CURIOSITA' STORICHE....

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  1. gheagabry
     
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    CABERNET EGIIZIO DOC



    Anche gli egizi erano attenti all'etichetta. Sopratutto quella dei vini. Sono molte le anfore che una volta contenevano vino e che sono state ritrovate, soprattutto nelle tombe dei faraoni (30 in quelle di Tutankhamon). I contenitori chiusi ermeticamente, riportavano sul sigillo i dati sulla provenienza, l'anno di produzione ed il nome del produttore.
    Gli egizi raccoglievano l'uva e la conservavano in grandi tini di pietra, dove in seguito la pigiavano con i piedi. Durante la fermentazione veniva praticato nelle anfore un foro per agevolare l'uscita dei gas. Tutte è documentato sulle pareti delle tombe dove si descrive il processo di vinificazione



    focus, Storia aprile 2013
     
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  2. gheagabry
     
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    "Non troverai la pietra filosofale finché non sarai perfetto".
    (Grillot de Givry)


    LA PIETRA FILOSOFALE



    Come vi è olio nel seme di sesamo e una scintilla nella pietra focaia così il tuo Amato è nel tuo corpo. Sveglialo se puoi. Come la pupilla è nell’occhio così il creatore è nel corpo. Lo stolto non conosce questo segreto e corre fuori cercandolo invano. Ciò che cerchi è nei quattro angoli della terra. È Dentro, tu non lo vedi, perché vive dietro i veli dell’illusione. Kabir Sahib


    Dal XII secolo in poi, gli alchimisti parlarono di un agens necessario alla trasmutazione. Questo agens aveva molti nomi, ma il più conosciuto è “Pietra Filosofale”. Altri nomi sono: polvere filosofale, grande elisir, quintessenza. La pietra filosofale poteva trasmutare i metalli in oro. Nella Grande Opera, la pietra filosofale è l’uomo stesso, essendo egli all’inizio della Grande Opera e alla fine. In generale, la pietra è lo spirito universale, presente in tutto ciò che è stato creato, e quindi anche nello stesso alchimista.
    Le descrizioni sono molte e non sempre simili. Paracelso la descriveva come fissa e rosso scuro; Berigard da Pisa diceva che il suo colore era quello dei papaveri; Raimondo Lullo diceva che il suo colore assomigliava a quello del rubino; Helvetius sosteneva che fosse di un giallo brillante. Molti alchimisti diedero le loro descrizioni, spesso contraddicendosi l’un l’altro. Khalid lo riassunse così: “La pietra unifica in sé tutti i colori. È bianca, rossa, gialla, blu cielo e verde”. La trasmutazione è un processo altamente personale, e quindi ogni alchimista ne ha un’opinione diversa. Alcuni di loro parlavano di una sostanza fisica.

    La pietra filosofale è il simbolo dell’uomo perfetto, il risultato finale del lavoro filosofico. Anche se viene spesso associata ad argento vivo e zolfo, la pietra filosofale è difficile da spiegare a parole. Semplicemente, non abbiamo il linguaggio per farlo.

    “Non si è mai capito cosa intendessero i filosofi antichi per pietra filosofale. Non si può rispondere a questa domanda prima di aver capito che gli alchimisti ponevano la loro attenzione su qualcosa di inconscio. Solo la psicologia dell’inconscio può spiegare il segreto. La teoria dell’inconscio ci insegna che fino a quando questa proiezione è diretta su quel qualcosa, rimarrà inaccessibile. Quindi il lavoro degli antichi alchimisti rivela molto poco del segreto dell’alchimia” (Carl Gustav Jung).

    Bisognerebbe anche considerare il fatto che gli alchimisti spesso usavano un linguaggio simbolico. I simboli sono un mezzo per trasmettere informazioni, ma questo mezzo richiede un approccio totalmente diverso di comprensione, qualcosa che nella società moderna troviamo difficile.

    “Quasi tutti coloro che hanno sentito parlare della pietra filosofale e del suo potere, chiedono dove si possa trovare. Il filosofo dà sempre una duplice risposta. Prima dice che Adamo ha preso la pietra filosofale dal Paradiso e che è ora presente dentro di te, dentro di me e dentro tutti, e che gli uccelli di terre lontane la hanno portata con loro. Poi il filosofo risponde che si può trovare nella terra, nelle montagne, nell’aria e nel fiume. Allora in che modo bisogna cercare? Per me, in entrambi i modi, ma ogni modo ha il suo modo”. (Michael Maier, 1617).

    “La pietra filosofale è innanzitutto la creazione dell’uomo da parte di se stesso, vale a dire l’intera conquista del proprio potenziale e del proprio futuro; è in particolare la completa liberazione della propria volontà, che darà il dominio assoluto sull’Azoth e sul regno del magnetismo, vale a dire il potere assoluto sulla forza magnetica universale”. (Eliphas Levi, 19° secolo).

    La pietra filosofale è presente anche nelle leggende del Graal. In quel caso si tratta del calice colmo di azioni cavalleresche e buone, che ridonerà fertilità al regno del Re. Il Re in queste leggende è il nostro Sé superiore, il nostro Sé divino, lo Spirito, l’Uomo Celeste o Adamo Kadmon, che è stato relegato giù nel mondo terreno. Trovare questa pietra, o il divino interiore, e lavorare su se stessi per portarlo alla superficie, donerà successo al Palazzo del Re. Wolfram von Eschenbach diceva che il Graal era una pietra preziosa, portatrice di ricchi frutti di Saggezza e Purezza.

    La pietra filosofale è spesso messa in relazione alla forza vitale. In alcune incisioni alchemiche, l’acqua scorre da una pietra. La pietra è la pietra filosofale, fonte dell’elisir della vita: “ciò che è come il fuoco ma scorre come l’acqua”. Tutti lo abbiamo dentro di noi.
    (Da Esopedia, l'enciclopedia del Sapere Esoterico)



    Che cosa sia questa pietra non è noto che ai grandi Alchimisti che sono riusciti nel compimento della loro opera e, visto che l'alchimia è un percorso intimo e individuale, si sono ben guardati dal dircelo chiaramente...

    Alcuni dicono che la "Pietra Filosofale" sia una pietra rarissima e preziosa, praticamente introvabile, altri invece affermano che si tratti di una pietra assai comune che è possibile reperire ovunque persino tra le pietre in strada che calpestiamo sovrappensiero. Se partiamo invece dal presupposto che non si tratti di una pietra "vera" ma che questo possa essere un ennesimo messaggio cifrato lasciato alla elaborazione degli adepti, forti della citazione " la pietra filosofale si trova tra le mani dei bambini che giocano con essa", possiamo arrivare alla conclusione che la pietra che stiamo cercando non è altro che la semplicità, la purezza, la pulizia mentale genuina e propria dell'infanzia che purtroppo perdiamo con il trascorrere degli anni. Recuperando questa pietra o, meglio, questo stato mentale, noi riusciamo a compiere l'opera e completare le varie fasi del processo alchemico che inizia dentro di noi sino alla trasmutazione in oro di tutto ciò che ci circonda, permettendoci di operare persino quelle meraviglie comunemente chiamate miracoli o magie dall'uomo comune...

     
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  3. gheagabry
     
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    I MIGLIORI AMICI
    DELL'UOMO DA....


    30.000 anni fa

    IL CANE



    Da circa 30000 anni il cane, addestrato come guardia per la casa, accompagnò l'uomo nel passaggio dalla caccia alla pastorizia, aiutandolo nel lavoro.


    11.000 anni fa

    LA PECORA


    Addomesticata in origine per le sue buone carni, in seguito ha fornito alla specie umana caldi indumenti grazie alla tosatura.


    11.000 anni fa

    IL MAIALE


    Ungulato onnivoro, è stato importante come alimento in diverse civiltà (per altre è impuro) e se ne usano anche unghie, peli e pelle


    10.000 anni fa

    IL GATTO




    Venne portato in Europa dal Medio Oriente, dove per millenni era stato utilizzato per combattere contro topi e ratti


    10.000 anni fa

    LA MUCCA


    Dà carne, latte e pellami, e i forti buoi sono ottimi animali da tiro.


    9.000 anni fa

    IL CAVALLO





    Solitamente si definisce "miglior amico dell'uomo" il cane, ma il cavallo ha permesso la nascita di diverse civiltà, e fino al secolo scorso ha aiutato i contadini nel lavoro dei campi. Il cavallo è stato indispensabile all'uomo da tempi molto antichi come dimostrerebbero alcuni recenti ritrovamenti in Arabia Saudita.


    8.000 anni fa

    LA GALLINA


    Addomesticati in Asia, i galli furono usati in origine per combattimenti, mentre le galline furono allevate per le uova e la carne


    6.000 anni fa

    IL CAMMELLO


    Animale molto resistente , ha aiutato per millenni l'uomo a sopravvivere nel deserto. Usato anche per la carne, il grasso, il latte e la lana


    5.500 anni fa

    IL LAMA


    Diversi popoli andini l'hanno usato come animale da soma e da carne per millenni.


    4.000 anni fa

    L'ELEFANTE




    A causa della sua forza è stato ampiamente usato, soprattutto in Asia, come aiuto per i campi e nei cantieri, ma anche in guerra




    tratto da Focus- storia, settembre 2013

    Edited by gheagabry - 28/8/2013, 19:33
     
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  4. gheagabry
     
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    FARO DELLA VITTORIA



    Per il decimo anniversario della vittoria riportata dall'Italia sull'Austria nella prima guerra mondiale, il senatore Giovanni Agnelli, nel 1928, decise di erigere la statua "Faro della Vittoria". Questa imponente costruzione in bronzo,rappresenta la Vittoria alata, è situata sulla sommità del colle della Maddalena, nel parco della Rimembranza. Con i suoi 18,50 metri di altezza e' terza al mondo in ordine di grandezza (dopo il San Carlo Borromeo di Arona, 23 metri, e la Statua della Liberta' di New York, 21 metri).
    Il Parco della Rimembranza fu inaugurato nel 1925 e fu dotato da subito di un importante arboreto di cui si occupò il professor Aldo Pavari che impiantò circa cinquemila alberi, di quattrocento differenti specie, per commemorare con altrettante targhette identificative i 4787 soldati torinesi morti in battaglia.
    La statua è opera di Edoardo Rubino (1871-1954), un amico personale del Senatore Agnelli.




    La donna alata, con le mani innalzate a sostenere una fiaccola, rappresenta la Vittoria; di notte, quando è illuminata, la statua risulta essere ben visibile anche dalla città.




    Sulla facciata del basamento in granito rivolta verso Torino è incisa un'epigrafe del poeta Gabriele D'Annunzio:

    « ALLA PURA MEMORIA
    ALL'ALTO ESEMPIO
    DEI MILLE E MILLE FRATELLI COMBATTENTI
    CHE LA VITA DONARONO
    PER ACCRESCERE LA LUCE DELLA PATRIA
    A PROPIZIAR COL SACRIFICIO L'AVVENIRE
    IL DUREVOLE BRONZO
    LA RINNOVANTE SELVA
    DEDICANO
    GLI OPERAI DI OGNI OPERA
    DAL LORO CAPO GIOVANNI AGNELLI
    ADUNATI SOTTO IL SEGNO
    DI QUELLA PAROLA BREVE
    CHE NELLA GENESI
    FECE LA LUCE

    FIAT LUX: ET FACTA EST LUX NOVA
    MAGGIO MCMXV - MAGGIO MCMXXVIII »


     
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  5. gheagabry
     
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    5 OTTOBRE-14 OTTOBRE 1582
    I GIORNI MAI ESISTITI




    La Bolla pontificia del 1582

    Il 4 ottobre 1582 , giovedi, i cittadini che si erano pacificamente addormentati si risvegliarono sempre di venerdi, ma era venerdi 15 ottobre ! Come era potuto succedere ? Fino a quel giorno era in vigore il calendario giuliano, voluto da Giulio Cesare nel 46 A.C. . Quel calendario però era piuttosto impreciso, nel corso dei secoli si era creata una differenza tale tra anno solare e anno civile che l'equinozio di primavera nel 1582 ormai cadeva l'11 marzo e man mano sarebbe slittato ancora oltre. Papa Gregorio XIII decise che era arrivato il momento di riformare il calendario e per rimettere le date a posto stabilì che vi fosse un salto di 10 giorni, quei 10 giorni ,dal 5 al 14 ottobre che furono cancellati per sempre in modo che l'equinozio di primavera l'anno successivo potesse celebrarsi il 21 marzo.Nacque così il Calendario Gregoriano.
    Per evitare che col tempo vi fossero nuove imprecisioni fu stabilito che tutti gli anni divisibili per 100 ( anni centenari )non fossero più bisestili tranne quelli divisibili per 400. Con le moderne tecniche scientifiche si è scoperto che comunque vi è ancora un piccolissimo slittamento in avanti dell'anno ma si tratta di secondi e ci vorranno secoli per arrivare a una differenza che si possa notare.
    (morgana-lucedinverno.blogspot.it)






    La Terra, alla fine di tutti i millenni, avrà i suoi dieci giorni di bonus da recuperare: il tempo, abituatosi alla pretensiosa fiscalità umana che si manifesta ogni qualvolta c’è qualcosa da riscuotere, a sorpresa di tutti, chiederà il riscatto. “Tranquilli, resto per un’altra decina di giorni. Ringraziate i vostri antenati, finché siete ancora in tempo.” E svanirà puntuale.
    Quando non ci sarà più nulla da capire, si capirà che il tempo sarà scaduto in tempo, finendo in ritardo di dieci tramonti.
    Ebbene sì, gli antenati dei nostri eredi, nel lontanissimo eremo del 1582, un bel giorno si svegliarono e decisero che doveva esserci qualcosa da rivedere, non tutto quadrava chiaro. Fu così che venne modificato il tempo che, sebbene sconvolto e rappezzato a proprio piacimento, non avrebbe mai potuto ribellarsi di questa sovversione. Non come gli affari, le istituzioni e, ultime, ma in vetta alla lista, le persone. Nessuno si sognerebbe di cambiare solo ed esclusivamente per ordine di un’altra persona; molti credono di cambiare e di adeguarsi al volere altrui, ma, in realtà, fingono solamente per quieto vivere. Il libero arbitrio è nato prima dell’uomo.
    Ma torniamo al nostro scandire di giorni. Fino all’anno sopraindicato, era in uso il calendario giuliano, promulgato da Giulio Cesare nel 46 a.C. sotto consiglio dell’astronomo Sosigene. Col passare dei secoli, ci si accorse che questa dimensione temporale era inesatta, in quanto causava uno scompenso di undici minuti annui. Cifra insignificante, se presa singolarmente.
    Cifra esorbitante, quando gli anni diventano millenni.Intorno al 1582, gli undici minuti, che erano intanto lievitati indisturbati, divennero ben dieci giorni di scompenso. Fu il matematico Cristoforo Clavio a fare bene i calcoli e papa Gregorio XIII ad usufruire del nome del nuovo calendario che, da allora, è detto gregoriano. Per recuperare i famosi dieci in più, il giorno dopo il 4 ottobre fu il 15 ottobre del 1582. Suvvia, senza pensarci troppo su: cancellati, mai esistiti. Tutto venne plasmato ad interesse ecclesiastico: il salto quantico da un giorno a un altro non consecutivo venne fissato per ottobre perché mese con minor numero di feste religiose; dopo il 4 e non prima, per non intaccare la celebrazione della festa di San Francesco e, ovviamente, della festa di San Petronio, patrono di Bologna. Per chi non lo sapesse, papa Gregorio XIII era bolognese e la storia e le leggi, come si sa, le fanno i vincitori e non solo di una guerra, ma anche di una causa, di un discorso.
    Non mancarono le solite furberie che tuttora ci fanno sorridere: le servitù vollero essere pagate anche per i dieci giorni mancanti, i debitori volevano annullare le scadenze che avvenivano nei giorni andati a monte e procrastinare la loro condizione.
    Debitori ci si nasce, non ci si diventa.
    E’ come nascere con un vizio o con una droga dentro: vivere del lavoro degli altri e non provare dolore e nemmeno gioia. L’importante è che arrivi un altro giorno e poi un altro ancora: a saldare il conto ci penserà il domani, forse. Nell’attesa, si può sperare che il domani dimentichi. Nulla di più insensibile e umiliante. L’uomo vero, l’uomo onesto, l’uomo che non è nato con il debito addosso, non fa sonni tranquilli se nella sua tasca ci sono soldi o perdoni da restituire.Mondo era e mondo è. Non siamo cambiati poi tanto, semplicemente fingiamo di esserlo. Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se “i giorni che non ci sono” fossero accaduti oggi. Cosa accadrebbe di tutti i progetti fissati entro quel lasso di giorni. Per una sciocca insicurezza e per avere sempre sotto controllo le emozioni e le situazioni, pianifichiamo per intero la nostra vita, non solo giorni prima, ma soprattutto mesi, anni prima.
    Beh, non accadrebbe assolutamente nulla.
    Il tempo non bada a sottigliezze umane, né, tantomeno le convenzioni fissate da qualcuno venuto prima di noi, ci cambiano gli eventi importanti; quelli, si sa, non hanno giorni. Il tempo non ha mai tempo nelle sole cose che ci rendono felici. E non conosce nemmeno i calcoli matematici o le disposizioni burocratiche, continua a scorrere con la sua eleganza e la sua disinvoltura, e noi lo rincorriamo senza raggiungerlo mai.
    Se qualcosa è andato perso, se dei giorni sono stati dimenticati, essi verranno recuperati e ritorneranno.
    Sempre.
    E’ il caso di dirlo: “ogni cosa al suo tempo".


    (ANTONELLA BIANCO, SABATO 08 OTTOBRE 2011 00:00, ilvesuviano.it)

     
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  6. gheagabry
     
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    I fatti il cui destino
    è "il riperersi" nel corso degli anni




    Nel XIX secolo, la storia ha conosciuto Jack lo squartatore, l’uomo che ha seminato il terrore nelle strade di Londra, ma basta spostarsi di confine per finire in Texas e ascoltare un caso simile “Avete mai sentito parlare di “The Servant Girl Annihilator”? Questo è il soprannome di chi terrorizzò Austin con una serie di omicidi seriali soprattutto verso governanti di colore e solo quando ha colpito due donne bianche, il caso è diventato di dominio pubblico.


    Per i fenomeni di costume ci si ricora quello della Beatlesmania ovvero l’idolatrare la band di Liverpool, ma forse non tutti sanno che successe qualcosa di simile con Franz Liszt, tanto da parlare di Lisztomania. Il compositore è definito “La prima rockstar del mondo”, le sue ammiratrici “conservavano i suoi mozziconi di sigaro” .


    Nel 1937 si verificò un grave incidente, il dirigibile Hindenburg prese fuoco uccidendo 36 persone a bordo, la sua reputazione ha raggiunto quella del Titanic, ma c’è un incidente che è avvenuto prima, quello relativo all’Akron nel 1930: morirono 48 persone.




    dal web
     
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  7. gheagabry
     
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    "Anno di grazia 1284 sesto giorno del mese di agosto,
    quattro miglia al largo della costa toscana..."


    LE SECCHE DI MELORIA



    Le Secche della Meloria rappresentano un'area di eccezionale interesse storico e archeologico, oltre che naturalistico. Hanno rappresentato per secoli un baluardo naturale contro le incursioni nemiche e sono state luogo di numerosi naufragi.
    Dal punto di vista naturalistico l'area marina protetta Secche delle Meloria rappresenta un ecosistema unico per estensione e diversità, caratterizzato da un elevata variabilità morfologica con un'alternanza di zone rocciose con il caratteristico fondale a catini, e zone con fondali sabbiosi e fangosi, e un insediamento di numerose specie di pesci oltre ad una variegata vegetazione marina.
    Il primo faro della Meloria fu eretto dalla Repubblica di Pisa intorno al XII secolo per segnalare la presenza di pericolose secche a largo di Porto Pisano, il vasto sistema portuale che si estendeva nelle aree settentrionali dell'allora villaggio labronico. Aveva anche funzione di fortilizio, mentre il faro fu affidato dapprima ai benedettini di Pisa e successivamente agli agostiniani dell'antica chiesa di San Jacopo in Acquaviva, a Livorno. La torre, distrutta dai genovesi nel 1286, fu ricostruita nel 1598 per volontà del granduca Ferdinando I de' Medici, ma successivamente fu abbattuta dalla forza del mare.
    L'odierna costruzione risale al 1709 e fu innalzata sotto Cosimo III: è costituita da quattro pilastri uniti da archi acuti sopra i quali poggia il corpo della torre vera e propria, per fare meno resistenza alle onde.

    ..la battaglia..


    Dopo i grandi contrasti verificatisi nei secoli precedenti tra la Repubblica di Genova e la repubblica marinara di Pisa, l'occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche.
    La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e il giorno 6 agosto 1284, giorno di San Sisto, salpò verso Porto Pisano. La scelta del giorno sulla carta era propizio ai pisani in quanto foriero di vittorie e celebrato ogni anno.
    L'ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto "Compagne" (antico raggruppamento dei quartieri di Genova). Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per prendere di sorpresa la flotta pisana. Parte di essa era ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.
    Si narra che durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d'argento del Bastone dell'Arcivescovo di Pisa, si staccò. I Pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, San Sisto, anniversario di tante gloriose vittorie, e quella era un'ottima occasione per eliminare definitivamente i Genovesi: contando 63 legni genovesi e i Pisani forti di 9 navi in più decisero di uscire dal porto.
    Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i Pisani avevano scelto un forestiero come Podestà, Morosini da Venezia. I Veneziani com'è noto erano da sempre in rivalità contro Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l'appoggio alla repubblica pisana. Dopo una prima esitazione i Pisani decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizioni scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.
    Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni dello Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione (1288) e alla celebre morte per inedia (1289). La gloria della marina della Repubblica Pisana s'inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 galere.
    Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri) tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe chiamato "Campopisano". Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che scrisse per conto di Marco Polo il cosiddetto Milione nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome. La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri, depauperò spaventosamente la repubblica pisana non solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e spopolata da causarne la progressiva decadenza. In tale occasione, proprio in riferimento all'ingente numero di prigionieri pisani a Genova, nacque il detto "se vuoi veder Pisa vai a Genova". Tuttavia le forze pisane non furono annientate tanto che, per tutto il XIV secolo, Pisa rimase una potenza repubblicana tanto da vincere la famosa Battaglia di Montecatini nel 1315, nella quale vinse contro le forze riunite di Firenze, Siena, Prato, Pistoia, Arezzo, Volterra, San Gimignano e San Miniato. Anche la sconfitta finale di Pisa (1406) avvenne causa tradimento del Capitano del Popolo e mai per motivi militari.


    Brucia ancora la sconfitta con Genova, sette secoli dopo...Pisa ha troppa memoria - l’origine etrusca, la grandezza della sua marineria - per dimenticare. Ecco perché ancora oggi la Meloria non è soltanto il nome di una battaglia finita in disfatta, una delle molte che l’uomo ha combattuto in terra e sul mare, ma rappresenta la morte di una città-Stato, l’umiliazione dei suoi cittadini. Con la Meloria (1284) Pisa ha perduto l’orgoglio, i sogni, la regalità, e mai più potrà dimenticare il perduto potere. La città-stato ha chinato la testa, forse per sempre, e non dimenticherà mai più. Pisa, che era stata (Rudolf Borchardt) “un impero di vele”, resta nei secoli dei secoli una città sconfitta, umiliata, delusa. Pisa, ovvero l’orgoglio ferito. Non fu solo la Meloria a scavare il grande solco che proietta la sua ombra fino a noi. Ai 12 mila morti della battaglia che cancellarono l’anima della grande città-stato, si aggiunsero i 6mila prigionieri portati in catene nel carcere genovese del Modulo che provocarono una crisi demografica che parve irreparabile. “Questa situazione - precisa lo storico Emilio Tolaini - determinò un forte incremento immigrativo dal contado che consentì di ricostruire in qualche modo la rete dei traffici”. Ma il ritorno ad una seminormalità non fu vera gloria: appena un secolo dopo, infatti, i fiorentini compreranno Pisa e il suo porto.
    Se è vero che ogni città ha un’anima propria che è la risultante delle anime di coloro che vi hanno sempre vissuto, molti concordano nel dire che Pisa conserva ancora una scontrosità che è figlia della sconfitta più bruciante. Scontrosa, dunque, e superba: così la giudicò Borchardt nel secolo scorso, e il giudizio resta attuale. Per questi motivi, nell’effervescente e inventiva Toscana, nella blasfema Toscana, Pisa si colloca con caratteri diversi da ogni altro campanile. La “pisanità”, ancora oggi, significa diffidenza perché diffidenza è figlia dell’orgoglio ferito. Non a caso Curzio Malaparte, nel disegnare i suoi Maledetti Toscani, glissò del tutto su Pisa. Confesserà: “Non li capisco, questi pisani. Hanno un carattere sfuggente, insincero. Sembra quasi che debbano farsi perdonare qualcosa. Ma cosa?”. La risposta sarebbe stata la stessa di oggi: farsi perdonare di avere perduto. Eppure Malaparte adorava Pisa, i suoi silenzi notturni ma anche il vociare degli studenti, la straordinaria bellezza dei marmi e l’Arno che fluiva al mare. Anche se di quel fiume preferiva le burrasche e il ghiaccio dell’inverno perché la “torba” voleva dire l’ingresso in Arno delle cèe. E per un piatto di cèe consumato in piazza Garibaldi, nell’osteria di Nilo Montanari, Malaparte avrebbe dato l’anima. E con l’oste amico, Malaparte si confidava: “Siete una razza strana, ma cucinate bene”.
    Dante provvide a suo tempo e con una certa efficacia a denunciare l’orribile colpa dei pisani. Dopo la Meloria, il conte Ugolino della Gherardesca, ritenuto responsabile per imperizia o per tradimento di quella sconfitta, fu rinchiuso, fino a morire di fame, con i figli ed i nipoti nella storica torre di piazza delle Sette Vie (oggi, Cavalieri di Santo Stefano). L’invettiva dantesca è forte, ma se il sommo poeta avesse conosciuto il seguito avrebbe scritto cose anche peggiori. Le ossa del conte Ugolino, infatti, furono poi sotterrate in faccia al fiume sui lungarni di Tramontana e quel terreno restò per sempre maledetto. Chi oggi visiti Pisa e percorra i suoi lungarni, scoprirà che la lunga teoria dei palazzi è interrotta, poco prima della chiesa del Santo Sepolcro, da un giardino, l’unico che si affacci sul lungarno. Ma non è un giardino, e non è un cimitero: è terra maledetta. Perché i pisani non dimenticano. Neppure oggi che le ossa del conte hanno trovato pace - si spera - nel convento di San Francesco, su quel terreno non sarà mai consentito di costruire niente.
    No, Pisa non può essere considerata una città “normale”, come bene intese Malaparte. Dice il professor Silvano Burgalassi, sociologo e massimo cultore dell’anima pisana: “Pisa vive del passato e non riesce ad esprimere i valori di arte, di spiritualità, d’intelligenza dei quali pure è portatrice. È una sorta di freno, quasi di maledizione della quale non sappiamo liberarci. Oggi non potremmo più fare la piazza del Duomo o i lungarni perché mancherebbe la capacità d’ispirazione che ebbero i pisani prima della Meloria, quando dominavano i mari e vedevano in questa loro missione qualcosa di divino che dovesse essere degnamente celebrato. Da allora, l’anima pisana è malata di orgoglio ferito e non è capace di esprimere una profondità di pensiero che sia in sintonia con i propri tempi”. Quanto dovrà passare perché Pisa ritrovi la sua serenità, dimentichi la sua sconfitta e il suo impero perduto, perché la “pisanità” diventi finalmente un sentimento positivo? Nessuno può dirlo. Ma non sarà certo il folklore a guarire l’orgoglio ferito. I pisani contemporanei hanno in uggia quel falso folklore che simula, una volta all’anno, i fasti di una repubblica marinara che non c’è più. Anzi, considerano quella regata un po’ blasfema, un confronto di muscolosi atleti che non ha il diritto di evocare il fasto di un’epoca.
    Eppure la “pisanità” malata, questo umore scontroso, questo malessere del presente, sfugge spesso ai visitatori. Se Malaparte fu diffidente di Pisa e dei pisani, altri visitatori trovarono invece una grande serenità nei silenzi della città, nel suo pathos. Scriveva Elizabeth Barrett: “Pisa, ecco una delle piccole, deliziose città del silenzio. Strade sonnacchiose dove cresce l’erba fra pietra e pietra, dove ruzzano nella solitudine gruppetti di ragazzi”. Vista dagli altri, Pisa può veramente apparire così, tenera e silenziosa più che altera e scontrosa. E allora, per animi tormentati, Pisa può essere l’ideale: se il suo orgoglio ferito non traspare, resta intatta quella profumata aurea da oasi che si respira nelle strade e nelle piazze, tanto che Shelley poté trovare l’ispirazione per comporvi l’elegia In morte di Keats e Leopardi scrivere in una notte di aprile, profumata di glicine, la poesia A Silvia.
    (Renzo Castelli, toscanatoscana.it)
     
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  8. gheagabry
     
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    « Come vogliono la scienza e il nostro onore,
    come impongono l'usanza e il dovere,
    riconosciam che il chierico in amore,
    vale assai, assai più del cavaliere. »
    (Dalla Canzone di Filide e di Flora, CB 92)


    CHI ERANO I GOLIARDI?



    Con la rinascita culturale del secolo XII, che si accompagnava ad un forte sviluppo demografico e alla ripresa in Europa dei viaggi e degli spostamenti di massa, fece la sua comparsa un nuovo tipo di intellettuale girovago, ostile all'ordine costituito ed alla moralità del tempo: il goliardo. Pur dipendendo, data la penuria di mezzi materiali, dalla munificità di signori e prelati, i goliardi si scagliarono con la loro poesia, spesso caustica e volgare, contro un mondo feudale in progressivo disfacimento. In epoca contemporanea, mentre il loro spirito è stentatamente sopravvissuto in ambito universitario, il loro nome è diventato sinonimo di buffonesco, scherzoso.

    Tutto sembra cospirare per nasconderci il loro volto: l'anonimato che copre la maggior parte di essi, le leggende che essi stessi hanno fatto correre compiacentemente sul proprio conto, quelle che – tra molte calunnie e maldicenze – hanno propagato i loro nemici, e infine quelle inventate dagli eruditi e dagli storici moderni, messi fuori strada da false somiglianze, accecati da pregiudizi. Taluni ripetono le condanne dei concili, dei sinodi e di certi scrittori ecclesiastici del XII e XIII secolo. Questi chierici goliardici o vaganti sono trattati da vagabondi, ribaldi, ciurmadori, buffoni; sono descritti come zingari, pseudo-studenti; guardati ora con occhio benevolo – bisogna pure che la gioventú si sfoghi – ora con timore e disprezzo: perturbatori, spregiatori dell'Ordine, come avrebbero potuto non essere pericolosi? Altri invece vedono in essi una specie d'intellighenzia urbana, un gruppo rivoluzionario aperto a tutte le forme di opposizione dichiarata al feudalesimo. Dov'è la verità?
    Stabilito che si ignora persino l'origine del termine Goliardo – una volta scartate le etimologie fantasiose che lo fanno derivare da Golia, incarnazione del diavolo, nemico di Dio, o da gula, la gola, per fare dei suoi discepoli dei mangioni e peggio (goliardus, ghiottone, parassita, lecheor o leccatore), e una volta riconosciuta l'impossibilità di identificare un Golia storico fondatore di un ordine di cui i Goliardi sarebbero stati membri – ci rimangono alcuni particolari biografici di certi Goliardi, delle raccolte di poesie poste sotto il loro nome – individuale o collettivo, carmina burana [cosí detti dal monastero germanico di Benediktbeuren, dove furono trovati] – e i testi dei contemporanei che li condannano o criticano.
    Non v'è dubbio che essi abbiano costituito un gruppo in seno al quale la critica della società qual era a quei tempi si sviluppava con compiacenza. Noi non possiamo dire se essi siano d'origine urbana, contadina o anche nobile; ma è certo che sono prima di tutto dei vagabondi, tipici rappresentanti di un'epoca nella quale lo sviluppo demografico, il ridestarsi del commercio, la costruzione delle città fanno scricchiolare e scoppiare le strutture feudali, gettano sulle strade maestre o raccolgono nei loro quadrivi, che sono le città, uomini spostati, audaci o disgraziati. I Goliardi sono il frutto di questa mobilità sociale caratteristica del XII secolo. Che questi individui siano sfuggiti alle strutture stabilite è un primo scandalo per gli spiriti tradizionalisti. L'Alto Medioevo s'era sforzato di legare ogni uomo al suo posto, al suo lavoro, al suo ordine, alla sua condizione. I Goliardi sono degli evasi. Evasi senza mezzi, essi formano nelle scuole urbane quei nuclei di studenti poveri che vivono d'espedienti, si adattano a divenire domestici dei loro condiscepoli ricchi, vivono di mendicità, giacché, come dice Evrardo il Tedesco, «se Parigi è un paradiso per i ricchi, per i poveri è una palude avida di preda», ed egli piange sulla Parisiana fames, la fame dei poveri studenti parigini.
    Talvolta, per guadagnarsi la vita, essi diventano giocolieri o buffoni, da che derivano senza dubbio i nomi con cui spesso vengono indicati. Ma bisogna anche pensare che la parola joculator, giocoliere, è in quei tempi l'epiteto con cui vengono insultati tutti coloro che appaiono pericolosi e che si vorrebbe tagliar fuori dalla società. Un joculator è un «rosso», un ribelle...

    Questi studenti poveri, che non sono legati né da un domicilio fisso, né da alcuna prebenda, né da alcun beneficio, se ne vanno cosí all'avventura, avventura intellettuale, seguendo il maestro che li ha entusiasmati, accorrendo verso quello di cui si parla, spigolando di città in città l'insegnamento che viene impartito in ciascuna di esse. Formano cosí il corpo di un vagabondaggio scolastico anch'esso caratteristico di questo XII secolo, e contribuiscono a conferirgli il suo aspetto avventuroso, impetuoso, ardito. Ma non formano una classe. Di origini diverse, nutrono ambizioni diverse. Certo, hanno scelto lo studio a preferenza della guerra, ma i loro fratelli sono andati a ingrossare gli eserciti, le truppe delle Crociate; depredano lungo le strade d'Europa e d'Asia e metteranno a sacco Costantinopoli. Se tutti criticano, taluni, molto probabilmente, sognano di diventare come quelli contro cui rivolgono le loro critiche. [...] Tutti sognano un mecenate generoso, una grassa prebenda, una vita comoda e felice. Piú che a cambiare l'ordine sociale, essi sembrano aspirare a divenirne nuovi beneficiari.
    Ciò non toglie che nelle loro poesie essi attacchino aspramente questa società. È difficile negare per taluna di tali composizioni il carattere rivoluzionario posto in rilievo da certi critici. Il gioco, il vino, l'amore: ecco, per cominciare, la trilogia che essi cantano di preferenza, il che ha sollevato l'indignazione delle anime timorate del loro tempo, ma ha piuttosto inclinato all'indulgenza gli storici moderni. [...] È significativo che la poesia goliardica se la prenda – assai prima che ciò divenga un luogo comune della letteratura borghese – con tutti i rappresentanti dell'ordine dell'Alto Medioevo: l'ecclesiastico, il nobile, persino il contadino.
    Nella Chiesa i Goliardi prendono per bersagli favoriti coloro che, socialmente, politicamente, ideologicamente, sono piú strettamente legati alle strutture della società: il papa, il vescovo, il monaco. [...]
    A dispetto della loro importanza, i Goliardi sono stati respinti ai margini del movimento intellettuale. Essi hanno certamente proposto temi pieni di possibilità avvenire, i quali, tuttavia, nel corso della loro lunga carriera, si attenuarono notevolmente; hanno rappresentato nel modo piú vivace un ambiente desideroso di affrancarsi; hanno lasciato in eredità al secolo veniente molte idee di morale naturale e di libertinaggio, sui costumi o lo spirito, nonché la critica religiosa che ritroveremo nell'ambiente universitario, nella poesia di Rutebeuf (poeta francese morto all'incirca nel 1285), nel Roman de la Rose di Jean de Meung (poeta francese che portò a compimento fra il 1275 ed il 1280 il celebre poema cominciato da Guillaume de Lorris) e in talune proposizioni condannate a Parigi nel 1277. Ma il XIII secolo li ha visti scomparire. Le persecuzioni e le condanne li hanno colpiti, le loro stesse tendenze a una critica meramente distruttrice non ha permesso loro di trovare il proprio posto nel cantiere universitario che spesso trascuravano per afferrare le occasioni di una vita facile o per darsi al vagabondaggio, e la fissazione del movimento intellettuale in centri organizzati, le Università, ha alla fine fatto dileguare questa razza di erranti.
    (Da: J. Le Goff, Genio del Medioevo, Mondadori, Milano, 1959)


    Amore, gioco e vino
    "Qual nave che nel pelago non ha nocchiero...
    io non son stretto a vincoli né a luogo alcun mi lego
    ... mi struggono delle vergini le grazie e il candore,
    se non posso con l'opera le stupro almeno col cuore
    ... Ah i casi non son radi
    in cui mi avvien di perdere anche le vesti ai dadi!
    Ma se pel freddo ho i brividi, nell'imo petto ho ardori
    ... È mio saldo proposito morir dal taverniere:
    chi quivi muore ha prossimo alle labbra il bicchiere,
    e ode i cori degli angeli che pregano:
    - Signore deh accogli nell'Empireo questo buon bevitore!
    ... Cerco il piacer tra gli uomini e non oltre le stelle
    non curo affatto l'anima ma curo assai la pelle."
    (Dal canto "Estuans Intrinsecus", composto dall'Archipoeta di Colonia, CB 191)

     
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    "La storia è un insieme di bugie che le persone hanno concordato."
    (Napoleone)



    PERSONAGGI STORICI
    famosi per qualcosa che non hanno mai fatto



    NERONE



    L'incendio scoppiò la notte del 18 luglio del 64 (ante diem XV Kalendas Augustas, anno DCCCXVII a.U.c.) nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, propagandosi in quasi tutta la città.

    « Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso
    oppure al dolo del principe (poiché gli storici
    interpretarono la cosa nell'uno e nell'altro modo) »


    Secondo alcuni storici antichi, l'imperatore Nerone ordinò ai suoi uomini di accendere il fuoco, al fine di fare spazio libero per il suo nuovo palazzo. Ma anche se Nerone non era certamente un santo (ha ordinato l'omicidio di sua madre durante la sua ascesa al potere), la storia del suo diabolico piano è probabilmente esagerata. Mentre alcuni antichi cronisti descrissero l'imperatore, amante della musica ed il canto, mentre osservava le fiamme che distruggevano la città, lo storico Tacito avrebbe messo in dubbio queste affermazioni definendole come voci maligne. Secondo lui, Nerone era ad Anzio durante le prime fasi delle fiamme, e al ritorno a Roma, aiutò i soccorsi e aprì Campo Marzio a coloro che persero le case nell'incendio, allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare i viveri dai dintorni. Il prezzo del grano sarebbe stato inoltre abbassato a tre sesterzi il moggio.

    « Questi provvedimenti per quanto di carattere popolare cadevano nel vuoto, poiché si era diffusa la voce che proprio nel momento in cui Roma bruciava egli fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo e avesse cantato la distruzione di Troia, paragonando il disastro presente alle antiche sventure. »

    Il racconto delle fonti antiche deve essere interpretato tenendo conto del loro carattere ostile all'imperatore gli autori citati appartenevano, per la maggiore parte all'aristocrazia senatoria, contraria alla politica di Nerone, che favoriva invece i ceti popolari e produttivi.
    In alternativa alla versione tradizionale, lo storico Gerhard Baudy, riprendendo una tesi elaborate in precedenza da Carlo Pascal e Leon Herrman, ha esposto l'ipotesi secondo la quale furono effettivamente i cristiani ad appiccare volontariamente fuoco a Roma, allo scopo di dare seguito ad una profezia apocalittica egiziana, secondo cui il sorgere di Sirio, la stella del Canis Major, avrebbe indicato la caduta della grande malvagia città. Recentemente uno studioso italiano, Dimitri Landeschi, attraverso una accurata ricostruzione storica dei drammatici avvenimenti che si svolsero a Roma negli anni 64 e 65 d.C. (il grande incendio e la congiura di Pisone) ha avanzato l'ipotesi che ad incendiare Roma non fosse stato Nerone ma, con ogni probabilità, un pugno di fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità cristiana di Roma, con la complicità morale di taluni ambienti dell'aristocrazia senatoria, in mezzo a cui si celavano i veri ispiratori di quella scellerata operazione. Landeschi, nel formulare la sua ipotesi, riprende e sviluppa tesi analoghe avanzate in passato da storici quali Carlo Pascal, Gerhard Baudy e Giuseppe Caiati.

    MARIA ANTONIETTA d’Asburgo-Lorena



    La frase «Se non hanno pane, che mangino brioche!» (S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche in francese) è tradizionalmente attribuita a Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, che l'avrebbe pronunciata riferendosi al popolo affamato, durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane.
    In realtà la frase è sicuramente precedente: infatti, nel Libro VI de Le confessioni, Jean Jacques Rousseau afferma che nel 1741 si trovava da Madame de Mably e, non volendo entrare in panetteria vestito in maniera elegante poiché sarebbe stato considerato poco consono, racconta questo aneddoto:
    « Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose: che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche. » (Jean Jacques Rousseau, Le confessioni)
    La principessa a cui fa riferimento non può però essere Maria Antonietta, poiché quest'ultima nacque nel 1755 e sarebbe giunta in Francia soltanto nel 1770. È possibile che i detrattori di Maria Antonietta abbiano in un secondo momento identificato la principessa del brano con la regnante austriaca per delegittimarla agli occhi dell'opinione pubblica.
    L'attribuzione a Maria Antonietta è ritenuta falsa dagli storici, poiché «Se non hanno pane, che mangino brioche!» è una frase che è stata attribuita, nel corso della storia, a diverse persone, sia prima che dopo Maria Antonietta, (tra le quali Maria Stuarda e Caterina de' Medici). Secondo altri storici, la regina in questione potrebbe invece essere stata Maria Teresa, moglie di Luigi XIV. Veniva, insomma, attribuita al potente di turno, per indicare come i ricchi fossero distanti dalla realtà del popolo.
    Per dovere di cronaca, Maria Antonietta fu processata nel 1793 per alto tradimento e il 16 Ottobre decapitata in Place de la Revolution mediante l’uso della ghigliottina, mentre il popolo parigino gridava “Viva la Repubblica”.

    JOSEPH-IGNACE GUILLOTIN


    Contrariamente a quanto comunemente si crede, la ghigliottina non fu inventata dal dottor Joseph-Ignace Guillotin, da cui il nome.
    L'unico contributo di Guillotin, insieme ad altri politici francesi, fu quello di presentare all'Assemblea Nazionale in data 9 ottobre 1789 un progetto di legge in sei articoli con il quale (art.1) si stabiliva che le pene avrebbero dovuto essere identiche per tutti, senza distinzione di rango del condannato. L'art.2 poi prevedeva che nel caso di applicazione della pena di morte il supplizio avrebbe dovuto essere il medesimo, indipendentemente dal crimine commesso, e che il condannato sarebbe stato decapitato per mezzo di un semplice meccanismo.
    Sfortunatamente, il successivo 1º dicembre, Guillotin non adottò il tono giusto nell'illustrare la propria proposta; bastino due citazioni riportate rispettivamente da Le Moniteur e dal Journal des États généraux:
    « Con la mia macchina, vi faccio saltare la testa in un batter d'occhio, e voi non soffrite »... « La lama cade, la testa è tagliata in un batter d'occhio, l'uomo non è più. Appena percepisce un rapido soffio d'aria fresca sulla nuca »
    Tutta l'assemblea, a cominciare dai cronisti, scoppiò a ridere, tanto che Guillotin si infuriò con i colleghi e soprattutto con la stampa. Ciononostante l'art. 1 (quello sull'eguaglianza delle pene) fu messo ai voti e approvato all'unanimità, mentre per i restanti articoli la discussione fu aggiornata. Fu ripresa il successivo 21 gennaio 1790, ma l'art. 2, sull'onda dell'accoglienza avuta in dicembre e dei commenti ironici della stampa, non fu neppure messo ai voti e rinviato al Comitato dei sette. Nel 1791, nel corso dei lavori per la redazione del nuovo codice penale, fu nuovamente affrontato il problema della pena di morte. Il progetto iniziale ne prevedeva l'abolizione, ma nel corso dei lavori assembleari fu stabilito di mantenere tale pena: da qui il dibattito sul modo di esecuzione della stessa: pur essendo relativamente pacifico che il supplizio sarebbe dovuto essere uno solo, indipendentemente da rango e crimine, la discussione si accentrò sulle due modalità dell'impiccagione o della decapitazione. Alla fine la scelta cadde su quest'ultima modalità, soprattutto perché si trattava del supplizio riservato alla nobiltà, e quindi quello che nell'immaginario collettivo minimizzava il marchio di infamia sul condannato e i suoi discendenti: il contrario rispetto all'impiccagione che tradizionalmente era riservata alla peggior feccia. Il dibattito si svolse in assemblea tra il 30 maggio e il 3 giugno, allorquando fu votato l'articolo che prevedeva: « ogni condannato a morte avrà tagliata la testa »
    Il procuratore generale Roederer tentò di consultare Guillotin, che non ne volle minimamente sapere, memore dello smacco del 1789 e desideroso di evitare qualsiasi associazione con la macchina per decapitare: l'incarico di studiare una soluzione fu così affidato ad Antoine Louis, segretario perpetuo dell'Accademia di Medicina. La macchina fu posta in opera il 25 aprile 1792, con l'esecuzione di Nicolas Pelletier, condannato per omicidio e furto. Le cronache riportano la grande delusione della folla accorsa numerosa che, grazie alla rapidità dello strumento, non ebbe letteralmente il tempo di vedere alcunché dello spettacolo.
     
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    La guerra dei Pasticcini, 175 anni fa



    Poche guerre possono vantare di essere state scatenate da una disputa sui prodotti da forno, ma negli annali risulta, la cosiddetta "guerra Pasticceria" tra Francia e Messico. Negli anni successivi al 1821 l'indipendenza del Messico dalla Spagna, ci furono disordini, saccheggi e scontri di strada tra le forze governative e i ribelli. Furono molti i beni danneggiati, compreso il saccheggio di un panificio nei pressi di Città del Messico di proprietà di un pasticcere di origine francese di nome Remontel. Il governo messicano respinse il suo tentativo di risarcimento per i danni causati ma Remontel si rivolse direttamente al suo paese natale ed al re Luigi Filippo.
    Remontel fu il benvenuto a Parigi. Il governo francese era già furente per i debiti non pagati dai messicani, sostenuti durante la Rivoluzione del Texas del 1836, e chiese un risarcimento di 600.000 pesos, tra cui un astronomico rimborso di 60.000 pesos per la pasticceria di Remontel, che erano state valutate meno di 1.000 pesos. Quando il Congresso messicano respinse l'ultimatum, nella primavera del 1838, la marina francese bloccò i principali porti marittimi lungo il Golfo del Messico dalla penisola dello Yucatan per il Rio Grande.

    La situazione di stallo si trascinò fino al 27 Novembre 1838, quando le navi da guerra francesi bombardarono l'isola fortezza di San Juan de Ulua che proteggeva la città portuale preminente di Veracruz. Il Messico dichiarò guerra alla Francia e il suo presidente ordinò l'arruolamento di tutti gli uomini che potevano portare le armi. Ma in pochi giorni, i marines francesi irruppero in città e catturarono quasi tutta la marina messicana.
    Nel disperato tentativo di respingere gli invasori, il Messico si rivolse al guerriero Antonio Lopez de Santa Anna, l'ex presidente e generale militare che aveva, solo l'anno precedente, incassato una sconfitta umiliante nella Battaglia di San Jacinto, che portò alla creazione della Repubblica indipendente del Texas. Con 3000 uomini sotto il suo comando andò a Veracruz, ma le sue truppe avevano né la capacità né il numero necessario per soddisfare i 30.000 soldati francesi stabiliti in città. La metà di loro sarebbe stato ucciso o ferito in combattimento. In un confronto con i francesi, nella retroguardia Santa Anna è fu ad una gamba che avrebbe successivamente amputata. Questo episodio fece crescere le credenziali di eroe a Santa Anna.
    Meno di quattro mesi dopo, la guerra Pasticceria finì. Diplomatici britannici mediarono un accordo di pace in cui il Messico accettò di pagare la i 600.000 pesos, compreso il costo della pasticceria di Remontel. Da parte sua, la Francia restituì le navi messicane che erano state sequestrate. Le Forze francesi si ritirarono dal paese il 9 marzo 1839.

    Santa Anna, l'uomo la cui carriera politica e militare era apparsa essere alla fine, si guadagnò il riscatto agli occhi dei suoi concittadini. Si auto-proclamò "Napoleone del West" e non fu avaro nel ricordare messicani che aveva sacrificato un arto per il suo paese. Nel 1842, riassunse la presidenza dittatoriale. Santa Anna riesumò la gamba raggrinzita da Veracruz, e sfilò a Città del Messico per poi seppellirla in un monumento con un funerale di stato elaborato che comprendeva salve di cannone, poesia e orazioni. La gamba mozzata di Santa Anna non rimase a lungo sepolta. Nel 1844, l'opinione pubblica si rivoltò al presidente, e demolì le statue di S. Anna e riesumò la gamba. La legarono ad una corda e la trascinarono attraverso le strade di Città del Messico, gridando, "Morte al storpio!"
     
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  11. gheagabry
     
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    Perché men paia il mal futuro e il fatto,
    veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
    e nel vicario suo Cristo esser catto.
    (Divina Commedia, Purgatorio, XX, 85-93)


    Lo Schiaffo di Anagni


    L'incidente denominato "schiaffo di Anagni" si riferisce alla cattura e imprigionamento di Papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, nel suo palazzo di Anagni (Frosinone) nel 1303.
    L'episodio si inserisce nel duro contrasto per il potere tra il re di Francia Filippo IV, detto "Filippo il bello" (1268-1314) e il papa, che con la bolla "Unam Sanctam" del 1302 voleva imporre la supremazia papale su tutti i sovrani della terra, e contestava il diritto del re di Francia di imporre tasse al clero francese. Filippo IV reagì alla bolla papale convocando un concilio contro Bonifacio e definendolo "simoniaco ed eretico", quindi mandò il suo consigliere Guglielmo di Nogaret (1260-1314) ad Anagni per arrestarlo, con l'aiuto dei Colonna, strenui rivali dei Caetani.
    Il pontefice nacque intorno al 1235 ad Anagni, cittadina a circa 65 km da Roma, dove trasferì la residenza papale, ed era al massimo del suo potere: eletto nel 1294, nel 1300 aveva istituito il primo giubileo e il 21 aprile 1303 aveva fondato lo "Studium Urbis", la prima Università romana, poi denominata "la Sapienza".
    L'incidente avvenne il 7 settembre 1303 e porta il nome di "schiaffo di Anagni" per l'oltraggio imposto al papa, ma alcuni sostengono che uno dei Colonna all'atto dell'arresto abbia effettivamente schiaffeggiato il papa, mentre secondo altre cronache il Colonna sarebbe stato fermato in tempo da uno dei francesi, forse lo stesso Nogaret.
    Secondo una versione dei fatti Bonifacio voleva fingersi morto per sfuggire all'arresto, ma visto il carattere forte del papa è più credibile la versione secondo cui avrebbe invece atteso i congiurati seduto sul trono papale. Nogaret avrebbe intimato al papa di seguirlo a Lione, dove il concilio convocato dal re avrebbe dovuto deporlo, ma il papa avrebbe risposto "ecco il mio collo, ecco la mia testa, morirò, ma morirò papa".
    Sembra anche che Sciarra Colonna avresse voluto uccidere il papa, spinto dall'odio di famiglia, ma Nogaret lo abbia dissuaso perché voleva consegnare il papa vivo a Filippo IV. Il papa avrebbe anche apostrofato Nogaret definendolo "figlio di Catari", in effetti il padre di Guglielmo era stato condannato come eretico al tempo della crociata degli Albigesi. Bonifacio conosceva Nogaret perché questo era stato inviato da Filippo IV come ambasciatore presso il papa nel 1300, e di questa esperienza aveva lasciato un colorito e pittoresco resoconto.
    Secondo alcuni in realtà tutta l'impresa di Anagni fu un'idea di Nogaret, suggerita a Filippo IV nel febbraio dello stesso 1303. Il 7 marzo Nogaret ricevette un messaggio in codice della Cancelleria reale in cui gli si ordinava di "recarsi in quel certo luogo ... e di fare quello che gli sembrava bene di farvi", e il 12 marzo, durante un'assemblea solenne tenuta al Louvre, il consigliere tenne un discorso in cui attaccava duramente il papa e reclamava la convocazione di un concilio generale per esaminare il suo caso, e quindi processarlo. Nogaret fu comunque gratificato dal re per l'impresa con l'assegnazione di una grossa somma di denaro e con l'assegnazione di terreni.
    Il 9 settembre, dopo due giorni di prigionia nel palazzo di Anagni, comunque, Bonifacio fu liberato dagli anagnini ma, già malato, morì circa un mese dopo lo schiaffo, l'11 ottobre, e fu sepolto in S. Pietro, nella cappella Caetani, in un monumento funerario eseguito dal grande Arnolfo di Cambio. Nel palazzo dei papi di Anagni esiste ancora la "sala dello schiaffo", dove si racconta sia avvenuto il fatto.
    La squadra di 300 uomini (secondo altre fonti 1600), italiani e francesi, che catturò il papa era partita da Roma, ed era guidata da Nogaret e dal principe Giacomo Colonna (detto Sciarra per il suo carattere rissoso); sembra che, prima di irrompere ad Anagni, i congiurati si fossero radunati a Sgurgola, dove erano stati arringati da Giordano Conti da una pietra (la "pietra rea") situata all'ingresso del paese. Conti era mosso da odio verso il papa, che lo aveva privato delle sue proprietà a Sgurgola, e anche la rivalità tra Caetani e Colonna era aspra: sette anni prima uno dei Colonna si era impadronito di un tesoro che era trasportato da un nipote del papa, e questo per rappresaglia aveva fatto radere al suolo Palestrina, centro dei possedimenti dei Colonna, che a loro volta avevano accusato Bonifacio di aver spinto il suo predecessore Celestino V a dimettersi, oltre che di avere evocato dei demoni ed essersi fatto idolatrare. Dopo lo schiaffo di Anagni il contrasto tra la chiesa e i re di Francia volse a favore di questi ultimi, con l'elezione a papa nel 1309, dopo l'intervallo di Benedetto XI, dell'arcivescovo di Bordeaux, Bernard de Got, con il nome di Clemente V, che trasferì il papato ad Avignone, dove restò fino al 1377.
    Nel 1311 Guglielmo di Nogaret ottenne da Clemente V l'assoluzione per i protagonisti dell'episodio di Anagni, che era stata negata dal suo predecessore Benedetto XI, che anzi aveva escluso i congiurati dall'assoluzione generale del 12 maggio 1304 e li aveva esplicitamente condannati con la bolla Flagitiosum scelus del 7 giugno 1304.
    In cambio dell'assoluzione Clemente V chiese la partecipazione alla prossima crociata e a un certo numero di pellegrinaggi in Spagna e Francia, che comunque Guglielmo non eseguì.

    La bolla «Unam Sanctam»


    La conclusione dogmatica della «Unam Sanctam» era la seguente: "Porro subisse Romano Pontifici, omni humanae creaturae declaramus, dicimus et definimus, omnino esse de necessitate salutis": "Noi dichiariamo, diciamo, pronunciamo e definiamo che ogni creatura umana è in tutto e per tutto, per necessità di salvezza, sottomessa al Pontefice romano". Ciò significa che ogni uomo, compresi i principi e i re cristiani, se volesse salvare la propria anima deve uniformare la sua condotta, pubblica e privata, alle leggi della Chiesa e alla autorità spirituale e morale del Sommo Pontefice. Il Papa, secondo Bonifacio, è per divina autorità al di sopra di tutti Re e i regni, non perché eserciti su di essi un'autorità temporale assoluta, ma solo nel senso di essere investito di quella superiorità relativa che conviene alle cose spirituali su quelle materiali, all'ordine soprannaturale e divino rispetto all'ordine puramente naturale e umano, secondo le parole di san Paolo: "Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita est". La concezione di Bonifacio VIII è la stessa espressa da Papa Gelasio (492-496) nella celebre formula dei "duo luminaria", secondo cui "vi sono due poteri principali mediante i quali il mondo viene governato: l'autorità sacra dei pontefici e il potere regio" (Gelasio I, «Epistula ad Anastasium Imperatorem», in «Patrologia Latina», vol. LIX, col. 42). Tra il potere spirituale proprio della Chiesa e il potere civile simboleggiato dalla persona di Cesare, non vi è conflitto, ma distinzione, poiché il Signore comanda di dare "a Cesare quello che appartiene a Cesare e a Dio quello che appartiene a Dio" (Mt 22,21).
     
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  12. gheagabry
     
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    Svelata la malattia di Robespierre



    Il rivoluzionario francese aveva una rara malattia del sistema immunitario chiamata sarcoidosi. La diagnosi, a oltre 200 anni dalla morte, è stata fatta in base a una impressionante ricostruzione del volto e ai documenti storici.

    Maximillien de Robespierre, figura di spicco della Rivoluzione francese, ghigliottinato nel 1794, soffriva di una malattia rara chiamata sarcoidosi. Lo sostengono, sulla rivista medica Lancet, due scienziati forensi, che hanno ricostruito il volto del celebre politico basandosi sulla maschera di cera, realizzata subito dopo la decapitazione da Madame Tussaud, futura fondatrice del museo delle cere di Londra, vissuta a Parigi nel periodo dei moti rivoluzionari.

    La diagnosi proposta da Philippe Charlier e Philippe Froesch, rispettivamente del centro per la visualizzazione forense della Catalogna (Spagna) e dell'Unità di formazione e ricerca di Montigny-le-Bretonneux (Francia), si basa sull'aspetto del volto ricostruito e sull'analisi di documenti e testimonianze dell'epoca, che attribuivano a Robespierre un ampio spettro di disturbi. «Numerosi sintomi sono stati descritti dai testimoni dell'epoca» si legge su Lancet. «Fra questi: problemi alla vista, sangue dal naso (“ogni notte inzuppava il cuscino di sangue”), astenia (“continua stanchezza”), frequenti ulcere alle gambe e lesioni della pelle del volto, che si univano alle cicatrici del vaiolo avuto in gioventù. […] La diagnosi retrospettiva che meglio include queste manifestazioni è quella di sarcoidosi diffusa, con compromissione degli occhi, delle alte vie respiratorie, del fegato e del pancreas».
    Non è nota la terapia che Joseph Souberbielle, medico personale di Robespierre, prescrisse al suo paziente. Di certo però includeva il consiglio di mangiare molta frutta (pare che il politico ingurgitasse enormi quantità di arance), oltre che frequenti bagni e salassi, pratica allora molto diffusa. Probabilmente, comunque, la malattia sarebbe guarita da sé, come accade in circa 70 per cento dei pazienti che ne soffrono.
    malattia del sistema immunitario che colpisce oggi 5-40 persone su 100.000 e le cui cause sono ignote. Dimostra infatti che almeno alcuni fra i fattori ambientali che, nelle persone predisposte, fanno aumentare il rischio di ammalarsi dovevano essere già certamente presenti all'epoca della Rivoluzione francese.


    di: Margherita Fronte, www.focus.it
     
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  13. gheagabry
     
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    Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato
    e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò
    che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.


    (Michail Bakunin, Considerazioni filosofiche sul fantasma divino,
    il mondo reale e l'uomo, 1871)



    DISSERO.......

    dalla “scienza” ufficiale, poi smentite dai fatti.




    "La famiglia americana media non ha tempo per guardare la televisione"

    (New York Times 1939)



    "Le televisione è tecnicamente possibile. Ma commercialmente è una perdita di tempo"

    (Lee DeForest pioniere della radio 1926)



    "Cartoni animati con un topo ? Che idea orribile:
    terrorizzerà tutte le donne incinte"

    (Louis Mayer, capo della MGM rifiutando
    il personaggio di Topolino creato da Walt Disney, 1928)




    "L'auto rimarrà sempre un lusso per pochi"

    (The Literary Digest 1899)



    "Questa invenzione dell'energia elettrica è un fallimento totale"

    (Erasmus Wilson, presidente dello Stevens Institute of Technology, 1879)




    "Che bisogno ha una persona di tenersi un computer in casa ?"

    (Kenneth Olsen, fondatore della Digital, 1977)




    "L'invenzione dei raggi X è una presa in giro"

    (Lord William T.Kelvin, Fisico britannico 1900)




    "Una nave che va controvento ? E' una sciocchezza"

    (Napoleone Bonaparte, rispondendo a Robert Fulton,
    inventore del battello a vapore 1805)




    "Veicoli per andare sott'acqua ? Servirebbero solo ad annegare gli equipaggi"

    (H.G.Wells, scrittore britannico, 1901)




    Pensare di attraversare l'Atlantico con una nave a vapore
    è come pensare di andare sulla Luna: una follia"

    (Dyonisus Lardner, docente di Astronomia, 1838)




    "E' impossibile che qualcosa più pesante dell'aria possa volare"

    (Lord Kelvin, famoso fisico e
    presidente della Royal Society britannica, 1895)



    "La fotografia durerà poco, per l'evidente superiorità della pittura"

    (Le Journal des savantes, 1829)



    "Penso che nel mondo ci sia mercato forse per 4 o 5 computer"

    (Thomas Watson, Presidente della IBM, 1943)



    "La bomba atomica non esploderà mai. Parlo come esperto di esplosivi"

    (William Daniel Lehay, Ammiraglio USA 1945)



    "L'ipotesi di viaggi nello spazio è una totale assurdità"

    (Richard vander Riel Wooley, asctronomo inglese, 1956)




    "Scavare sotto terra per cercare petrolio ? Siete pazzi ?"

    (Gli esperti della compagnia mineraria
    consultata da Edwin Drake per il primo progetto
    di trivellazione petrolifera, 1859)




    "Grazie alla radio, i Giapponesi non potranno mai attaccarci di sorpresa"

    (Josephus Daniels, Capo di Stato Maggiore della Marina USA, 1922)




    "In futuro un computer potrà forse pesare non meno di 1,5 tonnellate"

    (Usa Popular Mehanics, 1949)




    "Gli aerei non andranno mai veloci come i treni"

    (William Henry Pickering, Astronomo dell'Harvard college 1908)




    "I treni ad alta velocità sono impossibili:
    i passeggeri non potrebbero respirare e morirebbero di asfissia"

    (Dyonisus Lardner, Docente all'university College di Londra 1856)




    "Gli USA non sono in grado di inviare un uomo sulla Luna entro il 1970"

    (New Scientist, Autorevole rivista scientifica britannica, 1964)




    "Il canale di Suez ? Assolutamente impossibile da realizzare"

    (Benjamin Disraeli, Primo Ministro britannico, 1858)




    "Il microchip: ma a che serve ?"

    (un ingegnere della IBM, 1968)




    "Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica di aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare."

    (Igor Sikorsky - progettista di elicotteri)




    Medicina:

    "L'abolizione del dolore in chirurgia è una chimera. Bisturi vorrà sempre dire dolore"

    (Dr. Alfred Velpau, eminente chirurgo francese 1839)




    "L'addome e il cervello non saranno mai operabili dai chirurghi"

    (Sir John Eric Ericksen, famoso chirurgo inglese, 1873)




    "La teoria dei germi di Luis Pasteur è una ridicola finzione"

    (Pierre Pachet, docente di fisiologia a Tolosa, 1872)




    "Alla maggior parte della gente il tabacco fa bene"

    (Dr.Ian MacDonald, medico di Los Angeles intervistato da Newsweek, 1963)




    Astronomia:

    "Il Sole non gira attorno alla Terra ? Folle, eretico, assurdo e falso"

    (Tribunale dell'inquisizione sulle teorie di Copernico e Galileo, 1616)

     
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  14. gheagabry
     
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    "...A Roma è l'anno 2767, in riferimento alla sua nascita..."


    C’era 'na vorta, tanto tempo fa,
    ‘n posto ‘ndo la vita ‘ncominciava dar corso de quer fiume sempiterno,
    da quer rivo, che sempre te faceva sentì vivo,
    Je misero nome ROMA, e fù ‘n portento,
    er popolo romano era contento,
    perché chiunque venisse a rimirallo,faceva poi de tutto pe imitallo!!
    Mò dicheno: ”MILAN LE UNA GRAN COSSA!” “TUREN SE, CHE LE MARAVILLIOOSA!”
    IO me li guardo, poi penzo nà cosa: “ROMA PERO’ E’ TUTTA NANTRA COSA!!”
    Dovunque tu per monno girerai,sempre ‘n segno de ROMA troverai,
    sapenno bbbene, che da Adamo in poi,
    è sempre questa, ar monno, “LA CITTA!” ROMA!!"
    (Mario Filippi, 20/8/01)


    Ab urbe condita
    21 aprile 753 a. C., la nascita di Roma


    Ab urbe condita (relative a Anno Urbis Conditae) è un latino frase che significa "dalla fondazione della città (Roma) ", tradizionalmente datata al 753 aC. AUC è un sistema di numerazione usato da alcuni antichi storici romani per identificare particolari anni romani. Gli storici moderni usano UAC molto più frequentemente rispetto agli stessi Romani fecero. Il metodo dominante di identificare anni romani in epoca romana era quello di nominare i due consoli che tenevano ufficio quell'anno. L' anno di regno dell'imperatore è stato utilizzato anche per identificare anni, in particolare nel Impero Bizantino dopo 537 quando Giustiniano richiesto il suo utilizzo. Esempi di numerazione continua comprendono il conteggio per anno di regno, principalmente trovato negli scritti di autori tedeschi, ad esempio, di Mommsen Storia di Roma , e (più ubiquitariamente) nel Anno Domini sistema anno di numerazione.
    Inoltre Pacatianus , usurpatore contro Filippo, ha celebrato la Saeculum Novum . Questo antoninianus porta la legenda ROMAE AETER UN MIL ET PRIMO, "A Roma eterna, nella sua mille e il primo anno".
    Da imperatore Claudio (che regnò 41-54 dC) in poi, Varrone ha sostituito altri calcoli contemporanei. Celebrando l'anniversario della città divenne parte imperiale di propaganda . Claudio fu il primo a tenere magnifici festeggiamenti in onore della ricorrenza della città, nel 48 dC , 800 anni dopo la fondazione della città. Adriano e Antonino Pio tenute celebrazioni simili, nel 121 dC e 147/148 dC, rispettivamente.
    Durante l'248 dC, Filippo l'Arabo celebrato prima di Roma millennio , insieme a saeculares Ludi per presunta decimo di Roma saeculum . Monete del suo regno commemorare le celebrazioni. Una moneta da un contendente per il trono imperiale, Pacatianus , esplicitamente afferma: "Anno mille e il primo", che è un'indicazione che i cittadini dell'Impero avevano un senso l'inizio di una nuova era, un Saeculum Novum .

    La data tradizionale per la fondazione di Roma del 21 aprile del 753 aC, è stato avviato da Varrone. Varrone potrebbe aver utilizzato l'elenco consolare con i suoi errori, e si riferisce all'anno dei primi consoli "245 ab urbe condita ", accettando l'intervallo di 244 anni da Dionigi di Alicarnasso per i re dopo la fondazione di Roma. La correttezza del calcolo di Varrone non è stato dimostrato scientificamente, ma è ancora usato in tutto il mondo.

    L' Anno Domini anno numerazione è stato sviluppato da un monaco di nome Dionigi il Piccolo a Roma nel 525, come risultato del suo lavoro sul calcolo della data della Pasqua. Nella sua tabella di Pasqua dell'anno 532 dC, è stato identificato con l'anno di regno dell'imperatore Diocleziano 248. La tabella contato gli anni a partire dalla presunta nascita di Cristo, piuttosto che l'adesione dell'imperatore Diocleziano il 20 novembre 284, o come affermato da Dionigi: " sed magis elegimus ab incarnatione Domini Nostri Jesu Christi annorum tempora praenotare ... " Blackburn e Holford-Strevens rividettero le interpretazioni di Dionigi che ponevano l' incarnazione nel 2 aC, 1 aC, o 1 AD. E 'stato poi calcolato (dal record storico di successione dei consoli romani ), che l'anno 1 dC corrisponde all'anno romano 754 AUC, sulla base all'epoca di Varrone. Questo però non corrisponde con le vite di personaggi storici fama, o comunque menzionati in connessione con l'incarnazione cristiana, ad esempio, Erode il Grande o Quirinio.

    Secondo Velleio Patercolo fondazione di Roma avvenne 437 anni dopo la conquista di Troia da parte degli Achei (1182 aC). E 'avvenuto poco prima di una eclisse di Sole che è stato osservato a Roma il 25 giugno 745 aC e ha avuto una magnitudo di 50,3%. Tuttavia, secondo Lucio Tarrutius di Firmum, Romolo e Remo sono stati concepiti nel grembo materno, il giorno 23 del mese egiziano Choiac, al momento di una eclisse totale di sole. (Questa eclissi è avvenuta il 15 giugno 763 aC, con una magnitudo di 62,5% a Roma.). Sono nati il 21 ° giorno di il mese Thoth. Il primo giorno di Thoth è caduto il 2 marzo di quell'anno. Roma fu fondata il nono giorno del mese Pharmuthi, che era il 21 aprile, universalmente accettato. I Romani aggiungono che circa a quel tempo Romulus ha iniziato a costruire la città. Romolo scomparve nell'anno 54a della sua vita, sul Nones di Quintilis (luglio), in un giorno in cui il sole si oscurò. Il giorno diventò come la notte, e l'improvvisa oscurità si pensa sia dovuta ad un eclissi di sole. Era il 17 luglio 709 aC,. Plutarco mise nel 37 ° anno dalla fondazione di Roma, il quinto del nostro mese di luglio, che allora si chiamava Quintilis, afferma anche che Romolo ha governato per 37 anni. Egli fu o ucciso dal Senato o scomparve durante l'anno 38 ° del suo regno. La maggior parte di questi dati sono stati registrati da Plutarco, Floro, Cicero, Dio (Dion), Cassio e Dionigi di Alicarnasso (L. 2). Dio nella sua Storia Romana (Libro I) conferma questi dati dicendo che Romolo era nel suo 18 ° anno di età, quando aveva iniziato a Roma. Così, tre calcoli di eclissi possono essere la prova che Romolo regnò dal 746 aC al 709 aC, e Roma fu fondata nel 745 aC.

    Q. Fabio Pittore (c. 250 aC) dice che consoli romani iniziarono per la prima volta 239 anni dopo la fondazione di Roma. Tito Livio dà quasi la stessa, 40 anni per quell'intervallo. Polibio dice che il 28 anni dopo la cacciata dell'ultimo re persiano Serse attraversato la Grecia, e questo evento è fissato per 478 aC da due eclissi solari .


    La leggenda sulla nascita di Roma affonda le sue radici nella guerra di Troia, in particolare su due esuli, Antenore ed Enea: il primo si stabilì nel Veneto e fondò Padova, il secondo, insieme al padre Anchise ed al figlio Ascanio, a Laurento, nel Lazio. Qui i Troiani si scontrarono con la tribù locale dei Latini comandata dal re Latino: rimane poco chiaro se Latino sia stato sconfitto o chiese la pace, fatto sta che Enea ne sposò la figlia, Lavinia, ed insieme si trasferirono nella città da loro fondata, ovvero "Lavinium" (corrispondente all'attuale Pratica di Mare). Turno, re dei Rutuli (abitanti di Ardea), scatenò una guerra contro Latini e Troiani, probabilmente perché Lavinia era stata a lui promessa, ma venne sconfitto: per questo motivo chiese aiuto a Mezenzio, re di "Caere" (attuale Cerveteri). Latini e Troiani, unificati da Enea in un sol popolo chiamato Latino, sconfissero Etruschi e Rutuli ed Enea uccise Turno. Da qui la leggenda si focalizza sul fatto che Ascanio, figlio di Enea, abbandonò Lavinio e fondò Alba Longa, sulle pendici del monte Albano. Dopo circa 400 anni e 30 re, sul trono di Alba Longa arrivò Proca, che lasciò due figli, Numitore ed Amulio, a contendersi il potere. Numitore era il primogenito, quindi di diritto spettante al trono, ma l'usurpatore Amulio non soltanto lo cacciò ma, affinché la figlia di questi, Rea Silvia, non avesse più potuto avere figli che avessero poi potuto aspirare al trono, la costrinse a divenire vergine Vestale. Malgrado l'obbligo della verginità, Rea Silvia fu sedotta dal dio Marte e mise al mondo due gemelli, che chiamò Romolo e Remo. Venuto a conoscenza del fatto, Amulio ordinò che i due bimbi venissero uccisi, ma il servo incaricato non riuscì proprio a sopprimerli ed allora li abbandonò, all'interno di una cesta, sulle rive del Tevere. Neanche il fiume trovò il coraggio di uccidere i due piccoli e li fece arenare presso il fico Ruminale, nella palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio. Qui vennero rinvenuti dal pastore Faustolo che li raccolse e li consegnò alla moglie Larenzia, una prostituta soprannominata "lupa", che li allattò: da qui nacque la leggenda della lupa che allattò i gemelli. Romolo e Remo crebbero e divennero dei fieri guerrieri che rubavano ai ladroni per dare ai pastori, ma un giorno Remo venne catturato e consegnato ad Amulio, che lo consegnò all'inconsapevole zio Numitore affinché ne stabilisse la pena. Nel frattempo però Romolo, radunati i pastori, assalì la reggia di Amulio, che venne ucciso: liberato il fratello Remo, il trono venne riconsegnato al vero re, Numitore. A questo punto i due gemelli, oramai consapevoli di essere non soltanto nipoti del re ma figli del dio Marte, decisero di fondare una città propria ma per fare questo, vollero prima conoscere la volontà divina ed assicurarsene la benevolenza. La pratica più comune per interpretare il segno ed il presagio divino era il volo degli uccelli: per questo motivo Romolo salì sul Palatino e Remo sull'Aventino. Quest'ultimo avvistò 6 avvoltoi ed entusiasta lo annunciò a tutti, ma Romolo ne avvistò 12: a lui spettava l'onore ed il diritto della fondazione. Romolo iniziò allora a tracciare il solco che delimitava il "pomerio", ovvero la zona sacra della città, ma Remo, per rabbia o sfida, con un salto oltrepassò il solco. Tra i due fratelli scoppiò una rissa che degenerò nell'uccisione di Remo: iniziò così la storia di Roma. Fin qui la leggenda, che non sempre è soltanto un racconto fantastico, ma a volte contiene un fondamento vero. Così sembra anche per la fondazione di Roma, perché gli archeologi hanno rivelato che verso la metà dell'VIII secolo a.C. sul Palatino vennero effettivamente costruite delle mura ed un palazzo che, per le sue dimensioni, altro non poteva essere se non un palazzo reale. Passando ora dalla leggenda alla realtà, la storia come spiega la nascita di Roma? Il motivo fondamentale della sua nascita e del suo sviluppo sta nella collocazione topografica sul fiume. Il Tevere funzionava infatti sia da via di collegamento per i traffici dal mare alla montagna e viceversa, sia da ostacolo per i commerci tra l'Etruria e la Campania. Questo sbarramento, in un periodo dove le capacità tecniche di costruire ponti erano ancora insufficienti, andava superato o con traghetti o con un guado: quale guado migliore allora di quello rappresentato dall'Isola Tiberina? Difatti qui le carovane arrivavano, si riposavano ma avviavano anche uno scambio di notizie e merci, per cui è naturale che vi nascesse un punto di scambio, un vero e proprio emporio. Naturalmente la riva scelta fu quella sinistra, ben protetta da due alture, il Campidoglio ed il Palatino, dalle quali Mappa delle direttrici commerciali si potevano avvistare i pericoli e sulle quali rifugiarsi in caso di pericolo. La leggenda e la tradizione attribuiscono la nascita di Roma nel 753 a.C. e come vediamo non è affatto casuale. Tra la fine del IX e l'VIII secolo a.C. (ovvero il periodo al quale si riferisce la nascita di Roma) la città dominante, fu Veio e quindi gli itinerari commerciali cambiarono: da Veio la via più breve per il sud passava per Roma ed il guado sul fiume divenne appunto quello presso l'Isola Tiberina. Inoltre esisteva anche un'altra strada con direzione est-ovest che partendo dalla Sabina, sfruttava la viabilità della valle del Tevere, costeggiava la riva sinistra del fiume fino a Roma ed utilizzava il guado costitutito dall'Isola Tiberina. Era sicuramente un antichissimo percorso della transumanza delle pecore, usato anche per il commercio del sale proveniente dalle saline di Ostia: questa via corrisponde, ovviamente, alla "via Salaria" (o "Salara"), la quale, oltrepassato il guado del Tevere, proseguiva lungo la riva destra del Tevere per dirigersi, con il nome di "via Campana", ai "campi salinorum", cioè le saline situate alla foce del Tevere, nella zona oggi corrispondente agli stagni di Maccarese. Abbiamo visto, dunque, come il punto cruciale per il destino di Roma sia stata la riva sinistra del Tevere, dinanzi all'Isola Tiberina, nel luogo denominato Foro Boario. Qui inizialmente vi erano le "Salinae", ovvero il luogo di raccolta del prezioso minerale, ma poi la zona si trasformò in un vero e proprio emporio: il nome di Foro Boario, ovvero mercato dei buoi, e la successiva costruzione del primo porto di Roma, il "portus Tiberinus", non fanno altro che confermare la natura commerciale della zona. Per questi motivi sin dalla fine dell'età del Bronzo fino all'età del Ferro (X-XI secolo a.C.) i rilievi di Campidoglio, Palatino e Quirinale vennero occupati da numerosi villaggi e la nascita di Roma avvenne proprio in seguito all'unione di questi agglomerati che si assoggettarono all'abitato più importante stanziato sul Palatino.

    La leggenda della Lupa avrebbe due interpretazioni. Era davvero un animale o si trattava di una "lupa", una prostituta, come venivano definite nell'antichità (es. il "lupanare")? Secondo Tito Livio, nella sua Storia di Roma, dice: "[...] c'è anche chi crede che questa Larenzia i pastori la chiamassero lupa perché si prostituiva [...]";

    La vista dei dodici volatili si rivelò essere una profezia: 12 uccelli come 12 furono i secoli in cui Roma dominò (753a.C. - 476 d.C.);

    Il nome di Roma deriva solo dal fatto che a fondarla fu Romolo? Altre fonti sostengono che potrebbe derivare dall'antico nome del tevere "Rumon" o "Rumen" oppure da romè, un termine che indicava la "forza" oppure da "ruma"(= mammella)
     
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  15. gheagabry
     
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    CURIOSITA' STORICHE...

    GIOCHI E PASSATEMPO NELL'ANTICA ROMA



    Spesso il divertimento nell’antica Roma, si concentrava sul momento della “Cenatio”, o banchetto, cioè l'attuale cena, in quanto era un’occasione per stare insieme e, talvolta, per assistere a spettacoli culturali o di altra natura. Naturalmente il tipo di passatempi o di divertimenti cambiava a seconda della classe sociale delle persone, dagli sfarzosi banchetti degli imperatori, alle umili cene della gente comune, però entrambe le situazioni erano ricche di chiacchiere e di buon vino, componenti fondamentali per il divertimento nell’antica Roma. Altro momento molto atteso nella vita degli antichi Romani, era quello dedicato alle Terme, che spesso precedeva la cena. Era infatti nei vari edifici termali, che i romani si incontravano per parlare e rilassarsi, dividendosi tra uomini e donne. Per quanto riguarda quest’ultime, oltre ad avere uno spazio termale ad esse dedicato, sappiamo anche che erano ammesse al banchetto romano, ma fino ad una certa ora, poiché quando nei banchetti più lussuriosi iniziavano gli spettacoli, dovevano ritirarsi con i bambini.

    Gli antichi romani amavano i giochi da tavola: le "tabulae lusoriae", come le chiamavano a quel tempo. Il più popolare tra i passatempi era il "ludus latrunculorum", il "gioco dei soldati", che consisteva in una scacchiera molto simile a quella della nostra dama, suddivisa da linee orizzontali e verticali su cui due giocatori muovevano sedici pedine chiamate "calculi" o "milites". Le tabulae lusoriae potevano essere di legno, oppure - e capitava spesso – venivano improvvisate in strada. Lo testimoniano numerosi ritrovamenti, uno anche sui gradini della Basilica Iulia del Foro Romano. Una grossa pietra circolare, un pezzo di marmo probabilmente sottratto ad una tomba romana della via Salaria e oggi nella piazza Lauretana della cittadina di Toffia, in provincia di Rieti, riporta incisi sulla sua superficie i segni di due antiche scacchiere.
    Un altro passatempo molto diffuso era il "ludus XII scriptorum", il "gioco dei dodici punti". La tavola da gioco era suddivisa in tre colonne, ciascuna suddivisa in dodici caselle. I due giocatori possedevano dodici pedine. Per avanzare o indietreggiare bisognava tirare i dadi. Le tavole del "gioco dei dodici punti" recavano spesso immagini o frasi che alludevano al passatempo, come: "victus lebate, luder nescis. Daluso rilocum", ovvero "sconfitto alzati, non sai giocare. Lascia il posto a un vero giocatore!". Alcune espressioni esprimevano la felicità e la spensieratezza insite in un buon divertimento: "venari, lavari, ludere, ridere: hoc est vivere", "andare a caccia, fare il bagno, giocare, ridere: questo è vivere".

    ...il gioco d'azzardo...


    Ovidio in una sua opera (Ars amatoria) scriveva: Sic, ne perdiderit, non cessat perdere lusor (Così ai dadi il giocator perdente per non restare in perdita continua a perdere).
    Naturalmente, per tutelare tutti i cittadini dai rischi che derivavano dal gioco d’azzardo, fin dall’epoca repubblicana si era anche cercato di promulgare delle apposite leggi, una fra queste era la Lex Alearia. Questa legge stabiliva, infatti, quali fossero i giochi proibiti e li elencava in una lista:

    Capita aut navia (testa o croce); Tali (astragali); Tesserae (dadi); Digitus micare (morra); Parva tabella lapillis; Ludus Latruncolorum (speciale tipo di dama che richiedeva l’uso di una tabula lusoria (scacchiera) e pedine; Duodecim Scripta (dodici righe, richiedeva anch’esso l’uso di una tabula lusoria e pedine).

    Uun gioco praticato nell’antica Roma, che non aveva bisogno né di scacchiere né di dadi, era "Navia aut capita" che vuol dire “Testa o Nave” perchè la moneta più adatta a questo gioco aveva incisa, da una parte la prua di una nave e dall’altra la testa di Giano. Indovinare quale faccia sarebbe uscita non bastava, perciò si scommetteva su una delle due facce a quel punto il gioco da divertimento diventava un gioco d’azzardo completamente a sé stante. Ai giorni nostri questo gioco è praticato ed è conosciuto come Testa o Croce perché la prima moneta del Regno d’Italia aveva questi due simboli impressi uno nel “recto” e l’altro nel “verso”.
    Fra tutti i giochi d’azzardo, sicuramente, il preferito fu l’astragalo, vi si giocava con le ossa brevi ricavate dalle zampe posteriori delle pecore, montoni ed altri animali, più precisamente dalle ossa articolate poste tra la tibia e il perone. Con gli astragali giocavano tutti: ragazzini, uomini e addirittura fanciulle; erano uno strumento di gioco così diffuso che vennero ricopiati in vari materiali: dall’economica terracotta al piombo, dal marmo ai più preziosi realizzati in avorio, argento e addirittura in oro. In alcune partite venivano usati pregiati astragali e sfarzosissime tabulae lusoriae (scacchiere) in cui si perdevano o vincevano cifre astronomiche.
    Il gioco degli astragali, lo si può considerare come una forma primordiale da cui deriva quello dei dadi, altro gioco d’azzardo molto diffuso a Roma. Anche se i dadi erano già noti in Egitto e in Oriente, la leggenda ne attribuisce l’invenzione a Palamede, uno dei capi greci, durante l’assedio di Troia. Il gioco dei dadi ha inoltre molte possibilità di prestarsi a trucchi e imbrogli e dove c’è il gioco c’è inevitabilmente anche il baro. Pompei ci restituisce nascoste, dai lapilli eruttati dal Vesuvio, varie testimonianze del passato: si tratta di dadi, piuttosto grandi, che sul lato opposto al 6 presentano una piccola cavità dove i bari erano soliti nascondere un pezzetto di piombo. Con queste “vittorie un po’ dubbie”, si cominciò a diffidare di questi giochi correndo ai ripari. Per questo motivo, sempre più spesso, si richiedeva ai giocatori di usare i bossoli (fritilli) una specie di bicchieri, per lanciare astragali o dadi. Ancor più sicure erano ritenute le torrette (turriculae), una specie di marchingegno, all’interno vuoto, con piani inclinati verso il basso dove la presenza di tacche permetteva ai dadi di rimbalzare fino all’uscita da cui scivolavano all’aperto; il percorso dei dadi escludeva che si potessero fare giochi di prestigio con le mani.

    La presenza di molti giocatori motivò l’apertura di diverse tabernae lusoriae (case da gioco) di basso livello. Ne è un esempio quel che rimane di una taberna che si trova a Pompei, nella VI Regio, al n. 28 della 14° insula; costituita da un’ampia stanza aperta sulla strada, era riconoscibile da un insegna che raffigurava un bossolo per i dadi tra due falli. Non lontano da questa taberna, al n. 36, vi era una caupone (osteria) dove si giocava ai dadi, le pareti erano decorate con divertenti scenette (descritte dal Varone) arricchite con scritte a modo di fumetto che riportavano discussioni e scambi di accuse di due giocatori. In sostanza giocavano ai dadi, indistintamente, tutte le categorie sociali e ad ogni età, e in ogni luogo, dai palazzi imperiali alle infime osterie.
     
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