DESERTO

..un luogo misterioso

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Qui non vieni mai per la prima volta, e quando te ne vai non lo fai mai per sempre.
    Malek Haddad



    IL DESERTO


    namib-deserto


    Il deserto è una distesa di sabbia bruciata dal sole e tormentata dal vento. E’ un mare di onde dorate che si increspano all’infinito, oltre l’orizzonte, fino a dissolversi nell’aria tremula che ne riproduce il ritmo. E’ un’infinita varietà di colori, soggiogati da una luce instancabile, mai uguale a se stessa: tanto generosa di riflessi quanto avida di ombre, maestra di gradazioni e sfumature. Il deserto è la morsa del ghiaccio che rattrappisce un cuore ormai privo di impulsi. Il deserto è l’immersione nell’ignoto, il naufragio nell’immenso, l’estatico oblio delle certezze e l’inebriante annichilimento delle incertezze. E’ la calma dell’incedere senza tempo, verso un dove senza confini. Il deserto è la solitudine di un’anima tormentata che non vorrebbe arrendersi all’impero dell’aridità. E’ la forza di una passione irrefrenabile che non conosce ostacoli: un fuoco inestinguibile, un ardore imperituro. Il deserto è la nobiltà di un uomo il cui respiro si confonde con l’alito che modella le dune, il cui cammino segue tracce ancestrali fatte di voci, di canti, di narrazioni, i cui occhi incorniciati da drappeggi d’indaco si abbassano soltanto quando da oriente giunge il richiamo alla preghiera. Il deserto è un sinuoso felino dal manto fulgido: elegante, sensuale, ammaliante, feroce, brutale. Il deserto è l’illusione che esista qualcosa di deserto: un luogo deputato al nulla dove ogni forma di vita assume connotati leggendari; un silenzio assoluto dove lo sciabordio del sangue nelle vene diventa assordante; uno spazio sconfinato dove si assume la dimensione di un granello di sabbia e si diventa parte del tutto.
    Valentina Gualandi


    Il deserto è il luogo del silenzio, della vista sconfinata, dei tramonti incantevoli, del cielo stellato, del vento forte, delle temperatore calde e fredde, è il luogo della natura, della tenda precaria e del cibo essenziale, dell´abbigliamento funzionale, dei cammelli, dei fuoristrada e delle strade sterrate, delle dune di sabbia e delle oasi di riparo e ristoro.
    In ogni continente si trovano zone desertiche. La più vasta è quella del Sahara: larga fino a 4 mila chilometri, grande quasi quanto l’intera Europa, essa occupa un terzo del continente africano. Desolata distesa di sabbia arsa al sole e sferzata dal vento, laghi asciutti, spogli massicci, orizzonti senza confini. Nel deserto la temperatura raggiunge di giorno i 50 gradi, per diminuire della metà durante la notte. Le sabbie sono percorse dallo shamal, il vento infuocato che accarezza le dune, sotto un cielo bianco, in una luce insostenibile.
    Deserto, dal latino “desertum”: abbandonato. Una distesa infinita, con dune alte fino a 150 metri e lunghe anche più di un chilometro. Il vento non trova ostacoli nella sua corsa, e muove le sabbie come le onde del mare; il pendio della parte esposta al vento è dolce, mentre quello sottovento è ripido e scosceso. I granelli di sabbia sono di quarzo duro, incredibilmente resistenti. Nei momenti di tempesta la sabbia che scivola lungo il lato scosceso produce una specie di rimbombo, un suono ben conosciuto dai carovanieri del deserto.
    La leggenda attribuisce quella risonanza al concerto delle campane di antichi monasteri sepolti sotto la sabbia.
    Il deserto sembra immobile; eppure è vivo, come il tempo che trascorre senza che ce ne accorgiamo.
    Quel mare di sabbia custodisce, come in uno scrigno, piante, animali ed anche esseri umani, che lungo i
    secoli sono riusciti, con intelligenti adattamenti, a sopravvivere in condizioni di estrema difficoltà. Un
    nomade, per orientarsi, guarda il sole: in pochi minuti riesce a determinare la sua posizione con un margine di errore non superiore al chilometro.



    ANP-56449263


    "Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio."
    (A. de Saint-Exupéry)


    Il deserto, come il mare, è un simbolo. Come tutti i simboli unisce: è male e bene allo stesso tempo: pericolo di perdersi e di morire ma, anche, occasione di ritrovarsi. Come ogni simbolo, rimanda un significato che muta con il mutare della percezione:
    allo sguardo nichilista di Bertolucci il deserto si presenta come il correlativo oggettivo del nulla.
    Nel deserto si rispecchia il nulla di cui è composta la vita, senza senso, dei protagonisti del suo Tè nel deserto. Per i Tuareg è l’occasione di ritrovare la propria anima (da un antico detto Tuareg: “Dio ha creato paesi ricchi d’acqua perché gli uomini ci vivano, i deserti perché vi trovino la propria anima”).
    Sahara in arabo significa nulla ma il deserto del Sahara è un nulla in movimento, per via del vento che spazza le dune, è un nulla colorato, per il mutare della luce che si riflette sulla sabbia e sulle formazioni rocciose , un nulla vario nell’alternarsi dei diversi paesaggi, dal deserto sabbioso (erg) al deserto pietroso (hamada) al deserto sassoso (reg), è un deserto abitato dalla vita di serpenti e scorpioni, coleotteri e lucertole e poi ratti canguro, volpi del deserto (fennec), gazzelle (dorcas)…


    Dio creò il deserto affinchè gli uomini possano conoscere la loro anima
    detto tuareg



    ...all'alba dell'uomo...



    Ogni tanto, nei lunghi pomeriggi, anche Allah in Paradiso si annoiava: troppo azzurro e troppi spazi infiniti. Un giorno Dio ebbe un’idea: si sarebbe dato da fare per costruire qualcosa che avrebbe occupato la sua attenzione. Gettò nel cielo una manciata di stelle: il loro occhieggiare avrebbe riempito l’oscurità della notte. Poi impastò una gran palla e la lanciò nello spazio; fu così che la terra cominciò a girare su se stessa, pavoneggiandosi, pensando d’essere il centro del cosmo. Ogni mattina il sole saliva alto nel cielo e la illuminava per ore...Dio guardava dall’alto il frutto della sua creazione: era contento della sua opera. Per giorni e giorni Allah continuò ad elargire alla terra qualcuno dei suoi doni: il suolo asciutto venne diviso dalle acqua; spuntarono gli alberi, che crebbero fino a diventare lussureggiante foresta; fiori d’ogni colore si aprirono per rallegrare lo sguardo del loro creatore. Uccelli e animali d’ogni specie si moltiplicarono, e si sparsero per tutta la terra. Le acque dei mari, dei fiumi e dei laghi accolsero pesci d’ogni forma e dimensione....Un mattino Dio decise di dare un re e una regina all’universo, perché lo governassero e ne godessero i frutti: creò l’uomo e la donna. Essi non erano come gli altri animali: camminavano eretti, e i loro discendenti pian piano assoggettarono tutto il pianeta.
    Il Signore guardava dall’alto e godeva nell’ammirare queste creature uscite dalla sua mente. Con il trascorrere del tempo si accorse che la bellezza degli uomini non era completa: mancava di un’anima. Fu allora che Dio decise di gratificare ogni uomo e ogni donna della cosa più bella che ci fosse nel creato, qualcosa che racchiudesse in sé tutto ciò che c’era di più prezioso al mondo.
    Prese un pezzo di cielo, imprigionò alcuni raggi di sole e li impastò con sostanze profumate e petali di fiori. Ogni tanto il Signore spruzzava quel miscuglio con acqua dimare e gorgoglio di ruscelli. Man mano che l’impasto si amalgamava, Allah, di quando in quando, vi alitava un soffio della sua intelligenza.
    Infine Dio chiamò a raccolta tutti gli uomini e le donne della terra, e donò a ciascuno il suo pezzetto di quella pasta, l’anima. Vivacizzati da quel prezioso regalo, essi si trasformarono in esseri intelligenti, dotati di discernimento e di volontà, e capaci di scegliere le cose migliori. I loro occhi brillavano come le stelle del firmamento. Ma qualcuno quel giorno sfortunatamente arrivò in ritardo alla chiamata di Dio.
    Sorpresi da un temporale, molti uomini e donne si presentarono all’appuntamento bagnati e inzaccherati. Allah fece finta di niente e donò anche a ciascuno di loro l’anima. Risalito in cielo il grande Padre contemplava dall’alto la sua opera; era Dio, ma non seppe vincere un senso di compiacimento: davvero quello che aveva creato era un prezioso gioiello.
    I giorni futuri non avrebbero conosciuto la monotonia della noia. Uomini e donne erano felici in terra:
    Allah era stato buono con loro! Solo i ritardatari, coloro che avevano ricevuto un’anima un po’ spiegazzata, di tanto in tanto si sottraevano all’ordine che governava tutto il creato. Iniziò un tizio, un giorno, lasciandosi sfuggire una piccola bugia. Ben presto fu imitato da altri che vestivano un’anima sgualcita. Le bugie cominciarono a spargersi per tutta la terra. Guardando dall’alto Allah, l’onnisciente, si accorse subito di quanto succedeva. Indisse un secondo raduno, e all’umanità che gremiva la vasta distesa d’una valle annunciò: - Vedo con rammarico che alcuni di voi approfittano dell’intelligenza che vi ho donato per ingannare i fratelli. Questo non dovrà succedere. Se dovesse accadere ancora, a ogni bugia sarò costretto a far piovere sulla terra un granello di sabbia. Uomini e donne tornarono alle loro case; avevano compreso perfettamente il pensiero e la volontà di Dio.
    Ma ormai l’abitudine alla bugia, all’inganno, al raggiro, si era così radicata nel loro comportamento da non esser più capaci di camminare nell’innocenza e nella sincerità che avevano caratterizzato i primi tempi dell’uomo sulla terra. Allah fu fedele alla sua promessa. Come aveva minacciato, ad ogni bugia che usciva dalla bocca dell’essere umano, lasciva scendere sulla terra un granello di sabbia. All’inizio nessuno degli uomini si accorse del fatto che Dio castigava le loro piccole infedeltà: i granelli di sabbia erano così minuscoli che venivano facilmente inghiottiti da mare, foreste e laghi. Ma ben presto Allah dovette chiedere aiuto ad alcuni dei suoi servitori: le bugie sparse dagli uomini erano andate moltiplicandosi a tal punto che lo stillicidio dei granelli di sabbia s’era fatta sempre più fitta. L’ira di Dio verso le sue creature bugiarde non intendeva calmarsi.
    In alcune parti della terra la vegetazione, colpita da quella pioggia micidiale, andava pian piano scomparendo. Da tempo in quelle zone non sbocciavano più fiori; morivano anche i cespugli e le piante, mentre andavano sempre più allargandosi vasti spazi aridi e sabbiosi.
    Allah guardava dall’alto quello scempio: il meraviglioso panorama d’un tempo, le dolci colline ricoperte di verde e di fiori, andavano gradatamente cancellandosi per dar spazio a lande deserte e spelacchiate. Un velo di tristezza sembrava avvolgere il cuore del creatore. Solo qua e là, nell’immensa distesa di sabbia del deserto, fiorivano piccole oasi, attorno a rari pozzi d’acqua, circondati da qualche pianta di dattero o di cocco, segno che sulla terra qualche persona ancora ricordava la bontà del suo creatore, rispettava la sua volontà e lo amava.
    Ettore Fasolini


    369c419b6ab494


    Ho già attraversato tante volte queste sabbie, disse il cammelliere, ma il deserto è tanto grande, gli orizzonti rimangono così lontani da farti sentire piccolo e lasciarti senza parole.
    Paulo Coelho



    ....nella letteratura...


    Solo poche parole su questo capolavoro che basta, da solo, a inscrivere Buzzati tra i più grandi narratori del '900, vicino a Kafka. ll suo romanzo è uno sguardo sull'ineluttabilità del tempo che scorre e sulla solitudine, forse anch'essa ineluttabile, dell'uomo.
    Buzzati ci racconta la vita andata a male di Giovanni Drogo, inutilmente spesa nell'attesa assurda. La narrazione, dapprima lenta, accelera come un gorgo con la maturazione del protagonista, sottolineando e sostenendo il tempo non lineare, logaritmico, che fluisce insensibile e indifferente scandendo la vita del protagonista dapprima ignaro e poi tardivamente consapevole della corrente di vita e di morte che ci avviluppa.
    Come in Pavese, c'è nel "Deserto" un senso dell'infanzia e dell'adolescenza come età felici in cui il progetto-uomo è ancora possibile e aperto, in contrapposizione all'età matura, segnata dal tempo trascorso e dalle speranze sepolte.



    “Il deserto stesso ha assunto un significato, è stato sovraccaricato di poesia, quando avrebbe dovuto rimanere soprattutto una terra di bellezza, inutile e insostituibile”, scriveva il filosofo Albert Camus. E davvero quando si racconta il deserto gli aggettivi si sprecano: “spettacolare, magico, lunare, primordiale, estremo, assoluto…”. Su riviste e cataloghi si esagera con le iperboli e si cade negli stereotipi, fra i viaggiatori la passione per l’avventura si mescola a mode in stile new age, con il risultato di imprigionare il deserto
    in luoghi comuni e rappresentazioni edulcorate.
    Forse il deserto andrebbe preso semplicemente per ciò che è.
    Il deserto è deserto: dall’aggettivo, il nome. Tautologico ma chiaro. Il suo significato deriva dal latino “deserere”, cioè abbandonare, e indica un luogo privo o comunque povero di vita.
    Se anche nell’oscurità della notte qualche insetto o qualche piccolo mammifero lascia sulla sabbia le impronte del suo passaggio, il vento presto le cancella e il calore del giorno immobilizza il paesaggio in una dimensione minerale senza quasi traccia umana o animale. Forse è per questo che nel deserto, lontano dalla frenesia e dall’affollamento, il viaggiatore ritrova calma e tranquillità.
    Il deserto è silenzio, un silenzio interrotto solo dal rumore dei granelli di sabbia spostati dal vento.
    Qui si è davvero lontani dalla cacofonia del mondo.
    Il deserto è essenzialità. La natura è messa a nudo perché priva di vegetazione, non nascosta dal cemento e non ricoperta da orpelli e artifici. E anche noi riscopriamo il piacere del vuoto, della leggerezza, del distacco da quel superfluo che soffoca le nostre vite.
    Il deserto è vastità. E’ così smisurato che è impossibile abbracciarlo tutto, anche se si cerca di allargare lo sguardo come fosse il grandangolo di un apparecchio fotografico. I granelli di sabbia sono come tanti minuscoli pixel di un’immagine digitale che ha bisogno della distanza per ricomporsi in un’incredibile fantasia di forme e di sfumature di colori. Nel deserto possiamo finalmente ritrovare la vastità degli spazi e dei larghi orizzonti dove lo sguardo annega.
    Il deserto è luce, una luce mai uguale a se stessa. Quella dell’alba che accende le cime delle dune, quella del tramonto che colora la sabbia, quella della notte illuminata dal fuoco del bivacco e dalle infinite stelle che si muovono lungo l’intero arco del cielo. Ma è anche la luce opprimente del giorno che avvicina gli orizzonti e crea lontani miraggi.
    Un luogo, il deserto, capace di restituire la luce al giorno e il buio alla notte.
    Il deserto è immobilità, anche se in realtà il vento cambia costantemente, ma insensibilmente, i connotati del paesaggio. Lo spazio sembra rimanere uguale a se stesso, il tempo trascorre senza lasciare tracce apparenti. Nel deserto più che il desiderio di camminare,
    si ha voglia di fermarsi a contemplare.
    Il deserto è bellezza. Certo, ci sono anche paesaggi monotoni e desolate distese di pietre, ma sono un prezzo da pagare per la sensualità di una duna, le sfumature di colore della sabbia, le forme fantastiche delle rocce.
    Il deserto è inutilità, è una terra sterile e ostile. Ma ci è necessario, perché, come scriveva Doris Lessing proprio a proposito dei deserti, “l’uomo ha bisogno di uno spazio vuoto da qualche parte per farvi riposare il suo spirito”.
    Spazio, silenzio, vuoto, luce, leggerezza, bellezza… forse un’illusione, ma si sa, nel deserto i miraggi sono reali.
    Alain Laurent, Desiderio di deserto


    bedffa42647120dbb


    Metafora della vita, il deserto. Infinito rincorrersi di sabbia, polvere, ciottoli e pietre, oceano di barcane, arcipelago di nude colline, è il regno del vento. Sembra immobile, ma è in continua trasformazione. Metafora della morte, il deserto: il deserto è silenzio.
    Come scrisse Théodore Monod : parler du désert, ce serait d’abord se taire, comme lui. Sembra uno spazio vuoto e morto, invece è una proiezione di vita. Non solo verso il passato, testimoniato da graffiti, dipinti, fossili, manufatti preistorici, poiché il presente può apparire inaspettato, dietro una duna o in un canalone roccioso: qualche tenda di nomadi, una pista, una pozza d’acqua, un branco di cammelli, orme di animali sulla sabbia… E l’orizzonte infinito confonde la terra con il cielo.


    Dietro a un miraggio c'e' sempre un miraggio da considerare,
    come del resto alla fine di un viaggio c'e' sempre un viaggio da ricominciare.
    ( F.De Gregori)


    ....nei sogni....


    Il deserto nei sogni è una potente immagine di introspezione e di crescita, uno spazio simbolico da attraversare o in cui perdersi dove l'unica certezza è quella della propria fragilità.
    Ma proprio questa solitudine e questo isolamento possono favorire riflessione, meditazione, centratura ed influire sul proprio processo evolutivo.La solitudine a cui fa pensare il deserto nei sogni può associarsi ad una reale solitudine oppure ad un bisogno di recuperare le energie attraverso il contatto con se stessi.


    Il Deserto e le Stelle: si, nel deserto il cielo è più vicino, le stelle più brillanti, più grandi. E l’immenso sembra abitato dalla magia, impalpabile come la sabbia.


    "Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio."
    (A. de Saint-Exupéry)


    .......i tuareg...........


    “…Si può vivere sotto una tenda, ma è meglio dormire sotto il cielo e guardare le stelle negli occhi.”
    Potrebbero essere i versi di un poeta romantico, invece solo le parole di un antico proverbio Tuareg. Nomadi per natura, i Tuareg sono figli del vento e delle stelle; la volta celeste è per loro una sorta di mappa che li guida nei loro spostamenti e li aiuta a prevedere la stagione delle piogge. Seduti sulle dune osservano il cielo che ha ispirato molte leggende e anche la creazione di molti gioielli, come le famose stelle tuareg, monili d’argento a forma di croce, diversi a seconda della tribù di appartenenza.
    I Tuareg hanno una profonda conoscenza del cielo stellato e, come molti popoli nel mondo, hanno individuato delle costellazioni cui hanno associato una serie di miti e leggende. Le principali non hanno nomi di segni zodiacali, né nomi rubati alla mitologia greca, ma prendono quello dagli animali più familiari ai Tuareg – come il cammello e il cane-, o dalla fauna selvatica- come avvoltoio, gazzelle, scorpione.
    L’Orsa Maggiore, ad esempio, è detta “la cammella” e l’orsa minore “il piccolo cammello”; una leggenda narra che la cammella Fakrou, del profeta Salih, venne uccisa da alcuni malvagi e trasformata in costellazione, mentre i suoi uccisori sarebbero stati trasformati, per punizione, in animali.
    Un’altra leggenda riconosce nella Grande e Piccola Orsa, la cammella e il suo cammellino che succhia il latte e che ogni sera, prima del ritorno delle cammelle, viene attaccato con la zampa anteriore a un picchetto in legno infisso vicino alle tende.



    "Al tempio c'è una poesia intitolata "la mancanza", incisa nella pietra.
    Ci sono 3 parole,
    ma il poeta le ha cancellate.
    Non si può leggere la mancanza,
    solo avvertirla.

    (Dal film: Memorie di una geisha)



    Nomads-on-Camels-Henrietta-Butler
    Nomads-on-Camels-©Henrietta-Butler


    Non sembra possibile che esistano dei paesaggi del genere sulla Terra. Il deserto nell'immaginario collettivo è visto solitamente come uno sconfinato territorio di dune di sabbia plasmate ogni giorno dai venti. Un territorio arido dove l'acqua è un miraggio e la vegetazione inesistente, sole a picco di giorno e freddo intenso la notte, un territorio difficile da vivere e da attraversare. Di deserti nel pianeta ve ne sono svariati, come ad esempio nella regione del Nordafrica e del Medioriente, ma non tutti forse sanno che anche il Brasile ha il suo deserto e, lasciatecelo dire, ha davvero una marcia in più. Indipendentemente dalle caratteristiche comuni a tutti gli altri, è nella sua unicità un vero paradiso naturale, un santuario ecologico di immenso valore, insomma è davvero un deserto diverso, conosciuto come Lençois Maranhenses.



    Nessun uomo dopo aver conosciuto il deserto può restare lo stesso.
    Porterà incisa per sempre dentro di se l'impronta del deserto ...
    il più profondo dei suoi desideri è quello di ritornarvi.
    W.Thesiger



    Edited by gheagabry1 - 1/10/2019, 21:56
     
    Top
    .
  2. gheagabry
     
    .

    User deleted


    "C’è un luogo ancora intatto e sconosciuto, dove al silenzio del deserto si contrappone quello del mare, al vento caldo delle oasi la brezza delicata della Costa Mediterranea. Ultima città dell' Egitto prima del confine libico, Marsa Matruh e la mitica oasi di Siwa.."



    LE OASI DEL SAHARA EGIZIANO


    situata-a-350-chilometri-dalla-valle-del-nilo-dakhla-e-una-delle-cinque-oasi-del-deserto-occidentale-dellegitto_d59ec524_800x536



    Candido. Come nessuno immagina il Sahara. Il suo fascino sta tutto qui. Nell’apparire all’improvviso, dopo infiniti banchi di sabbia color ocra e nere rocce vulcaniche. Un miracolo geologico fatto di pilastri calcarei e monoliti gessosi che, grazie al lavorìo del vento, prende forme di uomini, animali, funghi, fiori.....Difficile descrivere il Deserto Bianco, immensa fetta di Sahara egiziano che si estende tra le oasi di Bahariya e Farafra, fino a lambire Siwa a nord e il territorio libico a ovest. Le sue dune sono interrotte da placche bianchissime formatesi dopo il ritiro di laghi e di paludi che, fino a 5mila anni fa, bagnavano questa regione. Sì perché qui c’era la savana, si cacciavano le gazzelle e vivevano i leoni. Oggi la sabbia copre una civiltà primordiale scivolata nell’oblio attraverso i secoli. E nelle valli, in passato letto di enormi fiumi, il terreno è disseminato ora da miliardi di pietre scavate dal vento e da conchiglie fossili.
    Ma il Deserto Bianco nasconde molte altre storie. Come non ricordare l’epopea delle spedizioni del passato: le fatiche di esploratori come Gerhard Rohlfs, salvato nel 1874 da due giorni di pioggia mentre cercava di raggiungere Siwa, e del conte ungherese László Ede Almásy, il Paziente inglese cinematografico che, dal 1929 al 1941, scorrazzò tra queste dune. Entrambi alla ricerca, sempre vana, dell’oasi scomparsa di Zarzora. Da qui ha preso le mosse la civiltà egizia, fiorita poi lungo le rive del Nilo. E da qui è passato Alessandro il Grande, dopo aver conquistato l’Egitto (331 a.C.) e fondato Alessandria. La sua meta era Siwa, dove consultò l’oracolo di Amon, il Dio della Vita: gli disse che egli era figlio di Zeus e che avrebbe dominato il mondo. Dopo di lui arrivò la regina Cleopatra. Forse veniva da Tebe, e chissà se il suo Antonio la aspettava proprio a Siwa, quando l’oasi era ricca e potente. Già inclusa nel regno di Ramesse III (1184-1153 a.C.) fu per secoli capoluogo del deserto, un’ultima frontiera faraonica.
    Oggi, assediata dal Grande Mare di Sabbia, mostra l’ombra dei fasti del passato. Costruita in una depressione 12 metri sotto il livello del mare, si allunga per 80 chilometri e conta 300 sorgenti sotterranee. L’acqua, linfa vitale dell’oasi, scorre lungo una rete di canali che irrigano più di 300 mila palme da dattero e 70 mila ulivi.... nell’oasi, il qasr del XIII secolo, ancora abitato, ma ormai un cumulo di macerie rosse, il Monte dei Morti, con numerose tombe faraoniche della XXVI dinastia, i resti del Tempio di Amon, edificato tra il 663 e il 525 a.C., e la Piscina di Cleopatra, sorgente citata da Erodoto, dove nuotò la regina egiziana. Osate pure un bagno: l’acqua è limpidissima e il fondo è verde smeraldo...Spuntando dal nulla coi suoi verdi alberi che luccicano come un miraggio nel mezzo del deserto arido, Siwa e una macchia verde piena di frutti...Isolata nel corso della sua lunga storia da quanto accadeva lungo il Nilo, l'oasi si e sviluppata in modo autonomo rispetto al resto dell'Egitto. Gli abitanti di Siwa parlano il siwi, un dialetto berbero, che ricorda le loro origini di nomadi beduini....Fino agli anni '80 il mezzo di trasporto più comune era il carro trainato da asini...Le rovine dell'antica città di fango di Shali sovrastano la piazza principale della Siwa moderna. Si tratta dell'insediamento originario dell'oasi, circondato da alte mura poste a protezione degli attacchi dei beduini. Ritenendo troppo pericoloso costruire fuori dalle mura, gli abitanti di Siwa preferirono edificare in altezza e alcune case contano 4 o 5 piani...Nel 1926 una straordinaria pioggia ininterrotta per 3 giorni ha povocato notevoli danni alla città: l'elevato contenuto di sale del fango si sciolse facendo fondere le case e costringendo la popolazione a lasciare la cittadella. Le case sono state abbandonate nel 1926 dopo l'alluvione.



    http___cdn



    .....tra le oasi del deserto occidentale......



    L’intero Deserto Occidentale è caratterizzato da enormi depressioni, fondi di antichi mari che, intercettando vene superficiali d’acqua, hanno reso possibile, in uno dei deserti più inospitali del mondo, sia la presenza umana sia la coltivazione e l’allevamento, dando vita a una serie di oasi: oltre a Siwa, El Fayoum, Bahariya, Farafra, Dakhla e Kharga, snodi fondamentali del commercio transahariano. Immerse in panorami mozzafiato e ricche di monumenti storici, sono facilmente raggiungibili e ben collegate tra di loro. Come Bahariya, dove, nel 1996, un distratto custode sprofondò nel terreno di un cantiere alla periferia dell’oasi. Certo, non pensava di aver scoperto una delle più grandi necropoli egizie mai ritrovate, ribattezzata poi Valle delle Mummie d’Oro: all’inizio si parlò di 105 mummie, poi di 250. Oggi si contano 10mila sepolture, ricche di ornamenti di nobili e dignitari vissuti tra il IV e il I secolo a.C. Qui si visitano il museo, con alcune mummie dorate del periodo greco-romano, mentre nella necropoli di Ayn Al Muftillah si vedono tombe di notevoli proporzioni, con sale a pilastri o a colonne e con decorazioni raffiguranti scene religiose, divinità e il re Amasis.
    L’oasi di Farafra racconta invece una storia fatta di scambi e incontri. Nelle vene dei suoi abitanti scorre infatti sangue libico, o meglio, dei Senussi della Cirenaica. Qui, le donne non portano il velo e guardano in faccia lo straniero. Qui, non c’è archeologia, ma solo semplici abitazioni i cui muri sono abbelliti da variopinti disegni che ricordano l’hajj, il pellegrinaggio a La Mecca: rappresentazioni naïf di navi e aerei, e poi ancora falchi, uccelli, gazzelle, cavalli.
    Dakhla, ricchissima d’acqua (vanta ben 520 sorgenti), si allunga per decine di chilometri a ridosso di una montagna rosa-ocra che chiude l’orizzonte come una quinta teatrale. I verdi campi coltivati a riso sembrano uno sberleffo alle sabbie gialle che li assediano. E, proprio su una collina lungo questo confine, si erge il Deir al-Hagar, tempio romano del I secolo d.C., che conserva preziosi altorilievi raffiguranti le principali divinità egizie. A due passi, il qasr, antico abitato aggrappato alle pendici di una montagna, che appare come una cartolina uscita intatta dalla storia. Le case, a quattro o cinque piani, sono in mattoni di fango scuro, hanno facciate ornate da disegni geometrici e stipiti realizzati con travi finemente intagliate.

    7b

    Puntando verso oriente si arriva a Bashindi, antico villaggio che la tradizione vuole simile a quelli di epoca faraonica. Qui si trovano invece solo muri intonacati e levigati, linee curve, scale sinuose, porte e finestre che preferiscono il concetto di ovale e rotondo. Dominano i colori pastello, che sembrano stemperarsi nel deserto e nella grande duna che avanza minacciosa alle porte settentrionali del villaggio. Non lontano, si erge il mausoleo del Pasha Hindi. La cupola è islamica, ma l’impianto sottostante è di epoca romana. Tutt’intorno, mezzo ricoperte dalla sabbia, resistono altre otto tombe romane. I sarcofagi sono stati profanati nel corso dei secoli e rimangono spalancati, come occhi vuoti che guardano il cielo. Da un vicolo si accede alla tomba litica di Kitines, riccamente decorata con motivi risalenti al II secolo. E proprio lì, dove ora si distinguono le sagome delle divinità egizie, c’erano i giacigli dei soldati senussi: combattevano contro l’esercito fascista di Rodolfo Graziani, che aveva invaso la loro terra e giustiziato il loro re, Omar al-Mukhtar. Erano fuggiti dai fucili italiani nella libica Kufra attraversando per 680 chilometri il Grande Mare di Sabbia e solo in 300, grazie all’aiuto inglese, arrivarono vivi a Dakhla. Morirono a centinaia. E anche le loro ossa sono ormai sotto la sabbia come quelle dei fanti di Cambise, scomparsi 2500 anni fa, anelli della storia di questo deserto.
    Avvicinandosi al Nilo si arriva all’oasi di Kharga. Luxor è a due ore di strada. Capoluogo della regione chiamata El Wadi El Jedid, la città è al centro di un articolato piano di sviluppo economico che punta a decongestionare la sovrappopolata valle del Nilo. Anche se l’antica seduzione è andata persa, rimangono alcuni siti archeologici significativi: il tempio di Hibis del VI secolo a.C., la necropoli cristiano-copta di El Bagawat, un complesso di tombe eretto tra il IV e il VI secolo d.C., con i resti di circa 260 cappelle funerarie dalle cupole affrescate. E se ancora non siete sazi, dirigetevi verso sud in direzione di El Deir, uno dei forti romani meglio conservati della zona. La fortezza quadrata, con un lato di 73 metri, mostra mura altre quattro metri semisepolte dalla sabbia, possenti torri erose dal vento, il pozzo che serviva per l’approvvigionamento dell’acqua, i ricoveri costruiti dai soldati inglesi durante la Grande Guerra. E, forse, tutt’intorno, scorgerete cocci di anfore e di vasi, ombre di quelle carovane di cammelli che passavano di qui fin dai tempi di Diocleziano: è come sfogliare un album di foto dimenticate, che la sabbia ripropone dopo averle inghiottite per chissà quanto tempo.



    oasi-di-farafra-21782421



    ...le balene fossili di WADI HEITAN........



    Ancora poco conosciuta, e frequentata, è la zona della depressione di El Fayoum, dove un braccio del Nilo alimenta il lago Birket Qarun, che, visto da lontano, sembra un mare in mezzo al deserto. Gli strati di roccia dal colori psichedelici e dalle forme curiose hanno restituito importanti fossili marini e terresti risalenti a 30-40 milioni di anni fa: siamo nel Jebel Qatrani, considerato oggi il maggiore giacimento di fossili al mondo. Qui si trovano montagne di conchiglie, una riserva che protegge una foresta pietrificata con alberi alti fino a 20 metri, una strada romana lastricata con frammenti di tronchi fossili. Per il suo clima mite, l’oasi di El Fayoum fu utilizzata come territorio di caccia reale già nell’Antico Regno, poi i faraoni della XII dinastia vi trasferirono la loro capitale, Krokodilopolis. Innumerevoli i resti di epoca egizia: da non perdere il tempio-fortezza di Qasr es-Sagha, dell’Antico Regno, dedicato al dio coccodrillo Sobek, e la città fortificata tolemaica di Dimeh, racchiusa entro mura alte 9 metri. Ma il vero pezzo forte si chiama Wadi Heitan, riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. In pieno deserto, è il più ricco e importante giacimento al mondo di balene e cetacei fossili, vecchio di 40 milioni di anni, epoca in cui le balene passarono da mammiferi terrestri a marini. Costeggiando poi per un tratto Ghurd Abu Muharrik, una catena di dune lunga 500 chilometri, si raggiunge Djara Cave, una delle rarissime grotte carsiche sahariane, adorna di enormi concrezioni alabastrine e di incisioni preistoriche.




    ...la cappella Sistina del sahara......



    Un luogo perduto nel Sud egiziano, talmente poco esplorato che, fino a pochi anni fa, non era nemmeno segnato sulle carte e che, oggi, si raggiunge solo con una spedizione perfettamente organizzata di almeno due settimane. Si va dai rilievi del Gilf Kebir, con le ripide pareti di roccia nera a fare da grandioso sbarramento alle dune, alla montagna del Jebel Uwainat, dal Baz Krater, depressione scavata dalla caduta di un meteorite, dove si trovano molti manufatti preistorici– amigdale, punteruoli, coltelli, seghetti, freccette, asce, pestelli –, fino alle grotte: quella dei Nuotatori e la Foggini, vera Cappella Sistina del deserto, in cui l’arte rupestre si mostra in tutte le sue ere, dove si muovono danzatori, suonatori, cacciatori, tuffatori, gazzelle, giraffe, misteriosi animali acefali e un’insolita quantità d’impronte di mani e di piedi. Per finire, un altro miraggio, verde questa volta: la Silica Glass, una valle tempestata di pietre color giada, dall’origine misteriosa.


    (Pubblicato da Michele su viaggievita.blogspot.com)



    184104866-3b657e00-330b-4b70-b96a-8872162223a5

    PanoramicaGrottaFoggini007



    .

    Edited by gheagabry1 - 24/10/2022, 19:02
     
    Top
    .
  3. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto come nell'oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d'acqua o di sabbia, vergini e inviolate.
    (da Lettere dal Sahara, Alberto Moravia)


    jpg



    .

    Edited by gheagabry1 - 1/10/2019, 21:59
     
    Top
    .
  4. gheagabry
     
    .

    User deleted


    9d5c26ef0bd336





    E' li' che si incontra il mare
    della solitudine
    specchio
    nella sabbia
    duna
    di fuoco e paglia

    Fratelli scorpioni
    su pergamene circoncise
    serpenti d'equatore
    sul mio torace
    condividiamo
    stelle
    condividiamo
    pianto
    polvere
    acqua
    parola
    sguardo
    respiro
    vento

    La notte ha un'altro colore
    amplificano il rumore
    nomadi assenze
    ti prendono per mano
    la voglia di silenzio
    è una forma di peccato
    che squarcia
    l'innocenza
    va oltre
    l'infinito

    Ogni lacrima è una storia
    oasi notturne
    annullano la distanza
    ed il cielo è presenza
    nel deserto si impara
    ad ascoltare
    il ritmo del sale
    della morte il sapore
    della morte il sapore

    Ogni giorno
    è il giorno dopo
    un mantello di freschezza
    riveste i granelli
    una catena di anelli
    di rugiada alboreale
    una doccia
    di vento al miele
    prendi tutto quello che viene
    che di deserto
    si puo' morire

    Luce di ombre sposa

    Si vive
    di deserto in deserto
    con se stessi
    o con l'altro
    arriva sempre puntuale
    il tempo

    Nudo di ogni nudità
    il mondo
    penetra le ossa
    Venere sorella
    per me che toro
    sono farfalla
    per me che toro
    sono farfalla

    Per vedere le galassie
    che abitano in te
    ho bisogno di attraversare
    ho bisogno di amare

    Il respiro
    che abbraccia il cosmo
    dromedario solare
    sogno
    la luna germoglia raggi
    scorgo tra miraggi

    La mia anima
    distaccarsi
    come la corteccia di un'albero
    io
    quasi estraneo
    a me
    aldilà
    dell'invisibile

    Sono tutto
    nel tutto
    quando provo il desiderio
    di tuffarmi nell'infinito
    in eterno
    restare
    muto
    in eterno
    restare
    muto



    (Mario Salis)



    Edited by gheagabry1 - 1/10/2019, 22:00
     
    Top
    .
  5.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie ghea
     
    Top
    .
  6. gheagabry
     
    .

    User deleted


    "I nomadi, sulla Terra, tracciano linee di erranza: direzioni migratorie di branchi di renne o di bisonti, percorsi legati alla presenza periodica di punti d'acqua, allo spostamento delle zone di raccolta secondo le stagioni, [...] La Terra è la memoria degli uomini. Il suo paesaggio è la mappa delle epopee, il bacino dei saperi. Tutto lo spazio vive. I canti e i racconti narrano la Terra; la terra ricorda il tempo del sogno, il tempo delle origini che è sempre presente e muore insieme agli dei, se i canti non vengono ripresi, i viaggi di nuovo intrapresi e le linee di erranza sono disertate. E si riparte ancora in cammino, seguendo le orme degli antenati. Si torna sugli stessi luoghi, si canta di nuovo la Terra. E il passato rivive perchè non è mai passato".
    (Pierre Levy)


    I DESERTI di SALE


    34-SALAR-DE-UYUNI-1280x853


    Una salina è una formazione geologica che si trova nelle zone desertiche.
    È una distesa piatta coperta di sale ed altri minerali che normalmente appaiono bianche sotto il sole. Una salina è un luogo dove defluiscono le acque piovane e sarebbe un lago o uno stagno se non ci si trovasse in una zona dove l'evaporazione è maggiore delle precipitazioni come ad esempio un deserto Se il terreno non è in grado di drenare l'acqua, questa rimane in superficie finché non evapora Evaporando lascia sul terreno i sali in essa disciolti Nell'arco di migliaia di anni il sale si accumula in spessi strati generalmente bianchi Visti dall'aereo sembrano laghi ghiacciati
    Il deserto di sale costituisce uno degli ambienti più ostili alla vita animale e vegetale di tutto il pianeta: nessuna pianta (nemmeno tra le più alofite) è specializzata a tal punto da poter crescere sui cristalli di sale, né alcun animale è così differenziato da essere in grado di avventurarsi in un ambiente talmente arido senza disidratarsi nel volgere di pochissimo tempo. Ma questo singolare aspetto della natura dà origine ad uno dei deserti più affascinanti ed inquietanti che si conoscano. In nessun altro luogo, come il deserto di sale, si ha la netta sensazione di essere penetrati nel deserto dei"deserti".


    .....Chott ed Djerid......


    Nell'antichità veniva identificato con il leggendario lago Tritone. Plinio ed Erodoto lo hanno citato, assegnandogli una situazione geografica confusa.
    Alle estreme propaggini meridionali della steppa tunisina si trova lo "Chott el Djerid", il più grande lago salato dell'Africa del Nord, esteso per oltre 8.000 chilometri quadrati, e ricoperto esclusivamente da una spessa crosta di sale purissimo, cristallizzato e riflettente in maniera incredibile i raggi solari; solo in alcuni tratti il sale è frammisto alla sabbia e assume una colorazione scura tendente al marrone o al viola scuro. Soltanto alcune specie di uccelli riescono a spingersi fino alle remote chiazze d'acqua affioranti dallo chott e a nutrirsi dei rari microrganismi che riescono a trovare; tra questi, uno dei più grandi è il fenicottero rosa che staziona per breve tempo sullo Chott nel corso delle migrazioni annuali dall'Europa al lago Tchad, gigantesco acquitrino divenuto crocevia di vari paesi che accoglie sulle sue acque i confini del Tchad, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centrafricana. Circa 60 milioni di anni fa, nell'era geologica dell'Eocene, lo Chott ed Djerid faceva parte del bacino mediterraneo, ma alla abbondante evaporazione alla quale era sottoposta l'intera regione non faceva riscontro un‘altrettanto copiosa serie di precipitazioni per cui, seppur lentamente, le acque dello chott evaporarono fino a separarsi completamente da quelle del Mediterraneo; la tesi dell'origine marina è avvalorata dalla presenza di numerose conchiglie fossili che possono trovarsi con molta facilità nella crosta di sale.


    1486901272un3


    .......salar de Uyuni.......


    Chiamato anche Salar de Tunupa, il Salar de Uyuni si presenta come un’immensa pagina bianca dove i pensieri scompaiono insieme alla percezione di distanze e prospettive.
    Salar de Uyuni è il deserto di sale più grande al mondo, uno specchio bianco dai contorni irreali che disegna la Bolivia in prossimità della catena montuosa delle Ande, un tesoro ambientale che dona attimi preziosi di bellezza rarissima alla natura selvaggia dell’America Centrale.
    Localizzato nei pressi di Potosí e Oruro nel sud est della Bolivia, il Salar de Uyuni possiede un’altitudine pari a 3656 metri sul livello del mare. Straordinariamente ricco di minerali, questo deserto contiene dal 50 al 70% delle riserve mondiali di litio...10,000 chilometri quadrati e una superficie creata soltanto dalle vibrazioni tra il bianco e l’azzurro più incontaminato.


    7140567075_35cb287430_z


    ......quando è coperta dall’acqua, si trasforma
    nel più grande specchio che sia mai stato inventato.


    Provate a immaginare 10 miliardi di tonnellate di sale. Ecco, ora raccoglietele tutte in un deserto di circa 10 mila chilometri quadrati di superficie: avrete formato qualcosa di molto vicino al Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale al mondo, nel sudovest della Bolivia. Secondo un'antica leggenda degli Aymara, una popolazione originaria della regione, un tempo i tre monti che circondano questo bacino erano tre giganti di nome Tunupa, Kusku e Kusina. Tunupa e Kusku si sposarono ed ebbero un figlio, ma presto Kusku tradì la moglie con la bella Kusina. Tunupa pianse tanto mentre allattava il bambino, che le lacrime caddero a terra insieme al suo latte, formando una bianca distesa salata.
    (focus)


    BOLIVIA-Great-Train-Graveyard-AO2


    ......il cimitero dei treni.....


    A tre km dal villaggio di Uyuni, nel bel mezzo del nulla, sperduto nella piatta vastità di un altopiano di sale la cui altezza media sfiora i 4200 metri, fondale di un antico mare interno prosciugato, giace un cimitero di treni. Come siano giunti a morire in questo luogo non è dato sapere. Certo è che i binari nascono e terminano nel nulla dopo poche centinaia di metri, lo spazio minimo per contenere qualche decina di carrozze in sfacelo e un paio di vecchie locomotive arrugginite. In paese, ancor oggi, sono visibili i resti di una stazione, ma appare subito evidente che a Uyuni, da decenni, non passano treni.
    Per motivi pratici, o per un sentimento di pietà dovuto ai resti di chi scompare, i vecchi vagoni passeggeri, le locomotive brune e i neri tender del carbone sono stati abbandonati lontani dal centro abitato, a consumarsi e dissolversi indisturbati nel silenzio. I cimiteri incutono un vago timore, indissolubilmente unito ad un sentimento di rispetto e pietà. Il vecchio deposito è l'estremo riposo dei grandi cavalli d'acciaio, luogo di silenzio e desolazione, pieno unicamente del sospiro del vento che culla i relitti con le sue ruvide carezze di sabbia salata.
    Da lontano sembra di scorgere un'affollata stazione ferroviaria, con i convogli diretti verso destinazioni misteriose nella piatta immensità bianca del salar. Ecco il Transalares Express che si appresta a partire, con la locomotiva e le carrozza, il tender e i vagoni merci... Da vicino il miraggio scompare, rivelando grandi pachidermi di metallo che giacciono immobili, spogli, inerti, morti come i binari che li hanno portati in questo luogo di lenta dissoluzione. Abbandonate da decenni a sé stesse, le grandi carcasse di metallo sono aggredite dall'onnipresente salsedine e dall'acqua delle rare piogge.
    La ruggine è la malattia che consuma i vecchi convogli, cancro inorganico che si nutre dell'acciaio e lo corrode, divorandolo, per lasciare solo polvere bruna al suo passaggio... Sotto il fulgore pervinca pervinca del cielo del deserto di sale una vecchia locomotiva a vapore, poco più di ammasso contorto, riporta sui fianchi di ruggine una scritta di vernice bianca in caratteri cubitali : "Cercasi urgentemente meccanico...Così è la vita"...
    (Giuseppe Pompili)


    ......le bambine del deserto di sale........

    1580738037un0


    Le bambine del deserto di sale si svegliano presto la mattina; le bambine del Salar non fanno molta strada per andare al lavoro: gli basta attraversare la strada. Le bambine del deserto hanno 8 e 10 anni; le due sorelle hanno molti nomi, ma nessuno se ne ricorda mai...Le bambine del deserto le puoi trovare durante il tuo viaggio, inginocchiate per terra con gli occhi bassi davanti ad un grosso cumulo di sale; le due sorelle lavorano come una fabbrica: la più grande mette il sale con le piccole mani dentro sacchetti di plastica trasparente, la più piccola le sigilla avvicinando il sacchetto ad una candela. Le puoi fotografare, le bambine del deserto di sale, ma dovrai dare un piccolo contributo al loro padre, le bambine non ti sorrideranno perché sono da un’altra parte. Qualcuno alle bambine ha regalato delle matite, ma non sanno che farsene, perché nessuno gli ha detto come si fa a scrivere....Le bambine del Salar a volte le puoi trovare in un’immensa distesa di sale grande 13.000Km quadrati che aiutano loro zio a mettere insieme i cumuli che dovranno essere lavorati. Allora le bambine del deserto avranno il volto completamente coperto perché i raggi riflessi su quello splendore bianco per loro non sono altro che pericolo di ustione e tanta fatica. Le bambine del deserto la notte hanno freddo e si stringono l’una con l’altra, le bambine del deserto non sanno bene cosa sperare, perché non sanno dove guardare. Le due piccole sorelle, a volte, si chiederanno se tutti i bambini del mondo hanno il loro mucchietto da sistemare....E chissà se in Cile, Brasile, Argentina o Colombia, Uruguay o nel resto del continente, la gente si chiederà mai chi ha chiuso quel sacchetto.....Le bambine del Salar non vedono l’ora che arrivino le 10 per il primo spuntino e poi le 12 per la zuppa calda. Le bambine del deserto non vi diranno mai ”siamo stanche”, perché nessuno gli ha insegnato come si fa....Le bambine del deserto di sale dentro forse hanno il sorriso più grande che voi possiate immaginare ma lo terranno lì, dentro di loro o per i loro piccoli grandi momenti di felicità. Non so se le bambine del deserto sognano mai di andare via da quella capanna di legno e pietra, ma tanto...nessuno gli darà mai questa scelta.
    Dedicato al popolo Boliviano, alla libertà che cercano di conquistare ed ai loro sogni. Qualsiasi essi siano.
    (Angelo Calianno)


    Deserto-di-sale-AdobeStock_158121744-scaled


    Solo il poeta nazionale del Mali, Kaletìgui Marikò, per anni carovaniere, racconta ...
    "Azalay ... fatta di tanti cammelli pazienti e di pochi uomini coraggiosi. Fatta di passi, a milioni, ripetuti. Filo che si scioglie, s'allunga, si snoda. Pitone che avanza segnando anelli sulla sabbia".


    .....ALZALAY.....


    La Carovana del Sale dai Mille Cammelli, con il suo carico di salgemma scambiato al pari dell'oro.
    L'Azalai, antica parola Tuareg che significa "separarsi per poi ricongiungersi di nuovo", è il faticoso cammino della conoscenza, lento come la carovana dei mille cammelli che rappresenta. Con il suo pesante carico di sale, organizzato in pacchetti ben disposti, che devono giungere a destinazione, si muove verso lo scambio di beni tangibili in trasferimenti continui. I pacchetti del sale, beni tangibili scambiati con l'oro, viaggiano in transizioni infinite, lungo le reti comunicative, in navigazioni controllate, tra deserti di sabbie e piaghe di salgemma. Costeggiando villaggi e rovine, lungo corsi d'acqua cessati, impiega nove mesi per ritornare indietro col carico d'oro. Nel frattempo nel villaggio nuovi eventi hanno avuto inizio. Ancora verso il 1450, le carovane arabe, venute dalla costa, con il grano e l'orzo e dall'Egitto con interminabili file di cammelli, si incontravano a Tamentit con quelle che trasportavano l'oro in polvere da Timbuctù e il sale in barre da Teghaza. Il valore dei beni tangibili si stacca dai suoi supporti, il valore del sale metafora del sapere si stacca dai pacchetti; la preziosità dell'oro è la luce della conoscenza che si sgancia dal suo valore economico come bene moneta di scambio e diviene "puro contenuto". Il bene intangibile della conoscenza, nel movimento informativo della nuova società dello scambio, ricostruisce percorsi e ricrea i pacchetti informativi che viaggiano veloci sulle nuove carovane tecnologiche, alla ricerca di informazioni lungo la rete da riportare a destinazione.
    Poi, alla fine del Quattrocento, le nuove scoperte geografiche e la possibilità di circumnavigare il Golfo di Nuova Guinea portarono le civiltà del Deserto verso l'oblio. O furono forse i venti di sabbia che oscurano il cielo a tempesta a inghiottire l'ultima Azalai? O forse fu uno scherzo dei Djinn, esseri soprannaturali, demoni o angeli del deserto, vortici o turbini che correndo sulle ampie distese assolate si portarono via anche l'ultimo dei miraggi?
    La carovana riprende il suo cammino, ... lungo le vie della comunicazione odierna, segue percorsi virtuali ricostruiti. Errando in zone aperte, esplora ambiti delimitati, attraversa ponti, tra cancelli aperti e linee deviate. L'Azalai ripercorre antiche vie, alla ricerca di testi che descrivono le narrazioni dei popoli e le storie degli uomini, riporta le informazioni frantumate in pagine ricomposte, ricongiungendo separazioni antiche e nuove. Ma forse l'Azalai esiste ancora, non solo nell'immaginazione: ad oggi, nel Mali, alcune caravaniere per il Tafilet, per il Terat e l'Hoggar sono ancora frequentate. C'è chi narra di averla vista percorrere le antiche vie, con gli stanchi cammelli carichi di blocchi di sale. Pare passi ogni sei mesi e si fermi lungo villaggi e città a portare alle genti un bene che tuttora è estremamente prezioso, il sale che,oggi come allora, è un articolo tra i più richiesti, in quanto la loro organizzazione si rivela inadeguata al rifornimento dei prodotti essenziali. Tra un gruppo di crateri estinti da milioni di anni, a Tegguidù Tessoù, centinaia di uomini lavorano alle pozze di sale, a temperature impossibili, in procedure operative rimaste identiche nel corso di generazioni, fango di sale rassodato in pani bianchi e messi sul dorso dei cammelli in un viaggio che durerà non meno di tre mesi.
    (Antonella De Robbio)


    0000192-0102-FILEminimizer



    .

    Edited by gheagabry1 - 24/10/2022, 19:23
     
    Top
    .
  7. arca1959
     
    .

    User deleted


    grazie Gabry
     
    Top
    .
  8. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Qui non vieni mai per la prima volta, e quando te ne vai non lo fai mai per sempre.
    Malek Haddad


    Il DESERTO BIANCO


    adesivi-deserto-bianco-in-egitto


    Il vento come autore, la sabbia come scalpello e milioni di miliardi di minuscole conchiglie come materia da plasmare. Così è nata una meraviglia unica al mondo.
    Le rocce del Deserto Bianco, un area di 600 chilometri quadrati nell'Egitto occidentale, vicino al confine con la Libia....Khamasin: è il nome del signore incontrastato del Deserto Bianco, 600 chilometri quadrati di paesaggio extraterrestre in pieno Sahara. Si tratta di un potente vento unidirezionale che si abbatte in questa zona per circa 50 giorni all'anno, da marzo a maggio, e infatti il significato della parola araba khamasin è proprio «50».
    Ci troviamo in Egitto, oltre le sponde occidentali del Nilo, in una distesa selvaggia e disabitata che arriva fino al confine con la Libia. Qui le tempeste di sabbia sono violente e improvvise. Furono queste, 2500 anni fa, ad aver completamente annientato in poco più dì una settimana l'armata di 50.000 uomini inviata dall'imperatore persiano Cambise II per conquistare un importante oracolo dell'Impero egiziano che si trovava alla vicina oasi di Siwa. Solo qualche decina di anni fa sono stati ritrovati i resti dei loro corpi sepolti da tonnellate di sabbia.
    Il Deserto Bianco è uno dei luoghi misteriosi e inaccessibili che, come spesso accade, riservano ai pochi in grado di raggiungerli meraviglie insospettabili. I beduini lo chiamano Uadi Gazar, la Valle delle Carote, per la particolare forma che hanno preso decine di speroni rocciosi modellati dall'erosione atmosferica. Al tramonto, quando gli ultimi raggi del sole illuminano le rocce bianchissime che svettano tra la distesa ininterrotta di sabbia, più che un paesaggio extraterrestre sembra paradossalmente di osservare un ecosistema polare, vista la completa assenza di qualunque forma di vegemione. Invece ci troviamo a soli cinquanta chilometri da una delle più rigogliose oasi di tutto l'Egitto occidentale, l'oasi di Farafra. L'oasi si trova sulla stessa direttrice Nord-Sud che comprende altre quattro oasi ed è strettamente legata ,illa formazione del Deserto Bianco. I ,e oasi desertiche sono infatti delle profonde depressioni nel terreno (l'oasi di Faratra si trova per esempio a quasi 20 metri sotto il livello del mare) che permettono alle acque sotterranee di sgorgare liberamente in superficie senza bisogno di cstrarle con le pompe.


    sahara-el-beyda


    In questi luoghi un tempo scorreva l'antico Nilo, lungo un percorso quasi parallelo a quello odierno. Ancora prima, qualche decina di milioni di anni fa, l'intera zona era sommersa dall'acqua e brulicante di vita. Poi un repentino aumento delle temperature di tutto il Pianeta sconvolse completamente il suo assetto idrogeologico, costringendo l'acqua a rimanere in profondità. In quelle acque vivevano milioni di miliardi di microscopici esseri, i cui resti si sono depositati per centinaia di secoli.
    Tonnellate di gusci formati prevalentemente da carbonato di calcio e da silice si sono accumulati uno sull'altro per formare le affascinanti rocce sedimentarie del Deserto Bianco. Gli animali acquatici costruiscono i propri gusci con queste sostanze perché, fra tutte quelle disciolte in grande quantità nelle acque, sono le uniche dotate delle proprietà chimiche adatte.
    A seconda del materiale prevalente nel sedimento si sono formate così rocce carbonatiche e rocce silicee, ognuna con le proprie caratteristiche. Entrambe bianche, le prime sono più pesanti e resistenti mentre le seconde sono più leggere e friabili.
    Le rocce silicee sono composte prevalentemente dai resti di gusci di diatomee, alghe unicellulari in grado di vivere in qualunque ambiente. La loro unica cellula è contenuta da un doppio astuccio di silice cosparso di minuscoli fori. Probabilmente la diversa composizione delle rocce sedimentarie che compongono il Deserto Bianco ha determinato col passare del tempo l'incredibile quantità di forme rocciose che si ammirano in questa inestimabile finestra sul passato.
    Le successive infiltrazioni di acqua provenienti dal sottosuolo e le continue variazioni di temperatura che hanno attraversato questa regione negli scorsi millenni sono anche loro responsabili del rimodellamento del luogo, ma il vero autore dei capolavori di pietra del deserto egiziano resta indiscutibilmente il vento.
    Se il khamasin soffia solo un paio di mesi all'anno, altri venti, meno potenti ma più costanti, sferzano incessantemente il Deserto Bianco. E l'erosione provocata dai venti è par-ticolarmente feroce perché tutta la zona è circondata dal Grande Mare di Sabbia, la parte di Sahara compresa nel territorio della Libia. Una gigantesca riserva di munizioni per tutti i venti che si scagliano continuamente contro qualunque ostacolo incontrino, colpendolo con la sabbia che trasportano.
    La diversa consistenza delle rocce sedimentarie colpite dal vento carico di sabbia ha provocato nel tempo la formazione di forme stravaganti e improbabili, incastonate in un deserto che al contrario sembra non cambiare mai. Così una fitta catena di eventi, una collaborazione di agenti biologici e fisici imprevedibile e irripetibile ha creato le condizioni per la formazione di questa meraviglia della natura.
    (dal web)


    Bianco-Deserto


    Sulla strada da Bahariya, sullo sfondo desertico, spiccano questi enormi massi che fanno pensare per la loro forma ad uccelli, cammelli di pietra, sfingi e a qualunque personaggio riesca a concepire la propria fantasia. Il colore della roccia, poi, assume una gradazione differente a seconda delle ore della giornata e della posizione del sole. Diventa, in tal modo con delle sfumature rosa, arancio o azzurrine che ne completano l’immagine suggestiva.


    ....l'armata perduta....


    Era da secoli che generazioni di archeologi cercavano inutilmente tra le dune una traccia di questa leggendaria armata e oggi, forse, il mistero può dirsi finalmente svelato
    10 novembre 2009 di Andrea Chirichelli
    Una delle leggende più note nel mondo dell'archeologia è quella inerente l' Armata perduta di Cambise II. Secondo lo storico Erodoto, Camibse II, figlio di Ciro il Grande, mandò 50mila soldati da Tebe per attaccare l'oasi di Siwa e distruggere l'oracolo al Tempio di Ammone (era il Dio che si manifestava col vento). Di questa gigantesca armata si persero le tracce a causa di una gigantesca tempesta di sabbia che sorprese e seppellì soldati, donne e schiavi al seguito delle truppe.
    I resti dell'esercito persiano sepolto sotto la sabbia 2500 anni fa, sono stati ritrovati nel deserto egiziano grazie all'opera di un team di Indiana Jones italiani, i fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Armi di bronzo, un braccialetto d'argento, anfore e, soprattutto, centinaia di ossa umane sono state ritrovate nella desolazione del deserto del Sahara, dando adito alle speranze che vorebbero vedere in questi reperti, i resti del mitico esercito perduto del Re Persiano.
    Era da secoli che generazioni di archeologi cercavano inutilmente tra le dune una traccia di questa leggendaria armata e oggi, forse, uno dei più grandi misteri dell'archeologia può dirsi finalmente svelato. Alfredo e Angelo Castiglioni, sono già famosi per il ritrovamento della città delle miniere d'oro degli antichi faraoni, la mitica Berenice Pancrisia, citata da Plinio il Vecchio nella sua 'Naturalis Historia'..... La scoperta, per ora, riguarda solo una parte dei resti dell'armata, il cui grosso giace più in profondità, celato da metri e metri di sabbia desertica e potrà finalmente tornare alla luce con la prossima spedizione.
    (DAILY WIRED NEWS CULTURA)


    4f76b1597ca


    Un continuo rincorrerti attraverso questo bianco deserto dove le uniche orme sono le mie?
    Ogni parola una pietra, per tracciare un sentiero che porti fino alla soglia del tuo cuore?
    Ma spesso, come in questo momento
    in questo grande spazio bianco, io mi smarrisco e non so come continuare....
    o ritrovare la strada.......
    Non ho una bussola che orienti il cuore, nè una luce che spazzi via le ombre
    neppure una voce amica che mi conforti....
    E tu domani mi dirai " Bellissima mail" e avrai il cuore più leggero…
    Io ti risponderò " grazie "ma il mio cuore tu non riuscirai a vederlo......
    Te ne andrai via là dove io non potrò raggiungerti.....a me resterà solo quel " grazie ".....e
    dopo ricomincerò a tracciare un nuovo sentiero, in un altro deserto bianco, parola su
    parola, pietra su pietra, mai abbastanza levigate......
    (Aster)


    crystal-mountain-arabacademy



    .

    Edited by gheagabry1 - 1/10/2019, 22:11
     
    Top
    .
  9. gheagabry
     
    .

    User deleted


    “Poi vennero le quiete sabbie del Gobi; le dune si susseguivano come onde rivelando corti orizzonti color ocra, e in quell’aria vellutata si poteva udire solo il respiro pesante e accelerato dei cammelli,
    il fruscio dei loro larghi piedi”
    (da “Il Dono” di Nabokov).


    Il deserto del GOBI


    162649559-fc3a9b66-782a-4601-92b5-8120266aea30


    Il Gobi, "il deserto" per i locali, è uno dei luoghi più desolati, misteriosi e affascinanti del pianeta in cui l'escursione termica annuale spazia dai - 50/55° C. dell’inverno ai + 45° C. dell’estate. Occupa circa un terzo dell'intera superficie della Mongolia e domina incontrastato il territorio per miglia e miglia di distese uniformi. Il suo nome evoca dunque lande desolate e condizioni ambientali estreme, quasi del tutto ostili alla sopravvivenza. Ma evoca anche paesaggi di incontenibile bellezza e assoluto fascino: laghi salati, distese sabbiose e canyon dalle rocce rosse che al tramonto sembrano come incendiarsi ai riflessi degli ultimi raggi solari....Per essere precisi, non bisognerebbe parlare di deserto del Gobi, poiché questo termine indica delle zone di steppe saline e semidesertiche. Ci sarebbero dunque circa 33 zone (gobi mongoli), definite in base alla composizione e al colore del suolo....non ci sono dune a perdita d'occhio, perché la sabbia occupa soltanto il 3% della superficie......il Gobi è abitato da alcune tribù nomadi e da alcune rarità faunistiche, come l'asino selvatico (Khulan), il cavallo Prewalski (Takhi), un'antilope endemica (Saiga) e l'orso del Gobi, ragione per cui è stato dichiarato dall’UNESCO “Riserva della Biosfera” Ma sul suo territorio sorgono anche splendidi monasteri e altre affascinanti testimonianze di storia e cultura.

    Valle di Yol, o delle Aquile: una gola stretta e rocciosa a circa 2.500 m di altitudine, in cui si trovano ghiacciai perenni ed affascinanti canyon. Vi si possono poi osservare una grande varietà di piante e di animali (aquile, falchi, grifoni)
    dune di sabbia di Khongoriin Els, o “Dune che Cantano col vento”: devono il loro nome all’affascinante sonorità creata dal movimento della massa sabbiosa. Sono alte 20 metri, larghe 20 km e si estendono per circa 185 km. Si trovano nel Gobi Meridionale e sono attraversate dal fiume Khongoriin che crea bellissime oasi verdeggianti
    Bayanzag: chiamata anche “Rupi Fiammeggianti” dall’esploratore americano Roy Chapman Andrews nel 1922, è una zona del Deserto dei Gobi in cui la particolare conformazione geologica delle rocce, ricca di canyon, e la colorazione rossastra delle pietre rendono l’atmosfera molto suggestiva, soprattutto al tramonto. Qui sono avvenuti moltissimi ritrovamenti di fossili di dinosauro (Tarbosauri, Gallimimi, Protoceratopi, Adrosauri)
    Gurvansaikhan: diversamente dagli altri parchi nazionali del Deserto del Gobi, il Gurvansaikhan offre diverse attrattive interessanti, come montagne, fossili di dinosauri, straordinarie dune di sabbia, formazioni rocciose e una valle ricoperta dal ghiaccio per gran parte dell'anno. Il tutto incastonato tra le stelle e orizzonti mozzafiato, con una biodiversità notevole: 52 specie di mammiferi e oltre duecento di uccelli, tra cui il trombettiere mongolo del deserto, l'avvoltoio monaco e la sterpazzola nana


    desierto-de-gobi

    II nome « Gobi » nelle lingue mongola e manciù indica una qualunque depressione, cioè conca del suolo, con fondo ghiaioso e sabbioso. Il Gobi, infatti, è una specie di sterminata conca che si trova ad un'altitudine media di 1000 metri ed è circondata dai monti. Verso ovest le due catene degli Altai e dei Monti Tien scian lo dividono in tre enormi conche minori: la Piccola Mongolia, la Zungaria e il Turchestan orientale; nomi che oggi ci dicono poco, ma che anticamente facevano tremare gli Europei, perché di là partirono le orde mongole che giunsero fino all'Europa nel XIII secolo.
    Per il Gobi, come del resto per la maggior parte dei deserti della Terra, la parola deserto non deve far pensare soltanto a sabbia. Sabbia ce n'è, si intende, ma non è l'elemento principale.
    Noi dobbiamo immaginare una distesa di piane e conche che si perde a vista d'occhio. Esse sono costituite da ghiaie e, sul fondo, da argille salate (resti di antichi laghi). Da questo arido mare sorgono, come isole, masse rocciose erose, scavate, traforate dalle tempeste di sabbia. Infatti esse sono i resti di antiche catene montuose ora quasi totalmente spianate. I venti violentissimi accumulano poi lunghe dune sabbiose a forma arcuata, dette
    « bardane »....Questo è il deserto di Gobi: una estensione sconfinata, un mondo isolato, silenzioso, che ha una sua paurosa bellezza, specialmente quando tramonta il sole e le rocce, le sabbie, le dune diventano rosse, come un mare incandescente.II Gobi è quasi completamente circondato da montagne, perciò i venti provenienti da ogni parte perdono contro le barriere montuose buona parte dell'umidità. Quelli provenienti dall'interno tendono ad asportare l'umidità piuttosto che a depositarvela. In molte ore della giornata l'orizzonte appare vicinissimo e si viaggia per ore per raggiungere certe piccole scabrosità del terreno viste con assoluta nitidezza sul culmine delle collinette. Questa terribile trasparenza è dovuta all'assoluta mancanza di vapore acqueo. La siccità dell'aria è tremenda, uccide in poche ore gli animali che non riescono a trovare acqua. Anche per questo motivo, gli sbalzi di temperatura sono enormi: il Gobi è un deserto freddo, sia per l'altitudine, sia perché si trova in una zona molto continentale e posta piuttosto a nord. In inverno si scende infatti a 26, 30 e anche 40 gradi sotto zero. Durante l'estate, invece, quando il sole batte sulle rocce, la temperatura sale anche a 39 gradi. Le piogge sono molto scarse: vanno dai 100 millimetri annui nelle zone più basse, ai 200 millimetri nelle aree periferiche più elevate.
    (dal web)


    nhat-ban-xu-ly-rac-thai-_741609426992


    ....storia, miti e leggende....


    La leggenda vuole che il Gobi sia stato creato dal passaggio degli imponenti eserciti di Gengis Khan, ma in realtà i numerosi fossili che lo costituiscono testimoniano che il suo territorio, ricco di acque e di vegetazione, era un tempo habitat ideale per i dinosauri. Negli anni '20, in questo territorio temuto dagli stessi mongoli, l'avventuriero americano Roy Chapman Andrews, con la sua squadra, riportò alla luce resti di scheletri di oltre 100 esemplari preistorici.

    La storia del deserto di Gobi è affascinante. Probabilmente, molti milioni di anni or sono, l'immensa conca era in parte occupata dal mare. Lungo i suoi orli corre ancor oggi una riva ripida, un grande muraglione roccioso con i suoi capi, le sue insenature, le sue penisolette. Più tardi si prosciugò e sulle sue distese apparve la vita.
    intere zone si coprirono di piante, di cui oggi si trovano i resti. Fra i boschi e le erbe passava, facendo tremare il suolo, il baluchiterio, un bestione preistorico alto più di cinque metri, a forma di rinoceronte con un lungo collo. Oggi, sepolte nelle sabbie si trovano le ossa di quel mostro, uova di dinosauro e crani di piccoli mammiferi antichissimi.
    Col trascorrere dei millenni l'immenso territorio si inaridì, si spogliò della vegetazione. Alcune migliaia di anni prima di Cristo, apparvero nel Gobi gli uomini: un popolo misterioso di abitanti delle dune, di cui le spedizioni scientifiche disseppelliscono ogni tanto le tracce: stoviglie, armi rudimentali e altri resti.
    (dal web)


    scheletro-di-cammello-nel-deserto-del-gobi-mongolia-168352491


    ....fantarcheologia.....

    .

    Negli anni ‘20, Roy Chapman Andrews, assieme ai suoi uomini, riportò in superficie un gran numero (più di cento) di scheletri fossili di antichi rettili vissuti nel Cretaceo, 70 milioni di anni fa, dal Velociraptor al Tirrannosaurus Rex al Protoceraptor...Negli anni 40, invece, l’archeologo russo Pyotr Kuzmich Kozlov, scavando tra le rovine della città di Khara Khota (vecchie di almeno 7000 anni), rinvenne dentro una tomba dipinta - a qualche chilometro dagli scavi - una pittura murale che fu poi risultato risalire a 18.000 anni fa, e raffigurante una coppia di sovrani il cui simbolo era costituito da un cerchio diviso in quattro settori, con al centro un segno che è quello della lettera M, il quale è stato poi ripreso dall’alfabeto romano dopo secoli e secoli. Alcuni commentatori hanno voluto vedere in questo ritrovamento la scoperta della città di Uighur, una delle colonie di Mu la quale, come James Churchward ha scritto nei suoi libri, era un impero che occupava un continente il quale si trovava dove ora ci sono gli arcipelaghi del Pacifico. Questo continente - secondo le testimonianze di Churchward, che - tra l’altro - era un colonnello di Sua Maestà Britannica - sarebbe esistito da 150.000 a 75.000 anni fa per poi scomparire prima della fine del Pleistocene, e non era altro che un pezzo del supercontinente Lemuria, inabissatosi nell’era del Permiano....Le leggende dell’Asia centro-orientale ci riportano spesso al Deserto di Gobi dove, in un tempo molto antico - come viene anche confermato dalla geologia - si sarebbe esteso un grande mare. Vi furono abitanti di un antichissima civiltà vissuti all’epoca in cui ci sarebbe stata un’isola in mezzo a questo mare, popolata da creature coi capelli biondi e gli occhi azzurri (in netto contrasto con le etnie di quel territorio, dunque). Proprio da queste creature - provenienti dal cielo - gli abitanti dell’impero del Pacifico attinsero molte nozioni che li avrebbero fatti arrivare al culmine della loro cultura 75.000 anni fa.

    548b8dd00bdae

    Alcuni sciamani , certi sacerdoti di un culto animistico molto antico (tengrismo) che ancora vive tra le zone brulle della Mongolia meridionale, cadendo in trance al ritmo ossessivo di un tamburo, affermano di mettersi in contatto mentale con una dimensione popolata di creature da incubo, umanoidi neri e ingobbiti con mani grosse ed artigli. Essi possono togliersi la loro pelle per rivelare sembianze umane e andare tra gli uomini senza essere riconosciuti ma, vestiti della loro pelle nera vagherebbero - invisibili - nelle acque e nel cielo, a bordo di grosse conchiglie volanti, chiamando i morti.
    Un’antichissima tradizione indù vuole che “uomini discesi dalla grande stella bianca” (Venere?) abbiano preso dimora nell’isola del mar di Gobi nell’anno 18.617.841. a.C. (data errata visto che è stata tratta dalle discutibili cronologie del bramanesimo), erigendo dapprima un fortilizio, poi una città, e collegando in seguito l’isola con la terraferma attraverso gallerie sottomarine. Diverse zone del territorio del deserto sono traforate da aperture che conducono a piazze sotterranee da cui si dipartono gallerie inaccessibili, ostruite da tratti crollati. Secondo certi miti tramandati da tempi immemorabili, le gallerie collegherebbero località distantissime tra loro. Sulle pareti degli spiazzi a grande profondità si trovano graffiti rappresentanti disegni indecifrabili. Altre volte le tracce sono più intelleggibili, ma sempre enigmatiche.
    Alcuni decenni fa venne rinvenuta nelle caverne del distretto di Bohistan (oggi Kohistan), nella zona himalayana del futuro Pakistan, una mappa celeste (tra l’altro pubblicata in USA nel 1925 dal National Geographic).


    Gli astronomi notarono che, pur essendo esatta, non corrispondeva a quelle attuali, perchè su quella carta le stelle erano disposte nella posizione che occupavano 14.920 anni fa. E c’è un dettaglio singolare sulla mappa, rappresentato da linee che uniscono la Terra a Venere. Nel 1778, Jean-Sylvain Bailly, politico, matematico e astronomo francese, esaminando certe carte stellari portate dall’India da alcuni missionari, constatò che dovevano essere vecchie di molti millenni ma che, comunque, non potevano essere state realizzate in India, poichè vi erano segnate stelle non visibili dal presunto luogo di origine. I calcoli svelarono a Bailly il punto di osservazione da cui le mappe erano state disegnate: proprio la zona dove si trova oggi il Deserto di Gobi! Gli indiani avevano ereditato quelle carte da una civiltà più antica e progredita della loro, forse quella che abitava l’isola in mezzo al mare sul territorio dove ora si stende il deserto?
    (Tanogabo)


    "Nel buio palpitante degli atri e dei ventricoli, nel segreto misterioso del moto autonomo del nostro organo di vita più nobile, arrivano quelle scintille che ci conducono irresistibilmente verso un’altra realtà, verso l’altra storia del deserto, il suo passato, che potrebbe divenire il suo futuro: il lussureggiare della vegetazione, il clima mite e temperato, il sole nero, Osiride che, fa germogliare nell’oscurità la nuova primavera, il cavallo bianco che si impenna e saluta la vita e la natura.
    Così per un vecchio numero di Hera, quando la dirigevo io, commissionai al mio illustratore di allora Tommy Ducale la rappresentazione simbolica del capovolgimento, come risulta dalla storia del deserto del Gobi, immagine che potete vedere sotto.
    Perché basta capovolgere il deserto ed ecco che salta fuori l’altro volto, quello che ho descritto, il passato o forse anche il futuro. Nel deserto il sole brucia tutto con ardore impietoso, del cavallo rimane solo il cranio completamente ripulito dal calore e dalla sabbia, e le dune sembrano onde increspate, ma di fuoco, non d’acqua."
    (Carpeoro )


    maxresdefault_12



    .

    Edited by gheagabry1 - 24/10/2022, 20:13
     
    Top
    .
  10. gheagabry
     
    .

    User deleted



    la-meditazione-delle-grotte-di-khamar-khiid-monastero-nel-deserto-dei-gobi-vicino-sainshand-mongolia-2e48yxx

    All’inizio dell’Ottocento, in Mongolia, venne alla luce da genitori poverissimi un ragazzino di nome Danzan Ravjaa.

    Sin dall’infanzia, fu costretto a mendicare, ma aveva qualità fuori dal comune che non passarono inosservate. Negli anni dell’adolescenza, il suo acume e la sua attitudine alla poesia attirarono l’attenzione del clero buddhista, che riconobbe in lui la quinta reincarnazione del Lama del Deserto del Gobi.

    Provare che nel giovane Danzan alloggiasse lo spirito del santo vissuto secoli prima fu semplice, dato che egli riconobbe gli oggetti appartenuti al suo ultimo predecessore, defunto a soli trentun anni dopo una vita non particolarmente esemplare a cui aveva messo fine una condanna a morte per omicidio.
    A diciannove anni Danzan completò gli studi religiosi e si ritirò a meditare nelle grotte di Khamariin Khiid (la “terra a forma di naso”), dove presto radunò attorno a sé un cospicuo numero di seguaci. Spirito intraprendente e amante della cultura, Danzan decise di trasformare il complesso di caverne dove si era ritirato in un centro di studi che fosse un faro di civiltà per tutta la Mongolia.

    A cinquant’anni, Danzan era a capo di un piccolo impero: a Khamarin Khiid operavano cinquecento monaci in un clima di grande fervore culturale la cui testimonianza più evidente era il teatro (il primo a essere costruito nel Paese). Danzan non si era fermato lì: aveva fondato altri undici monasteri, realizzato studi pioneristici nel campo della medicina e scritto centinaia di poemetti considerati ancora oggi capolavori della letteratura mongola.
    La sua realizzazione più celebre, tuttavia, era un’effigie del Guru Rinpoche, l’uomo che portò il buddhismo in Tibet. Dopo l’assassinio di un contadino, Danzan lanciò un appello alla pace, chiedendo che le famiglie della regione consegnassero le loro armi a lui, e con i diecimila coltelli così raccolti commissionò la preziosa statua.

    khamar-khiid-monastero-nel-deserto-dei-gobi-vicino-sainshand-mongolia-r1ym1r

    All’apice del prestigio, tuttavia, Danzan cadde vittima di una delle sue concubine, incaricata di ucciderlo con una bevanda avvelenata. Avendo predetto la propria sorte, il Lama scrisse un poema per la donna e bevve il calice, dandosi così la morte. Gli sopravvissero la fama e un ricco tesoro di millecinquecento opere d’arte, che venne sepolto insieme a lui. Il tesoro rimase inviolato per quasi un secolo, fino a quando la Mongolia non fu preda della furia iconoclasta del regime sovietico instauratosi nel 1924. Il custode della tomba di Danzan riuscì a seppellire sessantaquattro pezzi in luoghi diversi prima che il sacrario venisse saccheggiato dalle guardie rivoluzionarie.

    Nel 1990 i devoti di Danzan hanno ricostruito il sito di Khamarin Khiid. Tuttavia, per rivedere il tesoro (o almeno ciò che ne è rimasto) si è dovuto attendere fino a pochi giorni fa, quando il figlio dell’ultimo custode della tomba di Danzan ha deciso di rivelare il segreto del nascondiglio scelto da sua padre e di consegnare i preziosi manufatti al museo dedicato alla memoria del Lama del Gobi, dove è possibile ammirare anche la statua dei diecimila coltelli, che era finita non si sa come nelle mani di un collezionista.

    claudia astarita
    Mercoledì 23 Settembre 2009



    .

    Edited by gheagabry1 - 24/10/2022, 20:21
     
    Top
    .
  11. carpeoro
     
    .

    User deleted


    Buongiorno a tutti, sono Carpeoro e ho notato con piacere che è stato citato un mio scritto.
    Era il commento a un'immagine uscito su un numero di Hera, che era il giornale che dirrigevo all'epoca e che vorrei riportare per offrire una chiave in più decodifica.
    Spero di non essere stato invadente.
    Grazie
    Carpeoro
     
    Top
    .
  12. gheagabry
     
    .

    User deleted


    ciao carpeoro fai pure non ci sono problemi anzi ci fa molto piacere
     
    Top
    .
  13. gheagabry
     
    .

    User deleted







    UNA POESIA NEL DESERTO


    di Paola Cerana

    “La solitudine è come una lente d'ingrandimento,
    se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo”.

    Rubo a Leopardi questo pensiero, consapevole del piacere intimo che la solitudine può dare quando si
    è in pace con se stessi.
    A me piace giocare con i miei pensieri e le mie fantasie. Mi piace non sentire l’esigenza di dover
    condividere a tutti i costi tempo e parole con un “altro” qualsiasi. Il mio silenzio è fatto di musica e
    colori, di ricordi che si vestono di festa, di sogni che corrono incontro ai desideri, solleticando l’attesa.
    Ho fotografato la mia solitudine e a me pare magnifica. La vedo. La tocco. La respiro. E’ come il deserto che accarezza l’oceano. Una tavolozza di sfumature tenui e gentili che mascherano un’anima forte e indomabile. Un paesaggio che si odia o si ama, senza indecisioni, impetuoso come la passione. Io amo il deserto.
    Chiudo gli occhi, lo sto attraversando in questo momento. Cammino a piedi nudi sulla sabbia che tradisce il suo segreto movimento. Duna dopo duna, a fatica perché ad ogni passo il mio corpo sprofonda e l’avanzata risulta lenta nonostante l’energia spesa. Se non fosse per le impronte lasciate alle mie spalle non potrei mai dire di essermi spinta tanto avanti. Eppure voglio andare oltre, camminare contro
    il vento che, prepotente, mi respinge e non mi invita a proseguire.
    Testarda. La sua sfida mi sprona, stimola la mia esuberanza e dà più gusto al mio vagare sotto il sole.
    Provo un gran piacere, una sensazione di libertà quasi palpabile. Sento l’impulso di gridare, qui nessuno mi sente. Tanta grandezza mi dà le vertigini. Trovo sia miracoloso poter avere a disposizione tanto spazio
    tutto per me, solo per me. Da una parte il mare, infinito mare, dall’altra un susseguirsi di dune e sabbia che si srotolano fino a incontrare il cielo. Un regalo alla terra.
    Il vento gioca con la sabbia e trasforma le dune in un inseguirsi ritmico di brevi onde leggere, perfette, da fare invidia all’acqua. Nel punto più lontano che raggiungo con lo sguardo, il mio orizzonte, si
    materializza un velo sottile tra cielo e terra. Una nuvola di mulinelli, infiniti granelli di sabbia, agitata e indecisa se rassegnarsi ad appartenere definitivamente alla terra o se disperdersi libera, senza legge, in volo. Sospesa, come il tempo. Sembra tutto fermo nel deserto. Immobile anche se in costante mutamento. Guardo le ombre delle nuvole che corrono e si rincorrono veloci sulla sabbia. Un attimo è tutto luce incandescente, l’attimo dopo pare di guardare un negativo, una fotografia in bianco e nero.
    Ma vince il sole. Amo il sole. Mi nutre, mi dà energia e speranza. Lo assorbo attraverso ogni millimetro della mia pelle. Mi osservo allo specchio della mente e sorrido di me, perché mi vedo come un rettile,
    proteso con tutto il corpo nervoso verso l’alto, pigro, quasi immobile eppure pronto a scattar via in un battibaleno. Gli occhi socchiusi per assaporare meglio il fuoco e per non perdere nemmeno una briciola di
    calore. Nessuno può intromettersi in questa mia ipnotica simbiosi con la natura.
    Eppure è proprio il sole a ricordarmi che il tempo esiste e che è ora di ripercorrere all’indietro il cammino,
    riattraversare quella beata, silente solitudine per affogare di nuovo nel frastuono nevrotico della civiltà.
    Che peccato! Chissà, magari cammin facendo perdo l’orientamento.
    Niente di più facile nel deserto. Nessuna impronta più sulla sabbia a ricordarmi d’esser già stata qui. Il vento, credendo di farmi un dispetto, ha rubato le tracce del mio passaggio. Non sa che in verità mi ha fatto un regalo.
    Rischio di innamorarmi, inseguendo un miraggio. Inconsciamente spero di risvegliarmi in un’oasi di agavi e palme, ubriacarmi di profumo di datteri e cocco, salsedine sulla pelle. Sì, perché il mare arriva fin qui, è nell’aria. Mi ci immergo lentamente. I piedi accarezzano l’acqua che docile doma la sua forza, si inchina alla mia presenza e mi incoraggia ad unirmi al suo flusso. Il suo canto è un invito irresistibile. Tiepida sale fino ad avvilupparmi le gambe, le cosce e poi più su, fino a schiudersi in un abbraccio che ispira fiducia e mi corrompe circondandomi tutta.
    Apro gli occhi ma resto qui, nel mio deserto. E capisco improvvisamente di non essere affatto sola. Il mio sperdermi continuo con la mente mi fa sentire in sintonia perfetta con l’universo, in un amplesso che non
    ammette ostacoli né intrusioni. Mi sento libera di prendere la mia vita tra le dita e plasmarla come sabbia. Ne faccio un castello, una fortezza, una piramide, ne faccio quello che voglio. Questo è il segreto piacere della solitudine. Mi sento fortunata. Sorrido alla vita e ripenso a una breve poesia, Lo scopo, che un romantico poeta prosatore ha scritto, forse ispirato dallo stesso paesaggio celato nel mio cuore.

    Il cielo
    e il mare
    si baciano
    all’orizzonte
    per far contenti
    i poeti.
    (Vittorio Salvati)









    .
     
    Top
    .
  14. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Ho sempre amato il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla.
    Non si sente nulla.
    E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio...
    (Antoine de Saint-Exupéry)


    Il KALAHARI



    Il deserto del Kalahari, il quarto deserto al mondo per estensione (circa 520.000 kmq), situato a cavallo del Tropico del Capricorno, è un deserto semi-arido che si estende, su un altopiano ad un altezza variabile tra gli 850 e i 1 200 m, nei territori di Namibia, Botswana e Sud Africa. Da migliaia di anni il Kalahari è il territorio dei San (Boscimani), popolo di cacciatori-raccoglitori che vivono in stretta simbiosi con l'ambiente inospitale che li circonda, essi hanno trovato la loro sussistenza nel deserto grazie a un'approfondita conoscenza dell'ambiente, all'uso di tecniche di caccia (frecce avvelenate) e di raccolta molto efficaci e all'estremo rispetto della natura dell'ostile ambiente in cui vivono.
    A differenza di altri parchi e riserve africane, e soprattutto degli aridi deserti dell’Africa settentrionale, il Kalahari è una sorta di “deserto verde”. Le condizioni climatiche difficili e la scarsità di piogge non impediscono lo sviluppo di un florido ecosistema di piante e animali, tipici di quest’area...ma Il Kalahari è anche "la grande sete" nella lingua Tswana, è infatti un deserto di sabbia rossa la cui zona sud-ovest, quella più arida, lo rende un deserto di tipo fossile. Sono solo due le riserve d'acqua di grandi dimensioni: le saline di Makgadikgadi in Botswana e le saline di Etosha in Namibia.

    Dal punto di vista scenografico offre uno spettacolo incredibile creato dalle sue dune rosse di deserto che si stemperano nel bush arido, ma pieno di vita. Qui, dove la natura prende il sopravvento, vivono 250 leoni del Kalahari, la cui criniera scura è diventata simbolo stesso di questo meraviglioso parco. Le condizioni climatiche difficili che caratterizzano questa vasta zona prevalentemente desertica costituiscono l’habitat naturale dei grandi predatori quali le iene, gli sciacalli, i leoni, i ghepardi, i leopardi e molte specie di uccelli, soprattutto rapaci e struzzi. Ma come dice il nome “gemsbok” questo è il regno delle antilopi: grandi branchi di antilopi camoscio, di antilopi saltante (springbok), e di antilopi alcina corrono tra le dune accanto agli gnu blu, ai suricate e alle zebre di Burchell.
    la riserva naturale di Witsand, anche conosciuta come “sabbie ruggenti”: 2.500 ettari di abbagliante sabbia bianca circondata dal mare di sabbia rossa del Kalahari. In questo magico angolo di deserto le sabbie emettono infatti un bizzarro rumore simile al suono profondo del ruggito del leone ogni volta che vengono “disturbate” dal passaggio dell’uomo o dal vento. Secondo una tradizione locale, le dune ruggiscono soltanto nei mesi scritti con una “R” nel nome e quindi da settembre ad aprile, ma più ragionevolmente la causa è nel clima di quel periodo dell’anno. Per emettere il loro caratteristico suono la sabbia deve essere calda e asciutta, il suono è infatti il risultato dell’intensa frizione creata dall’attrito dei piccolissimi granelli che raschiando tra loro espellono l’aria bloccata......La sabbia emette suoni pieni di armonia Il segreto e' un "collante" tra i granelli Non tutte lo fanno, ma quando succede le loro melodie sono indimenticabili. Parliamo delle sabbie che cantano: da quelle in riva al mare che, quando le calpesti vibrano come le corde d'un violino, alle dune del deserto che, mosse dal vento, emettono suoni con profondita' baritonali, ma anche con acuti da soprano.



    Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente.
    Nel deserto come nell'oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità,
    cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d'acqua o di sabbia, vergini e inviolate.
    (Alberto Moravia)


    È questo che trovo nel deserto: il silenzio che non è assenza di parola, ma durata infinita di una vocale, di una consonante, eco improbabile di una durata eterna. È per questo che sono tornata con i ricordi a quel viaggio di venticinque anni fa?
    È stato un andare verso il vuoto, un andare per andare come nella vita, l'andare per l'impossibilità di non andare, il vedere perché non si può che vedere, l'ascoltare perché non si può che ascoltare e neppure se mi tappassi le orecchie come Ulisse temendo il canto delle sirene, ci riuscirei, perché non è con le orecchie che si ascolta il silenzio.
    È nel deserto che ho imparato ad attendere il momento: dell'alba, del tramonto, della partenza, dell'arrivo. Ho imparato che l'attesa è l'attesa, un pieno non un vuoto. Come è pieno il dolore, la tristezza, il silenzio, la morte. [...]
    Ho scoperto la felicità, non di qualcosa o per qualcosa. Anche la grandezza dello spazio, la mancanza di direzioni, l'assenza di mete, l'uniformità dei colori erano quel che erano. Il deserto davanti ai miei occhi è diventato un immenso sillabario in cui poter ritrovare il rapporto perduto tra me e le parole. E più mi perdevo in rocce, cuspidi, basalto, dune, sabbia, silenzio, cielo, stelle, infinito, più mi ritrovavo.
    È nel deserto che ho imparato ad amare non qualcuno o qualcosa. È l'ascolto del silenzio, in sé estremo e paradossale che mi prende oggi, poiché non tutto è parola, né dappertutto la parola può giungere e se l'universo è un grande libro, come dice Borges, è in gran parte ancora da scrivere. Ascoltare il silenzio del deserto è guardare le pagine bianche di quel grande libro, che invitano alla scrittura. È la mancanza di rovesci che qui spinge alla follia, è la sottrazione del doppio, che alimenta i miraggi nelle trombe d'aria che si sollevano in un istante e l'istante dopo scompaiono oppure è questa mancanza che mette pace.
    (Anna D'Elia)




    .
     
    Top
    .
  15. gheagabry
     
    .

    User deleted



    "Il tramonto cremisi infuocava le stupende rocce
    e gettava lunghi fasci di luce sui muri ....."
    (T.E. Lawrence)


    WADI RUM



    Il Wadi Rum (arabo: وادي رم, Wādī Rūm), anche detto Valle della luna (arabo: وادي القمر, Wādī al-qamar) è una vallata scavata nei millenni dallo scorrere di un fiume nel suolo sabbioso e di roccia granitica della Giordania meridionale, a 60 km circa a est di Aqaba. È il più vasto wadi in Giordania. Il nome Rum proviene molto probabilmente dalla radice aramaica che significa "alto" o "elevato". Per proporre la sua pronuncia dialettale locale, si usa anche trascrivere la località Wadi Ramm. La maggiore elevazione nel Wadi Rum è il monte Jebel Rum alto 1754 m., mentre poco più a sud del Wadi Rum, al confine con l'Arabia Saudita, vi è il monte Jebel Wmm Adani, di circa 1830 m., il più alto monte della Giordania.

    l Wadi Rum ha ospitato insediamenti umani fin dai tempi preistorici (8000 a.C. circa) ed il luogo era noto come Iram.
    Circa 30.000 incisioni rupestri decorano le superfici di tenera arenaria delle pareti rocciose del Wadi Rum: si tratta di petroglifi realizzati prima dalle tribù di Thamudeni, provenienti dall'Arabia meridionale e poi dei Nabatei che insediatisi nel Wadi Rum, nel IV secolo a.C., vissero pacificamente coi Thamudeni, adorando le stesse divinità, tra cui Dushara. I Nabatei oltre alle testimonianze sotto forma di pitture rupestri e graffiti ci hanno lasciato anche alcuni templi.
    Greci e Romani ne avevano apprezzato i vigneti e gli oliveti, oggi scomparsi e le pinete di cui rimane traccia sulle vette più alte. Alcuni studiosi islamici ritengono che qui si trovasse il famoso "Ad", descritto nel Corano.

    In Occidente il Wadi Rum è diventato maggiormente conosciuto per merito dell'alto ufficiale britannico T. E. Lawrence, che fissò qui la sua base operativa durante la Rivolta Araba, nel 1917–18, anche dopo la conquista di Aqaba.
    Negli anni ottanta del XX secolo, una delle più imponenti formazioni rocciose del Wadi Rum fu per questo chiamata "The Seven Pillars of Wisdom", in memoria del capolavoro letterario di Lawrence, scritto nell'immediato primo dopoguerra.



    Un posto stupefacente, con i suoi paesaggi favolosi, incontaminati e senza tempo. Questo luogo, in cui il tempo e il vento hanno scavato imponenti e maestosi grattacieli, fu elegantemente descritto da T.E. Lawrence come "immenso, echeggiante e divino". Un dedalo di formazioni rocciose monolitiche si innalza in un territorio desertico fino ad altezze di 1750 metri.
    Questa zona è formata da montagne sabbiose con colorazioni molto varie, che spaziano dal giallo al bianco, al rosso ed al marrone, intervallate da profondi canyon con formazioni geologiche. Il panorama è anche distinto per i suoi delicati archi e ponti naturali, nonché da pietre modellate come funghi, intagliate e plasmate naturalmente da anni di vento ed erosione. Wadi Rum possiede fauna e flora rare ed endemiche. Una più grande enfasi è stata messa sulla fauna del Wadi dopo che una ricerca scoprì la presenza dello Stambecco, del Lupo grigio, della Volpe di Blanford, della rara Volpe rossa, oltre che a quella del Gatto delle sabbie.



    Il viaggio in un qualsiasi deserto è sempre un’avventura unica, ma ogni deserto ha le sue peculiarità e, sebbene a prima vista, tutto possa apparire uguale o simile, i deserti sono diversi tra loro. Celano infinite diversità.
    Wadi Rum. Giordania. Medio Oriente. Uno Stato, un Paese, una Nazione. Una sensazione tutta da scoprire dall’inizio del viaggio alla fine. E anche oltre.
    Il paesaggio del Wadi Rum è uno dei più incredibili di tutto il Medio Oriente. Si trova in una serie di faglie che formano delle vallate nel deserto sabbioso a sud delle montagne di Shar. Montagne di granito, basalto e arenaria che raggiungono gli ottocento metri. Sono l’ombra stessa del deserto.
    Contrariamente a quanto si pensi, questa regione, nonostante sia arida e assolata, è popolata. E non solo dai beduini che si accampano con le proprie tende nomadi, ma da piccoli villaggi e paesini dall’aspetto moderno. In effetti, nei siti circostanti l’acqua non manca.
    Il Wadi Rum va osservato da vicino per capire che il deserto non è mai solo ciò che mostra. Qui, si trovano numerose incisioni nella roccia lasciate da popoli antichi, iscrizioni tamudiche, tipiche di una tribù legata a quella dei nabatei.
    Un’antica mappa della zona, un tempo celata, scolpita nella roccia, è stata scoperta da un docente italiano, durante un’escursione, grazie ad un terremoto che l’ha resa visibile.
    Lawrence d’Arabia, agente segreto, militare e scrittore britannico, uno dei capi della rivolta araba, definiva la terra del Wadi Rum: “vasta, echeggiante, divina”. Lo stesso film “Lawrence d’Arabia” è stato girato qui negli anni Sessanta.



    Per raggiungere il Wadi si attraversa un paesaggio secco in mezzo al quale passa la ferrovia. E’ un unico binario che collega le miniere di fosfati al porto di Aqaba. E’ impressionante notare, in mezzo al nulla, una ferrovia.
    L’ambiente è suggestivo. Naturalmente beige. Roccioso, brullo e sabbioso. Il caldo è eccessivo, nella stagione estiva. Schiaffeggiante. Non consente di fare nulla e il deserto, sotto il sole cocente, è implacabile.
    Chilometri di sabbia, rocce, pochissima vegetazione sotto forma di pianta e dune su cui far correre le auto – ovviamente fuoristrada – come fossero giostre. Sembra di guardare un film dall’interno.
    E la scenografia ricorda un paesaggio quasi lunare. Il terreno è ocra intenso, le rocce assumono le forme più svariate. Sembrano prender vita. Alcune, nel corso dei decenni, subiscono mutazioni di aspetto. Si “piegano” al vento, levigandosi, ammorbidendosi al suo cospetto. Sono rocce sono da lontano, ma da vicino, al tatto, sono velluto, petali di fiori, lisce come la pelle di un neonato.
    I cammelli vagano liberi e alcuni sono marchiati perché appartengono alle famiglie giordane locali.
    La sera, nel deserto, di solito i giordani preparano un piatto della loro tradizione. Cucinato sotto la sabbia. All’interno di una pentola posta in una gabbia e interamente sotterrata. Carni e patate. Il sapore non rammenta alcuna delle nostre pietanze occidentali. La carne è tenera e le patate sono affumicate al punto giusto. Hanno il sapore della terra, ma non intesa come granelli di polvere o sabbia, quanto di Terra con la T maiuscola. Di madre Terra.
    Il deserto di notte è fresco. Meravigliosamente fresco. Suggestivo e, forse ancora più morbido. La sabbia è piacevolissima da calpestare, sembra quasi di camminare sul velluto, ma leggero come la seta. L’ambiente è una sorta di dipinto in chiaroscuro, rilassante allo sguardo.
    La luna si adagia sulle dune creando ombre grigie e ciò che , il sole forte della giornata, ha impedito di osservare, la notte con la sua calma, la luce delle sue stelle, rende possibile scorgere.
    I deserti non sono uguali tra loro. E, persino il medesimo deserto è diverso dal giorno alla notte. E’ uno scrigno.
    (Monica Genovese)




    .
     
    Top
    .
44 replies since 27/1/2011, 01:36   13455 views
  Share  
.