i bimbi crescono..aiutiamoli

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    Asilo, un aiuto per l'inserimento

    BPH142

    Il tuo bambino sta per iniziare il nido o la scuola materna? Ecco tre storie illustrate per spiegargli, anche con l'aiuto delle immagini, questo importante cambiamento e favorire un inserimento sereno.

     
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    Se inizia a dire parolacce
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    Il bambino impara in fretta e per imitazione. E questo vale anche per le parolacce che, in genere, compaiono intorno ai tre anni, quando il bimbo comincia ad andare all'asilo.

    "Ma da chi le avrà imparate?", si chiedono perplessi i genitori. Se il piccolo sente mamma o papà esprimersi con un termine nuovo, magari un'imprecazione concitata e improvvisa, sarà il primo a ripeterlo. Stessa cosa per l'asilo: ha appena ascoltato una parolaccia dagli amichetti e, una volta a casa, non perde un attimo per mettere al corrente i genitori della sua nuova scoperta.

    Vuole sperimentare "che effetto fanno"

    Per il bambino, le 'brutte parole' hanno lo stesso valore di quelle 'belle' perché il piccolo non conosce ancora il significato di certi termini. Percepisce, però, la forte reazione di disapprovazione che l'uso di un vocabolo colorito provoca nei genitori e nelle maestre. "Il bambino è affascinato dalla parolaccia: colpito dal tono di voce di chi la utilizza, ne coglie al volo l'effetto dirompente e irriverente", spiega Saverio Abbruzzese, psicologo e psicoterapeuta di Bari. "Se all'indignazione dei genitori si accompagnano, poi, risate sotto i baffi, nel bimbo l'impulso a ripeterla sarà ancora più forte. Invece, rendiamola da subito inefficace: non diamo cioè al bambino, nell'immediato, quell'attenzione che sta cercando, per non correre il rischio di rinforzare l'abitudine a dire parolacce solo per trovarsi al centro della scena. Se i genitori circondano il bambino di attenzioni subito dopo aver sentito una parolaccia, il piccolo continuerà imperterrito a utilizzarla perché è riuscito nel suo intento: quello di attirare l'attenzione di mamma e papà".

    Fermezza e coerenza

    È bene, quindi, intervenire senza tentennamenti, motivando il divieto. "Per prima cosa, bisogna spiegare al bambino che alcuni termini non vanno appresi e ripetuti, perché le parolacce possono avere un effetto spiacevole sugli altri e risultare, per questo, offensive. Cerchiamo, poi, di capire in quale ambiente il piccolo abbia appreso quel linguaggio, partendo proprio dal contesto familiare", osserva Abbruzzese. "Non c'è nulla che disorienti di più il bimbo dell'incoerenza dei genitori, specie se c'è un abisso tra insegnamenti e comportamenti. L'esempio dell'adulto è il principale metodo educativo. Evitiamo tutti quegli atteggiamenti di sconcerto e di indignazione che, anziché arginare il problema, non fanno altro che rafforzare la provocazione del bambino e accendere la sua innata curiosità". A mamma e papà spetta dunque il compito di insegnare al bimbo la distinzione tra parola e parolaccia, tra discorso e turpiloquio.



    Articolo di Elisa Fontana

     
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    Bambini troppo impegnati, è giusto?

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    Sembra proprio che i nostri bambini oscillino da un eccesso all’altro. Da un lato ci sono quelli che il tempo libero lo trascorrono davanti a tv e videogiochi, dall’altro quelli che, finita la scuola, sono divisi tra palestra, corsi di musica e laboratori di lingua. Gli esperti, naturalmente, mettono in guardia da entrambi questi poli opposti e d’altra parte si sa che in medio stat virtus.

    Se, infatti, arenarsi davanti alla tv o al computer impigrisce e nuoce alla salute del bambino favorendo l’insorgere di problematiche quali sovrappeso e obesità, anche avere giornate troppo fitte di impegni ha i suoi aspetti negativi poichè incide sul sano sviluppo psichico del bambino. A dirlo è la dottoressa Giorgiana Ciocci, psicologa per l’infanzia e l’adolescenza, intervistata da Daniela Raspa de La Stampa, rifrendosi, naturalmente, a quelle situazioni in cui l’impegno è eccessivo.

    Il bambino deve infatti anche essere lasciato libero di gestire autonomamente il proprio tempo libero e di decidere come trascorrerlo. Le attività strutturate, anche quelle coinvolgenti e creative, non possono infatti costituire la totalità della vita extra-scolastica del bambino. Ampio spazio deve sempre essere concesso al gioco libero, sia che questo venga svolto da solo o con i coetanei, in casa o al parco.

    Dettaglio non trascurabile poi è quello che riguarda la motivazione che induce un genitore a super impegnare il figlio. Spesso, afferma l’esperta, dietro a bimbi molto impegnati ci sono genitori ansiosi; desiderosi che il figlio primeggi sugli magari proprio in quelle attività o discipline sportive nelle quali loro stessi avrebbero voluto distinguersi.

    Il piccolo però deve anche essere lasciato libero di scegliere l’attività extra-scolastica più adatta alle proprie esigenze, desideri e talenti e non deve farci spazientire il suo voler cambiare continuamente alla ricerca delle sue vere e sentite capacità quanto più possibile libero da condizionamenti.

    [Fonte]

    Photo credit | Think Stock

     
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    Litigi tra fratellini, vietato intervenire

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    La tentazione di intromettersi è forte, perché il litigio disturba e i bambini urlano, piangono, si picchiano, insomma fanno di tutto per coinvolgere mamma e papà. “E invece è bene tenersi da parte e soprattutto evitare di cercare il ‘colpevole’ e di chiedere chi è stato". Lo sostiene Daniele Novara, pedagogista e autore del libro 'Litigare per crescere'
    Capita davvero in tutte le famiglie con bambini piccoli: basta un nonnulla per scatenare un litigio tra fratelli. Ed i ‘poveri’ genitori si trovano protagonisti di un arbitraggio di cui farebbero volentieri a meno. Ebbene, il comportamento migliore è proprio quello di non intromettersi nelle piccole scaramucce dei figli e lasciare che se la sbrighino tra di loro. Parola del pedagogista Daniele Novara.

    “È insito nella natura il fatto che due fratellini litighino” esordisce Daniele Novara, pedagogista e direttore del Centro Psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza ed autore di vari libri sull’educazione dei bambini, tra cui “Litigare per crescere - proposte per la prima infanzia” (Edizioni Erickson, Trento 2010): “è la conseguenza della gelosia fisiologica dei fratelli più grandi verso i più piccoli, che sono i nuovi arrivati e, agli occhi del primogenito, vogliono ‘usurpare’ l’affetto di mamma e papà. Specie se, come accade sempre più spesso, si tratta degli unici due figli, che quindi si contendono il ‘primato’.

    Attraverso il litigio i bambini cercano di mettersi in mostra con i genitori al fine di ottenere il loro coinvolgimento, specie quando li vedono distratti dalle proprie occupazioni : non è un caso che i bambini litighino di più quando i genitori sono intenti a fare qualcos’altro - guardare la tv, leggere un libro o lavorare al pc - ed in particolar modo in presenza della mamma, che è colei che accorre subito al primo urlo (a differenza del papà, che di solito non si mobilita più di tanto e quindi non ‘dà gusto’ a litigare); altro momento tipico il ritorno dal lavoro, in cui il bambino reclama le attenzioni dopo tante ore trascorse lontano dal genitore.

    Sono atteggiamenti esibizionistici, il cui scopo non è il litigio in sé ma proprio quello di richiamare l’attenzione e, magari, ottenere il consenso della mamma”.

    Partendo da questi presupposti, il comportamento migliore da parte dei genitori si può riassumere in quattro punti:

    Non intervenire. La tentazione di intervenire è forte, perché il litigio disturba ed i bambini urlano, piangono, si picchiano, insomma fanno di tutto per coinvolgerci. “E invece è bene tenersi da parte e soprattutto evitare di cercare il ‘colpevole’, di chiedere ‘chi è stato’, perché è un atteggiamento che aumenta l’indice emotivo negativo dei figli, li fa sentire inadeguati e fa scattare un meccanismo a spirale, nel tentativo, da parte di chi è risultato colpevole, di dimostrare che non lo è” sottolinea Daniele Novara. Basta solo controllare che i bambini non si facciano male, anche se è difficile che i litigi infantili sfocino in comportamenti realmente pericolosi.

    Non dare la soluzione dall’alto. Al contrario di quel che pensa il genitore, i bambini hanno grandi capacità autoregolative ed hanno le competenze per affrontare da soli le proprie difficoltà: “Il litigio è uno strumento di crescita personale, una palestra di libertà, un’esperienza di contatto, che aiuta il bambino a rafforzare se stesso, gli insegna a stare in mezzo agli altri, a riconoscere i propri limiti” commenta l’esperto; “e poi lo sprona a sviluppare strategie creative, a cercare una soluzione alternativa, che gli procuri soddisfazione e magari gli dia l’occasione per riconciliarsi con il fratello. Intervenire ‘dall’alto’ impedirebbe loro di scoprire e mettere alla prova tutte queste risorse, ostacolando il loro percorso verso l’autonomia”.

    Spronarli a parlarsi. A volte i genitori tendono a smorzare subito la lite perché temono che possa inasprirsi, invece devono aiutare i bambini a confrontarsi, ad esprimere ognuno il suo punto di vista ed esternare le proprie emozioni, ma sempre fra di loro, senza rivolgersi alla mamma e senza chiedere il suo parere. Ad esempio è bene dir loro: “Siete bravi a cavarvela da soli, parlatevi ma senza insultarvi, spiegate l’un l’altro che cosa è successo”. Il genitore deve insomma fare un lavoro di regia, di mediazione, ma non di arbitraggio. Altre volte il genitore tende spontaneamente a schierarsi dalla parte del più piccolo, intravedendo nel comportamento del grande un tentativo di approfittare dell’ingenuità del fratellino per accaparrarsi qualcosa in più. Anche in questo caso, bisogna lasciare che i bambini trovino fra di loro un accordo ed alla fine, qualunque cosa decidano, se sta bene a loro, sta bene a tutti!

    Suggellare l’accordo. L’ultimo passo consiste nel ‘suggellare’ l’accordo: “si può ad esempio tenere un quaderno degli accordi raggiunti, in cui appuntare tutti i patti fatti, o scriverli su una lavagna” suggerisce il dott. Novara. “Ma a volte i motivi del litigio sono così banali che non c’è neanche bisogno di trovare un accordo e tutto finisce lì come è cominciato!”

    Potresti essere interessato a altri articoli della sezione: Psicologia e educazione bambini

    Oppure scambia opinioni e chiedi consiglio ad altre mamme del forum nella sezione Educazione

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    Angela Bisceglia

     
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    Mamma spegni la TV
    Cartoni animati, PC, videogame: troppe ore di fronte allo schermo danneggiano i bambini. Cerchiamo di capire perché e come evitarlo

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    Crescere ed educare un bambino è un lavoro; e non è un mestiere semplice. Che sia chiaro questo innanzitutto. E sia chiaro anche che tutte quelle mamme che concedono ai loro figli un po’ troppa TV perché devono preparare la cena, pulire, riordinare o prendersi cura di uno degli altri figli, non sono novelle Giordano Bruno da ardere in piazza additandole come eretiche. Sono donne, e in quanto tali sono umane.

    Resta il fatto che la TV, di per sé non è uno strumento del diavolo, non fa affatto bene se usata come una sorta di baby sitter cosa che, invece, accade sempre più spesso provocando danni che non si possono più ignorare. Pochi mesi fa, infatti, la rivista Pediatrics ha pubblicato uno studio compiuto dall’Università di Bristol, secondo il quale i bambini che passano più di due ore al giorno di fronte ad uno schermo hanno più probabilità di vedersi ridotte le capacità di comunicazione, concentrazione e apprendimento. E questo a prescindere dall’attività sportiva svolta durante tutto il resto della giornata. Non è solo una questione di contenuti, per cui bisogna evitare che i bambini guardino la tristemente famosa TV spazzatura, ma una questione di fruizione: i tempi veloci del mezzo, che offre tutto e subito, si scontrano con le tempistiche tutte diverse della vita sociale e scolastica.

    Per evitare queste spiacevoli controindicazioni non occorre affatto bandire la scatola magica dalla vita dei piccini, anzi, basta istituire delle regole. Innanzitutto devono esserci degli orari, possibilmente la fascia pomeridiana dato che molti psicologi dell’età evolutiva sconsigliano fortemente quella mattutina, e poi i programmi da guardare vanno scelti con cura, meglio se con un genitore accanto. Il resto del tempo è importante che i bambini e i ragazzi lo trascorrano facendo movimento, facendo sport, relazionandosi ai coetanei, ma anche da soli.

    Saper costruire un gioco è basilare per lo sviluppo di molte capacità che vanno ben oltre quella ludica. Si tratta di riuscire ad ascoltare sé stessi, organizzare in modo coerente i propri pensieri e far corrispondere alla realtà i propri desideri. È fondamentale. Il disegno, la manipolazione di varie plastiline o della pasta di sale, la sperimentazione di varie tecniche di colore, prendersi cura delle bambole o giocare con le macchinine sono attività che non vanno sottovalutate e, soprattutto, che vanno svolte nel mondo reale con gioia e spensieratezza, senza l’audio di una scatola accesa sempre nelle orecchie.

    fonte:http://donna.libero.it

     
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    Uno schiaffo serve?
    Londra ne discute (di nuovo)

    Il ministro della Giustizia britannico riapre il dibattito sulle punizioni corporali in famiglia. Che in Italia non sono vietate. Che cosa ne pensate?
    di Francesca Bussi

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    «Quando i bambini si comportano male, bisogna punirli. I miei genitori lo facevano con me. Non sono contro gli schiaffi, in certe occasioni vanno dati. A volte mandano un messaggio. Ma non desidero che si ritorni ai giorni in cui i bambini venivano picchiati con forza a scuola». Non è stata una buona domenica, quella di Chris Grayling, ministro della Giustizia britannico, due figli di 20 e 14 anni.


    Le sue dichiarazioni al Mail on Sunday hanno fatto scalpore, riaprendo il dibattito sulle punizioni corporali in famiglia e sulle leggi che le disciplinano. In Gran Bretagna, ai genitori non è esplicitamente vietato di schiaffeggiare i propri figli. Ma, con il Children’s Act del 2004, valido in Inghilterra e Galles, non possono più usare la difesa del «giusto castigo» nel caso producano sui bambini lividi, gonfiori, tagli, graffi o escoriazioni. Le loro punizioni non devono produrre più di un lieve arrossamento della pelle. Leggi simili esistono in Scozia e in Irlanda del Nord.

    Ma che cosa si intende per «punizioni corporali» nei confronti dei bambini? Il Comitato Onu sui diritti dell'infanzia le definisce «qualsiasi punizione per la quale viene utilizzata la forza fisica, allo scopo di infliggere un certo livello di dolore o di afflizione, non importa quanto lieve». Nel 2007 oltre un terzo degli Stati membri del Consiglio d’Europa le ha messe fuori legge, anche in famiglia. A oggi, nell’Unione Europea, sono vietate in Svezia, Finlandia, Norvegia, Austria, Cipro, Danimarca, Lettonia, Bulgaria, Germania, Romania, Ungheria, Grecia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna.

    E in Italia? Il codice penale punisce i «maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli» (art. 572 codice penale), o l'abuso di mezzi di correzione (art. 571 codice penale), vieta le punizioni corporali in ambito scolastico ma non espressamente in quello familiare, nonostante alcune sentenze della Cassazione in proposito. Secondo Save the Children, che nel 2012 ha lanciato la campagna “A mani ferme - Per dire no alle punizioni fisiche nei confronti dei bambini", più di un quarto dei genitori italiani di bambini dai 3 ai 16 anni ricorre allo schiaffo, eccezionalmente (49%), qualche volta al mese (22%) o quasi tutti i giorni (5%).

    In generale, i tre quarti delle mamme e dei papà sono convinti che lo schiaffo di per sé sia un gesto prevalentemente violento e non un metodo da utilizzare sistematicamente nell’educazione dei figli. Quando vi ricorrono è in situazioni eccezionali: tra le motivazioni principali, per quasi il 45% ci sono «l’esasperazione, lo spavento, la reazione di un momento», mentre per il 38% si tratta di «voler segnalare in modo inequivocabile che si è superato un limite estremo».

    E voi, che cosa ne pensate? Uno schiaffo ogni tanto «manda un messaggio» o le punizioni corporali in famiglia andrebbero abolite anche in Italia?
    (04/02/2013 10:23)

    fonte:vanityfair.it

     
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    Butta sempre per terra i giocattoli

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    Verso i 6-8 mesi di vita, inizia per ogni bimbo la fase del "lancio degli oggetti": il piccolo butta per terra il suo pupazzo preferito o il sonaglietto, la mamma lo raccoglie e glielo porge, e lui... lo getta nuovamente al suolo. È un comportamento naturale, che fa parte del processo di crescita. Ma fino a quando si può assecondare il bambino e quando, invece, è il momento di cercare di contenerlo?

    Perché si comporta così?

    "Si tratta di una fase del tutto naturale del suo sviluppo, che ha una sua precisa funzione. In quest'epoca, in cui inizia anche a stare seduto da solo, il bambino sta scoprendo che le sue azioni 'incidono' sull'ambiente circostante: lancia quindi gli oggetti per vedere 'cosa succede', qual è il 'risultato' di ciò che fa", spiega Elena Zighetti, pedagogista e psicomotricista a Milano. Non solo: il piccolo si accorge che in questo modo può richiamare l'attenzione delle persone che ha accanto. "Lanciare un oggetto determina la 'risposta' della mamma, che si china, lo raccoglie e glielo ridà", commenta l'esperta. "Si instaura così un'intesa, una comunicazione tra genitore e bebè. Il fatto che un adulto risponda ai suoi richiami accresce nel bimbo la fiducia in se stesso. Inoltre, vedere 'ricomparire' puntualmente tra le mani del genitore l'oggetto che era sparito dalla sua vista diventa una sorta di gioco che lo rassicura sulla persistenza delle cose e delle persone anche quando non si vedono. Il bambino capisce così, ad esempio, che quando la mamma si sposta in un'altra stanza, dopo qualche istante è destinata a ritornare".

    Se "il lancio" continua

    Cosa fare però se, crescendo, il bambino non abbandona questo gesto e, anzi, i genitori hanno l'impressione che lo carichi di aggressività? "Quando il lancio dell'oggetto perdura oltre i 18-20 mesi, è probabile che si stia trasformando in qualcos'altro: diventa, cioè, una sorta di 'scarica emotiva'. Il bambino trasferisce sull'oggetto la propria aggressività", osserva la psicomotricista. "Spesso questo comportamento segnala un disagio, una difficoltà che va compresa. Meglio non vietare il comportamento in sé, rimproverando il bambino ('Questo non si fa!'), ma piuttosto aiutarlo a riconoscere i sentimenti che prova, dai quali appunto scaturisce quel gesto ('Sei molto arrabbiato?'). Si può anche trasformare il 'lancio' in un nuovo gioco, proponendogli determinati oggetti - per esempio, una palla o un cuscino - che possa gettare senza rischi".



    Articolo di Francesca Mascheroni Febbraio 2013

     
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    Parlare con i bambini migliora la loro capacità comunicativa

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    Si dice sempre far ascoltare musica ai bambini faccia bene e sia terapeutico. Verissimo, bisogna iniziare già nel pancione. Non è l’unica abitudine sana. Anche parlare costantemente ai bambini piccoli aiuta a migliorare le loro capacità comunicative e a favorire il loro sviluppo cognitivo più che abituarli alla lettura.

    A questa tesi sono arrivati a un gruppo di ricercatori dell’UK Economic and Social Research Institute e dell’Università di Limerick (Irlanda), che hanno intervistato i genitori di 7.845 bimbi di 9 mesi sul tipo di attività educative e comunicative intrattenute con i figli. Che cosa è emerso? I genitori che chiacchierano con i piccolini, magari mentre caricano la lavatrice o sbrigano le faccende domestiche, stimolano le abilito dei bimbi. I risultati ottenuti sono superiori a quelli delle mamme e papà che si siedono a sfogliare e leggere un libro.

    Questo risultato ha sorpreso un po’ tutti: studi precedenti hanno infatti dimostrato che la condivisione dell’attenzione permessa dalla lettura insieme ai genitori facilita un rapido sviluppo di capacità cognitive come il problem solving. Leggere è importante per aiutare i bambini a sviluppare il vocabolario e non solo, invoglia il bambino alla lettura ed è anche un’attività per stimolare il legame con la mamma e con il papà. Inoltre, è dimostrato che i piccolini abituati a leggere con i genitori hanno meno difficoltà nell’apprendimento.

    Questo nuovo studio non ha messo in discussione quanto già si sapeva sulla lettura, ma hanno aggiunto un altro tassello: parlare con i bambini è estremamente educativo. Secondo i dati raccolti fa aumentare di 4,11 e 3,66 punti la capacità dei bambini di risolvere i problemi e di comunicare, contro un aumento di 1,35 e 0,84 della lettura. Come comportarsi? Ovviamente la scelta migliore è non privare i piccolini di entrambe le attività, se potete e ne avete il tempo.

    fonte:http://www.tuttomamma.com/

     
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    Dalle uno schiaffo! Il video contro la violenza sulle donne e le reazioni dei bambini

    Un video di buoni propositi per l’anno nuovo, un video contro la violenza sulle donne, è quello che, da qualche giorno a questa parte, gira sul web ed ha come protagonisti dei bambini. Dalle uno schiaffo! questo il video in questione, in cui, dopo una piccola intervista e la presentazione della bambina, viene chiesto ai cinque maschietti intervistati, di fare prima una carezza, poi una smorfia ed infine di dare una sberla alla ragazzina di nome Martina.

    Video

    Tutti i cinque bambini rifiutano di picchiare la ragazzina perché, come dice la voce fuori campo, è così che dovrebbe succedere, le donne non si toccano, nemmeno nei rapporti tra adulti.



    Un copione sbagliato secondo tantissimi opinionisti del web, secondo i quali il video darebbe degli stereotipici tipici, ahimè, della società attuale. “Le donne non si toccano nemmeno con un fiore”. La donna non dovrebbe non essere picchiata perché donna, ma semplicemente perché la violenza genera solo violenza e non risolve i problemi. Nel video, la bimba, Martina, aspetta inerme, la decisione dei bimbi che si ritrova davanti. Ancora una volta, secondo i critici, una donna sottomessa al genere maschile.

    C’è poi una parte del mondo del web che ha condiviso il video sulle proprie pagine social, scegliendolo come buono proposito per l’anno nuovo. Di fronte alle terribili percentuali di donne uccise lo scorso anno, questo sembra per loro un buon modo per ricominciare.

    Nel mondo dei bimbi si litiga, così come nel mondo degli adulti. Ma, nel 2015, si spera che in un sano litigio, non conti il sesso, la religione o il colore della pelle.

    Auguriamoci questo per il 2015 appena arrivato.

     
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    6 cose da sapere sui bambini prodigio (e come riconoscerli)</i

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    <i>L’Italia è stata ammessa a far parte dell’European Talent Support Network, che tutela le potenzialità dei bambini “gifted”, cioè dei piccoli genii. Ecco l’identikit dei bambini plusdotati e qualche consiglio per i loro insegnanti


    Finalmente anche l’Italia può mandare avanti i suoi piccoli genii. Nei giorni scorsi, grazie ad Aistap, l’associazione italiana che si occupa di studenti plusdotati, l’Italia è stata ammessa a far parte dell’European Talent Support Network, che organizza ogni anno una tavola rotonda tra i vari paesi per tutelare le potenzialità superiori dei loro piccoli talenti, di solito in età scolare. Grazie all’interesse della materia nell’ambiente accademico italiano e ad alcune associazioni che lavorano da anni sul tema, anche il nostro paese, dove i genii non mancano, può rientrare nei programmi speciali «for Gifted and Talented students». Esploriamo un po’ questo mondo.



    1. Chi sono i bimbi gifted

    Se in una classe di scuola elementare c’è un ragazzino disattento, che disegna durante la spiegazione delle lezioni, che dimostra disinteresse, noncuranza per l’andamento della giornata scolastica e noia, non sempre si tratta di deficit dell’attenzione. Se il bambino in questione appare emotivamente instabile e compensa la noia con l’iperattività, non per questo deve essere vittima di diagnosi di Asperger o di disturbo dell’apprendimento. Potrebbe essere semplicemente troppo in gamba rispetto al resto della classe. A volte, infatti, questi aspetti sono tipici deigifted students o studenti plusdotati, cioè piccoli individui in grado di riconoscere e risolvere aspetti e problemi del mondo senza averne avuto esperienza, dall’intelligenza cognitiva incredibilmente sviluppata, con una capacità di imparare più veloce della media e – quindi – fuori posto nella loro classe o con i coetanei.

    2. Un dono, non un disturbo


    A indurre a un’errata diagnosi è proprio lo sviluppo comportamentale, che non accompagna allo stesso ritmo quello cognitivo. Proprio su questa asincronia si è basata una definizione ufficile di giftedness, per classificare il 5% della popolazione mondiale che ne presenta i “sintomi”. O dovremmo dire “che ne è affetto?” Il rischio, infatti, è che queste capacità mentali superiori spesso a quelle degli adulti, o degli stessi genitori dei bambini geniali, vengano considerate un “disturbo”, soprattutto nella scuola, che può fare l’errore di livellare il loro apprendimento in senso democratico, a quello del resto della classe, con l’alto rischio di sviluppare frustrazione durante le lezioni scolastiche, manifestare tic nervosi o cambiare, addirittura abbandonare la scuola. Per ragioni sociali, politiche, addirittura etiche, si tende a massificare queste speciali competenze invece di incentivarle.

    3. Bambini o “macchine”?


    In questo senso Thomas Frith, famoso in Gran Bretagna per aver partecipato a un programma tv sui bambini “cervelloni” e Nicole Barr, ragazzina appartenente a una famiglia Rom dell’Essex con il quoziente intellettivo di 162, superiore a quello di Albert Einstein e Stephen Hawking, entrambi dodicenni, sono stati fortunati: le loro famiglie e le loro scuole sono riuscite a mandare avanti l’anomala sete di sapere riscontrata nei piccoli, e così mentre Thomas suona quattro strumenti, pratica tre sport, sa cucinare e legge senza difficoltà Il capitale nel XXI secolo di Piketty con tanto di spirito critico, Nicole ha una memoria sopra la media e caratterizzata da incredibile rapidità, capace di risolvere problemi di algebra a 10 anni. Un po’ come Alexis Martin, stesso quoziente intellettivo di Nicole ma che ad appena tre anni ha appreso da sola lo spagnolo dopo aver imparato a leggere scrivere autonomamente nella sua lingua. “Sono macchine” dice qualcuno, ma potrebbero essere la chiave di sviluppo del pianeta. Se valorizzati.





    4. Come si misura il talento


    Uno dei problemi principali nel definire uno studente plusdotato si riscontra nelmetodo: non può trattarsi di un algoritmo matematico o un questionario che misura soltanto il QI sulla base dell’intelligenza logica. Vi sono più fattori, tra le attitudini scolastiche o la creatività, come aveva sostenuto già da qualche decennio l’ex commissario per l’istruzione degli USA, Sidney P. Marland Jr.

    Una definizione obiettiva di competenze in grado di quantificare la giftedness non è semplice

    Robert J. Sternberg, uno dei luminari mondiali dello sviluppo cognitivo, propone una sintesi di saggezza, intelligenza e creatività mentre Joseph Renzulli, direttore delNeag Center for Gifted Education and Talent Development, autore del libro Light up your child’s mind, aggiunge alle elevate abilità in tutti i campi, la creatività, l’impegno e la capacità di portare a termine i compiti. Françoys Gagne, docente di psicologia in Canada ed esperto di educazione per il plusdotati, a sua volta, vi inserisce delle caratteristiche comportamentali, cioè la motivazione e il carattere che dovrebbero catalizzare le capacità innate dei bambini plusdotati.

    Quasi tutti gli stati Usa possiedono un indicatore di giftedness, ma tutti estremamente diversi tra loro.

    Solo la metà di essi considera la creatività una caratteristica valida per definire i super intelligenti, mentre 15 vi aggiungono la capacità di leadership. Ma la passione, il talento artistico, la disciplina personale, l’ispirazione sono fattori “non misurabili”, tanto più con un test logico-attitudinale. Ed è questa la principale critica di alcuni psicologi americani. Alla quale si aggiunge una motivazione di tipo sociale: secondo uno studio del National Bureau of Economic Research, nei programmi per i bambini eccellenti gli studenti che provengono da famiglie a basso reddito o da minoranze risultano sottorappresentati in modo significativo, proprio perché non esiste un sistema scolastico di screening che calcoli la giftedness e che venga somministrato dalla pubblica istruzione. È stato calcolato che se sono istituti privati a tutelare e scegliere i più talentuosi, garantendo un test a pagamento, è ovvia una maggiore presenza di uomini bianchi con l’inglese come lingua madre. Un test universale in realtà è stato messo a punto e utilizzato, anche se per pochi anni (prima che venissero decurtati i fondi): da questo, se non si tiene conto delle diversità socioeconomiche, emerge un aumento notevole di studenti geniali tra quelli economicamente svantaggiati, di colore o ispanici.

    5. Chi la tutela l’élite dell’intelligenza


    Dove fallisce il sistema scolastico, che ad esempio in Italia si occupa poco o nulla di studenti “gifted”, sopraggiungono associazioni che cercano di tutelare e mandare avanti la genialità che andrebbe altrimenti perduta

    Se non coltivate, infatti, le supercapacità diminuiscono col passare degli anni.

    Dal 1946 c’è il MENSA, che raccoglie i cervelli di tutto il mondo con un QI di almeno 30 punti sopra la media (che è stimata intorno a 100). Attualmente il MENSA conta 1300 membri “piccoli” cioè tra i 2 e i 18 anni, dove la più giovane è Georgia Brown, bambina bionda di 24 mesi dell’Hampshire che già a 18 sosteneva conversazioni complesse con adeguato lessico e riconosceva i colori. In Italia poi operano Aistap, Associazione italiana per lo sviluppo del talento e della plusdotazione con numerose iniziative, campi estivi per bambini dai 6 ai 14 anni e dai 14 ai 18 con tanto di formazione docenti nelle scuole; Stepnet, una onlus che offre supporto clinico, didattico e scientifico e la Fondazione Eris con sede a Milano. Molti studi e percorsi vengono invece portati avanti dall’accademia, ad esempio dall’università di Pavia e quella di Padova, mentre un esperimento storico ma che purtroppo non ha resistito ai tagli economici è stato quello di Don Calogero La Placa e della sua fondazione “Villaggio del superdotato” che in provincia di Palermo, al motto di “Mind for Man” ha raccolto e formato negli anni dal 1967 al ‘75 gli studenti eccezionali con un metodo educativo diverso da quello scolastico, basato sul libero apprendimento e sulla non competizione in classe. Molti tra medici che esercitano all’estero, amministratori delegati, project manager sono passati da lì, imparando prima di tutto la libertà e la responsabilità. E naturalmente anche l’uguaglianza, perché alcuni di loro non avrebbero avuto la possibilità di studiare altrimenti.

    Non è accettabile, comunque, che nessuna di queste associazioni di tutela dei genietti sia prevista dalla scuola pubblica o da un ente statale. Non solo, ma è ancora più inconcepibile che alcune scuole si rifiutino di permettere “salti di classe”ai ragazzini con capacità superiori. Un fenomeno all’ordine del giorno fuori d’Italia e che, come molti studi confermano, risulta funzionale allo sviluppo dei “cervelloni”. E ciò che dice Sylvia Rimm, psicologa e direttrice della Family Achievement Clinic di Cleveland: «Non ci sono effetti collaterali» nel permettere al bambino che supera gli altri compagni di classe per capacità di passare a uno o più gradi successivi, «né dal punto di vista scolastico, né da quello sociale».

    6. Suggerimenti per gli insegnanti

    Qualche suggerimento per insegnanti su come comportarsi con gli studenti superdotati in classe ci viene da un gruppo di psicologi americani che hanno selezionato delle frasi, ma più genericamente messaggi utili ad assecondare e stimolare lo sviluppo dell’APC (alto potenziale cognitivo) e altri dannosi e mortificanti:

    Frasi da non dire:

    Se fai queste domande, non dovresti essere in questa classe.

    Smettila di impegnarti così tanto, sei solo un bambino.

    Abbiamo avuto bambini più intelligenti di te in questa scuola.

    Perché ti impegni in tutte queste attività? Perché sforzarsi tanto?

    Si vede che leggi molto. Hai degli amici?

    Fai troppo rumore. Meno male che tu sei quello intelligente!

    Tutti gli studenti in questa classe sono speciali.

    Frasi da dire:

    Dobbiamo andare avanti col programma adesso ma a fine lezione possiamo discutere di quello che vuoi. Sono sempre disponibile ad aiutarti.

    Rivediamo insieme i tuoi obiettivi per il futuro e pensiamo insieme la strada più adatta a te.

    Sei intelligente, motivato e lavori sodo. Dimostriamo che hai imparato i contenuti della lezione.

    Ottimo lavoro. Il tuo impegno nelle attività scolastiche ed extracurriculari è encomiabile!

    Quali sono i tuoi interessi fuori dalla scuola?

    Per favore, non urlare così tanto.

    Tutti gli studenti sono speciali.

    Per quanto riguarda invece le obiezioni “democratiche” ha risposto ampiamenteDavid Henry Feldman, docente all’Università di Stanford con all’attivo numerosi studi sui bambini prodigio, sottolineando l’individualità di ogni studente:«Educazione uguale per tutti vuol dire dare a chiunque le stesse possibilità, non insegnare a ognuno allo stesso modo». Non resta che seguire l’esempio.

    fonte: http://ischool.startupitalia.eu/38507/educ...rodigio-gifted/

     
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  11. gheagabry
     
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    Non tutti i bambini piangono nello stesso modo, dipende dalla lingua della mamma

    Non tutti i bimbi piangono allo stesso modo. Anzi, vi sono delle differenze importanti che sono attribuibili alla lingua parlata dalla mamma. Se si tratta di un cosiddetto linguaggio tonale, in cui è l'intonazione data alle sillabe a determinare il significato di una parola, come nel caso del cinese mandarino o di altre lingue come il Lamso del Camerun, il vietnamita, il Thai, allora il pianto del piccolo sin da subito sarà più melodico.

    E' quanto emerge da una ricerca guidata dall'Università tedesca di Wuezburg, pubblicata su due riviste: Speech, Language and Hearing e Journal of Voice. Gli studiosi hanno analizzato i dati relativi a 21 bimbi tedeschi e ad altri 21 camerunesi nella prima settimana di vita.

    Il cambio di tono, da basso ad alto, nel pianto è stato maggiormente osservato nei piccoli del Paese africano rispetto a quelli tedeschi, e un effetto simile anche se più lieve è stato riscontrato anche nei bimbi di Pechino. "Il loro pianto suona più come una cantilena" spiega la professoressa Kathleen Wermke, autrice della ricerca.

    Secondo gli studiosi i risultati evidenziano che lo sviluppo del linguaggio inizia molto prima di ciò che si potrebbe pensare. I balbettii , per esempio, si pensa siano importanti, ma lo studio suggerisce che questo processo di apprendimento può anche iniziare mentre i piccoli sono ancora nel grembo, in un procedimento noto come 'imprinting' materno.
    (Ansa)
     
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    Il figlio secondogenito è più ribelle e più rompiscatole del primo




    I secondogeniti sono più piantagrane

    C’è una bella differenza tra il primogenito e il secondogenito. A sottolinearlo la scienza e le ultime ricerche a riguardo. Secondo uno studio della MIT Sloan School of Management di Boston – negli Stati Uniti – i secondogeniti sono più ribelli e rompiscatole dei loro fratelli maggiori.

    Gli studiosi hanno indagato per mesi i comportamenti di oltre due milioni di fratelli nati tra gli Anni Ottanta e Novanta in due realtà ben distinte e diverse, quella statunitense e quella danese. Ne è emerso che i figli nati per secondi sono più predisposti a delinquere rispetto ai primogeniti.

    Nell’analisi i ricercatori hanno registrato età e provenienza dei genitori, stato sociale, la distanza temporale tra le nascite, oltre ai dati relativi ai problemi con la giustizia e assenze e sospensioni a scuola.

    In particolare se maschi, i secondogeniti vengono ripresi più spesso a scuola e tendono ad avere problemi con la giustizia.

    Dati alla mano, i ragazzi nati come secondi in famiglia hanno comportamenti problematici dal 20 al 40 per cento in più rispetto ai primogeniti. Ma com’è possibile? A cosa è dovuta questa differenza?

    Secondo gli scienziati la causa principale sarebbe solo una: la quantità di attenzioni rivolte dai genitori ai figli. Con i secondogeniti mamma e papà tendono ad essere più permissivi perché hanno già fatto pratica con i primogeniti. Questo porta i bambini nati dopo, e soprattutto i maschietti, ad approfittarne.

    È la prima volta che viene eseguito uno studio sui secondogeniti. Fin ad ora erano state analizzate solo le caratteristiche dei primogeniti. I risultati? I primi figli, secondo le ricerche degli ultimi anni, sono sempre più intelligenti e più ricchi dei loro fratelli minori.

    Non solo, il primo figlio è sempre più maturo e responsabile: insomma una persona molto affidabile. Dunque, l’ordine di nascita determina la personalità di ognuno di noi.

    fonte:http://www.passionemamma.it

     
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26 replies since 3/10/2011, 20:23   1550 views
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