BAUSTELLE

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  1. gheagabry
     
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    I BAUSTELLE


    I Baustelle si formano all'incirca nel 1994, a Siena, come classica formazione di studenti universitari che condividono la passione per la musica.
    L'anima del gruppo, colui che scrive le canzoni nonché il frontman, è Francesco Bianconi, talentuoso ragazzo toscano con la passione per i grandi compositori pop degli anni 60 (Burt Bacharach, Phil Spector, ma anche Serge Gainsbourg, George Brassens e Jacques Brel, per non parlare degli italiani Fabrizio De André, Piero Ciampi e Armando Trovajoli). Gli altri membri sono Rachele Bastreghi come importante seconda voce femminile, Fabrizio Massara come arrangiatore elettronico e tastierista, e Claudio Brasini come chitarrista. La sezione ritmica non resterà mai uguale nella storia della band, senza peraltro mai mancare all'appello.

    Dopo i canonici Ep che non si fila nessuno, nel 2000 i Baustelle autoproducono il primo album, Il Sussidiario Illustrato Della Giovinezza, scritto da Bianconi e arrangiato insieme con la band. Come il titolo tradisce, si tratta di un album molto particolare, quasi un concept, che raccoglie canzoni espressive di un'adolescenza romantica, tormentata, spiritosa e tutta italiana. Da subito sono chiare le potenzialità del gruppo: il grande talento compositivo di Bianconi si esprime in ottime canzoni pop, capaci di essere sia coinvolgenti e aggressive sia intensamente romantiche, sommandosi a una liricità più unica che rara, fatta di testi borghesi, visionari e bizzarri, e riferimenti a tutto tondo ("se con gli altri balli il twist/ se con gli altri prendi il trip"), e alla notevole interpretazione delle voci impostate di Bianconi e della Bastreghi.
    I loro duetti piacciono così tanto che la fama dei Baustelle fa il giro del paese quasi solo col passaparola, e il "Sussidiario" diventa vero disco di culto per una generazione che non si ritrova più nelle classifiche nazionali, e cerca nella musica indipendente i suoi soli ascolti in lingua italiana.
    Il "Sussidiario" è in effetti un album incredibilmente fresco, ispirato, ricco tanto di idee geniali come "La Canzone Del Parco", "Cinecittà", o "Il Musichiere 99", quanto di potenziali singoli rockeggianti come "Le Vacanze dell'83", "Gomma" o "La Canzone del Riformatorio". Sono proprio gli scarsi mezzi di produzione a dargli un suono lo-fi, spolverato di elettronica retrò, la cui spontaneità fa letteralmente innamorare ascoltatori e critici, anche se i Baustelle rimangono un fenomeno totalmente underground.



    Il successivo La Moda Del Lento arriva nel 2003, in un momento in cui il gruppo è molto slegato, complici difficoltà economiche e inquietudini per il futuro. I Baustelle riescono comunque a farsi produrre dalla Bmg un disco dall'artwork accattivante e dai suoni ancora più accattivanti. Meno chitarre elettriche, più sottigliezze elettroniche e atmosfere cinematografiche retrò, fatte di moog e theremin, per un pop assai più raffinato, che Bianconi definisce come "un bel frullato di Kraftwerk, disco-music, Celentano, Blondie, Piero Ciampi e Trovajoli". Rispetto al "Sussidiario" questo secondo disco è meno spontaneo, ma più ricercato e sicuramente non meno bello. La Moda Del Lento vanta pezzi ambiziosissimi come "Beethoven o Chopin" e "Mademoiselle Boyfriend", senza peraltro rinunciare a quelle fantastiche melodie catchy di "Arriva Lo Ye-Ye", "Rèclame" o "La Canzone di Alain Delon", che restano e resteranno il punto di forza della formazione.
    La Moda Del Lento va ricordato, oltre che per gli insuperati testi di Bianconi, per i contributi compositivi di tutta la band, e il bel lavoro sui suoni di Massara in un disco che si permette lunghe parti strumentali (ad esempio quella di "Love Affair"), soprattutto per il chiaro intento dei Baustelle di uscire dall'ambito indie e prendere invece a modello lo storico pop melodico italiano, senza rinunciare a un suono che rimane molto, molto personale. Anche questa seconda prova riscuote un buon successo di critica, il gruppo dimostra di non ripetersi e di avere enormi potenzialità, ma il grande pubblico sembra ancora lontano.

    Le cose cambiano quando a fare un'offerta a Bianconi e compagni è la Warner Records: forte di un budget che gli consente di produrre un disco come ha sempre desiderato, Bianconi registra La Malavita a Torino, servendosi di un'orchestra sinfonica e moderne tecnologie di mixaggio e filtraggio dei suoni. Il risultato è nulla di più lontano dal ruvido "Sussidiario", e il vecchio pubblico che sotto la doccia canticchia ancora "Le Vacanze dell'83" si ritrova con un disco maturo, serio, e soprattutto con un singolo che passa alla radio. I Baustelle si inseriscono nella tradizione melodica italiana con un pop chitarristico molto saturo di suoni, e raggiungono l'agognata celebrità. Il prezzo è la dipartita di Massara, e forse anche di parte dei vecchi fan. Ma il marchio di qualità Baustelle non manca e il talento di Bianconi regala ottime canzoni come "Il Corvo Joe", "La Guerra E' Finita" e "Un Romantico A Milano". Lontano dalla romantica naturalezza del Sussidiario e dalle sofisticatezze elettropop de La Moda Del Lento, La Malavita è, secondo Bianconi, il miglior disco dei Baustelle, nonostante canzoni non sempre indimenticabili e una produzione che appesantisce molto gli arrangiamenti. Può essere considerato un passo falso, ma non un passo indietro.

    Nel febbraio 2008 esce, sempre per la Warner, Amen, un disco che conferma il new deal dei Baustelle verso il pop, gli arrangiamenti importanti e la produzione elaborata. E' forse il disco della maturità della band, che perde per strada un altro membro (il batterista Claudio Chiari) e diventa così un trio, ed è certamente ad un livello compositivo superiore rispetto a La Malavita. In Amen ritroviamo l'inconfondibile zampata art-pop-rock di Francesco Bianconi, ma anche la seconda voce Rachele Bastreghi contribuisce con pezzi come "L'areoplano" e "Dark Room", avvicinando ancor più i Baustelle alla tradizione melodica pop del belpaese. Nonostante i numerosi riempitivi e qualche momento da dimenticare ("L'uomo del secolo") il disco è movimentato, ricco di singoli accattivanti e potenziali candidati ad un ipotetico "best of" della band ("Baudelaire", "Antropophagus", "Alfredo").



    Il desiderio di Bianconi di scrivere una colonna sonora si realizza con Giulia non esce la sera (2009) di Giuseppe Piccioni, pellicola drammatica con Valeria Golino e Valerio Mastrandrea. Si tratta di una colonna sonora principalmente strumentale, fatta di brevi movimenti per quartetto d'archi, sulla scia della moderna tendenza minimal-classicista. Sbucano un paio di canzoni dei Baustelle, prestate da Amen, ed esce come singolo “Piangi Roma”, una ballata melodica eseguita dall'inedito duetto Bianconi-Golino. Sul testo decadente, nostalgico e vagamente felliniano di Bianconi, Valeria Golino stupisce per la sua interpretazione à-la Jane Birkin, mentre la canzone vince il Nastro d'Argento come miglior canzone originale.

    I mistici dell'Occidente (2010) è un album che deficita già nelle sue premesse: mentre nel caso dei due dischi precedenti era ben percepibile un progetto quasi concettuale, la nuova fatica dei Baustelle nasce solo dalla voglia di pubblicare nuovi pezzi, oltreché dalle non celate pressioni esercitate dalla Atlantic Records. Prodotto dall’irlandese Pat McCarthy e per la prima volta da Bianconi stesso, il disco presenta una orecchiabilità diversa rispetto al passato, in certi casi inconfutabilmente anglosassone, con arrangiamenti sempre più tesi all’internazionalismo e alla fruibilità per le masse.
    Un solenne organo fa da preludio a “L’indaco”, accorato incipit di memoria vagamente floydiana; un’ideale introduzione tematica a “San Francesco”, che irrompe con un riff distorto, seguito dalla immancabile sezione d’archi, una volta tanto in buona sintonia con il pezzo. E’ un arpeggio di chitarra in stile troubadour a sorreggere le strofe della title track, tratta da un saggio filosofico di Elémire Zolla. La rinnegazione della realtà come salvezza dal mondo civile, ridotto senza mezze misure a un “mucchio di coglioni”, è il paradigma centrale del ritornello orchestrato in pompa magna, che sembra punti più all’effetto estetico che alla qualità della canzone; il risultato è un finto lirismo pop. All’atmosfera bucolica de “Le rane”, una amara riflessione sulla perdita dell’innocenza, segue il singolo di lancio “Gli spietati”: una melodia facile come facile è il ritornello, pronto a entrare in testa e restarci colpevolmente; fiati e archi palesemente superflui vanno a riempire una canzone piuttosto vuota di contenuti. La tragica ballata “Follonica”, uno degli episodi meglio riusciti dell’album, dipinge un tipico, ahimé, paesaggio degradato dell’Italia centrale, assieme allo squallore di un amore letteralmente alla deriva.
    Superata la prima metà dell’Lp incominciano a presentarsi parecchie lacune tematiche e musicali, con pezzi prevedibili (“La canzone della rivoluzione”) esenza il mordente necessario (“Groupies”), che fino ad ora era riuscito a riscattare anche i pezzi meno convincenti; troppo spesso si riduce a uno strumento collaudato il timbro vocale di Bianconi, non più impietoso narratore metropolitano quanto ormai pura simulazione del buon De André, al quale da tempo aveva smesso di invidiare solamente il ciuffo. Una inesorabile scivolata nella banalità come mai nella produzione passata. Triste dire, inoltre, che il brano più intimo e nostalgico, intitolato “Il sottoscritto” finisce per somigliare a un inno da stadio scialbo e facilone. Il finale romantico de “L’ultima notte felice del mondo” è affidato alla suadente quanto innaturale voce di Rachele Bastreghi.

    A dicembre 2011, a seguito dello sblocco di certe beghe contrattuali, viene finalmente ristampato l'album d'esordio Sussidiario illustrato della giovinezza, da tempo introvabile. La ristampa appare in una duplice veste: la prima identica all'originale, la seconda in formato deluxe, in un cofanetto speciale iper curato, con tanto di illustrazioni firmate da Alessandro Baronciani. Per l'occasione viene allestito un fortunato tour celebrativo, incentrato sulle canzoni del "Sussidiario", e viene pubblicata una nuova versione di "Gomma", con relativo videoclip, che ottiene una buona programmazione radiofonica.

    La seconda parte del 2012 viene dedicata alla scrittura e alle registrazioni (parte eseguite a Montepulciano e parte in Polonia) del nuovo album della band, che a dicembre viene anticipato dal singolo "La morte (non esiste più)". L'attesissimo disco, pubblicato il 29 gennaio 2013, si intitola Fantasma e si presenta come il loro lavoro più ambizioso. Lo slancio di Bianconi verso una perfezione pop densa di classicismo raggiunge qui il suo apice. Un disco organizzato come un film, con tanto di titoli di testa e di coda, interpretabile al tempo stesso come la sua colonna sonora immaginaria, dal taglio profondamente sinfonico, densa di esoterismo, di sonorità spettrali, di citazioni letterarie e cinematografiche.
    Tutto è intriso di quel maledettismo figlio di Baudelaire e della “Spoon River Anthology” di Edgar Lee Masters, la percezione dei fantasmi come specchi riflettenti il nostro io, e la conclusione che spesso i più temibili spettri siamo proprio noi stessi. Ma non c’è soltanto scuro pessimismo cosmico, le argomentazioni sono grevi soltanto in apparenza: bastano pochi approfondimenti per comprendere quanto in queste liriche a trionfare siano la speranza, l’amore, la vita.
    Persino in “La morte (non esiste più)”, il prezioso instant classic che ha anticipato di qualche settimana la pubblicazione dell’album, il protagonista trova conforto in una visione pura, ultraterrena dell’amore, riuscendo così ad allontanare la paura di morire.
    Nell’incipit del disco si richiama il tema scritto da Ennio Morricone per “L’uccello dalle piume di cristallo”, film di Dario Argento del 1970. Altrove vengono ripresi Gustav Mahler, Igor Stravinsky, molta musica e letteratura del Novecento, dando vita a intermezzi barocchi grazie all’apporto della Film Harmony Orchestra di Breslavia, registrata direttamente in Polonia, dove il passo è stato breve per riesumare la storia di Olivier Messiaen.
    “Il finale” è un omaggio al fantasma del celebre compositore francese: arrestato durante la seconda Guerra Mondiale ed internato presso il campo di Gorlitz, scrisse un tema per trio che gli fu consentito nel 1941 di eseguire nello spiazzale della prigione, in condizioni meteo proibitive e con strumenti di fortuna. Il trio di Montepulciano produce musica dal forte impatto emotivo, si nutre di immagini fantasmatiche tramutando in slanci poetici le situazioni più disparate, come nelle improvvise apparizioni di “Diorama”, una storia che riguarda fantasmi molto particolari: istanti fissati per sempre, momenti definitivamente immutabili, con i Baustelle che riescono a illuminare attraverso splendidi versi le cose perdute e ormai fossilizzate.
    Il Cimitero Monumentale di Milano ispira invece “Monumentale”, uno dei momenti più intensi dell’album, dove l’algida e apparentemente distaccata Rachele Bastreghi prende il centro della scena: qui sono i fantasmi che animano le mute tombe di un cimitero a suggerire la storia, interferenze misteriose che ci collegano inevitabilmente al passato.
    I fantasmi possono essere celati nel nostro abisso interiore (“Cristina”, l’episodio più spumeggiante) oppure essere raffigurazioni di noi stessi in momenti che abbiamo vissuto nel passato (la toccante “Il futuro”, che racconta tutta la disillusione di chi si trova a vivere le conseguenze di scelte importanti).
    Da notare la ricerca sui titoli (“Nessun muore”, “Primo principio di estinzione”, “Secondo principio di estinzione”), incentrati sulla costruzione del saldissimo fil rouge che lega assieme l’intera tracklist.
    Non mancano riferimenti alla situazione politica contingente, espressi con un “non li voteremo più” cantato ne “L’estinzione della razza umana” o in un velato cenno a qualcuno (Berlusconi?) che appalta la Rai nel testo di “Nessuno”, e sferzate sulla società che ancora oggi non sempre accetta la diversità (“La natura”). E ancora fantasmi di cari martoriati che ci perseguiteranno per sempre (“Contà l’inverni” nella quale Bianconi coglie l’occasione per cimentarsi con il dialetto romanesco), improvvisi risvegli ritmati (“Maya colpisce ancora”), riflessioni finali sulla ricerca del bene nell’orrore e dell’eterno nell’età (“Radioattività”).
    Le partiture orchestrali sono state scritte da Enrico Gabrielli, un musicista che già con i Calibro 35 persegue da anni un’operazione filologica sulle musiche da film, in quel caso i poliziotteschi degli anni Settanta. Il disco è stato registrato per gran parte nei saloni della Fortezza Medicea di Montepulciano e in altri luoghi della cittadina in provincia di Siena, paese d’origine della band.
    Un lavoro profondamente classico ma al tempo stesso avanguardistico, che impone in maniera definitiva i Baustelle come una delle band italiane più significative del nuovo millennio.
    (Veronica Rosi, ondarock)



    Edited by tomiva57 - 28/3/2013, 18:13
     
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    I Baustelle e il tetrò. Perché quella canzone è un capolavoro



    L’impianto stereo è rotto. Avrei dovuto inscatolarlo e portarlo da un tecnico, ma non l’ho fatto. Così da molto tempo è rotto e da altrettanto tempo non compro un disco. Alla pigrizia si è sommato il disappunto, come dice Anna Oxa, per quanto accaduto in questi ultimi anni dentro e intorno alla musica pop. Disappunto per il citazionismo, i revival, i tic nostalgici e retrò. Avevo la sensazione che, come scrive Simon Reynolds in Retromania, il pop fosse ad un passo dall’esaurimento (ecologico) delle risorse. Che la maggior parte della musica confezionata nella nostra epoca si esaurisse nel prelievo e nel mix di campioni e tasselli del passato.
    Di conseguenza ho cominciato a seguire le novità con uno scetticismo sempre più snob. Alle copie di oggi, trasformandomi in vero nostalgico, ho preferito gli originali degli anni ’60, ’70 e ’80. Dopo un po’ di tempo, invece, ho cominciato a cambiare atteggiamento. Ho cominciato a fare autocritica, a diventare sospettoso con me stesso e verso le mie chiusure, fino a quando, qualche giorno fa, ho ascoltato su YouTube l’undicesima traccia di Fantasma, l’ultimo album dei Baustelle. S’intitola Il futuro e resta, per quanto mi riguarda e per il momento, l’unico pezzo ascoltato del disco. Perché questa canzone mi è sembrata, ascolto dopo ascolto, un capolavoro capace di tormentarti per giorni, mentre guardi un film al cinema, mentre parla un collega, mentre fai colazione in un bar o cammini lungo il vagone di un treno per Firenze? In questo pezzo i Baustelle hanno il coraggio di sprofondare al nucleo, d’infoibarsi completamente nella nostalgia, senza freni inibitori, e in quella ossessione per il passato dalla quale, come ascoltatore, stavo cercando di divorziare. Il prisma di luce del tempo passato riesce a infiltrarsi dentro quasi ogni verso: «Perché tutto quel che hai prima\o poi lo perderai»; «il passato adesso è piccolo, ma so\ricordarmelo». La nozione di nostalgia viene traguardata e amplificata nelle orchestrazioni. Si muta in übernostalgia, cioè un sentimento sovraccarico, potente e cimiteriale. Qualcosa al tempo stesso di tetro e retrò, che potremmo chiamare, con un gioco di parole: tetrò.