FAVOLE accanto al camino

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  1. gheagabry
     
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    La Befana di Calzastella

    C'era una volta una befana distratta ed un poco inesperta che aveva smarrito la sua scopa.

    Non che avesse poca memoria, niente affatto, soltanto era cosi' indaffarata che quell'anno proprio non trovava piu' la sua scopa.

    L'aveva cercata ovunque: sotto il letto, in soffitta, in cantina.
    Il 30 agosto l'aveva portata dal signore che revisionava scope magiche: le era costato una fortuna, in lire naturalmente.
    Oltre non ricordava nulla.

    Aveva chiesto anche al suo segretario, il gatto Romeo, ma aveva ricevuto in risposta un flebile miagolio mentre si stava dedicando alla sua occupazione preferita: abbuffarsi di dolci e torroncini.

    "Farai indigestione uno di questi giorni, golosone che non sei altro!" lo rimprovero' la vecchina, intenta a consultare alcuni libri nella speranza di trovare qualche rimedio.


    "Come faccio! Come faccio!
    I bambini mi aspettano ed io non ho un mezzo di trasporto adeguato per portare loro i regali.
    Rimarranno delusi, vorranno bene solo piu' a Babbo Natale!
    Che guaio, che guaio!".

    Dalla finestra della sua cameretta, Leo aveva seguito tutta la scena con il telescopio ricevuto in dono a Natale e che da giorni era puntato in direzione di Calzastella, il paese della befana.

    Essendo un ragazzino molto vispo ed intelligente, decise che la sfortunata andava aiutata ed inizio' ad inviare messaggi a tutti i suoi amici: "S.O.S. Befana senza scopa, bambini senza calze. Aiutiamola".

    Chi in bicicletta, chi sui pattini, chi addirittura sullo slittino: i bambini risposero tutti all'appello di Leo ed ognuno mise a disposizione di Happy Pifany -cosi' si chiamava la befana- il proprio mezzo di locomozione, per arrivare in tempo alla festa del 6 gennaio.


    Gabbiano, amico fidato e suo consigliere personale, volo' da lei e le racconto' cosa stavano facendo i bambini, raccomandandosi di tenersi pronta e di preparare i sacchi con le calze.

    "Quanto abbiamo da imparare dai piccoli", miagolo' Romeo, intento a bere latte caldo dalla sua ciotola.

    Happy si inciprio' il naso ed indosso' il suo vestito piu' bello, le scarpe rosse, il cappello a punta e lo scialle di lana ben stretto sulle spalle: era pronta per l'appuntamento con i suoi adorati bambini, e pure tanto emozionata.

    I primi chilometri, tutti in discesa, li percorse in sella ad una bicicletta color amaranto un tantino sgangherata ma si disse che mai si era divertita tanto!

    I sacchi con i regali erano stati legati uno all'altro e trascinati da coloratissimi monopattini.

    Al passaggio di quella allegra brigata, le persone uscirono dalle proprie case per applaudire e commentare quel grande gesto di bonta' dei bambini nei confronti di quella simpatica vecchietta.

    "Penseranno che la stiamo aiutando perche' in cambio riceveremo i doni" penso' Leo all'improvviso.

    E mentre decine e decine di visetti sorridenti gridavano i loro "urra'" per la befana, i ragazzi piu' grandi avevano gia' in mente un piano per concludere degnamente quella straordinaria giornata.

    Giunti nei pressi del campetto da pallone, Leo fece cenno di fermarsi.

    La befana si sedette a terra, slacciandosi i pattini con i quali aveva coraggiosamente percorso l'ultimo tratto di strada e, riprendendo fiato, disse: "Non ho parole per dirvi quello che provo in questo istante: il vostro gesto sara' ricompensato con tanti bei giocattoli!"

    E cosi' dicendo si alzo' per raggiungere, un po' traballante, i tanti sacchi che erano stati ammucchiati li' vicino.

    "No, Happy cara, fermati" disse Leo, prendendola per mano.
    "Io ed i miei amici abbiamo deciso che questa giornata deve concludersi con un gesto di solidarieta' nei confronti dei bambini meno fortunati.
    Noi tutti abbiamo le case piene di giochi, troppi e a volte inutili, mentre tanti altri bimbi non hanno nulla.
    Porteremo loro i tuoi doni, e sara' cosi' ogni 6 gennaio.
    Regaleremo un sorriso e un po' di serenita'".

    E cosi' fecero.
    I bambini non solo dimostrarono di essere rispettosi e premurosi nei confronti della befana, che fu nominata nonna di tutti, ma anche
    di possedere un grande cosi'.

    I grandi impararono che non necessariamente si aiuta il prossimo per avere in cambio qualcosa!

    Happy Pifany non trovo' mai la sua scopa: uno scherzo del destino?
    Chi puo' dirlo.

    Sicuramente da quel giorno ebbe tanti amici e non fu mai piu' sola.

    Infatti la sua casa divenne la meta di nonni che accompagnavano i loro nipotini a giocare e a farle visita, sorseggiando il the delle cinque e giocando allegramente a carte.

    Da allora il giorno dell'Epifania divenne simbolo di bonta'
    e Calzastella il paese della gioia.

    greta blu








    C'era una volta (così cominciano tutte le favole, e anche questa, perchè si parla di parecchi anni fa) una bambina che viveva coi genitori in un piccolo paese ma che trascorreva molte vacanze, comprese quelle dell' Epifania, coi nonni in una grande città. I nonni abitavano all'ultimo piano di un antico palazzo, in un appartamento senza ascensore ma con una bellissima vista sui tetti rossi della città e su un cortile interno dove cresceva un albero di fico e dove d'inverno si poteva costruire un pupazzo di neve. In casa dei nonni la bambina poteva fare tutto, tranne andare in una stanza attigua alla cucina, un camerone buio e freddo con la finestra che non chiudeva bene, adibito in parte a deposito di mobili e in parte a dispensa. Per scoraggiare la curiosità infantile, la nonna diceva che lì abitava il lupo Gesualdo, che come tutti i lupi che si rispettano mangiava i bambini. Finchè la bambina fu molto piccola, per un po' la cosa funzionò, ma subito dopo la voglia di vedere quel lupo cattivo prese il sopravvento, così per la bambina tutte le scuse erano buone per entrare in quella stanza proibita. Seguiva la nonna che andava aprendere un barattoli di marmellata, un cesto di mele (tutte cose che conservava in quel luogo fresco) e chiamando <uh! Uh!> cercava inutilmente il lupo Gesualdo.

    Ma durante le feste della Befana non si pensava al lupo. C'era la cartolibreria del nonno (proprio sotto casa) da esplorare, piena di nuovi quaderni e penne, e soprattutto libri. Libri bellissimi, che si aprivano in rilievo, pieni di storie di scoiattolini e animali del bosco, ma anche di avventure di pirati, indiani e spade nella roccia. In verittà su quei libri aveva cercato e trovato anche l'immagine di un lupo, nero e marrone e con gli occhi gialli, così spaventoso da farle passare per un po' la voglia di conoscere Gesualdo.

    Quando si avvicinava il giorno della Befana la bambina, che non sapeva ancora scrivere, si faceva aiutare dal nonno a compilare la letterina. Ne sceglievano una con tanti brillantini, e il nonno con la sua grafia ordinata e bellissima scriveva <cara Befana> e via con la lista dei regali: bambole, quaderni e libri. E la Befana (questo s' che era stupefacente) quando lasciava i doni, lasciava anche una letterina per la bimba, dove elencava le cose fatte bene e e quelle fatte male che la piccola aveva fatto durante l'anno. Era scritta con una grafia ordinata e rotonda che ricordava quella del nonno, si vede che erano stati a scuola assieme, così pensava qualche volta la bambina. Il nonno doveva in qualche modo conoscere la Befana e forse era lui a suggerirle di inserire fra i regali anche dei libri che lei aveva visto in cartolerie a non aveva chiesto, e che erano bellissimi.

    Ci fu un anno di grande freddo e di gelo, e la bambina si preoccupò per la Befana. Intanto, da dove entrava? In cucina non c'era il camino ma solo una grande stufa. Ed è vero che la nonna lasciava sul tavolo una tazza di latte e dei biscotti, ma sarebbero stati sufficienti? Così la sera di un 5 gennaio di tanti anni fa la bambina (che quell'anno per la prima volta aveva scritto la letterina da sola... o quasi) aspettò che i nonni fossero a letto, si alzò e in punta di piedi andò in cucina. Con un po' di paura entrò nella stanza del lupo Gesualdo (che di sicuro era in letargo, come diceva la nonna), spalancò la finestra che dava sui tetti, e lasciò aperta la porta di accesso in cucina, di modo che la Befana non avesse problemi a entrare in casa. Lasciò sul tavolo anche una bottiglia di vino e un avanzo di arrosto, oltre al latte e ai dolcetti, perchè la povera vecchietta potesse rifocillarsi a dovere, col freddo che faceva. Poi tornò a dormire.

    Ma ecco che nel mezzo della notte si sente prima un trapestio, poi un forte rumore di seggiole rovesciate, di cocci, di vetro che si rompe. La bambina salta giù dal letto e scalza corre in cucina. E cosa vede? Le seggiole a gambe all'aria, il latte rovesciato, la bottiglia di vino a terra, rotta, cibi e dolcetti sparsi dappertutto... e un enorme animale nero e marrone i cui occhi gialli guardano i suoi occhi neri e impauriti.

    La bambina urlò più forte che poteva. Tanto forte che arrivò la nonna, con la lunga camicia da notte bianca e la treccia, che portava raccolta a crocchia, mezza sfatta. La nonna spalancò la finestra di cucina, urlò <scò, sciò!> e l'animale sparì fra i tetti.

    Ma la bambina era in lacrime, disperata. Piagnucolava <era il lupo Gesualdo, ora la Befana non verrà, e se viene andrà via subito vedendo tutta la confusione che c'è in cucina...>. La nonna aveva un bel da dire:<macchè lupo,era solo un gattaccio> ma la piccola era talmente inconsolabile che le fu concesso di dormire nel lettone, fra il russare regolare del nonno e il respiro leggero della nonna. La piccola faticava a prendere sonno: si rendeva conto che quasi più di bambole e libri le sarebbe mancata quella letterina che la Befana le scriveva e che ogni volta la lasciava stupefatta: come poteva quella vecchina che viveva chissà dove, conoscerla tanto bene? Elencava episodi precisi, cose che conoscevano solo mamma e babbo e nonni... E quella letterina era per lei un filo invisibile che la univa a un mondo soprannaturale e misterioso che in qualche modo la confortava, come se Qualcuno grande e potente pensasse a lei, e poco importava che quel Qualcuno si facesse vivo solo una volta all'anno tramite la Befana, l'importante era che da qualche parte ci fosse una presenza che seguiva la sua piccola vita. Così pensava la bambina mentre la notte scivolava via verso il giorno.

    Ma la mattina dopo... sorpresa! La cucina era in ordine e la tavola era piena di doni, compresa la famosa letterina nella quale la Befana parlava del più e del meno e, da vera signora, non faceva cenno al disasatro della sera precedente! La Befana ancora una volta aveva fatto il miracolo.

    Nell'estate di quell'anno i nonni traslocarono in una casa più grande e bella, nessuno si ricordò più del lupo Gesualdo e, di lì a qualche tempo, neppure della Befana.

    Passò il tempo e la bambina diventò una donna. Visse in tanti luoghi e solo dopo molti anni tornò, in un giorno d'inverno, nella città dei suoi nonni. Aveva a un appuntamento di lavoro e andava di buon passo sotto una pioggia gelata, quando si trovò per caso a passare davanti al portone della casa della sua infanzia. Era mezzo aperto e lo spinse. Era motivata non da chissà quali nostalgie ma da una curiosità blanda e quasi indifferente. Era passato tanto tempo e di quanti avevano abitato la casa dei nonni lei era la sola rimasta al mondo. Entrò nel cortile. Non c'era più l'albero di fico ma impalcature dappertutto e una betoniera. <fanno lavori alla grande> pensò. Si affacciò sulla destra, dove c'era la scala che portava all'appartamento dei nonni, ma anche qui macerie e lavori in corso. Fece un passo e sentì un gran rumore, fu quasi travolta da calcinacci e intonaco che cadevano. Tra una polvere grigia e scura comparve una sagoma nera e marrone, con gli occhi grandi e gialli che guardavano i suoi occhi scuri. Si fissarono per un momento, come due viandanti che si incrociano alla stazione e a ciascuno pare di aver già visto l'altro, ma quando, ma dove? Ma tutti e due vanno di fretta e rimane l'ombra di un ricordo. Così l'animale sparisce chissà dove e la donna torna in strada, inseguita dalle grida di un muratore che strillava: <ma dove va, non vede che non si può, ci sono dei lavori, si può fare male!>.

    Fuori, la pioggia si era trasformata in nevischio.La donna allungò il passo, stretta nel suo giaccone, verso l'appuntamento. Guardò l'ora per vedere se era in ritardo. E fu così che le cadde lo sguardo sul datario dell'orologio: era il 6 gennaio.




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  2. gheagabry
     
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    IL CANE DI NATALE
    Bo era un cane, una tipo diverso di cane, ma comunque un cane. Col suo naso nero annusò nella stanza. Sentì l’odore dei biscotti di Natale. Quello gli fece capire che Natale si stava avvicinando, ed era il tempo perfetto per fare i biscotti di Natale. Naturalmente qui nel villaggio di Babbo Natale era come se fosse sempre Natale, ma biscotti natalizi sono realmente biscotti di Natale solo a Natale. Almeno sembrano essere migliori a Natale pensò Bo, e quella è la cosa più importante. "Ciao Bo, cerchi i biscotti di Natale?" domandò Mrs Claus, e Bo abbaiò la sua risposta. Bo di solito era un cane tranquillo, ma i biscotti valevano lo sforzo di un bau.

    "Allora ecco qua ragazzo, tre biscotti per te, fa in modo che Babbo Natale non lo sappia, lui pensa che tu stia ingrassando troppo. E uno con cui si può parlare, ma naturalmente è Babbo Natale, deve essere severo," disse Mrs Claus mentre gli dava i biscotti. Bo era d'accordo che Babbo Natale dovesse essere severo, era giusto che fosse così. Era anche d’accordo sul fatto che fosse meglio non dire a Babbo Natale dei biscotti. Scodinzolò a Mrs Claus ringraziandola per i biscotti, corse via, perché sapeva che Mrs Claus era sempre molto occupata. Mrs Claus gli piaceva, nell’insieme era una donna bella,perlomeno secondo il suo giudizio, e secondo lui era una bella persona anche secondo gli standard di giudizio degli umani. Pensò di far visita a Babbo Natale, ma rapidamente deciso di no, perchè probabilmente in quel momento era molto occupato, era la vigilia di natale, e lui non era il tipo di cane che sta sempre in mezzo ai piedi. Quello sono proprio pessime abitudini, e Bo non era proprio quel tipo di cane .

    Bo decise di andare a guardare gli Elfi. Forse loro avevano qualche biscotto da dargli. Lui piaceva agli Elfi, ma gli Elfi amano praticamenti tutti. Comunque era carino piacere agli Elfi. Tanto più che anche a lui piacevano gli Elfi, loro gli davano attenzioni coccole e biscotti. Gironzolò per l'officina tranquillamente, proprio come fanno i cani piccoli. Ha guardò deliziato come gli Elfi avevano costruito i giocattoli per tutti i bimbi del mondo, mettendoci dentro la loro magia. Erano molti anni che Bo assisteva a questa cosa, quella piccola magia lo deliziava sempre.

    "Ehilà Bo, come sta oggi il mio cucciolo rosso preferito?" chiese uno degli Elfi, Zenzero per la precisione. Bo abbaiò rispondendogli che stava bene. Era bello essere il loro cucciolo rosso preferito…… era ovvio visto che era l’unico cane nei paraggi, ma naturalmente è il pensiero che conta. Una volta gli Elfi gli avevano detto che la maggior parte cani non era rossa come lui, che era dello stesso colore del cappello e dell’abito di Babbo Natale. Bo pensava che ciò lo rendesse speciale, ma anche che era giusto che il cane di Babbo Natale fosse rosso.

    "Siamo molto indaffarati oggi Bo, ma penso che abbiamo il tempo per darti dei biscotti. C'è sempre tempo per i biscotti di Natale, vero Bo"?, domandò Zenzero.

    "Woof"!, confermò Bo, completamente felice. Zenzero gli era sempre sembrato un Elfo molto assennato.

    "Ecco qua, quattro biscotti. Non dirlo a Babbo Natale, lui ci dice sempre che un cane giovane cone te non dovrebbe fare troppi spuntini tra un pasto e l’altro. Spero che Babbo Natale sia pronto, oggi siamo troppo occupati per sgridarlo. O meglio,non ha bisogno che lo facciamo,è già successo abbastanza negli ultimi tempi, vero Bo?" Bo era d'accordo, Babbo Natale poteva sembrare un pò sciocco certe volte, ma piuttosto assennato… per essere un umano. Scodinzolò ed abbaiò in ringraziamento, poi decise che forse avrebbe dovuto andare a vedere Babbo Natale, giusto per essere sicuro che stesse facendo tutto per bene. Bo non voleva essere un fastidio, ma a volte gli umano hanno bisogno che i cani veglino su di loro…

    Nel frattempo…. Babbo Natale stava controllando la sua slitta. Accidenti, pensò, uno delle parti è allentata. Avrebbe bisogno di essere fissata. Era una realmente una vergogna che i preparativi per il natale non fossero più semplici, più simili allle storie su di lui nelle quali tutto quello che fa sembra facile. Ma alla fine ne valeva la pena, i bambini buoni meritavano i loro doni. Decise di andare nel capannone degli attrezzi dietro al castello del villaggio, e di prendere qualche cosa per fissare la slitta. Arrivato nel capannone degli attrezzi, Babbo Natale spalancò con impeto la porta. Poi la richiuse velocemente dietro a lui. Cercò gli attrezzi, e li trovo’ rapidamente. Si voltò per uscire, cercò di aprire la porta…. era stata chiusa a chiave….. da fuori. Non era possibile ! Babbo Natale provò di nuovo, e battè contro la porta. Niente da fare. Gridò per chiedere aiuto, ma nessuno lo sentì. Stanco per lo sforzo, ed anche per la giornata faticosa, Babbo Natale si sedette su una panca da lavoro per roprendersi.

    Bo riusciva a trovare Babbo Natale nel suo studio. Niente di strano, Babbo Natale si muoveva molto quando era occupato, ed oggi era piuttosto occupato. Controllò per vedere se era con Mrs Claus. ma non c’era. Mrs Claus sembrava un pò preoccupata, e si chiedeva ad alta voce, parlando con alcuni elfi, dove si fosse cacciato Babbo Natale. Bo, non avendo molto dove altro fare, andò a cercarlo nei pressi del castello, ma là non c’era. Domandò alle renne, ma non poterono essergli d’aiuto, parlavano solamente la loro lingua e lui non la capiva… e non potè domandare se avevano visto. Dopotutto era solo un cane. Babbo Natale sembra essersi nascosto bene, pensò Bo, e decise che lo avrebbe trovato. Del resto Babbo Natale era il suo padrone, e canisono proprio adatti per fare queste cose.

    Bo finalmente deciso di controllare da Woody, nella foresta magica degli alberi di natale, proprio fuori il villaggio. Woody era il più alto, ed il più vecchio albero del Natale nella foresta, ed essendo magico forse avrebbe potuto parlare. Alcuni forse avrebbero potuto trovarlo strano, ma per Bo non era così. Nulla era strano nel villaggio di Babbo Natale. Andò da Woody e lo salutò con un woof, e gli chiese se aveva veduto Babbo Natale da quelle parti. Woody era un vecchio albero saggio, e conosceva diverse lingue, inclusa quella dei cani. Gli disse che non lo aveva visto, ed espresse la sua preoccupazione per la situazione. Non era da Babbo Natale sparire alla vigilia di natale. Bo era d'accordo, Babbo Natale di solito era molto assennato. Chiese a Woody di dargli dei suggerimenti, e Woody gli disse di portargli una delle renne, e lui le avrebbe domandato se aveva visto Babbo Natale. Bo pensò che questa fosse una buona idea e fu d’accordo con Woody. Ando’ a recuperare una renna, Dasher decise,da portare a Woody. Abbaiò a Dasher le fece segno di seguirlo. La renna è un animale intelligente, anche se qualche volta un po’ pazzerello, e così seguì il piccolo cane rosso. Quando raggiunsero Woody, il grande vecchio albero spiegò tutto a Dasher, ed ascoltò sua risposta. Woody disse a Bo che Dasher aveva visto Babbo Natale andare dietro al castello. Bo ringraziò Woody, e gli chiese di ringraziare Dasher da parte sua, scodinzolò, ed andò a cercare Mrs Claus.

    Mrs Claus era molto preoccupata mentre stava camminando intorno al castello e chiamava Babbo Natale a voce alta. Quando la trovò, Bo abbaiò una volta, e poi ancora, spingendo leggermente la sua gamba, e cercando di ottenere la sua attenzione. "Cosa c’è Bo, sai dov’è Babbo Natale "?, chiese Mrs Claus. E’ propriouna donna intelligente, pensò Bo.

    "Woof,woof"!, rispose Bo, e si avviò verso la porta, cercando di farsi seguire. Lei lo, come era giusto faree lui la condusse dietro al castello, ma c'era nessun segno di Babbo Natale. Mrs Claus gridò il suo nome, ma non ci fu risposta. Bo tese le sue orecchie da cane, in modo da potere sentire meglio, ed udì un suono. Abbaiò a Mrs Claus, corse via nella direzione del suono. Si sentiva sempre più forte man mano che si avvicinavano al vecchio capannone degli attrezzi.

    "Io conosco questo suono," disse Mrs Claus mentre si avvicinava al capannone degli attrezzi, "è..," aprì la porta del capannone degli attrezzi,." …Babbo Natale che russa! " Era vero,c'era Babbo Natale, addormentato su una panca del lavoro, che stava russando. "Sveglia Babbo Natale!" gridò Mrs Claus.

    "Huh?! Cosa? Oh, ciao! Mi ha trovato, bene, grazie, non ci hai nemmeno messo troppo tempo," disse Babbo Natale. "Troppo tempo? Sei rimasto addormentato per ore Babbo Natale, e saresti rimasto indietro con il lavoro se gli Elfi non avessero lavorato duramente per recuperare. Cosa stai facendo qui"?, chiese Mrs Claus, piuttosto irritata.

    "Ore? Mi sono sdraiato solo per un momento, per riposare, stavo cercando un attrezzo per fissare la slitta, e la porta si è chiusa a chiave dietro di me. Ho cercato uscire, ma ero troppo stanco così ho pensato di riposarmi sulla panca, ma solo per un attimo, prima di riprovarci…." Rispose Babbo Natale piuttosto confuso, ed ancora assonnato.

    "Allora sei fortunato che Bo ti abbia trovato, altrimenti avremmo potuto trovarci in un grosso guaio," disse Mrs Claus."Così, sei tu che mi hai trovato Bo"?, domandò Babbo Natale. Bo abbaiò un sì. "Molto bene allora, conosco uno cane che riceverà un regalo extra per natale, quest’anno," disse Babbo Natale.

    Fu molto dura,ma Babbo Natale fu in perfetto orario per il Natale e consegnò i doni a tutti i bimbi del mondo. Quando Bo si svegliò, la mattina di Natale, tra i suoi dono ce n’era uno extra. Mrs Claus lo aprì per lui, ed all’interno c’era una sciarpa verde nuova per lui, e venti biscotti di Natale. Un dono meraviglioso,i biscotti di Natale sono una buona cosa da mangiare nel giorno di Natale. Mrs Claus mise la sciarpa intorno al suo piccolo collo rosso, e Bo cominciò a mordicchiare uno dei biscotti. Davvero un dono meraviglioso, per un meraviglioso Natale.

    (Dal Web)
     
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  3. gheagabry
     
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    Le Ciabatte

    Era freddo. L'inverno era arrivato! Un morbido manto bianco di neve copriva tutto il paese. In un'angusta casa, buia e fredda, viveva un piccolo vecchio tutto solo soletto. Il nostro vecchietto aveva sempre freddo ai piedi e, non avendo delle ciabatte, si teneva su l'unico paio di stivali, anche quando erano bagnati. «Sempre meglio che scalzo!», pensava. Infatti era molto povero. Ogni mattina si metteva sulle magre spalle il suo logoro mantello ed usciva per andare in paese. Nel cammino i suoi consumati stivali si bagnavano lentamente per la neve. Sostava sempre allo stesso posto, sui gradini di una chiesa, deponeva una ciotola per terra e attendeva che i passanti gli facessero l'elemosina. Con i soldi che riceveva si comprava da mangiare e pagava l'affitto della sua misera casa. «Ah!», si ripeteva spesso. «Sarei contentissimo, se un giorno potessi ricevere così tanto da poter acquistare un bel paio di ciabatte per i miei poveri piedi sempre freddi!». Così passavano giorni e settimane ed il vecchietto non riusciva a risparmiare abbastanza perché quello che otteneva era sempre troppo poco. Arrivò la vigilia di natale e come gli altri giorni il vecchietto si diresse verso il paese. Camminava tutto assorto nei suoi pensieri, quando udì uno scampanellio alle sue spalle e si voltò... con stupore vide una bella e grande slitta, trainata da tre robuste renne. Sopra la slitta sedeva un anziano signore, arzillo e pacioccone, che si copriva le gambe con una bella coperta rossa dai graziosi disegni. «Ah! Babbo Natale!», esclamò il povero vecchietto che fino allora non l'aveva mai visto ed ormai non ci credeva più. Babbo Natale si fermò e gli offrì; gentilmente di accompagnarlo in paese. Il vecchio, tutto contento, accettò; subito e salì sulla slitta. «Vado in paese a chiedere l'elemosina. Non riesco a trovare un lavoro. Sono troppo vecchio!» spiegò a Babbo Natale. «Purtroppo guadagno solo per il pane e l'affitto. E' da molto tempo che desidero delle ciabatte per stare in casa. Tu, Babbo Natale, non potresti regalarmene un bel paio?». «Come mi dispiace! Ho solo ciabatte piccole... sai, io faccio regali solo ai bambini e non agli adulti; infatti loro non credono più che io esista». «Non fa niente. Ma dimmi un po'. Sei veramente Babbo Natale? Io sono molto vecchio e non ti avevo mai visto, neanche da bambino. Inoltre la tua voce mi sembra molto giovane. Non è la voce di un vecchio!». L'uomo sulla slitta si mise a ridere: «Sì, hai ragione a dubitare! Infatti non lo sono. Mi sono vestito e truccato così per la mia bambina. Ogni natale le mettevo i regali sotto l'albero ed ogni volta rimaneva un po' male per non aver visto Babbo Natale di persona. Mi chiedeva sempre se egli fosse arrabbiato con lei; o se fosse stata cattiva per non potergli parlare. Ragione per cui questa volta voglio farle una sorpresa». «Ah, veramente bello! Devi voler molto bene alla tua bambina!». «Sì, davvero molto! Forse la vizio anche un po'. Ma devi sapere che la bambina non può camminare. Ha avuto un brutto incidente alcuni anni fa. I medici dicono che è; colpa dello shock. Ecco perché cerco di fare il possibile affinché sia felice e serena!». «Mi dispiace molto... ma vedrai che sarà contenta per questa sorpresa!». «Lo spero proprio! Anche se ho timore di essere scoperto subito... sai, mi è venuta un' idea... perché non fai tu Babbo Natale? In cambio ti darò; i soldi della giornata e per comprare le ciabatte». «Come vuoi! Sono contento di poterti aiutare». Si fermarono ed il vecchietto si vestì; da Babbo Natale e prese il posto alla guida della slitta. L'uomo, che ora aveva il suo vestito ed un aspetto normale, giovane, molto elegante e distinto, sedette accanto a Babbo Natale e indicò la strada per la sua casa. Prima fecero sosta in paese a comprare dei regalini per la bambina e li misero in un sacco, poi arrivarono con calma, verso sera. Era una bellissima villetta con un grande giardino tutto coperto di neve. La bambina era seduta alla finestra della sua cameretta e aspettava il ritorno del papà. Con stupore e felicità vide la bella carrozza e le tre renne. E tutta commossa intuì; la sorpresa tanto attesa. Dalla gioia quasi cadeva dalla carrozzella: «Mamma, mamma, sono arrivati... c'è babbo natale! E' con papà!». Il padre intanto aiutava il povero vecchietto a scendere dalla slitta: era commosso pure lui, vedendo che, con quel bellissimo mantello rosso, con quella lunga barba bianca finta e con quel sacco pieno di regali sulle spalle, sembrava veramente Babbo Natale. «Vieni che ti faccio entrare. La mia bambina si chiama Francesca, sarò veramente felice di vederti». Aprì la porta e Francesca, seduta nella sua carrozzella, era portata dalla mamma, tutta commossa ed eccitata pure lei. Il vecchietto e la bambina si guardarono negli occhi ed entrambi sorrisero, erano felici. Il vecchio notò la bellezza e la dolcezza della bambina. «Eccomi qua!», disse Babbo Natale. «Il tuo papà è venuto a cercarmi e mi ha detto che desideri tanto vedermi e conoscermi. ti ho anche portato dei bellissimi regali...». La bambina commossa alzò le manine per salutare babbo natale: «Sono contentissima che sei venuto, avevo tanta voglia di vederti e parlarti. Sai, voglio ringraziarti anche per tutti i regali che mi hai fatto gli anni scorsi». Babbo Natale prese le manine e diede un bacetto sulle guance della bambina. «Ecco, quest'anno ti ho portato una bellissima bambola con un bel vestitino rosa, un bel gattino di peluche, un libro, le matite colorate e un bel gioco con i dadi che potrai fare con papà; e mamma...», sorrise mentre vuotava il suo sacco. «Oh, che belli! grazie mille Babbo Natale... ora però vorrei farti anch'io un regalo. Dimmi che cosa vorresti per natale?». «Ah, grazie. Non importa. Io desidero solo che tutti i bambini siano felici...». «Ma io sarei ancora più; felice se potessi regalarti qualcosa...». «E va bene... se proprio vuoi... allora vorrei avere un paio di ciabatte. Magari imbottite... ho sempre tanto freddo ai piedi...». «Che bello... ho proprio quello che desideri... prendi quel pacchetto rosso sotto l'albero, le avevo comprate per il papà, ma sono sicura che anche lui sarà contento di dartele. Vero papà?», esclamò Francesca. «Sì, non preoccuparti, regalale pure a Babbo Natale. Sono sicuro che sarà felicissimo!». Babbo Natale prese il pacchetto rosso, l'aprì e tirò fuori le ciabatte che tanto desiderava... «Oh, che belle... non vedo l'ora di metterle, devono essere veramente comode...», disse il vecchietto molto commosso. «Dai Babbo Natale, provale e togliti il mantello. Vuoi rimanere da noi a cena? Così possiamo stare un po' in compagnia!», domandò felice la bambina. Il vecchietto guardò il padre della bambina perché non sapeva più cosa fare e che cosa rispondere. Prima che il papà; potesse dire qualcosa (anche lui era rimasto sorpreso), la mamma intervenne contenta: «Sì! accomodati pure. Saremmo tutti contenti di averti nostro ospite a cena». «Grazie infinite. Sono molto lieto della vostra compagnia», rispose il vecchietto mentre si metteva le ciabatte e si toglieva il mantello. La bambina e i genitori videro che il vecchietto, senza il folto mantello rosso, era più magro del previsto ed indossava un vecchio maglione un po' scolorito, ma non ci fecero caso, e si accomodarono tutti contenti a tavola. Parlarono di molte cose. Il vecchietto si sentiva in forma e raccontò molte storielle alla bambina che lo ascoltava sempre più; emozionata. Mamma e papà più volte si guardarono compiaciuti per la bella serata. Il papà cominciò quasi a credere che il vecchietto fosse veramente Babbo Natale da quanta serenità e gioia riusciva a dare con i suoi racconti. Ma sapeva bene che era impossibile, perché in passato lo aveva già visto sui gradini della chiesa a chiedere l'elemosina. La cena fu deliziosa e si fece tardi. Babbo Natale si rese conto che ormai doveva partire. Per questo motivo si congedò ringraziando mamma e papà per la cena, e si avvicinò alla bambina per salutarla. Mentre le dava due bacini sulle guance, la bambina gli bisbigliò qualcosa all'orecchio senza che mamma e papà potessero sentirli. Babbo Natale sorrise e rispose bisbigliando anche lui. Poi continuò; a voce normale e serena: «Ora devo andare! è stata una bellissima serata. Grazie ancora per le ciabatte... sono molto lieto di averti conosciuta. Sii sempre così allegra e dolce, addio...». «Addio, Babbo Natale... grazie della visita. Mi ricorderò sempre di te», salutò la bambina, un po' triste perché egli partiva, ma contenta per quell'unica occasione che aveva avuto. Il papà mise il mantello sulle spalle del vecchietto e lo accompagnò alla porta. Fuori, non sentiti dalla bambina, disse: «Grazie, vecchio mio. Sei stato fantastico. Tieniti pure il costume di Babbo Natale con la slitta e le renne: te li sei veramente guadagnati. Non dimenticherò mai questa serata. Arrivederci». «Addio, buon uomo!». Il vecchietto salì sulla slitta e si avviò a casa, salutando con la mano la bambina e la mamma che nel frattempo si erano affacciate alla finestra. Il papà; tornato a casa vide la bambina felice e si ricordò; che ella aveva sussurrato qualcosa al vecchietto e le domandò sereno: «Veramente simpatico questo Babbo Natale. Dimmi un po' che cosa gli hai bisbigliato?». «E' una sorpresa, non posso dirtelo». «Dai dimmelo, non gli avrai per caso chiesto un altro regalo?», chiese di nuovo scherzando. «Beh sì! ma non per me..., non vorrei dirtelo». «Va bene. Ma comunque, lui che cosa ti ha risposto?», continuò; il papà un po' preoccupato. Infatti sapeva che il vecchietto non era Babbo Natale e che non avrebbe potuto fare nessun altro regalo. «Mi ha sussurrato: domani mattina, a natale!», gli rispose felicissima la bambina. Era ormai ora di andare a letto e la bambina si addormentò subito serenamente, mentre il papà; sempre più; pensieroso decise di uscire. Prese la macchina e andò; a trovare il vecchio nella sua piccola casa. Bussò;... il vecchio aprì: era visibilmente felice e calzava le ciabatte. «Salve, come mai da queste parti?». «Scusami per il disturbo, ma avevo notato che Francesca ti aveva bisbigliato qualcosa all'orecchio... ti aveva chiesto un altro regalo. Beh, sono qui affinché tu me lo dica. Così posso prepararglielo per domani mattina». «Ah! sì è vero... devi sapere che la tua bambina ha chiesto un regalino per te. Infatti mi ha dato le tue ciabatte. Guarda che belle... quindi era un po' dispiaciuta perché si era resa conto che tu eri rimasto senza regalo. Io non potevo dire di no! Così, dopo, ho venduto la slitta e l'ho comprato. Eccolo in questo pacco! Speravo che saresti passato...». «Grazie, che bel pensiero! Lo metterò sotto l'albero e domani farò finta di niente. Ciao e buonanotte». La mattina di natale tutti si alzarono dal letto e andarono a vedere sotto l'albero. Con sorpresa la bambina trovò il regalo e felice lo diede al papà;. Il papà notò che il pacco aveva un biglietto che prima non aveva osservato e lesse: «Per Francesca, mamma e papà, da Babbo Natale». «Ah! così; avevi chiesto a Babbo Natale un regalino per tutti noi...», sorrise il papà. La bambina arrossì un po': «Oh! ha raccontato delle così belle favole... per questo ho voluto chiedergli qualcosa di particolare...». Il papà; scartò il pacco e tirò fuori tre paia di morbide ciabatte, grandi per lui e la mamma e piccole per Francesca... fu perplesso e un po' deluso. Non sapeva se dirle la verità;, cioè che Babbo Natale era solo un povero vecchio. La mamma invece senza pensarci su due volte esclamò;: «Ah, che belle! Dai che le mettiamo subito, sembrano essere molto calde!». Francesca fu contentissima e se le fece mettere dalla mamma. Calzate le ciabatte, sentì subito un benefico calore salirle dai piedini su fino al cuore e volle provare a camminare, come aveva chiesto di nascosto a Babbo Natale. Si alzò dalla carrozzella e ci riuscì;... lo shock era finalmente superato!! Il papà e la mamma abbracciarono felicissimi la bambina che andò loro incontro. Passati i momenti di commozione e grande felicità, il papà pensò di nuovo al vecchietto e domandò alla moglie: «Dimmi, era veramente Babbo Natale o no? Io per essere sincero non lo so più...». «Ho visto la gioia di Francesca mentre gli parlava. Credo che lo sia veramente. Babbo Natale esiste, ma bisogna crederci fermamente. Altrimenti è solo un povero vecchio...». Passarono insieme il più; bel natale mai avuto fino ad allora. Il giorno dopo il papà si recò alla chiesa per incontrare il vecchio. Infatti voleva mettersi le idee bene in chiaro. Lo vide seduto allo stesso posto a chiedere l'elemosina. Si avvicinò e balbettò: «Dimmi chi sei? Sai che grazie alle tue ciabatte Francesca ha cominciato di nuovo a camminare? Sei veramente Babbo Natale?». «No, sono un normale vecchietto, sono solo riuscito a dare a Francesca speranza e fiducia...». «Non so come ringraziarti. Anzi, ho deciso! Noi abbiamo un giardino e abbiamo bisogno di un giardiniere. Vuoi abitare da noi e curarlo?». «Sarei contentissimo. Sarà bello poter parlare e vedere ogni giorno la tua bella famigliola». Francesca e la mamma accolsero subito felicemente il vecchietto e, nonostante gli ricordasse Babbo Natale, non lo fecero mai notare e vissero tutti felici e contenti.

    (Giuseppe Veronese)



    http://elvenpath.altervista.org/
     
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    L'uomo più grasso del mondo.

    Ora la luna era così vicina al mondo che ogni bambino poteva accarezzarla.
    Tutti i bimbi del mondo presero un sasso di luna e se lo misero in tasca mentre l'uomo più grasso del mondo, dopo aver visto casa sua, fece un salto andando a finire proprio nel suo prato verde.
    Vide allora la luna allontanarsi velocemente come un palloncino bianco pieno d'aria che ti scappa dalle mani.
    La luna tornò al suo posto e lui, dopo aver mangiato una mela, tornò nella sua casa dove stanco si sdraiò sul letto e si addormentò.
    Quando l'uomo più grasso del mondo si alzò era già notte, era la notte di Natale.
    Uscì di casa è iniziò a camminare nel buio rischiarato dalla luna piena, bianca e lucente come il vestito di Fata Meraviglia.
    L'uomo più grasso del mondo non capiva se era andato sulla luna o se lo aveva solo sognato, non si ricordava se aveva volato davvero, visto il mondo dall'alto, visto tutti i bambini che accarezzavano la luna.
    Camminava e pensava senza ricordare tutto ciò che era successo, camminava verso il paese dove le case stanno vicine.
    Da lontano, sulla collina, si vedeva tutto il paese con davanti la grande piazza.
    L'uomo più grasso del mondo si fermò; alzò lo sguardo ancora una volta verso la luna, la salutò, si sedette sul prato e iniziò a pensare che la notte di Natale è davvero speciale.
    Quando ad una ad una le luci delle case si spensero, notò che alcune finestre rimanevano illuminate di una bianca luce, luce di luna.
    I sassi bianchi di luna dei bambini di tutto il mondo si erano illuminati.
    Sassi bianchi di luna nelle case, nei grattacieli, nelle capanne, negli igloo, ovunque ci fossero dei bambini.

    (Maurizio Fusina)

     
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    Il dono dei Magi

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    di O. Henry

    Tratto dalla raccolta Memorie di un cane giallo.
    La traduzione della novella è stata realizzata dal critico letterario Giorgio Manganelli


    Un dollaro e ottantasette cents. Era tutto. E sessanta cents erano in pennies. Pennies risparmiati uno o due per volta, contesi al droghiere e al verduraio e al macellaio, finché, convinti di taccagneria da quelle puntigliose trattative, le guance vi si coprono di rossore. Tre volte Della contò il denaro. Un dollaro e ottantasette cents. E l’indomani era Natale. Era chiaro: non c’era altro da fare che lasciarsi cadere sul nudo lettino, e mettersi a urlare. E così appunto si comportò Della. E ciò vale a stimolare la riflessione morale che la vita è fatta di singhiozzi, sospiri e sorrisi, con una certa preponderanza di sospiri.
    Mentre la signora della casa gradualmente trapassa dal primo al secondo stadio, date una occhiata alla casa. Un appartamento ammobiliato a otto dollari per settimana. Non si può dire che superi qualsiasi descrizione: ma certo le mette a duro cimento.
    Nell’atrio, a pianterreno, stava una cassetta delle lettere in cui non entrava mai una lettera, ed un pulsante elettrico dal quale nessun dito umano avrebbe potuto estorcere un suono. A tutto ciò aggiungevasi un cartoncino recante il nome “Mr. James Dillingham Young”.
    Durante trascorsi periodi di prosperità, quando il proprietario guadagnava trenta dollari la settimana, quel “Dillingham” aveva garrito al vento. Ora, ridottosi a venti dollari, le lettere del “Dillingham” apparivano confuse, quasi meditassero seriamente di contrarsi in un modesto, sommesso D. Ma ogni qualvolta Mr. James Dillingham Young tornava a casa, al suo appartamento al piano di sopra, si sentiva chiamare «Jim» e grandemente lo coccolava la signora Dillingham Young, già presentatavi col nome di Della. E ciò era molto bello.
    Della portò a termine il suo pianto, e si passò il piumino sulle guance. Poi si pose alla finestra a guardare stancamente il gatto grigio che percorreva la stecconata grigia del grigio cortile. L’indomani era Natale, e lei aveva soltanto un dollaro e ottantasette cents per fare un regalo a Jim. Per mesi aveva risparmiato un cent dopo l’altro: e quello era il risultato. Con venti dollari la settimana non si fa gran che. Le spese erano state maggiori del previsto. Succede sempre così. Solo un dollaro e ottantasette per comprare un regalo a Jim. Al suo Jim. Molte ore felici ella aveva trascorso a pensare qualcosa di carino per lui. Qualcosa di bello e raro e autentico, qualcosa che non fosse troppo indegno dell’onore di appartenere a Jim.
    Tra le due finestre della stanza stava uno specchio stretto e alto. Forse li avete già visti, questi specchi da muro che si trovano negli appartamenti da otto dollari. Una persona agile e sottile può, cogliendo la propria immagine in una rapida sequenza di strisce longitudinali, pervenire ad un concetto sostanzialmente adeguato del proprio aspetto. Della, che era sottiletta, era padrona dell’arte.
    Con una piroetta improvvisa si scostò dalla finestra e ristette di fronte allo specchio. Gli occhi le splendevano intensamente, ma in venti secondi il suo volto perse ogni colore. Rapidamente si sciolse la chioma e la lasciò cadere per tutta la sua lunghezza.
    Ora, di due possessi i Dillingham erano profondamente orgogliosi. Uno era l’orologio d’oro di Jim, che era stato di suo padre e del padre di suo padre. L’altro la chioma di Della. Se la regina di Saba avesse abitato nell’appartamento di fronte, Della avrebbe lasciato pendere i capelli alla finestra per asciugarli, soltanto per fare scorno ai gioielli e ai doni di Sua Maestà. Se re Salomone fosse stato il portiere con tutti i suoi tesori ammucchiati in cantina, Jim avrebbe tratto dal taschino il suo orologio ogni qualvolta gli fosse passato davanti, per il solo gusto di vederlo strapparsi la barba per l’invidia.
    Così ora cadde la bella chioma di Della, ondeggiante e splendente come una cascata di acque scure. Le arrivò fin sotto il ginocchio, la avvolse quasi come un vestito. Poi Della la riavvolse, con gesti rapidi e nervosi. Parve esitare un istante, e rimase immobile, mentre una o due lacrime cadevano sul rosso tappeto frusto.
    Indossò una vecchia giacca marrone. Si mise in capo il vecchio cappello marrone. Con un frullo di gonne, gli occhi ancora luccicanti, scivolò fuori della porta, scese le scale e raggiunse la strada.
    Si fermò davanti ad una insegna: “M.me Sofronie. Parrucche di ogni tipo”.
    Della salì di corsa una rampa di scale, e si fermò ansimante. Madame, ampia, troppo bianca, gelida, non aveva l’aria di una “Sofronie”.
    «Volete comprare i miei capelli?» domandò Della.
    «Io compro capelli» disse Madame. «Fate un po’ vedere».
    Si disciolse la bruna cascata.
    «Venti dollari». Disse Madame, reggendo la massa con mano esperta.
    «Datemeli subito» disse Della.
    Oh, le due ore seguenti volarono su ali di rosa. Perdonate la trita metafora. Della andava setacciando un magazzino dopo l’altro, in cerca di un regalo per Jim.

    magi-20-21



    Lo trovò alla fine. Certamente era stato fatto per Jim e per nessun altro. Niente di simile aveva trovato in tutti gli altri negozi, e li aveva passati da cima a fondo. Era una catenella per orologio da taschino, in platino, di casto e semplice disegno, che opportunamente manifestava il proprio valore per virtù della sola sostanza, senza far ricorso a indecorosi orpelli: come debbono fare tutte le buone cose. Era perfino degno dell’orologio. Non appena l’ebbe visto ella seppe che spettava a Jim. Era come lui. Pregio e semplicità, la definizione valeva per entrambi.
    Le presero ventun dollari, ed ella si precipitò a casa con i suoi ottantasette cents. Con quella catena all’orologio, in qualsiasi compagnia si fosse trovato, Jim avrebbe potuto senza disdoro preoccuparsi di tanto in tanto del trascorrere del tempo. Per quanto meraviglioso fosse l’orologio, infatti, ora gli accadeva di scrutarlo con occhiate furtive, per via di quel vecchio cinturino di cuoio che usava in vece della catenella.
    Quando Della giunse a casa l’ebbrezza cedette un poco alla prudenza e alla ragione. Trasse fuori i ferri per arricciare i capelli, accese il gas, e si accinse a porre riparo al guasto fatto dalla generosità aggiunta all’amore. E questo è sempre un compito terribile, amici carissimi, un’impresa da mammut.
    Quaranta minuti dopo, Della aveva una testa coperta di ricci fitti e minuti, che la facevano del tutto somigliante ad uno scolaretto scapestrato. Considerò la propria immagine allo specchio, a lungo, minutamente, con occhio critico.
    «Se Jim non mi uccide prima di darmi una seconda occhiata,» si disse «dirà che sembro una corista di Coney Island. Ma come potevo fare, ahimè, che potevo fare con un dollaro e ottantasette cents?».
    Alle sette il caffè era fatto, e la padella era dietro la stufa, calda e pronta a cuocere le costolette.
    Jim non era mai in ritardo. Della chiuse nella mano la catenella dell’orologio e sedette su un angolo della tavola vicino alla porta. Poi udì il suo passo sulla prima rampa delle scale, e per un istante diventò pallida. Aveva l’abitudine di dire piccole preghiere silenziose per le cose più semplici di ogni giorno ed ora ella sussurrò: «Dio, per piacere fagli pensare che sono ancora carina».
    La porta si aprì, Jim entrò e la richiuse. Era assai magrolino, e d’aria tanto seria. Povero diavolo, soltanto ventidue anni e già con il carico di una famiglia! Aveva proprio bisogno di un cappotto nuovo, e non aveva i guanti.
    Varcata la soglia, Jim si fermò immobile come un setter che abbia colto l’usta della quaglia. I suoi occhi erano fissi su Della, ed avevano una espressione che non le riusciva di decifrare, che l’atterriva. Non era ira, né sorpresa, né biasimo, né orrore, né alcun altro sentimento che ella avesse previsto. La guardava con occhi fissi e intenti, e il suo volto aveva quella strana espressione.
    Cautamente Della scese dal tavolo e gli si avvicinò.
    «Jim, caro» gridò «non guardarmi a quel modo. Mi son fatta tagliare i capelli e li ho venduti perché non avrei potuto farti un regalo. Cresceranno di nuovo… A te non dispiace, vero? Dovevo farlo. I miei capelli crescono così alla svelta. Dimmi “Buon Natale”, Jim, e siamo felici. Tu non sai che bel regalo, che regalo splendido ho trovato per te».
    «Tu ti sei tagliata i capelli?» chiese Jim faticosamente, come se nemmeno dopo il più intenso sforzo mentale fosse riuscito ad afferrare quel fatto del tutto evidente.
    «Li ho tagliati e venduti» disse Della. «Non ti piaccio lo stesso? Sono io anche senza i miei capelli, vero?».
    Jim si guardò attorno con aria curiosa.
    «Hai detto che i tuoi capelli non ci sono più?» disse, con un tono che rasentava l’idiozia.
    «Non cercarli» disse Della. «Li ho venduti, ti dico; li ho venduti, non ci sono più. È la vigilia di Natale. Sii buono con me, l’ho fatto per te. Forse i capelli che erano sul mio capo erano contati,» proseguì con una subitanea dolce gravità «ma nessuno potrebbe mai misurare il mio amore per te. Vuoi che metta su le costolette, Jim?».
    Jim parve riscuotersi bruscamente dal suo stordimento. Abbracciò la sua Della. Per dieci secondi volgiamo il nostro sguardo discreto da un’altra parte. Che differenza vi è tra otto dollari alla settimana e un milione di dollari l’anno? Un matematico o un uomo di spirito ci darebbe la risposta sbagliata. Doni di gran pregio recarono i Magi, ma non questo. Oscura asserzione, che verrà chiarita più avanti.
    Jim si trasse un pacchetto dalla tasca del cappotto e lo gettò sul tavolo. «Non fraintendermi Della» disse. «Non penso che un taglio di capelli o una rasatura o uno sciampo possano rendere meno bella la mia ragazza. Ma se vorrai aprire quel pacchetto capirai perché mi avevi fatto restare senza fiato».
    Candide dita ed agili lacerarono corda e carta. E poi un estatico grido di gioia; e poi, ahimè, un subito femmineo insorgere di isteriche lacrime e gemiti, che imposero l’immediato intervento di tutti i poteri consolatori del signore della dimora.
    Giacché lì stavano i Pettini, tutta intera la serie dei pettini da porre sulla nuca e ai lati, che Della aveva a lungo vagheggiato in una vetrina a Broadway. Splendidi pettini, puro guscio di tartaruga con orli ingioiellati: e per l’appunto della tinta che si accordava alla splendida chioma svanita. Ed erano pettini di pregio, ella lo sapeva, ed il cuore li aveva bramati ed anelati senza alcuna speranza di possesso. Ora erano suoi, ma le trecce che dovevano adornarsi degli agognati ornamenti erano scomparse.
    Ma se li strinse al seno, ed alla fine riuscì ad alzare i suoi occhi scuri e a sorridere mentre diceva: «I miei capelli crescono così in fretta, Jim!».
    E poi Della si mise a saltare come un gattino scottato e gridò: «Oh! Oh!».
    Jim non aveva ancora visto il suo bel regalo. Della glielo porse ansiosamente sulla palma aperta. Il prezioso metallo opaco pareva balenare del riflesso della sua anima luminosa e ardente.
    «Non è un amore, Jim? Ho frugato tutta la città per trovarlo. Adesso dovrai guardare le ore cento volte al giorno. Dammi l’orologio. Voglio vedere come sta».
    Invece di ubbidire, Jim si lasciò andare sul letto, si mise le mani dietro la nuca e sorrise.
    «Della,» disse «mettiamo via i nostri regali di Natale per un po’ di tempo. Sono troppo belli per usarli subito. Io ho venduto l’orologio per comprarti i pettini. Ora è forse il momento di mettere su le costolette».
    I Magi, come sapete, erano uomini saggi – uomini incredibilmente saggi – che portarono doni al Bambino nella mangiatoia. Furono loro ad inventare l’arte di fare regali a Natale. Giacché eran saggi, non v’è dubbio che anche i loro regali fossero saggi, e probabilmente era possibile scambiarli nel caso ve ne fossero stati due uguali. Io vi ho goffamente raccontato la povera cronaca di due sciocchi bambini che senza saggezza sacrificarono l’uno per l’altro i più grandi tesori della loro casa. Ma si dica un’ultima parola ai saggi dei nostri giorni: di tutti coloro che fanno doni, quei due furono i più saggi. Di tutti coloro che ricevono e fanno doni, questi sono i più saggi. Sono loro i re Magi.

    © 1980 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
     
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    LA LEGGENDA DELLO SPIRITO DELL’ACQUA

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    Si dice che nei boschi norvegesi si aggiri una bellissima Troll (che è un essere magico che non per forza somiglia a quello di Harry Potter), vestita di bianco e con lunghi capelli biondi (ha anche una coda da mucca però, cosa che non si capisce come si associ al vestito bianco, forse ha un buco sul retro). Hulda (questo il nome della donna Troll) è uno spirito dell’acqua e sfortunatamente per lei spesso e volentieri l’acqua in Norvegia si ghiaccia e lei rimane sotto gli strati di ghiaccio. Un giorno, era Natale, un pescatore volle portare a Hulda un dolce ma trovando il lago in cui viveva lo spirito completamente ghiacciato e non volendo lasciare il dolce sulla sua superficie (poteva passare una volpe e mangiarselo, che ne sai) decise di fare un buco nel ghiaccio con il suo piccone (cosa ci facesse un pescatore con un piccone è una buona domanda).
    Scava e scava però il ghiaccio era veramente durissimo e il pescatore riuscì a fare solo un buchino piccolo piccolo. Mentre si arrovellava per cercare una soluzione dal buchino uscì una manina piccolissima e bianca che afferrò il dolce: questo allora per magia si rimpicciolì e passò dentro il buco. Da allora, ancora oggi, nel giorno di Natale è usanza portare allo spirito dell’acqua dei dolcetti molto piccoli, in modo che possano passare attraverso qualsiasi buco nel ghiaccio.


    (leggenda di Natale norvegese)
     
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    La favola dell'abete

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    di Hans Christian Andersen

    In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt'intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere. Non pensava affatto al caldo sole né all'aria fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all'alberello e esclamavano:
    «Oh, com'è carino così piccolo!» ma all'albero dispiaceva molto sentirlo.
    L'anno dopo il tronco gli si era allungato, e l'anno successivo era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre capire quanti anni ha un abete.
    «Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi!» sospirava l'alberello «potrei allargare per bene i miei rami e con la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra i miei rami e quando c'è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno tutti gli altri.»
    E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le nuvole rosse che mattina e sera gli passavano sopra. Quand'era inverno e la neve brillava bianchissima tutt'intorno, arrivava spesso una lepre e con un salto si posava proprio sopra l'alberello. “Che noia!” Ma dopo due inverni l'albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno.
    “Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l'unica cosa bella di questo mondo” pensava l'albero.
    In autunno giunsero i taglialegna per abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il giovane abete, che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i cavalli li portavano fuori dal bosco. Dove erano diretti?
    Che cosa ne sarebbe stato di loro? In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l'albero chiese:
    «Sapete forse dove sono stati portati? Non li avete incontrati?». La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò riflettere un po', poi fece cenno col capo e disse:
    «Sì, credo di sì! Ho incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall'Egitto; avevano alberi maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!».
    «Oh, se anch'io fossi abbastanza grande da andare per il mare! Ma com'è poi in realtà questo mare, e a cosa assomiglia?» «È troppo lungo da spiegare!» rispose la cicogna andandosene. «Rallegrati per la giovinezza!» dissero i raggi di sole. «Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!»
    Il vento baciò l'albero e la rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l'albero non riuscì a capire. Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell'abete, che non riusciva a avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco.
    «Dove vanno?» chiese l'abete «non sono più grandi di me, anzi ce n'era uno che era molto più piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?» «Noi lo sappiamo! Noi lo sappiamo!» cinguettarono i passerotti «abbiamo curiosato attraverso i vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline!» «E poi?» domandò l'abete agitando i rami «e poi? Che cosa succede dopo?» «Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!» «Magari sarò anch'io destinato a seguire quel destino splendente!» si rallegrò l'abete. «E è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale! Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via l'anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza riscaldata con quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro! che nostalgia! Non so neppure io che cosa mi succede!» «Rallegrati con me!» dissero l'aria e la luce del sole «goditi la tua gioventù qui all'aperto!»
    Ma lui non gioiva affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d'estate che d'inverno, di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: «Che bell'albero!». Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in profondità nel midollo; l'albero cadde a terra con un sospiro, sentì un dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato. Sapeva bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole. L'albero si riprese solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare: «Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz'altro!». Giunsero due camerieri in ghingheri che portarono l'abete in una grande sala molto bella. Tutt'intorno, sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C'erano sedie a dondolo divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini. L'abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l'albero! Che cosa sarebbe accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l'abete non aveva mai visto prima d'allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa.
    «Questa sera!» esclamarono tutti «questa sera deve splendere!» “Fosse già sera!” pensò l'albero “se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò decorato estate e inverno!” Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un albero come lo è il mal testa per noi. Finalmente vennero accese le candele. Che splendore, che magnificenza! L'albero tremava con tutti i suoi rami finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore! «Dio ci protegga!» gridarono le signorine e subito spensero la fiamma. Ora l'albero non osava neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche parte del suo addobbo, ed era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l'albero. Gli adulti li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo, poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono intorno all'albero e tolsero, uno dopo l'altro, tutti i regali.
    “Che cosa fanno?” pensò l'albero. “Che succede?” Intanto le candele bruciarono fino ai rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il permesso di disfare l'albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza che l'albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato. I bambini gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più l'albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere se era stato dimenticato un fico secco o una mela. «Una storia! Una storia!» gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso l'albero.
    Lui vi si sedette proprio sotto e disse: «Adesso siamo nel bosco, e anche l'albero farebbe bene a ascoltare! Comunque racconterò solo una storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?». «Ivede-Avede!» gridarono alcuni; «Klumpe-Dumpe» gridarono altri. Fu un grido solo e solo l'albero se ne stette zitto a pensare: “Non posso partecipare anch'io? Non posso far più nulla?”. In realtà aveva già partecipato e fatto la parte che gli spettava. L'uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e gridarono: «Racconta, racconta!». Volevano sentire anche quella di Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L'abete se ne stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato storie del genere. Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa! Certo: è così che va il mondo! concluse l'albero, credendo che tutto fosse vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. “Certo! Chi può mai saperlo? Forse cadrò anch'io dalle scale e sposerò una principessa!”. E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata. “Domani non tremerò!” pensò. “Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede.” L'albero restò fermo a pensare per tutta la notte. Il mattino dopo entrarono il cameriere e la domestica. «Adesso ricomincia la festa!” pensò l'albero; invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce. “Che significa!?” pensò l'albero. “Che cosa faccio qui? Che cosa posso ascoltare da qua?” Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L'albero era ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato. “Adesso è inverno là fuori!» pensò l'albero. “La terra è dura e coperta di neve.
    Gli uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c'è neppure una piccola lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c'era la neve e la lepre mi passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva. Qui invece c'è una solitudine terribile!” «Pi! Pi!» esclamò un topolino proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro. Fiutarono l'abete e si infilarono tra i rami. «Fa un freddo tremendo!» dissero i topolini. «Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui! Non è vero, vecchio abete?» «Non sono affatto vecchio!» replicò l'abete. «Ce ne sono molti che sono più vecchi di me!» «Da dove vieni?» gli chiesero i topolini «e che cosa sai?» Erano infatti terribilmente curiosi. «Raccontaci del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove c'è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?» «Non lo conosco!» rispose l'albero «ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove gli uccelli cinguettano!» e così raccontò della sua gioventù, e i topolini non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e poi dissero: «Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!». «Io?» esclamò l'abete, pensando a quello che raccontava. «Sì, in fondo sono stati bei tempi!» poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con dolci e candeline. «Oh!» esclamarono i topolini «come sei stato felice, vecchio abete!» «Non sono per niente vecchio!» rispose l'albero. «Sono venuto via dal bosco quest'inverno! Sono nell'età migliore, ho solo terminato la crescita!» «Come racconti bene!» gli dissero i topolini, e la notte dopo ritornarono con altri quattro topolini che volevano sentire il racconto dell'albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si ricordava tutto e pensava: “Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno, ritorneranno! Klumpe-Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse anch'io ne sposerò una” e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla che cresceva nel bosco e che per l'abete era come una bella principessa. «Chi è Klumpe-Dumpe?» chiesero i topolini, e l'abete raccontò tutta la storia; ricordava ogni parola e i topolini erano pronti a saltare in cima all'albero per il divertimento.
    La notte successiva vennero molti più topi e la domenica giunsero persino due ratti; ma dissero che la storia non era divertente e questo rattristò i topolini che pure, da allora, la trovarono meno divertente. «Lei conosce solo questa storia?» chiesero i ratti. «Solo questa!» rispose l'albero «la sentii durante la serata più felice della mia vita, ma in quel momento non capii quanto era felice.» «È una storia veramente brutta! Non ne conosce qualcuna sulla carne e sulle candele di sego? O sulla dispensa?» «No!» rispose l'albero. «Ah, allora grazie!» dissero i ratti e si ritirarono. Anche i topolini alla fine scomparvero e allora l'albero sospirò: «Era molto bello quando si sedevano intorno a me, quei vispi topolini, e ascoltavano i miei racconti. Adesso è finito anche questo! Ma devo ricordarmi di divertirmi, quando uscirò di qui!». Che successe invece? Ah, sì! Una mattina presto giunse della gente a rovistare in soffitta. La casse vennero spostate e l'albero fu tirato fuori, lo gettarono senza alcuna cura sul pavimento e subito un cameriere lo trascinò verso le scale dove arrivava la luce del sole. “Ora ricomincia la vita!” pensò l'albero, che sentì l'aria fresca e il primo raggio di sole. E così si ritrovò nel cortile. Tutto accadde così in fretta che l'albero non si accorse neppure del suo aspetto; c'era tanto da vedere tutt'intorno. Il cortile confinava con un giardino che era tutto fiorito, le rose pendevano fresche e profumate dalla bassa ringhiera, i tigli erano fioriti e le rondini volavano lì intorno e dicevano: «Kvirre-virre-vit, è arrivato mio marito!» ma non si riferivano all'abete. «Adesso voglio vivere!» gridò lui pieno di gioia e allargò i rami, oh! erano tutti gialli e appassiti; e lui si trovava in un angolo tra ortiche e erbacce; ma la stella di carta dorata era ancora al suo posto e brillava al sole. Nel cortile stavano giocando alcuni di quegli allegri bambini che a Natale avevano ballato intorno all'albero e ne erano stati tanto felici. Uno dei più piccoli corse a strappare la stella d'oro dall'albero. «Guarda cosa c'è ancora su questo vecchio e brutto albero di Natale!» disse, e cominciò a pestare i rami che scricchiolarono sotto i suoi stivaletti. L'albero guardò quegli splendidi fiori e quella freschezza del giardino, poi guardò se stesso e desiderò di essere rimasto in quell'angolo buio della soffitta. Pensò alla sua gioventù passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe. «Finito! finito!» esclamò il povero albero. «Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo! finito! finito!» Il cameriere sopraggiunse e tagliò l'albero in piccoli pezzi e ne fece un fascio. Come bruciò bene sotto il grande paiolo; sospirava profondamente e ogni sospiro sembrava una piccola esplosione; attratti da quegli scoppi, i bambini che stavano giocando accorsero e si misero davanti al fuoco e, guardandolo, gridarono: «Pif-pof!», ma a ogni crepitio, che era per lui un sospiro profondo, l'albero ripensava a un giorno d'estate nel bosco, a una notte d'inverno quando le stelle brillavano nel cielo, alla notte di Natale e a Klumpe-Dumpe, l'unica storia che aveva sentito e che sapeva raccontare. E intanto si era consumato tutto. I bambini ripresero a giocare nel cortile e il più piccolo si era messo al petto la stella dorata che l'albero aveva portato nella serata più felice della sua vita; ora questa era finita, e anche l'albero era finito, e così anche la storia: finita, finita, come tutte le storie.
     
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    Il Natale dell'anno prossimo o quello del futuro?

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    di Claudio Rinaldi

    C'era una volta un bambino, di nome Jean Paul, che festeggiava il Santo Natale, insieme ai suoi genitori, in una lussuosa casa. Sotto il grande, elegante e luminoso albero, situato al centro del salone, c'erano una miriade di pacchi di dimensioni diverse. Il pacco più grande era destinato al bambino. Jean Paul era felicissimo ed, allo stesso tempo, molto curioso del suo regalo di Natale. Incominciò a scartare quell'enorme pacco. Come per magia si ritrovò in una piccola casa davanti ad un albero con poche ed insignificanti luminarie. Jean Paul vide una bambina che apriva un minuscolo pacco. 'Sarà il suo dono di Natale', pensò. Si avvicinò lentamente. "Chi sei? Dove sono?" chiese Jean Paul. "Sono Marie e, sei nella mia casa", rispose la bambina. "Fino a qualche secondo fa ero nella mia casa!" ribatté Jean Paul. "Lo so perfettamente. Ma il tuo desiderio più grande era quello di conoscere il Natale dell'anno prossimo oppure di quello che verrà", affermò placidamente Marie. "Come fai a sapere di ciò che penso? Sei una piccola strega? In che anno siamo?" balbettò impaurito Jean Paul. "Non sono una streghetta. E, per caso e non comprendo la causa, aprendo il mio piccolo pacco ho sentito il tuo desiderio. L'anno in cui siamo può essere quello del tuo prossimo Natale oppure lontano dallo stesso." "Allora dimmi come sarà il Natale dell'anno prossimo o di quello del futuro?" replicò Jean Paul. "È molto semplice. Adesso ti faccio vedere il contenuto del mio regalo di Natale", incominciò a spiegare la bambina porgendo il piccolo pacco a Jean Paul. Quest'ultimo, con le mani tremanti, aprì il dono di Natale di Marie. C'era un biglietto con la parola «Più tempo con i genitori.» "Che significa tutto questo?" chiese il bambino. "Urrà, urrà!" esultò Marie. "Lo sapevo che, prima o poi, avrei avuto questo regalo. È il dono più bello per tutti i bambini del mondo:maggior tempo da trascorrere con i propri genitori." "E questo lo chiami un regalo?" sbuffò Jean Paul con un segno di disapprovazione. "Certo! È un vero e proprio regalo di Natale!" precisò, con forza, Marie. "Dimmi, la tua mamma ed il tuo papà quando tempo ti dedicano al giorno?" "Poco", fu la risposta di Jean Paul con un velo di tristezza sul viso. "Devono guadagnare molto denaro affinché tutta la famiglia abbia un tenore di vita molto alto." "Denaro? Tenore di vita? Cosa significano queste parole?" domandò la bambina. "Perché in questo anno il denaro non esiste?" ribatté Jean Paul. "Il denaro è un termine sconosciuto. Scusami della mia ignoranza", affermò, timidamente, Marie. "Come comprate tutto ciò che vi serve?" continuò il bambino. "Con i sorrisi, con gli abbracci, i baci o le parole d'amore", rispose Marie. "Spiegati meglio per favore", aggiunse Jean Paul. "Facile. Innanzitutto in questo anno bisogna distinguere tra gli acquisti materiali e quelli spirituali. Per i primi è sufficiente recarsi in un negozio qualsiasi."
    Jean Paul la interruppe bruscamente. "Non riesco a capire. Siete completamente impazziti? Ma esistono ancora i giocattoli, i videogiochi, i monopattini elettrici?" "Nel periodo in cui viviamo c'è tutto questo. Lasciami finire. Allora, dicevo che per comprare un videogioco si va in un negozio", cercò di continuare Marie ma, fu nuovamente interrotta da Jean Paul. "Come fate a pagare un videogioco?" "Sei testardo!" esclamò la bambina. "Adesso ti risponderò. Sul cartellino del videogioco, del giocattolo o di qualsiasi altro oggetto materiale c'è scritto qualcosa." "Cosa? Cosa?" gridò, con foga, Jean Paul. "Calmati e te lo dirò", rispose Marie. "C'è scritto un sorriso, dieci sorrisi, cento sorrisi. Oppure un abbraccio, dieci abbracci, cento abbracci. Ancora un bacio, dieci baci, cento baci. E per finire: una parola d'amore, dieci parole d'amore, cento parole d'amore. È il prezzo dell'oggetto a seconda del suo valore." "È pura follia!" sussultò Jean Paul. "Come si acquista un giocattolo con un sorriso?" "È molto semplice. Si prende il giocattolo, Si legge il cartellino: ad esempio dieci sorrisi e si va alla cassa", spiegò la bambina. "Esiste anche una cassa ma, suppongo, senza denaro", biascicò Jean Paule. "Il denaro è qualcosa di incomprensibile", si affrettò a dire Marie. "Alla cassa si sorride dieci volte e l'oggetto diventa di proprietà dell'acquirente. Attenzione, però, il sorriso dev'essere sincero." "La commessa come farà a sapere quest'ultima tua affermazione?" domandò il bambino. "L'anno prossimo o l'anno che verrà ognuno di noi può conoscere realmente i sentimenti dell'altra persona. La bugia non esisterà più", concluse Marie. Jean Paul la guardò per alcuni minuti poi aggiunse: "Un automobile od un appartamento, ad esempio, costerà molti sorrisi?" "Questi oggetti possono avere un prezzo anche di mille parole d'amore", riprese a rispondere Marie. "Come si fa ad acquistare una casa con l'amore?" brontolò Jean Paule. "Un appartamento si acquisterà a rate. Mille parole d'amore dilazionate nel tempo: dieci parole d'amore in un mese quindi cento mesi per comprare una casa."
    Jean Paule restò in silenzio. "Le parole d'amore a chi verranno indirizzate?" chiese Jean Paule. "Hai ragione ho dimenticato di raccontarti una cosa molto importante" ammise Marie. "Dieci sorrisi, trenta abbracci, cinquanta baci o ottanta parole d'amore, che possono essere il prezzo effettivo di alcuni oggetti, saranno dati alla cassa oppure al rivenditore di automobili od al proprietario di una casa. Questi ultimi li custodiranno in delle speciali ampolle di cristallo. Successivamente i sorrisi, gli abbracci, i baci e le parole d'amore andranno direttamente a coloro che ne hanno bisogno." "Chi sono queste persone?" domandò Jean Paule. "Esiste un oceano di gente che non ha avuto mai la fortuna di essere investita da un sorriso, di percepire il calore di un abbraccio, della magia di un bacio e dell'estasi di una sola parola d'amore." Jean Paule chiuse gli occhi. "Quali sono gli oggetti spirituali?" "Questo non lo spiegato ancora", affermò Marie. "Gli oggetti spirituali sono, ad esempio, il regalo che ho avuto per questo Natale: trascorrere più tempo con i miei genitori. Ne esistono anche degli altri. Un segreto che un papà può svelare ad suo figlio, una confidenza tra madre e figlia, un intreccio maggiore di sguardi tra i genitori e i propri bambini ed altro ancora." "È semplicemente meraviglioso. Quando accadrà tutto ciò che mi hai raccontato?" chiese Jean Paul unendo le mani in preghiera. "Quando ognuno di noi penserà, scriverà o parlerà solo con un unico alfabeto comune a tutte le nazioni del mondo: l'alfabeto del cuore."

     
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    da "PICCOLE DONNE" di Louisa May Alcott
    CAPITOLO II

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    UN LIETO NATALE

    Nella grigia luce del mattino di Natale, la prima a svegliarsi fu Jo; rimase delusa nel vedere che non vi erano calze appese al camino ma, ricordandosi della promessa della mamma, cercò sotto il cuscino e ne trasse un libretto rilegato in rosso. Era la bellissima storia della vita del miglior Uomo che fosse vissuto; Jo la conosceva bene e sapeva che non poteva esistere un miglior libro-guida per un pellegrino in cammino.
    Con un allegro "Buon Natale" destò Meg e le ricordò di cercare sotto il cuscino. Anch'essa trovò un libro con la copertina verde e con alcune parole di dedica scritte dalla mamma. Questo, rendeva il dono ancor più prezioso. Poco dopo Beth ed Amy si svegliarono e, frugando sotto i guanciali, trovarono la prima un libro color cenere, la seconda uno color turchino. Le ragazze cominciarono a sfogliare i libri commentandoli, mentre il cielo si tingeva di rosa per il sorgere del sole.
    Margherita, malgrado le sue piccole vanità, era molto buona e saggia ed aveva una certa influenza sulle sorelline, specialmente su Jo che le voleva molto bene.
    - Ragazze - disse Meg, abbracciando con un solo sguardo le quattro testine arruffate - la mamma desidera che noi leggiamo ed amiamo i libri: dobbiamo ubbidire fin da ora.
    Così detto cominciò a leggere. Io le passò un braccio attorno alle spalle e iniziò la lettura con la guancia appoggiata a quella della sorella.
    - Meg è proprio buona - esclamò Beth commossa. - Vieni, Amy, seguiamo il loro esempio; ti spiegherò le parole che non conosci ed io, se non capirò qualcosa, mi rivolgerò a loro.
    - Ho piacere che la copertina del mio libro sia turchina! - disse Amy.
    Tutta la casa piombò nel silenzio, interrotto soltanto dal frusciare delle pagine. Intanto il sole inondava la camera, augurando il "Buon Natale" alle quattro testine bionde.
    - Dov'è la mamma, Anna? - domandò Meg, dopo una mezz'ora, mentre scendeva le scale insieme a Jo.
    - Dio solo lo sa! È venuto un povero a chiedere l'elemosina e dopo essersi informata su ciò che gli abbisognava, è uscita con lui. Non conosco nessuna donna più generosa nel donare cibi ed abiti ai poveri.
    - Immagino che tornerà presto: prepara intanto le torte: poi prepariamo il resto, - disse Meg, guardando i regali dentro al paniere.
    - Ma dov'è l'acqua di Colonia di Amy?
    - L'ha presa lei pochi momenti fa per metterci un nastro o non so quale altra cosa - rispose Jo, saltellando per la casa.
    - Sono belli i miei fazzoletti? Anna me li ha lavati e stirati ed io li ho cifrati, - disse Beth guardando le cifre piuttosto irregolari.
    - Ma guarda, invece di ricamare "M.M." ha fatto "Mamma"! - esclamò Jo, guardandone uno.
    - Ho forse fatto male? Anche Meg ha come cifra una doppia "M" ed io voglio che questi fazzoletti li adoperi soltanto la mamma! - rispose Beth turbata.
    - Hai fatto benissimo, tesoro! La mamma sarà molto contenta, - disse Meg lanciando una severa occhiata a Jo e sorridendo a Beth.
    - Ho sentito dei passi, presto, nascondiarno i regali! - esclamò Jo concitatamente, ma non era la mamma: era Amy che entrava in gran fretta, tutta confusa nel vedere che le sorelle l'aspettavano già.
    - Dove sei stata e cosa nascondi, lì dietro? - chiese Meg molto meravigliata nel constatare che la pigra sorellina era uscita così di buon'ora.
    - Non ridere, Jo. Non volevo dirlo a nessuno, ma mi avete scoperto. Sono andata a cambiare la boccetta di profumo con una più grande: ho speso tutti i miei risparmi. Voglio diventare veramente buona.
    Amy mostrò la bella bottiglia che avrebbe sostituito quella più piccola ed era così bello ed umile il suo gesto che Meg non potè fare a meno di abbracciarla.
    - Stamattina dopo aver letto il libro - mi sono vergognata del mio egoismo. Appena alzata sono uscita per cambiare la boccetta, ma adesso sono contenta perchè il mio regalo è il più bello di tutti - soggiunse Amy.
    La porta di casa si chiuse di nuovo e le ragazze fecero sparire rapidamente il paniere sotto il divano.
    - Buon Natale, mamma! Buon Natale! Grazie dei libri: abbiamo già cominciato a leggerli e saranno la nostra lettura di ogni mattina - gridarono allegramente le quattro ragazze.
    "Buon Natale a voi, figlie mie! Sono contenta che abbiate già iniziato e spero che continuerete. Ma
    prima di sederci, devo dirvi una cosa. Poco lontano da qui, una donna ha appena avuto un bimbo. Ne ha già altri sei, che stanno rannicchiati in un unico letto per non gelare. Infatti, non hanno né legna per il fuoco, né qualcosa da mangiare... Bambine mie, vorreste donare loro la vostra colazione come regalo di Natale?"
    Per un momento nessuna parlò: avevano un grande appetito poichè attendevano già da un'ora. L'indecisione durò per poco.
    - Sono contenta che tu sia arrivata prima che cominciassimo.
    - Vengo io ad aiutarti? - chiese Beth con premura.
    - Io porto la crema e le focaccine, - soggiunse Amy.
    - Sapevo che le mie bambine avrebbero fatto questo piccolo sacrificio - disse sorridendo la signora March. - Verrete tutte con me e quando torneremo faremo colazione con latte, pane, burro.
    In pochi minuti tutte furono pronte per uscire. Per loro fortuna, le strade erano deserte e nessuno si meravigliò di quella processione.
    La stanza che videro era veramente una stamberga! Il fuoco era spento, le finestre sconquassate; le coperte lacere e in un angolo la madre ammalata col piccolo che strillava. Sotto una vecchia coperta erano sei bambini che, quando videro entrare le fanciulle, sorrisero spalancando gli occhi per la meraviglia.
    - Mio Dio! Sono gli angeli che vengono ad aiutarci, - esclamò la povera madre commossa.
    - Strani angeli con cappucci e guanti! - esclamò Jo e tutti risero allegramente.
    Pochi minuti dopo la stanza aveva mutato aspetto. Anna, che aveva portato la legna da casa, accese il fuoco. Poi, con cappelli vecchi e perfino il suo scialle, chiuse le aperture dei vetri rotti. Intanto la signora March preparava per la madre il tè e una minestra, promettendole nuovi aiuti. Le ragazze preparavano la tavola ed imboccavano i sei bambini, ridendo, chiacchierando e cercando di capire il loro strano modo di parlare. I bambini, tra un boccone e l'altro, le chiamavano "angeli" e questo divertiva molto le ragazze che prima di allora non erano mai state chiamate così, specialmente Jo che, fin dalla nascita, era stata considerata un " sanciopancia ".
    Terminata la colazione, tutte tornarono a casa e forse in tutta la città non vi erano quattro fanciulle più liete.
    - Sono contenta di aver fatto un po' di bene ai nostri simpatici vicini! - esclamò Meg mentre disponeva sulla tavola i doni per la mamma che, in quel momento, stava cercando al piano superiore indumenti per i piccoli Hummel.
    Benchè i regali non fossero gran cosa, la tavola così preparata con le rose, i crisantemi e l'edera, faceva un bell'effetto.
    Le opere benefiche e la distribuzione dei doni occupò le ragazze per tutta la mattinata; il pomeriggio, invece, trascorse tra i preparativi per la festa di quella sera. Essendo ancora troppo giovani per andare a teatro e non avendo la possibilità di comperare tutto il necessario per le loro rappresentazioni, le ragazze dovevano aguzzare il loro ingegno. Alcune delle loro trovate erano veramente ingegnose: chitarre di cartone colorato, lumi antichi ricavati dalle scatole di burro, abiti di cotonina ornati con diamanti di stagnola, armature di lamina di zinco. Il mobilio della stanza era abituato ad essere messo sossopra per quelle ingenue baldorie. Alle recite erano ammesse solo le bambine, così Jo poteva divertirsi ad impersonare tutte le parti maschili. Essa andava molto orgogliosa di un paio di stivaloni di cuoio che le erano stati regalati da un'amica e di un vecchio fioretto che compariva in tutte le rappresentazioni. L'esiguo numero di attori richiedeva che i principali recitassero varie parti, mutando in tutta fretta gli abiti.
    La sera di Natale, su una brandina che fungeva da platea, erano sedute una dozzina di spettatrici: grande era l'attesa davanti al sipario di tela azzurra. Dietro al sipario si udivano fruscii, rumori di passi, un parlare sommesso e le risatine soffocate di Amy, che era in preda ad una grande agitazione.
    Finalmente il sipario si alzò e cominciò la " Tragedia musicale ". La scena rappresentava una foresta oscura: qua e là vi erano vasi di piante, un vecchio tappeto verde simulava il prato. Nel fondo vi era una grotta le cui pareti erano fatte con diverse scrivanie; la scena era resa tenebrosa da un fuoco acceso nella caverna su cui bolliva una pentola, sorvegliata da una vecchia strega. L'effetto era grande specialmente quando la strega alzava il coperchio della pentola, lasciando sfuggire sbuffi di denso fumo nero.
    Dopo un attimo di pausa, Ugo, il personaggio malvagio della tragedia, entra sbatacchiando la porta, col cappello calato sugli occhi e gli immancabili stivali. Dopo aver camminato un po' per il palcoscenico, comincia a cantare il suo odio per Roderigo, il suo amore per Zara e il proposito di uccidere il primo e di farsi amare dalla seconda.
    Il sipario si chiuse tra gli applausi degli spettatori che commentarono l'opera masticando frutta candita.
    Colpi di martelli risuonarono per tutto l'intervallo, ma quando il sipario si alzò, nessuno ebbe il coraggio di lamentarsi per il ritardo. Una torre si ergeva fino al soffitto, nel centro vi era una finestrella illuminata, attraverso la quale appariva Zara in un elegante vestito azzurro.
    Zara doveva uscire dalla finestra, e stava per metter piede a terra, quando lo strascico della sua veste, impigliandosi nelle finestrelle, fa crollare la torre e seppellisce gli infelici amanti. Dalla platea sorse un urlo generale che presto si tramutò in una risata clamorosa mentre, dalle macerie, uscivano agitandosi due stivaloni gialli e una testolina tutta riccioli che gridava:
    - L'avevo detto io! l'avevo detto!
    Fortunatamente l'incidente si risolse assai felicemente.
    Il terzo atto si svolge nel salone del castello dove è nascosta Agar, pronta ad uccidere Ugo e a liberare i due prigionieri. Sentendolo giungere, essa si nasconde e lo vede preparare le bevande, poi volgersi a un servo e dire:
    - Porta queste bevande ai due prigionieri e di che verrò tra poco.
    Ma Agar, approfittando di un momento di distrazione del malvagio, sostituisce due coppe innocue a quelle avvelenate. Il servo esce e Ugo, dopo un lungo canto, preso dalla sete beve la coppa contenente il veleno destinato a Roderigo. Dopo vari gesti e contorsioni egli cade morto per terra mentre Agar compie interamente la sua vendetta informandolo di tutto il suo operato con una bellissima romanza.
    Il quarto atto rivela come Roderigo, che si credeva abbandonato da Zara, voglia uccidersi. Ma un dolce canto lo informa della fedeltà della sua amata e una chiave lanciata dentro la sua prigione gli permette di liberarla.
    Il pubblico applaudì freneticamente e l'applauso sarebbe durato a lungo se non fosse accaduto uno strano incidente. La branda su cui erano seduti gli spettatori si chiuse improvvisamente, soffocando il generale entusiasmo.
    Ridevano ancor tutti quando Anna entrò portando gli auguri di Buon Natale da parte della signora March ed invitando tutti ad un piccolo trattenimento. Fu una sorpresa anche per le ragazze; sapevano che la mamma avrebbe offerto qualcosa, ma una cena così bella non l'avevano più veduta dal tempo della lontana ricchezza. C'erano due gelati; uno bianco ed uno rosso; torta, frutta, un vassoio di fondante e, nel centro della tavola, quattro bellissimi mazzi di fiori. Le bambine guardarono meravigliate, poi assalirono la madre di domande:
    - Sono le fate? - domandò Amy.
    - È il Babbo Natale! - disse Beth.
    - È stata la mamma! - esclamò Meg, sorridendo felice.
    - Per una volta tanto la zia March ha avuta una buona idea! - esclamò Jo improvvisamente.
    - Avete sbagliato! - rispose la signora March. - Ha mandato tutto il Sig. Laurence!
    - Il Sig. Laurence? Ma se non ci conosce neppure! - esclamò Meg, stupita.
    - Anna ha raccontato ad una delle sue domestiche la nostra spedizione di questa mattina in casa Hummel. La storia lo ha commosso, molti anni fa egli era amico del mio babbo, ed oggi mi ha scritto un bigliettino chiedendomi il permesso di mandarvi qualche ghiottoneria, in onore del giorno di Natale. Non potevo rifiutare ed ecco qui un banchetto che certamente vi ricompenserà del pane e latte di questa mattina.
    - È certamente opera del suo nipotino: è un ragazzo molto simpatico e mi piacerebbe di conoscerlo. Credo che anche a lui piacerebbe di fare la nostra conoscenza ma è piuttosto timido, e Meg non mi permette di salutarlo quando lo incontriamo, - disse Jo mentre i piatti dei dolci circolavano e l'allegria aumentava sempre.
    - È un ragazzo molto educato e non ho alcuna difficoltà che facciate amicizia con lui; i fiori li ha portati lui, lo avrei invitato volentieri se avessi saputo che cosa stavate combinando lassù. Credo che avrebbe accettato molto volentieri, ma...
    - Per fortuna non l'ha fatto! la recita è stato un vero fiasco, ma ne faremo delle altre e avremo occasione di invitarlo: forse potrà anche aiutarci. Non sarebbe bello? - disse Jo con entusiasmo.
    - Com'è grazioso il mio mazzo di fiori! - esclamò Meg. - È il primo che ricevo!
    - Sì, davvero grazioso, ma io preferisco le rose di Beth. - Così dicendo, la signora March aspirò il profumo delle rose ormai appassite che teneva alla cintura.
    Beth l'abbracciò e sussurrò:
    - Vorrei mandare qualche rosa anche al babbo, non credo che abbia trascorso un Natale così felice come il nostro!

     
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