrociatore neozelandese "Leander" e lo sloop inglese "Grimsby" che ci intimano con segnali di bandiere di fermare la macchina, questo messaggio lo abbiamo subito trasmesso al Comando Marina di Massaua che ci risponde - a che nazionalità appartengono le due navi? -. Ci fu impedito di rispondere perché erano già saliti a bordo gli inglesi che per prima cosa occuparono la stazione radio sistemando alla porta ed in corridoio due sentinelle. Dopo una viva discussione, la nave viene fatta dirottare, con la minaccia delle armi, per la rada di P. Sudan, Wingate Anchorage. L' "Umbria" viene occupata militarmente da un commando composto da 2 ufficiali, cap. corvetta e capitano di macchina, 10 sottufficiali, (nocchieri, meccanici, segnalatori ed R.T.) e 20 marines, tutti soldati di professione con esperienza di guerra.

    Alle ore 18,15 tempo Eritrea del 9 giugno, il comandante L. Muiesan entra nella sua cabina e apre per caso la sua piccola radio privata; da una stazione ignota capta il seguente messaggio: Attenzione, attenzione, trasmissione straordinaria per le FF.AA. italiane ed operai dell'A.O.I., la guerra sarà dichiarata e le ostilità inizieranno alle ore 24.00. Viene avvisato il direttore di macchina C. Costa e si agisce immediatamente per l'autoaffondamento della nave, nel contempo si distruggono i codici militari segreti e si alza sul picco della maestra la bandiera nazionale n. 4, la più grande in dotazione.




    La nave comincia a sbandare a tribordo, il comandante inglese dalla nostra plancia segnala all'incrociatore, ancorato a circa 50 metri dalla nostra poppa, la nostra azione di autoaffondamento, dal "Leander" inviano un motoscafo pieno di marines e prelevano il comandante Muiesan ed il direttore di macchina Costa.

    Per autoaffondare la nave, eludendo la stretta sorveglianza delle sentinelle, si sono aperte le due lupe connesse nella presa di mare principale e la valvola di presa ausiliare, la comunicazione a mare della pompa d'igiene, ed aperta la porta stagna del locale caldaia e stiva n. 3 nonché i portelloni di murata destra.

    E così marinai della marina mercantile italiana, hanno beffato sonoramente gli emuli del potente corsaro dei mari Sir Francis Drake ed il terribile Morgan. Prelevato il Comandante Muiesan, presi la direzione della continuazione dell'autoaffondamento; ad un certo punto la nave si è fermata di inclinarsi ed allora con il nostromo Bonacorso ed il caporale di macchina siamo corsi a poppa ed abbiamo aperto i portelloni di tutte due le parti, così l'acqua è entrata con più vigore e l' "Umbria" è autoaffondata più celermente.

    Dato l'ordine di "abbandono nave", ci siamo imbarcati, inglesi e il nostro equipaggio, sulle lance di salvataggio e vogando a remi ci siamo allontanati velocemente perché le caldaie erano in pressione; aspettavamo da un momento all'altro di ricevere l'ordine di proseguire il viaggio, il sottoscritto è stato l'ultimo a lasciare l' "Umbria". Catturati, fummo inviati nei campi dei prigionieri di guerra del Kordofan ed Egitto ed il 1¡ settembre 1940, assieme ai superstiti del "Colleoni" e dell' "Espero", trasferiti e rinchiusi nei campi dei prigionieri di guerra in India, fino al 26 aprile 1946. Alcuni ammalati del nostro equipaggio rientrarono nel 1945; tra questi il comandante Muiesan.

    Della società di navigazione Lloyd Triestino, due sono state le navi autoaffondate dall'equipaggio, l' "Umbria", iscritta al compartimento marittimo di Genova e il "Conte Verde", iscritto a Trieste; l'equipaggio di quest'ultima nave è rientrato a Trieste nel 1946 quando c'era il Comando militare alleato; il prefetto di allora Gino Palutan ha concesso a tutto l'armo la qualifica di "combattente" ed il risarcimento dei danni per l'azione di autoaffondamento avvenuto l'8 settembre 1943 a Shangai. Per l'equipaggio dell' "Umbria", perché iscritto a Genova, nessuna qualifica e nessun risarcimento, malgrado i nostri esposti inviati a tutti i presidenti della Repubblica, capi di stato, ministri della difesa, Maripers, politici e Rai, tutto fu invano, ed ora dopo aver servito la patria con fedeltà ed onore, siamo in pensione e vegetiamo con la legge da fantascienza nr. 27 dd. 22/11/73, basata su dati anagrafici e non sui contributi assicurativi versati alla previdenza marinara durante tutto il periodo del lavoro svolto sul mare.



    La Commissione della Marina Militare non ha interrogato nessun membro dell'equipaggio, quindi l'inchiesta sull'autoaffondamento della nave deve esser stata molto sbrigativa, per la seguenti ragioni:

    1. Ha ignorato l'articolo del Codice Internazionale che recita: quel civile che interferisce contro le FF.AA. viene condannato alla fucilazione.

    2. Di nessun conto sono stati considerati i 6 (sei) anni trascorsi in India nei campi dei prigionieri di guerra, sotto le tende con temperatura all'ombra in media di 40 gradi Celsius ed acqua razionata.

    3. Il non riconoscerci combattenti, sebbene compiuta una rischiosa azione di guerra, affrontando forze armate superiori di numero di uomini e di mezzi (due unità di guerra inglesi), non trova fondata equità ed illegittimo dal punto di vista costituzionale perché discriminante tra soggetti che si trovavano in condizioni identiche; con questo trattamento a noi riservato viene calpestato l'art. 3 della Costituzione repubblicana - il capo dello stato è il primo garante della costituzione - e il tutto sembrerebbe evidenziare un atteggiamento di aprioristica diffidenza per non dire ostilità dello stato nei confronti degli equipaggi della marina mercantile che presero parte alla guerra.

    4. La bandiera della marina mercantile è stata decorata con medaglia O.V.M. grazie ai valori e sacrifici dei suoi equipaggi con 7164 caduti per siluramenti, attacchi aerei e mine, 350 deceduti in prigionia, 4000 tra mutilati ed invalidi di cui 40% assistiti dalla legge 180.

    Ringrazio per l'attenzione che sarà data al presente esposto, in di una risposta, invio cordiali saluti.

    ex primo ufficiale di coperta Nave "Umbria"
    Rodolfo Zarli - Grado



    Abbiamo raggiunto telefonicamente il sig. Zarli che ha raccontato con entusiasmo ancora una volta i fatti avvenuti nel 1940 compresa tutta la prigionia successiva, lunghissima: a lui e ai suoi compagni fu cambiato per 14 volte il campo di prigionia nel continente indiano.

    Un interessante aneddoto riguarda l'apertura del nostro servizio (Nautica n. 295, novembre 1986). Il primo ufficiale ci ha detto che la foto che più lo ha colpito è stata quella della caduta delle bottiglie nella stiva. Infatti è proprio per merito di quelle bottiglie di vino, di cui l' "Umbria" era ben fornita, che i fatti si sono svolti così. A Port Sudan e in tutta l'area del Mar Rosso il vino a quei tempi era molto raro, così tutti gli inglesi e i neozelandesi ne fecero man bassa e grosse bevute, permettendo al comandante Muiesan e al suo equipaggio di provvedere senza problemi all'affondamento. Ci ha dichiarato il sig. Zarli che se non fosse stato per il nettare degli dei, gli espertissimi soldati dell'impero britannico non si sarebbero fatti prendere per il naso, vedendosi andare a fondo sotto gli occhi migliaia di tonnellate di esplosivo e armi varie.

    L.S.S.








    foto di elisa ceccarelli
     
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  10. gheagabry
     
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    Storie di relitti.....


    "...Lutatio Catulo consule tandem bello finis impositus est apud insulas, quibus nomen Aegatae, nec maior alias in mari pugna. Aderat quippe commeatibus, exercitus, propugnaculis, armis gravis hostium classis et in ea quasi tota Carthago...
    ...sotto il consolato di lutazio Catullo ebbe fine la guerra presso le isole, alle quali è dato il nome Egadi, e non vi è battaglia nel mare più grande. un'ingente flotta era vicina senza dubbio con l'esercito e con i rifornimenti, con armi di difesa e in quella c'era quasi tutta Cartagine."(Floro)


    ...La battaglia delle EGADI...

    la prima guerra punica....



    La nave cartaginese con il suo possente rostro puntava dritta su di loro. I rematori della nave romana tiravano al massimo, per evitare lo scontro, ma il fianco della loro nave era già esposto. Sul ponte i legionari avevano lo sguardo fisso. Ora i Cartaginesi non erano più ombre indistinte, ma uomini dalla pelle scura con elmi di cuoio. Un tonfo, un “crack” prolungato, una violenta cascata salata e i Romani affondarono. Sena sapere che, morti loro, la battaglia sarebbe stata vinta e senza immaginare che, senza quella vittoria su Cartagine, la storia sarebbe stata diversa. La loro infatti era solo una delle navi romane affondate nella battaglia delle Egadi, al largo di Trapani, scontro navale che chiuse la prima guerra punica segnando una svolta: da piccola potenza regionale, Roma sarebbe diventata una potenza globale, con mille anni di presenza militare, commerciale e culturale. Questa battaglia navale, la più grande a memoria d’uomo per numero di partecipanti, circa 200 mila, avvenne la mattina del 10 marzo del 241 a.C., furono coinvolte oltre 1000 navi…350 romani e 700 cartaginesi.

    “I Cartaginesi li videro quando già la flotta puntava loro contro, creando grande scompiglio…L’attacco fu micidiale: alcune navi romane ruppero, con i rostri, le fiancate delle imbarcazioni cartaginesi affondandole. Altre si affiancarono alle navi nemiche rompendo tutti i remi di un lato, rendendole ingovernabili, per poi assaltarle con il “corvo”, una passerella arpionante su cui salivano i fanti. Catapulche lanciavano, come molotov, anfore incendiarie…..Il resto della flotta dei Cartaginesi, si spiegò di nuovo le vele e si ritirò col favore del vento che, per fortuna, inaspettatamente era cambiato, proprio nel momento del bisogno..”(Pibilio)



    .......oggi.........



    In una mattinata di sole di mezza estate, se non soffia la brezza che arriva all' improvviso a increspare la laguna, bastano una passeggiata in mare a piedi, con l' acqua alle caviglie, e un tuffo da bagnante della domenica per scoprire il più bel tesoro archeologico della Sicilia. Niente muta da sub, né attrezzature super tecnologiche. Occorre solo mettere la testa giù per vedere quel che il tempo ha conservato quasi intatto per oltre duemila anni. Eccoli qui, i resti delle navi cartaginesi e romane che nel 241 avanti Cristo combatterono al largo di Levanzo la famosa battaglia delle Egadi. Relitti che riposano a pelo d' acqua, appena due metri di profondità, protetti da una sabbia finissima che sembra polvere di cristallo. È il grande segreto dello Stagnone, noto solo a pochi esperti e appassionati di archeologia marina.

    Mozia, l' isolotto fenicio ricco di frammenti antichissimi....tre chilometri più avanti, partendo dalle Torri di San Teodoro, è possibile raggiungere a piedi, camminando in acqua per ottocento metri, Punta Tramontana, l' estremo lembo di Isola Grande, dove si allunga la spiaggia chiamata «Tahiti», che guarda verso l' Africa. Da qui bastano poche bracciate, una quarantina di metri, per raggiungere la prima delle ventiquattro navi sommerse nella laguna. Nel fondale verde con schizzi color giallo oro, si può osservare lo scheletro di quella che fu una nave da guerra. È lungo diciassette metri, largo quattro, coperto in parte da limo, sabbia, ciottoli di rocce. «Relitto cartaginese», spiega il professor Leonardo Nocitra, un geologo che con la figlia Maria Antonietta conduce una martellante campagna di informazione ostacolata dall' indifferenza della città. A un tiro di schioppo, alla Bocca di San Teodoro, giacciono altri resti, stavolta di un mercantile romano, con il suo carico di mattoni ancora integro. Anche lì tre metri di profondità. Poco più lontano, sotto le coste di Levanzo, un altro relitto dell' Impero pieno di anfore contenenti il «garum», una salsa di pesce in voga nel Mediterraneo di tanti secoli fa e mai arrivata alle tavole romane per il naufragio della nave. Intorno, in fondo al mare, ancora imbarcazioni, tutte perfettamente conservate, solo qualcuna di epoca più recente. Le ha contate una per una l' archeologa inglese Honor Frost, venuta in Sicilia con la sua équipe più di trent' anni fa, quando gli operai di una fabbrica di bottiglie che scavavano i fondali per portare negli stabilimenti sabbia da trasformare in vetro si imbatterono per la prima volta in un relitto millenario. Una nave punica, una delle imbarcazioni protagoniste dello scontro finale con i romani, vincitori della guerra, sentenziò la studiosa che guidò l' operazione di recupero dei resti, oggi custoditi nel Museo Baglio Anselmi, cuore archeologico di Marsala. Del tutto casuale anche il secondo ritrovamento, avvenuto nell' estate del 1988 sulla spiaggia di «Tahiti». Merito di uno studente, Enzo Lombardo, nipote del professor Nocitra, che era andato a fare il bagno in quel paesaggio da cartolina. Nuotava beato con la testa in acqua in un mare di cristallo. Fu uno choc, credette di sognare. Tornò a riva, corse a casa trafelato e riferì ciò che aveva visto. Quasi gli risero in faccia. «Per scrupolo, per verificare di persona, organizzai una spedizione con un gruppo di familiari ed esperti - ricorda Nocitra -. Ci trovammo davanti a uno spettacolo mozzafiato. La nave era a quaranta metri dalla costa bassa di Isola Grande, proprio dove è adesso, adagiata a due metri di profondità».
    (Mignosi Enzo, 2004)


    Due subacquei, Gian Michele Iaria e Stefano Ruia hanno recuperato i caschi dei legionari romani: "Avevamo distinto due scafi nel fondo, e poi, in un'area di soli 200 metri quadrati, a 75 metri di profondità, abbiamo rinvenuto altri 10 scafi", ha detto Ruia. "Sappiamo che i rostri sono Romani per la caratteristica forma a punta di ananas. Non lontano, aggiunge Ruia, abbiamo trovato una testa di statua romana, probabilmente persa dalla nave sulla quale erano imbarcati i soldati che indossavano caschi. La ricerca subacquea è iniziata nel 2006 con il contributo decisivo della RPM Nautical Foundation, un istituto americano che ha messo a disposizione la nave Ercole, dotata di una moderna strumentazione per la ricerca subacquea. Finora, la ricerca ha portato alla scoperta di sei rostri di navi affondate. Due sono cartaginesi, e uno reca la scritta in punico "Possa Baal far penetrare questo oggetto nella nave nemica"... mentre quattro hanno iscrizioni romane e latine che attestano la loro origine..."La nostra ricerca nasce diversi anni fa, quando un subacqueo, morto di recente, Vincenzo Paladino, mi disse che aveva scoperto circa 300 reperti in fila lungo la parte inferiore della costa orientale dell'isola di Levanzo", ha detto Tusa (Soprintendente del mare) "Abbiamo consultato gli scritti dello storico greco Polibio , il quale, ad una distanza di circa 70 anni di episodi di guerra, aveva ricostruito la battaglia della sua storia: si racconta come i Romani, guidati dal console Gaio Lutazio Catullo attaccò di sorpresa i Cartaginesi. Avevano teso un'imboscata al riparo dietro un promontorio dell'isola di Levanzo e, nella fretta di passare all'attacco, avevano tagliato la parte superiore delle ancore, precisamente quelle che Vincenzo Paladino aveva trovato. "(dal web)



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  11. gheagabry
     
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    Storie di relitti......



    È una storia meravigliosa e inquietante, raccontata dal legno di una nave dissotterrata dal ventre di un grattacielo. La General Harrison aveva uno scafo di quercia fatto per affrontare gli oceani. Non fu una tempesta ad affondarla 150 anni, fa ma la bolla speculativa che fece impazzire la California molto prima della New Economy: la febbre dell'oro. Tra la folla di turisti che passeggiano nel centro di San Francisco col naso all'insù, guardando il celebre grattacielo Transamerica Pyramid, nessuno può immaginare che proprio lì, sotto le sue fondamenta e l'asfalto, giace un'intera flotta sepolta. Sono le navi dei cercatori d'oro. Solo pochi mesi fa gli archeologi ne hanno riportato alla luce una, la General Harrison, vittima della prima ondata di ricchezza facile che segnò le origini di questa città. "Per me è stato un momento storico", dice il capo degli archeologi Allen Pastron; "erano anni che spulciavo antichi archivi alla ricerca di notizie sull'ubicazione precisa di queste navi, e ora eccole". Non fosse stato per la New Economy, che ha fatto esplodere il valore del metro quadro a San Francisco, forse al posto degli scavi ci sarebbe ancora il vecchio palazzo che ospitava il ristorante cinese Yank Sing, istituzione gastronomica per gli amanti dei ravioli al vapore. Ma la speculazione edilizia ha avuto la meglio e le ruspe hanno abbattuto Yank Sing per avviare la costruzione di un lussuoso albergo. Scavandone le fondamenta, i costruttori hanno scoperto lo scafo della General Harrison. Interrato come uno scarafaggio gigante. Sotto metri cubi di sabbia, cemento e catrame, nel centro della città, l'attivissimo Financial District di banche e società di venture capital. Come ha fatto una nave ad arrivare là sotto? Le autorità municipali hanno chiamato gli archeologi, ed è tornata alla luce con la nave una delle pagine più incredibili nella storia d'America. Il 24 gennaio 1848 James Marshall scopriva le prime pepite d'oro in un torrente della Sierra Nevada, nella California settentrionale, vicino a Sacramento. Con il dilagare della notizia si scatenò dal mondo intero la corsa verso la California, allora quasi disabitata: in tre anni la popolazione dello Stato fece un balzo da 15 mila a 300 mila abitanti. Per l'arretratezza dei trasporti terrestri, molti scelsero di arrivare via mare. "Nel 1848-49", dice Pastron, "qualunque bagnarola in grado di galleggiare fu comperata, noleggiata o rubata per trasportare i cercatori verso la California". Perfino da New York nel 1849 salparono 800 vascelli di cercatori, che (non esistendo ancora il canale di Panama) circumnavigavano il Capo Horn a sud dell'Argentina. Tra queste c'era la General Harrison, una nave lunga 40 metri che era stata varata nell'aprile del 1840 dai cantieri di Newburyport, nel Massachusetts. Appena ormeggiata a San Francisco, tra passeggeri ed equipaggio fu un fuggi fuggi verso i monti che promettevano la ricchezza. Anche se in 15 anni dalla prima scoperta l'oro estratto in California raggiunse i 750 milioni di dollari (di allora), per la maggioranza dei cercatori rimase un miraggio. Molti finirono in miseria, compreso John Sutter, il proprietario dei terreni dove furono trovate le prime pepite. Nei primi dieci mesi dopo la scoperta dell'oro, arrivarono a San Francisco 44 mila cercatori d'oro, poi altri 62 mila tra il 1849 e il 1850.
    Nella fretta di raggiungere le montagne aurifere, quasi tutti (compresi armatori, comandanti e marinai) abbandonarono le imbarcazioni al loro destino: mai l'espressione "tagliare i ponti con il passato" fu applicata così alla lettera. Navi che avevano resistito alle traversate oceaniche vennero lasciate senza rimpianti dai proprietari. Ben presto il porto di San Francisco fu intasato di bastimenti abbandonati. I più malandati furono affondati per liberare spazio lungo i moli. Le navi di miglior qualità vennero convertite in taverne, bordelli, bische, perfino prigioni. Fu l'epoca in cui il vecchio porto si meritò il nome di "Barbary Coast". Lungo i suoi moli nacque così una seconda San Francisco, città galleggiante. La General Harrison ebbe per breve tempo una nuova vita come nave-deposito merci. Prese poi fuoco nell'incendio del maggio 1851, in cui affondarono decine di navi. Intanto, grazie all'oro San Francisco conosceva il primo boom edilizio. Il vecchio porto fu interrato per strappare al mare superficie edificabile, l'imbarcadero venne spostato centinaia di metri più in là. Nella zona dove i cercatori avevano abbandonato le navi, ribattezzata Yerba Buena, crescevano palazzi come funghi. La nuova City californiana, ponte fra la Borsa di Wall Street e quella di Tokyo, veniva costruita su un cimitero di navi. Di alcune si è potuta ricostruire l'ubicazione grazie agli archivi d'epoca, ma è impensabile riportarle alla luce perché gli scavi metterebbero a repentaglio la stabilità dei grattacieli. Il bastimento Niantic è sotto il grattacielo Transamerica Pyramid. La nave Apollo sotto i forzieri della Federal Reserve Bank. Il piroscafo russo Rome sotto la stazione della metropolitana di Mission Street. Anche sulla General Harrison erano state fatte ricerche, e grosso modo si sapeva che era sepolta in quella zona. "Sarò andato cento volte a pranzo da Yank Sing", dice l'archeologo Patron, "e ogni volta mi dicevo: quella maledetta nave dev'essere nascosta qui sotto. Ma davvero non immaginavo che potesse capitarmi in vita mia di vederla". Lo scafo di quercia è stato recuperato in ottimo stato, e volendo potrebbe tornare in mare. Al suo interno hanno ritrovato un servizio di piatti in porcellana del 1840, una collezione di pipe d'epoca, e soprattutto una misteriosa scatola nera, un grande forziere. "Questo non lo apriremo fino all'ultimo giorno degli scavi", ha dichiarato Patron. È il suo ultimo omaggio ai sogni dei cercatori d'oro, al ricordo di una febbre speculativa da cui San Francisco e la California sembrano destinate a non guarire mai. E alla città-fantasma nascosta nel luogo più incredibile del mondo.
    (Ferdinando Rampeni, repubblica.it)


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    Storie di relitti....


    "All ships - All ships - All ships - Avviso di uragano!"
    "All ships, all ships, all ships ..."


    Lo YONGALA


    L'avviso concitato dell'operatore era stato affidato alle onde elettromagnetiche ma, in quella mattina del marzo 1911, poche erano le navi equipaggiate con sistemi radio: solcando l'etere, il messaggio aveva incrociato indecifrato la rotta della SS Yongala e aveva continuato la sua inutile corsa oltre la Grande Barriera Corallina, dove l'aria era già da molte ore carica di tempesta. Il novantesimo, ed ultimo, viaggio della Yongala aveva avuto inizio nove giorni prima a Melbourne, da dove la nave della Adelaide Steamship Company faceva solitamente linea per Cairns, risalendo la costa orientale australiana. Nello stesso momento in cui Yongala lasciava gli ormeggi a Melbourne, la furia impazzita di oltre centocinquanta nodi di vento stava spazzando gli atolli lontani della costa settentrionale dell'Australia: l'uragano aveva appena iniziato la sua corsa devastatrice nel Mar dei Coralli ed ogni ora muoveva di venti chilometri verso Sud, parallelo alla costa. All'insaputa di tutti, perché i Northern Territories erano, allora come oggi, totalmente disabitati dall'uomo bianco.
    Marzo è il mese finale della stagione degli uragani, in Australia, ed in molti erano convinti che il periodo critico fosse già alle spalle. Risalendo lungo la costa orientale australiana Yongala, frenata da una forte corrente contraria, era finalmente entrata nelle acque del Queensland, facendo sosta a Brisbane. Il vento stava rinfrescando, ma il tempo era ottimo: il sole splendeva in cielo, solo qualche nuvola all'orizzonte. Diversi messaggi telegrafici avevano avvertito il capitano William Knight che in quelle ore una nave aveva incontrato venti molto forti e piogge torrenziali; ma il capitano, considerando che questo era accaduto molto più a Nord di Cairns, la sua mèta, non se ne era dato troppa cura.
    Il 23 marzo Yongala, dopo l'ultima sosta a Mackay, era salpato verso mezzogiorno diretta a Townsville. Nel corso del pomeriggio il tempo era andato decisamente peggiorando. Il vento aveva raggiunto i cinquanta nodi: Yongala navigava oramai in una burrasca, anche se il mare era ancora relativamente calmo, visto che la nave si trovava ancora a ridosso delle numerose isolette sparse lungo la rotta. Mentre la nave, sotto una pioggia torrenziale, entrava nelle acque delle isole Whitsunday, la cena era stata servita ai passeggeri.
    Oltre la Whitsundays, al traverso dell'isola di Hayman, il mare era cominciato a crescere rapidamente. La cena era stata subito cancellata e tutti i passeggeri, turbati, avevano fatto ritorno nelle proprie cabine. Il capitano Knight aveva deciso di proseguire nonostante la burrasca: avrebbe potuto scegliere di riparare a Gloucester Island; ma non lo fece, ed era andato oltre. E così la nave, date le condizioni del vento, e soprattutto del mare, aveva passato il punto di non ritorno. Yongala aveva navigato diretta nel ventre dell'uragano, verso il suo destino ineluttabile. La navigazione era divenuta impossibile, la plancia completamente avvolta da una cascata di pioggia e di mare. La velocità della nave era stata ulteriormente ridotta, ma questo aveva fatto sì che la prua si ingavonasse sempre di più nelle onde: montagne di acqua spazzavano costantemente la coperta, strappando dal ponte il cargo.

    Tutte le aperture erano state assicurate ma, in quelle condizioni, niente avrebbe potuto reggere la furia combinata del mare e del vento: nonostante tutti gli sforzi, la nave aveva cominciato ad imbarcare acqua. Yongala rispondeva con difficoltà sempre maggiore alle batterie di onde che martellavano con violenza crescente il suo scafo: solo un miracolo avrebbe potuto salvare la nave. Yongala si stava avvicinando a Capo Bowling Green. Era passata la mezzanotte, e la nave si trovava ad una quindicina di miglia da terra.

    Amici e parenti si erano affollati sul molo la mattina successiva, il 24 marzo: l'arrivo della Yongala era previsto per le sei, ma del vapore nessuna notizia. Poi, alla spicciolata, erano cominciate a rientrare in porto altre navi che, sorprese dall'uragano, avevano cercato riparo lungo la costa. Poco dopo erano partite le prime ricerche: si sperava che Yongala fosse al riparo di qualche isola, magari con il timone od i motori in avaria...Il Sidney Morning Herald, il 27 marzo 1911 apriva così: "Yongala manca da molte ore all'appello. I soccorsi partono da Brisbane". Anche la Cooma era arrivata in porto: la nave a vapore aveva seguito la stessa rotta dello Yongala, ma anch'essa non aveva visto nulla. "Nessuna notizia ancora della Yongala dispersa" - si leggeva nei titoli del giornale il giorno successivo. Il 29 marzo: "A quattro giorni dal suo mancato arrivo, parte del carico stivato all'interno della Yongala è stata rinvenuta spiaggiata lungo la costa. Nessuna traccia di equipaggio e passeggeri. Persa ogni speranza".

    Da ottant'anni il relitto del vapore Yongala giace a trenta metri di profondità su di un fondale fangoso al largo della costa del Queensland, all'interno della Grande Barriera Corallina, coricato sul fianco destro, con la prua a Nord, in rotta per il porto di Townsville, dove avrebbe dovuto far sosta prima dell'ultima tappa verso Cairns. Il relitto rappresenta l'unico punto solido in un plateau fangoso esteso per miglia e miglia: una vera e propria oasi nel deserto per una complessa comunità animale che annovera dai coralli agli squali, dai serpenti di mare ai trigoni, e tartarughe, aquile di mare, cernie, platax, carangidi e dentici.


    "La notte non è ancora scesa, e già siamo sul fondo per una immersione notturna ... anticipata. O meglio, siamo di nuovo sott'acqua, visto che è la quarta volta che oggi ci caliamo su questo fondale. Contro il soffitto verde della superficie ancora illuminata dal tramonto - qui giù invece è già buio completo - una sagoma circolare, con una lunga coda scura, sorvola la massa d'acciaio nera ed incombente. È il grosso trigone già compagno delle immersioni di quest'oggi, in una festa di dentici, di cernie e di carangidi: ci plana accanto, per un attimo indeciso per la nostra presenza; poi si ferma sul fondo a ridosso delle lamiere e con una scrollatina di spalle, che sullla sua forma discoidale si tramuta in un'onda lungo tutto il corpo cartilagineo, si getta addosso un lenzuolo di sabbia e si blocca immediatamente nel sonno.
    Una fila di bottiglie spunta dal sedimento depositato in anni di immobilità sul fondo del mare. Ne solleviamo delicatamente una, ed una cascata di fango scivola verso il basso, rivelando una scritta in rilievo sul vetro chiaro: "Jones and Co. Ltd - Hobart and Sidney". Sarebbe bello poterla portare con noi, ma le leggi australiane sono ferree: impossibile prelevare alcunché, pena una multa di 10.000 dollari australiani. E forse è meglio così, e non soltanto per rispetto a chi si immergerà dopo di noi, ma soprattutto per quelle 122 persone che insieme a questa nave persero la vita. Dal sedimento scivola fuori anche un sottilissimo oggetto metallico che sembra un numero, un "1": forse indicava il salone di prima classe, forse il numero di una cabina. Vicino, una bottiglietta di profumo da donna. Una tartaruga si affaccia nella stiva: non è affatto intimorita dalla nostra mole, né dal rumore delle bolle d'aria che risalgono verso la superficie. Nuotiamo assieme ad essa per dieci minuti, lontano dal relitto, scoprendo qua e là oblò, bulloni, pezzetti di lamiera.
    L'acqua è particolarmente limpida questa mattina: dalla superficie si vede perfettamente quasi tutta la sagoma della nave. Il branco sterminato di platax giovanili è sospeso immobile lungo la fiancata sinistra; sulla destra migliaia di carangidi argentati. Un serpente di mare si stacca improvvisamente dal fondo, lanciato verso la superficie dove riempirà d'aria i polmoni prima di una nuova lunga immersione. Tre aquile di mare scivolano in formazione lungo la parte superiore dello scafo: le seguiamo fino alla prua, fino alle lettere incrostate di corallo che formano il nome "Yongala". Sotto la prua, le due cernie giganti soprannominate "maggiolini Volswagen" per le loro dimensioni, sono ferme immobili a bocca spalancata nella corrente. Un morbido e profondo canto riecheggia lontano accompagnato da fischi più striduli: è il canto di una balena. Non la vedremo mai ma, quando riemergeremo, i nostri compagni di avventura ci confermeranno che una balena con il suo piccolo è passata ad un centinaio di metri da noi, accompagnata da cinque delfini. Loro era il fischio acuto, che avevamo già sentito in altre immersioni qui sullo Yongala.
    Ci infiliamo nel ventre scuro della nave seguendo una cernia. Pile disordinate di mattoni sono sparpagliate ovunque. In un angolo, il sedimento uniforme ci indica che qui ogni cosa è rimasta indisturbata per ottant'anni, non profanata - soltanto perché inaccessibile - dalle centinaia di subacquei che qui si immergono ogni anno. Fra bottiglie di ogni foggia, spuntano alcuni resti umani.
    Un rumore secco, come di un ramo di corallo spezzato: in superficie il branco di carangidi scappa frenetico in tutte le direzioni. In mezzo alla confusione piombano due squali che, a scatti, si avventano sui più deboli, sui più lenti. Un grosso dentice, che gli australiani chiamano 'Giant Trevally", si precipita verso il relitto per trovarvi riparo: è ferito, e decine di altri trevally lo inseguono strappandogli di dosso lembi di carne viva. È tutto vero, autentico, è la lotta per la sopravvivenza. È la dimostrazione emblematica che il mare non è un acquario sfavillante di colori, almeno non soltanto, o non sempre. Abituati come siamo a quei veri e propri spettacoli allestiti sul fondo marino, gli "shark feeding", è invece emozionante essere testimoni in prima persona di questi momenti autentici e violenti della vita del mare."
    (nautica.it)



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  14. gheagabry
     
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    Un naufragio dimenticato


    Nella notte fra l'11 e il 12 aprile 1938 la nave-goletta "Edoardo Scarfoglio" , iscritta al compartimento marittimo di Torre del Greco, naufragò nella baia di San Vito lo Capo, e due degli otto uomini di equipaggio morirono; gli altri sei furono salvati e rifocillati dai pescatori sanvitesi, che anche in quella occasione dimostrarono la grande generosità del paese. Della tragedia del bellissimo tre alberi, varato a Torre del greco il 15 febbraio 1920, che portava il nome del fondatore del giornale "il Mattino" di Napoli ed era marito della scrittrice Matilde Serao, non ha mai parlato nessuno, ad eccezione dei giornali dell'epoca. Oggi siamo in grado di narrare gli avvenimenti di quella notte, grazie alla segnalazione di un parente degli armatori ed alla ferrea memoria di Giuseppe Lucido, pescatore sanvitese oggi 83nne, che all'epoca dei fatti aveva 13 anni. La foto del varo dello "Scarfoglio" è stata gentilmente trasmessa da Ciro e Antonio Altiero.

    Nella disgrazia morirono il capitano Domenico Borriello e il nostromo Antonio Gaudino; si salvarono Luigi Matrone di 16 anni, Gaetano Cardone di 24, Ciro Isoletta di 16, Vincenzo Diavolino di 44, Gennaro Fioto di 31 e Vincenzo Sannino di 26. La narrazione del naufragio è assolutamente inedita. Questa storia è inserita nel volume "La memoria del paese. San Vito lo Capo, storia e storie" che la Pro Loco pubblicherà la prossima estate.


    Giuseppe Lucido (foto a sinistra). "Il naufragio avvenne di notte, mancava poco all'alba, c'era una tempesta di greco e levante, forza otto o nove, questa nave non riusciva a governare e vide la luce del faro di San Vito, si avvicinò ma qui non c'era porto, niente, non c'era riparo. Arrivata a poca distanza dalla spiaggia le onde cominciarono a farla sbattere sul fondo, si è spaccata tutta in un attimo, niente è restato. Gli uomini dell'equipaggio gridavano, cercavano aiuto, e si afferrarono alle tavole della nave. I pescatori allora abitavano tutti in paese, non c'erano le case popolari qui sulla spiaggia, e due fratelli pescatori videro le luci della nave e sentirono le urla, e andarono sulla spiaggia per vedere di fare qualcosa. Erano Marco e Salvatore Randazzo, detti i "turidduzzi", facevano segnali, e raccolsero i naufraghi che le onde sbatterono sulla spiaggia, qui davanti al paese. Erano tutti che tremavano, spaventati, ma non c'erano feriti gravi. Li portarono a casa loro, gli diedero coperte, brodo, insomma li salvarono. Questo la notte. Poi all'indomani sulla spiaggia trovarono i due cadaveri, non c'era più niente da fare. Ricordo che i morti li portarono in chiesa, nei locali accanto alla "stalla del Santo", e anch'io sono andato a vederli. Povera gente! E poi se li portarono per i funerali nel loro paese. Della nave non restò niente, solo tavole di legno che il mare gettò a terra. Però quando tiravamo la sciabica alle volte la rete si impigliava lì, dove era affondata la nave, ci doveva essere qualche relitto, forse il motore, affondò quasi dove ora c'è la punta del porto".

    Giuseppe Lucido ricorda bene la marineria sanvitese di quel tempo …

    "Il porto non c'era, e le barche la sera si tiravano sulla spiaggia con i parati, oppure se il tempo era buono si ancoravano vicino alla costa. Dove ora ci sono le case dei pescatori una volta si tiravano tutte le barce 'pulpa, mentre più in là si tiravano le barche più grosse, c'era lo schifazzo di Marco "turidduzzu", quello che aveva salvato i naufraghi, che trasportava sommacco e cantuna, una bella barca di quasi 20 metri che prima aveva solo la vela e poi ci misero il motore, si tirava con l'argano a mano e i paranchi, e c'era anche il peschereccio di un mio zio, Antonio Flores. Queste due barche le hanno dipinte, e poi col quadro ci fecero uno scatolo per le caramelle che fu portato addirittura in America; qui le caramelle furono distribuite fra i sanvitesi che abitavano là, e c'erano anche i figli di mio zio, il padrone del peschereccio, e quando lo videro ridevano e dicevano: "Guarda, la nostra barca c'è", loro la chiamavano "Minchiachellaria". Lungo la spiaggia ci sono anche altre barche affondate, ma non ci sono state vittime, solo la barca si è perduta; sotto la piazza Marinella c'è il relitto di una "marticana" che chiamavano "Uletta", portava merci chiuse nei sacchi, c'era maltempo di maestrale e si era ancorata davanti alla spiaggia, poi il vento girò alto da greco e tramontana e l'ancora non tenne, la barca si andò a sfasciare sulla riva. Il padrone, uno di Sciacca, mentre recuperava quello che poteva piangeva, diceva: "Io ti ho vestito e io ti sto spogliando …". Sempre quando c'era maltempo da maestro le barche si fermavano a ormeggiarsi qui, in mezzo al golfo".
    (Ninni Ravazza)


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  15. gheagabry
     
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    Storie di relitti.....

    Il DUNRAVEN



    Nel mese di gennaio del 1876 il Dunraven era ormeggiato alla foce del Mersey River, presso il porto di Liverpool, pronto ad essere caricato con legname e materiale ferroso, merci destinate al sostegno di una giovane ma fiorente industria pesante delle Indie Occidentali aventi come fulcro degli scambi il porto di Bombay. La recente apertura del canale di Suez, avvenuta il 29 novembre 1869, aveva rivoluzionato il traffico mercantile dell'Europa con l'Asia, sostituendo con un'unica tratta di navigazione un percorso che fino ad allora prevedeva una linea di navigazione attraverso il Mediterraneo fino ad Alessandria, un percorso su ferrovia fino a Suez ed una seconda linea da qui fino al Medio ed Estremo Oriente.
    Il viaggio si svolse regolarmente, ed il 6 aprile dello stesso anno la nave era pronta a salpare da Bombay, alla volta di Liverpool con un carico definito "di considerevole valore" di lana e cotone, ed un equipaggio di 25 persone. Il viaggio attraverso l'Oceano Indiano andò per il meglio e dopo una breve sosta al porto di Aden per il rifornimento di carbone, il Dunraven iniziò la risalita del Mar Rosso con rotta NNW. Il 24 di Aprile, il giornale di bordo riportava "condizioni di tempo buono, vento debole, mare quasi calmo; navigazione a solo vapore con velocità di 6 nodi e mezzo". Alle ore 1.00 am del giorno successivo, il secondo di bordo rilevò una luce al dritto di prua che ritenne essere appartenente all'estremità meridionale dell'isola di Shadwan; cinquanta minuti più tardi, fu avvistata un'altra luce che ritenne essere quella del faro di Ashrafi, all'imbocco dell stretto di Gubal. Durante l'intero periodo anche il capitano Care si trovava sul ponte e in nessun caso obbiettò né l'avvistamento delle luci, né la loro identificazione.
    Il secondo ufficiale descrisse questa luce come "bianca e fissa" sebbene, successivamente, contraddisse questa affermazione; stranamente, nonostante anche il capitano affermasse di aver avvistato questa luce, il timoniere riportò di non aver visto nulla. Alle ore 2.15 am, il capitano Care lasciò il ponte lasciando disposizione di essere chiamato entro un'ora; stranamente, alle ore 2.40 am, la luce precedentemente osservata, sparì dalla visuale a causa, come si seppe soltanto dopo, di un'avaria al sistema elettrico. A questo punto la testimonianza del secondo ufficiale, divenne confusa ed ulteriormente contraddittoria: in un primo momento egli affermò di avere richiamato sul ponte il Capitano Care non appena la suddetta luce fu persa di vista; successivamente cambiò la sua versione sostenendo di aver chiamato il Capitano fra le 3.30 e le 3.40 am sebbene in contravvenzione agli ordini impartiti.
    Quando il Capitano Care arrivò sul ponte, la terra era ampiamente visibile in direzione Nord, a circa 6, 7 miglia dal lato di dritta; erano a questo punto le 3.40 am e fu immediatamente dato ordine di modificare la rotta di 2 gradi a dritta, accidentalmente dirigendo proprio verso terra. Dieci minuti più tardi, il marinaio di vedetta, avvistò un oggetto grande e scuro in acqua e , credendo si trattasse di una boa o di una meda, riferì immediatamente agli ufficiali in coperta, senza tuttavia, avere risposta. Contemporaneamente, il secondo ufficiale, avvistò un oggetto simile e ritenendolo una barca di pescatori locali, solo casualmente ne riferì al capitano.
    Questi diede immediatamente ordine di fermare le macchine, ma prima che la manovra potesse essere ultimata, il Dunraven colpì violentemente il reef che scardinò completamente i compartimenti di prua.
    Probabilmente nella sua rotta per circa 300°, il Dunraven aveva subìto un lasco indotto dalle correnti provenienti da NW, che ne aveva alterato la posizione di circa 10 miglia in direzione NW.
    Il faro scambiato con quello dell'isola di Gubal (l'attuale Bluff Point) era probabilmente uno situato sulla costa occidentale della penisola del Sinai, ed il cambio di rotta di 2° a dritta non aveva fatto altro che portare la nave verso Beacon Rock all'estremità del reef "Shaab Mahmud".
    Le macchie nere avvistate dalla vedetta e dal secondo di bordo altro non erano che i reef semi affioranti del punto di immersione di Alternatives, ubicato tra Ras Mohammed e la stessa Beacon Rock. Le pompe di esaurimento a vapore, furono immediatamente messe in azione, e, nel tentativo di mantenere la nave adiacente al reef corallino, fu dato fondo con una delle ancore di bordo.
    Purtroppo alle ore 7.00 am il livello dell'acqua raggiunse le caldaie togliendo vapore alle macchine e condannando così la nave; a mezzogiorno circa, quando il lato di dritta era oramai sommerso dall'acqua, il capitano e l'equipaggio presero posto sulle lance di salvataggio rimanendo vicini alla nave in affondamento. Alle 4.00 pm un sambuco arabo prese a bordo i naufraghi e, alle 5.00 pm il Dunraven scivolò dal reef ad una profondità di circa m 27; fu solo allora che il comandante prese coscienza che avevano fatto naufragio all'estremità meridionale della penisola del Sinai.
    Per tre giorni il sambuco rimase ormeggiato in prossimità della nave affondata, fino a quando il Capitano Care ed il suo equipaggio fu trasbordato sulla motonave italiana Arabia e da essa trasportato fino a Suez; il definitivo rientro in patria avvenne a bordo del vapore Malwa.



    "Fino a quando continueremo ad affidare le navi mercantili di Sua Maestà a mocciosi di 27 anni, come potremo pretendere che simili sconcerìe cessino di avvenire!"
    "Ma Vostra Eccellenza, le rammento è stato provato che il faro di Ashrafi sia andato in avaria, che il secondo ufficiale si sia già contraddetto due volte e che non è dimostrabile la responsabilità del comandante Care, persona, come è di pubblica certezza, di grande responsabilità!"
    "Perfettamente! Una sospensione esemplare, rammenterà a tutti questi giovincelli che non ci si può cullare sugli allori dei meriti pregressi, ma che un comandante lo rimane in ogni momento!"


    Con un pizzico di immaginazione, questo potrebbe essere stato il dibattito della commissione di inchiesta presieduta dal Magistrato Ordinario J.A.Yorke, nominata per esprimersi in merito alla perdita del piroveliero Dunraven, avvenuta nella notte tra il 24 ed il 25 di aprile 1876. Del resto, nonostante i tempi fossero diversi da quelli di oggi, il capitano Edward Richard Care, al momento della perdita della nave, era appena ventisettenne e poteva già vantare quattro anni di esperienza dal momento in cui gli era stato conferito il "Master's Cerificate" N° 88.154 a soli 23 anni. La sentenza della commissione non fu clemente nei confronti del capitano Care riportando che egli "non fece alcun tentativo concreto di verificare l'esatta posizione del Dunraven a partire da mezzogiorno del 24 aprile fino alla 3.50 a.m. del 25, momento della collisione. Si attribuisce a questa negligenza la principale ragione della perdita della nave. Risulta inoltre chiaro, da un'attenta analisi della documentazione di bordo, che la terra avvistata dal secondo di bordo non poteva essere l'isola di Shadwan, né tantomeno il fanale avvistato non poteva essere quella di Ashrafi, come asserito; è probabile che si trattasse di un altro vascello."
    La commissione d'inchiesta trovò il capitano Care responsabile della perdita del Dunraven per negligenza ed inadempienza, tuttavia riconoscendo l'effetto di due coincidenze particolarmente sfavorevoli, quali la forte corrente al traverso e l'avaria del faro di Ashrafi. Conseguentemente,nonostante la severità della sentenza, la pena risultò relativamente mite, con revoca al capitano della licenza per un anno ma con mantenimento di quella di "secondo di bordo". Egli infatti, già vantando il primo imbarco come capitano nel 1872 sull'Etna e sull'Alvega, e dal 1874 sul Dunraven, tornò immediatamente in mare e fu ristabilito nei gradi di capitano nel 1877 nuovamente al comando dell'Etna, per continuare nella sua carriera di ufficiale di marina.


    ......il ritrovamento........



    Il relitto del Dunraven non era presente sulle carte dell’Ammiragliato Britannico quando gli israeliani, dopo l’occupazione del Sinai, iniziarono a esplorare questa parte del Mar Rosso. Su molte guide è possibile leggere che questo relitto fu scoperto durante un rilievo geologico e fu identificato alcuni anni dopo. In realtà le cose sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo), molto più complesse. Nei primi anni Settanta Howard Rosenstein aveva fondato Red Sea Divers, utilizzando come base Na’ama Bay (oggi inclusa in Sharm El Sheik). Nel 1977 decise che doveva trovare un modo per lanciare il Sinai rispetto alle allora più frequentate coste di Hurghada....egli pensò che doveva trovare, come richiamo per i subacquei, un relitto da abbinare a un evento storico importante per l’area. Prima si occupò della storia e sparse la voce che nell’area fosse naufragata una delle navi usate da Lawrence d’Arabia per il trasporto di valori destinati a finanziare la rivolta araba contro i turchi. Ora che aveva la storia e il fascino del carico prezioso doveva solo trovare un relitto poco conosciuto e adatto alla “parte”. Grazie all’indicazione di alcuni pescatori indigeni trovò il Dunraven e si accorse che era perfetto per il suo scopo: le sue forme ricordavano le quattro – e più recenti – navi usate da Lawrence d’Arabia (nessuna delle quali risulta per altro perduta). Con il tempo qualcuno capì che la storia di Lawrence d’Arabia non poteva essere vera, quindi suggerì che il relitto fosse un classe “Q”, cioè … una nave spia inglese della prima guerra mondiale! Come per il Kingston si mettevano sulla cattiva strada gli storici.
    Nel novembre del 1979 furono trovate delle porcellane e delle bottiglie che portarono all’identificazione.



    Nel 1977 un geologo tedesco di cui non si riporta il nome, durante una campagna di indagini geofisiche per una compagnia petrolifera, si dedicò alla ricerca di un relitto di cui ebbe notizia da un centro di immersione locale. Tuttavia le informazioni ricevute, risultarono così vaghe e in accurate, che ci vollero alcuni mesi prima che se ne riuscisse ad individuare l'esatta posizione. Fu appunto nei primi mesi del 1978 che, in maniera quasi accidentale, il geologo ed alcuni suoi compagni di ricerche, durante un'immersione in prossimità del fanale di segnalazione di Beacon rock, individuassero il relitto del Dunraven. Tuttavia dovette passare quasi un anno prima che si riuscisse ad identificare il nome e la relativa storia del naufragio. Per parecchi mesi infatti, numerose ipotesi, di cui alcune, come da costume marinaresco, a dir poco rocambolesche e leggendarie, si intrecciarono al punto da far calare una fitta cortina di mistero sulla nave di recente ritrovata. Alcune di queste leggende, riguardarono perfino la mitica figura di Lawrenche d'Arabia; parve infatti che nel corso della Prima Guerra Mondiale, l'ufficiale inglese in questione avesse utilizzato almeno tre navi civetta (il Dufferin, la M - 31 ed il Suva) per trasferire ingenti ricchezze da Suez ad Aqaba, in modo da finanziare la ribellione degli Arabi contro l'Impero Ottomano. Risultando queste navi di disegno simile al relitto appena ritrovato, è facile immaginare come più di una voce cominciò a circolare sull'immaginario ritrovamento di una nave carica di tesori ed altre ricchezze. Solo nel mese di novembre del 1978 fu rinvenuta una porcellana con inciso il nome della motonave Dunraven e da essa, dirempte le ultime incertezze su quale Dunraven si fosse scoperto, si potè risalire alla storia dell'intero naufragio.

    Il punto di ingresso in acqua è in corrispondenza di ciò che rimane del traliccio del vecchio fanale oramai abbattuto, a ridosso del reef; in questa maniera si può puntare direttamente verso la poppa del relitto giacente, capovolto su un fondale sabbioso a m 27. Imponente risulterà a prima vista l'elica, ed il grande timone, ricoperti di concrezioni madreporiche e da coloratissimi alcionari. Oltrepassando l'opera viva del relitto, si raggiunge il lato di dritta ove, attraverso 3 aperture lungo la fiancata, è possibile penetrare all'interno dello scafo. In questa maniera si percorrere la nave per quasi tutta la sua lunghezza, riconoscendo al suo interno l'asse dell'elica, le caldaie, la scala che conduceva sottocoperta, gli ingranaggi della timoneria ed alcune valvole del generatore di vapore.
    Caratteristica dello scafo di questo relitto è la presenza di un gran numero di glass fish, che, ritmicamente, seguono gli spostamenti dei subacquei. La prua, giacente a circa 18 metri, risulta evidentemente danneggiata dall'impatto con il reef e consente ampie vie di uscita dallo scafo, è possibile individuare la catena dell'ancora, il suo alloggiamento ed i verricelli di manovra. In questa zona è opportuno muoversi con circospezione in quanto abitata da un branco di lion fish (Pterois Volitans). L'immersione può completarsi con un passaggio lungo la chiglia del Dunraven in direzione opposta, completando il profilo dell'immersione multilivello seguendo il reef a bassa profondità. In questa zona oltre alle bellissime formazioni coralline caratteristiche del Mar Rosso, è frequente l'incontro con pesci napoleone, con branchi di pesci palla, e con altro pesce di reef corallino.
    (nautica.it, web)


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    Edited by gheagabry - 6/11/2013, 01:15
     
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