ANDIAMO AL CINEMA

film in uscita nelle sale

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  1. gheagabry
     
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    Com'è bello far l'amore

    locandina

    Un film di Fausto Brizzi. Con Fabio De Luigi, Claudia Gerini, Filippo Timi, Giorgia Wurth, Virginia Raffaele

    Andrea e Giulia hanno quarant'anni, un figlio adorato, una tata smaniosa, tanta serenità e poca voglia di fare sesso. Voglia perduta negli anni, dentro il quotidiano, dietro la consuetudine, tra come-bello-far-lamore-3duna casa al mare e un'altra in città. Apatica lei, distratto lui, per Andrea e Giulia non è mai il momento giusto per consumare, meglio un fumetto o una rivista di gossip. La visita improvvisa di Max, porno divo residente (e operativo) a Hollywood, sollecita la loro indolenza, costringendoli a fare i conti con le troppe notti 'in bianco'. Amico di vecchia data di Giulia e amatore per professione, Max non lesinerà in suggerimenti e consigli per l'uso, disinibendo le inibizioni ed eccitando la fantasia. Tra anelli vibranti e preservativi ritardanti, il piacere non tarderà a venire.
    Assorbito e smaltito anche quest'anno il cinepanettone, i tempi sono maturi per mettere in produzione e lanciare sul mercato il cinesanvalentino, prodotto romantico e transgenerazionale che frequenta il matrimonio, l'amore e i suoi rimedi. 'Contro' il cinema d'autore, riprodotto nel prologo, caricato di pessimismo cosmico e di virtù fecondanti, Fausto Brizzi realizza un prodotto medio e rigorosamente de-autorializzato, che interrompe brevemente la compostezza perbenista della commedia italiana.
    Con toni fintamente anticonformisti Com'è bello far l'amore racconta un cammino in avanti, verso l'ebbrezza della disinibizione e della trasgressione, che in realtà ne inscena uno all'indietro alla ricerca dell'unico luogo che conti: il focolare domestico. Lontana dall'essere in qualche modo sovversiva, la commedia reversibile di Brizzi (e Martani) è il luogo della riappacificazione familiare dopo una vacanza dal matrimonio. Recuperando volti televisivi (Fabio De Luigi, Michele Foresta e Virginia Raffaele) e facendo circolare un po' di divismo, periferico con Margherita Buy, centrale e centrato con Filippo Timi e Claudia Gerini, Com'è bello far l'amore accoglie il sesso come argomento da offrire alla sorridente riflessione dello spettatore, non disdegnando infiltrazioni drammatiche sempre e opportunamente chiuse tra parentesi comiche. Se poi è vero che gli 'esami' non finiscono mai, questa volta tocca ai quarantenni varcare la linea d'ombra, affrontare una prova dall'esito incerto e accedere a una nuova consapevolezza (sessuale).
    Com'è bello far l'amore non sfugge in ogni caso al bisogno ecumenico di coinvolgere pure il pubblico più giovane attraverso una storia romantica risoltasi sulla voce di Richard Sanderson. E proprio la sua "Reality", dove 'i sogni sono la realtà', fornisce la chiave di un film che abita un mondo fantastico da smontare o costruire all'occorrenza, dove non ci sono esigenze di spazio, territorio, piani regolatori, caro affitti, caro casa, dove il lavoro è relegato dentro un tempo indeterminato o funzionale a esibire una gag.
    Com'è bello far l'amore conferma l'abilità di Brizzi a confrontarsi coi meccanismi industriali e l'ambizione ad 'accomodare' la commedia americana. Se 'ieri' ebbe la brillante intuizione di riscrivere per l'Italia un genere, quello del teen-movie, di riadattare operazioni all star hollywoodiane (Ex e il dittico Maschi contro femmine/Femmine contro maschi), 'oggi' gira una commedia sessualmente connotata che ammicca a quelle eroticamente esplicite di Edward Zwick (Amore & altri rimedi) o di Ivan Reitman (Amici, amanti e…). Una commedia tridimensionale che percepisce la profondità nelle immagini e manca quella dello sguardo, che riconsegna la Gerini al ruolo smaccatamente carnale, concentra De Luigi in un''ecodose' senza mordente e ammorbidente, riempie di parole (a vanvera) l'esuberanza attoriale di Timi.


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  2. gheagabry
     
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    40 carati

    locandina

    Un film di Asger Leth. Con Sam Worthington, Elizabeth Banks, Mandy Gonzalez, William Sadler, Barbara Marineau.

    Un thriller ad alta tensione a 78 metri dal suolo

    Nick Cassidy è un ex poliziotto di New York evaso dalla prigione in cui scontava una lunga pena 1328285029086_40carati4per aver rubato e poi rivenduto (dopo averlo tagliato)un prezioso diamante appartenente a un potente e avido uomo d'affari. Ora Nick si trova sul cornicione di una stanza di uno dei piani più alti del Roosevelt Hotel a 78 metri dal suolo, proclama la propria innocenza e minaccia di buttarsi giù. Paralizzato il traffico e attirata l'attenzione dei media Nick, che ha fornito false generalità, pretende la presenza della detective Lydia Spencer nota all'intera nazione per aver tentato senza successo di evitare un tentativo di suicidio qualche tempo prima. Ciò che la donna cerca di capire è: Nick vuole davvero suicidarsi o ha un altro fine?
    Asger Leth compie il passaggio dal documentario al thriller riuscendo a muoversi con scioltezza attraverso i canoni del genere con l'aggiunta di numerose difficoltà logistiche. Perché questo film è in buona parte girato realmente ai piani alti di un hotel grazie ad accorgimenti tecnici che garantissero al contempo sicurezza e spettacolo. Ancora una volta il titolo italiano tradisce l'originale. È facile comprendere che nella nostra lingua la dizione "uomo sul cornicione" non fosse particolarmente allettante ma in realtà è in questa collocazione spaziale che si concentra tutta la dinamica del film. Un essere umano che minaccia di gettarsi nel vuoto catalizza un'infinità di domande sui motivi del gesto e divide immediatamente, nelle situazioni reali, gli astanti in due settori (anche se non espliciti). C'è chi spera che ci ripensi e chi invece attende il lancio. È quanto accade anche nel film che non si limita a costruire la giusta tensione ma amplia lo sguardo a come si ‘costruisce la notizia' grazie al sulfureo ruolo della reporter affidato a Kyra Sedgwick.
    L'ormai abusata figura del poliziotto innocente incastrato in un gioco più grande di lui viene qui rivitalizzata grazie a una progressiva messa a fuoco di un puzzle che potrà essere meglio apprezzato da chi non avrà visto il trailer che rivela troppo. La sceneggiatura è scritta in modo tale da sembrare pensata da un maestro nel gioco degli scacchi. Ogni mossa e contromossa ha una sua motivazione che lo spettatore è invitato a individuare al fine di cercare di prevedere cosa accadrà in seguito. Il confronto a due (Nick/Lydia) si arricchisce in progress di figure che non sono mai di contorno ma hanno tutte un ruolo preciso nella struttura. Tra tutti risaltano il più giovane e il più vecchio. Da un lato Jamie Bell (che dai tempi di Billy Elliot è cresciuto non solo fisicamente affinando ulteriormente le proprie doti) offre al ruolo del fratello di Nick una molteplicità di caratteristiche. Dall'altro troviamo un sempre più grande Ed Harris che si diverte nel tratteggiare con perfidia il ruolo del rapace magnate David Englander.


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  3. gheagabry
     
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    AL CINEMA OGGI



    War Horse

    locandina

    Un film di Steven Spielberg. Con Emily Watson, David Thewlis, Peter Mullan, Niels Arestrup, Tom Hiddleston.

    Joey è un puledro esuberante, cresciuto libero e selvaggio nella campagna inglese. Separato dalla madre e acquistato per trenta ghinee da Ted, un ruvido agricoltore col vizio della birra, è WarHorse1destinato all'aratro e a risollevare le sorti della famiglia Narracott. Addestrato da Albert, il giovane e ostinato figlio di Ted, Joey ne diventa il compagno di avventura inseparabile almeno fino a quando i debiti e la guerra non chiederanno il conto. Venduto dal padre per far fronte all'affitto della fattoria, Joey diventa cavallo di cavalleria al servizio di un giovane capitano inglese, che promette ad Albert di prendersene cura e di riconsegnarlo a conflitto finito. Ma la guerra, cieca e implacabile, falcerà la vita dell'ufficiale e abbandonerà il cavallo a se stesso.
    Galoppando da un fronte all'altro e attraversando l'Europa della Grande Guerra, Joey tocca la vita e favorisce la sorte di soldati e civili. Albert intanto, raggiunta la maggiore età, si arruola volontario per la Patria e per quel cavallo mai dimenticato.
    Partiamo dal 'giudizio', War Horse è un film sconsolante e minore. Un film con una voglia di semplicità che fa rima con superficialità, che intende la messa in scena (solo) come scenografia, impiega in maniera evocativa e incalzante la banda sonora e musicale, è incapace di colmare spazi e personaggi di un valore metaforico. I suoi sentieri, arati o selvaggi, sono lontani dalla sensibilità formale di John Ford e prossimi a un melodramma familiare, pieno di ostacoli, dipartite e struggimenti. Eppure importa capire che cosa emerge dietro il kolossal e la grandeffettistica, dietro l'aspetto e la scrittura molto (troppo) americani.
    War Horse rimette in circolo il conflitto, muovendosi sul confine incerto che separa e unisce il fascino spettacolare della guerra dal suo irremovibile orrore. Per Spielberg si tratta daccapo di congiungere il percorso della Storia (qui la Prima Guerra Mondiale) con la narrazione e il punto di vista del singolo. Niente di nuovo sul fronte hollywoodiano, certo, ma se quel singolo da salvare sullo sfondo di una carneficina è un cavallo la questione si fa più interessante. Secondo titolo zoofilo della filmografia spielberghiana, dispensando i sauri di Jurassic Park, clonati e riportati artificialmente in vita in un contesto ecologico mutato, War Horse fa il paio con Lo squalo, lavorando sull'archetipo dell'altro e giungendo alla medesima conclusione: la bestia al cinema agisce soltanto per essere uccisa. Squali, balene, gorilla incarnano sullo schermo l'alterità, la minaccia, il pericolo da sopprimere, esorcizzare, eliminare. Tuttavia il destino di Moby Dick o King Kong lo sopportano pure i Lassie, i Rin Tin Tin o qualsiasi altro animale antropomorfo della Disney, la cui disinvolta omologazione con quello che noi siamo, dimostra una volta di più la rimozione della diversità di cui la bestia è naturalmente portatrice. Il film di Spielberg, sprofondato con gli zoccoli nel fango delle trincee, attribuisce al suo protagonista equino valori e pulsioni umane secondo un modello classico che viene da Esopo e da Fedro. Se lo squalo di Amity Island nuota nel mare del perturbante e rappresenta uno spietato predatore da abbattere, il cavallo del titolo cavalca le praterie del meraviglioso e sviluppa un rapporto privilegiato con gli uomini che incrocia e che lo scampano alla morte. Il personaggio Joey frena l'istintività a vantaggio delle potenzialità simboliche, sfruttate dal regista in maniera esplicita attraverso immagini che scadono nel quadretto didascalico. Le visioni dell'animale assumono connotazioni drammatiche o ricreative, rispecchiando la condizione del 'proprietario' o della circostanza di turno. Regista del movimento, Spielberg (ri)trova se stesso e la lirica bestialità di Joey dentro la battaglia e una sequenza epica che commuove e turba, avviando una cavalcata febbrile interrotta nella 'terra di nessuno', tra le trincee avversarie e nell'abbraccio straziante del filo spinato.
    Candidato all'Oscar insieme a The Artist e Hugo Cabret, War Horse condivide coi più meritevoli concorrenti le origini del cinema, dove insieme al silenzio e alla fantasmagoria, troviamo il cavallo, (s)oggetto delle prime analisi cronofotografiche del movimento di Muybridge. Un cavallo da corsa pronto a solcare lo spazio selvaggio del West e del western a venire.


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  4. gheagabry
     
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    Mother of Rock: Lillian Roxon

    locandina

    Un film di Paul Clarke. Documentario, durata 74 min. - Australia 2010.

    Un ritratto sincero e interessante di una donna che era avanti di 30 anni rispetto alla sua epoca
    Tirza Bonifazi

    Dietro a ogni grande rockstar si cela un grande promoter. E Lillian Roxon fu una delle più grandi promotrici del glam rock. Così la definisce Alice Cooper nel documentario di Paul Clarke che racconta la vita della madre del rock attraverso le parole di amici, artisti e personaggi che ebbero a che fare con lei nel bene e nel male.
    Utilizzando frammenti di film d'epoca, fotografie, filmati, registrazioni di telefonate e una serie di interviste (recenti) – a Cooper, Iggy Pop, la femminista Germaine Greer, il giornalista Danny Fields e Lisa Robinson di Vanity Fair tra gli altri –, Clarke ricostruisce la vita della Roxon mettendo in evidenza l'importanza che la giornalista e autrice di quella che divenne la prima enciclopedia rock della storia – per la quale è tuttora celebre – ebbe nella musica. Lillian capì per prima che il rock avrebbe cambiato il mondo e si assicurò un posto in prima fila. Lo spettacolo stava per cominciare e lei, in parte, contribuì alla rivoluzione che iniziò nel locale del momento, il decadente Max's Kansas City dove tutto era permesso e possibile.
    Se da una parte il documentario si concentra sulla natura indipendente, provocatrice e libertina della Roxon, dall'altra immortala – talvolta con indiscrezione – l'appassionante scena bohèmien (e lussuriosa) di New York ai tempi in cui, grazie alla Factory di Andy Warhol, l'arte incontrò la musica e diede vita a un nuovo genere: il punk. Tuttavia Clarke vi arriva per gradi, partendo dal 1959, l'anno in cui la giornalista si trasferì in America, quando il paese viveva il suo momento più paranoico, con la paura di una guerra atomica nell'aria, quasi a spiegare l'evolversi della scena.
    Narrato dall'attrice australiana Judy Davis, con la collega e connazionale di Davis, Sacha Horler, a dare la voce a Lillian Roxon nelle letture dei suoi propri scritti, Mother Of Rock è un ritratto sincero, vagamente pop(art), snello e decisamente interessante di una donna che era avanti di trent'anni rispetto alla sua epoca e che se ne andò giusto in tempo per mettere una firma indelebile nella storia del rock.


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  5. gheagabry
     
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    PROSSIMAMENTE AL CINEMA

    Knockout - Resa dei conti

    locandina

    Un film di Steven Soderbergh. Con Gina Carano, Ewan McGregor, Michael Fassbender, Michael Douglas, Channing Tatum.

    Un film dal ritmo blando sostenuto dall'eccezionale interpretazione di Gina Carano
    Gabriele Niola


    Mallory Kane è una delle armi più pericolose in mano al governo degli Stati Uniti, spia con licenza d'uccidere, addestrata e letale con un passato nei marine. Come spesso capita in questi casi arriva un momento in cui la sua presenza è superflua e va eliminata nel modo più radicale. Affidatale una missione pretestuosa un collega tenta di farla fuori quando meno se lo aspetta, intuito il pericolo e sventato l'omicidio Mallory Kane scappa. La sua unica possibilità di salvezza è fare fuori tutta la catena del potere che la vuole morta.
    Attraverso un racconto di vendetta estremamente canonico, che batte tutti i luoghi comuni del genere senza vergogna, Sodebergh porta avanti e insieme radicalizza la sua poetica di donne forti, sempre tenendo saldo il corpo come principale veicolo di comunicazione.
    Dopo la tenacia jeans e camicetta di Erin Brockovich e il sesso d'alto bordo raccontato attraverso la vera pornostar Sasha Grey (in The girlfriend experience, inedito in Italia), Knockout, pur non regalando sorprese dal punto di vista della trama, colma un gap finora mai considerato (almeno dal cinema di serie A statunitense) proprio grazie alla scelta del corpo da ritrarre.
    A menare senza sosta Michael Fassbender, Ewan McGregor (in una scazzottata controluce sul bagnasciuga che ricorda l'inizio di Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà), Channing Tatum e, fuoricampo, Antonio Banderas è infatti Gina Carano, campionessa di Muay Thai e poi di Arti Marziali Miste prestata al cinema. Di lottatori autentici diventati attori ce ne sono infatti decine, di donne lottatrici, dotate di sguardo intrigante, volto da star e presenza scenica degna di un film di primo piano nessuna, solitamente quella è materia da B movie. Gina Carano è la prima a fare quello che nel cinema asiatico è la regola, ovvero portare anche il corpo della donna ai confini atletici, esplorandone la plasticità in una dimensione che non è quella del ballo ma quella (cinematograficamente attigua) della violenza.
    Se la girandola di tradimenti e voltafaccia che porta avanti la trama di Knockout non pare essere stata frutto di grande perizia in fase di scrittura, lo è invece la Mallory Kane interpretata dalla Carano, contractor destinata alla morte che si ribella al destino che i superiori hanno deciso per lei partendo alla caccia del suo boss (coincidentalmente anche ex ragazzo). La donna in fuga è dotata di un dinamismo e un furore che non la farebbero sfigurare in qualsiasi pellicola d'azione pura, riempie le scene pensate per lei da Sodebergh e dimostra con i fatti e non con le parole (anche in originale è stata doppiata) come il corpo femminile sullo schermo possa essere piegato e declinato in molti modi diversi dal monotono fuggi-e-fatti-catturare che Hollywood predilige o dal machismo/maschilismo dei film (americani) con Cynthia Rothrock.
    Quindi si perdona a Sodebergh il ritmo blando del film, il montaggio non impeccabile delle sequenze più complesse (limitare ancora di più gli stacchi e dare più spazio alle performance reali di Gina Carano sarebbe stato opportuno), l'inesperienza nell'action movie e il suo stile invadente, qui più fuori luogo che mai, davanti alla messa in scena di uno dei più lampanti esempi di ripensamento della donna al cinema, a partire da quel suo corpo che spesso è il pretesto per uno sminuimento.


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  6. gheagabry
     
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    Un giorno questo dolore ti sarà utile

    Un film di Roberto Faenza. Con Toby Regbo, Marcia Gay Harden, Peter Gallagher, Lucy Liu, Aubrey Plaza.

    locandina


    Il ritratto asciutto e lineare di un ragazzo curioso in balia di una ribellione silenziosa

    Marzia Gandolfi

    James Sveck ha diciassette anni e nessuna voglia di essere raggiunto. Dal cellulare, che un-giorno-questo-dolore-ti-sar-utile-toby-regbo-lucy-liu_midbutta in un bidone artistico, e dagli adulti che lo vorrebbero consumatore di oggetti e affetti. Figlio di genitori separati e fratello minore di una sorella maggiore invaghitasi di un professore di teoria del linguaggio, James rifugge il mondo e comunica soltanto con Nanette, nonna di buon senso e di buon cuore, e Miró, un cagnetto nero che si crede umano. Deciso a non frequentare l'università e ad acquistare una vecchia casa nel Midwest in cui leggere libri e lavorare il legno per il resto della vita, il ragazzo è incalzato da mamma e papà che lo vogliono cool e realizzato. Gallerista con tre matrimoni falliti alle spalle, la madre, Peter Pan incallito col vizio della chirurgia estetica, il padre, i genitori di James corrono ai ripari e lo invitano a incontrare una life coach che gli indichi la via per il successo (sociale). Sensibile e umana la sua terapista ne accerterà la grande sensibilità, esortandolo a vivere secondo le regole del suo cuore.
    Come il celebre Holden di Salinger, James ha pochi anni e poca stima per quel mondo adulto che vede approssimarsi con la sua arrogante apparenza. Come Holden, ancora, è sospeso tra ‘un'infanzia schifa' e le ‘cose da matti' dei grandi, tra le panchine di Washington Square e i laghetti di Central Park, da dove partono ma non si sa mai “dove vanno a finire le papere”. Dietro James però c'è una New York meno accessibile alla narrazione che prova a ricostruire la sicurezza in se stessa ricominciando a raccontare e a raccontarsi. Trasposizione del romanzo omonimo di Peter Cameron Un giorno questo dolore ti sarà utile è il secondo film americano di Roberto Faenza, che guarda agli adolescenti della solidissima tradizione letteraria statunitense e realizza il ritratto di un Un-giorno-questo-dolore-ti-sar%C3%A0-utile-foto-003ragazzo complesso, profondo e curioso che ha il volto e la sensibilità di Toby Regbo. Dalla New York indagata dal tenente di Harvey Keitel (Copkiller – L'assassino dei poliziotti), il regista torinese procede a indagare un adolescente che in quella stessa città avvia una ribellione silenziosa provocata dalla sua inquieta e dolorosa esplorazione. James ha la saggezza e la pulizia che manca agli adulti in scena e intorno a lui, mai giudicati dal regista ma accolti con le loro ossessioni, quella di adescare mariti o quella di collezionare sottane. A equilibrare una genitorialità eccentrica e la sua grottesca simulazione di giovinezza, ci pensa la nonna di Ellen Burstyn, che esclude il modello del ‘si fa così' incoraggiando nel nipote la capacità di produrre la sua differenza e di spiazzare quello che la società si aspetta da lui.
    Asciutto e lineare, il film di Faenza aderisce al romanzo di formazione di Cameron cogliendone l'anima, le percezioni sociali, le relazioni interpersonali, le visioni sulla realtà, l'aria del tempo, la ‘normalità' intesa come rinnovamento morale e non come routine sclerotizzata. Nell'attesa di non andare al college e dentro una galleria in cui nessuno compra mai niente, il giovane James capirà che non ci si può sottrarre alla vita anche se ancora non si sa che cosa si vuole da quella vita. Ma per viverla un giorno il dolore accumulato gli sarà utile insieme a quelle cose che la nonna gli ha lasciato. Un tesoro custodito nel cuore e in un deposito climatizzato di Long Island City.

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  7. gheagabry
     
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    Posti in piedi in paradiso

    locandina

    Un film di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Micaela Ramazzotti, Diane Fleri.
    Commedia di situazione sulla crisi moderna che straripa in personaggi e microstorie
    Edoardo Becattini

    Tre uomini divorziati ed estremamente diversi per carattere e abitudini decidono di Posti-in-piedi-in-paradiso-film-2012-foto-e-trailercondividere un fatiscente appartamento romano per venire incontro alle difficoltà economiche dettate dalla crisi e dalle personali debolezze. Ulisse gestisce un negozio di vinili e di memorabilia del suo glorioso passato di produttore discografico; Fulvio è stato un importante critico cinematografico prima di finire a scrivere di gossip e starlette a causa di una relazione epistolare intrattenuta con la moglie del suo caporedattore; Domenico, invece, è un agente immobiliare scapestrato che il vizio del gioco e delle donne ha ridotto a vivere dove capita e a dover pagare gli alimenti a un numero di figli e di famiglie imprecisato. I tre vitelloni si ritrovano a fare i conti con una difficile convivenza, finché una sera Domenico, che arrotonda le entrate come escort, viene colto da un malore dopo aver preso troppo viagra e fa chiamare a casa Gloria, una stramba cardiologa con seri problemi sentimentali.
    In tempi di recessione economica e artistica, Carlo Verdone decide di non risparmiare nulla della sua personalità di attore e regista nel misurarsi con la “nuova” commedia italiana ai tempi della crisi. Posti in piedi in paradiso concentra ogni momento della commedia verdoniana: c'è il Verdone comico dei personaggi coatti, pignoli e ingenui (in questo caso condivisi con Pierfrancesco Favino e Marco Giallini); c'è il Verdone intimista dei conflitti familiari e delle nevrosi affettive; e c'è in parte anche il Verdone del racconto corale che cerca di tracciare un profilo sociale a partire da un insieme di caratteri molto diversi. Ne esce una “commedia di situazione”, ricca di personaggi e di relazioni, di microstorie e di umori, dall'impostazione quasi teatrale.
    Due sono i blocchi fondamentali che la caratterizzano. La prima parte lavora sui meccanismi comici classici dettati dall'interazione fra uno “strano trio” di divorziati, in cui fra l'Ulisse pignolo e stressato di un Verdone che rifà se stesso e il Domenico tronfio e cialtrone di un Marco Giallini a metà fra Vittorio Gassman e Christian De Sica, si immette la figura mediana del Fulvio di Pierfrancesco Favino (forse quella più rappresentativa dell'uomo medio moderno, grazie al suo carattere al contempo imbranato e meschino, educato e cattivo). In questa fase, gli attori funzionano, mentre le gag fanno la spola fra il recupero della commedia all'italiana e la faciloneria del nazional-popolare. La seconda parte smembra progressivamente il trio per concentrarsi sui sentimenti attraverso il rapporto fra il personaggio di Verdone e quello di Micaela Ramazzotti e le relazioni fra padri e figli.
    In questo ampio girotondo di anime e di caratteristi, si riconosce il tentativo di ampliare lo sguardo e la drammaturgia della commedia ordinaria, ma, allo stesso tempo, troppi sono i cambi di direzione, così come i momenti superficiali e meramente illustrativi. È come se Verdone più che cercare di narrare la realtà, giocasse a riempire il suo film di personaggi e di situazioni sfaccettate per prendere tempo e declinare umoristicamente tutte le possibili sfaccettature dell'attuale crisi, prima di decidere su quale di queste dirigere il senso del racconto.
    Non proprio un film sulla crisi economica o sul dissesto della famiglia, non proprio un film sull'amicizia maschile o sulla stasi sentimentale, non proprio un film sulla nostalgia del passato e su un presente miserabile (l'aggettivo più ricorrente all'interno del film), Posti in piedi in paradiso cerca di raccontare tutto questo ma senza una precisa coerenza o unità. Né comico, né malinconico, il paradiso amaro di Verdone lascia posto solo a un messaggio consolatorio in cui la realizzazione delle generazioni dei figli scagiona i fallimenti di quelle dei padri. Speranza legittima e lodevole, ma che dimentica che se per i genitori ci sono solo posti in piedi, per i loro figli, al momento, non c'è neanche una lista d'attesa.


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  8. gheagabry
     
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    Ti stimo fratello

    locandina

    Un film di Paolo Uzzi, Giovanni Vernia. Con Giovanni Vernia, Maurizio Micheli, Susy Laude, Stella Egitto, Bebo Storti.

    Una vicenda esile che produce il pretesto per i nonsense deliranti dell'alias televisivo
    Marzia Gandolfi


    Giovanni è un ingegnere elettronico fresco di laurea in cerca di un lavoro e di un amore. ti-stimo-fratello-giovanni-vernia-foto-dal-film-13_midLasciata Genova per la più produttiva Milano, è raggiunto presto e con risultati rovinosi da Jonny, gemello diverso col vizio della house music e l'inettitudine al pensiero. Occupato presso un'agenzia pubblicitaria e legatosi sentimentalmente alla tirannica figlia del suo capo, Giovanni deve fare fronte alle continue incursioni del fratello, sistemato a casa sua e in attesa dell'esame per entrare nel corpo della Guardia di Finanza. Ossessionato dalla discoteca e da una ragazza intravista tra una gazzosa e una performance ipnotica, Jonny scompaginerà la vita convenzionale di Giovanni, rivelandone la spontaneità e chiarendone una volta per tutte le ambizioni professionali e sentimentali.
    Dei tanti, troppi e inflazionati personaggi di Zelig, Jonny Groove era il più difficile da pensare sul grande schermo perché 'agito' da sole pulsioni ritmiche e privo di qualsiasi radicalità comica. Portatore di un giovanilismo ebete dentro jeans muccati, Jonny Groove è un fenomeno di costume senza un atteggiamento nei confronti della vita, senza un 'discorso' da articolare, senza una prospettiva morale (condivisibile o meno). Da questa assenza e insufficienza deriva la necessità di raddoppiare il personaggio e sdoppiare l'attore.
    Giovanni Vernia, che in Ti stimo fratello mantiene il suo nome reale, è allora colui che abita il film e agisce la storia, accordando al più celebre gemello le (in)terminabili figurazioni ritmiche sui tappeti armonici della house e del Gilez. Sfruttato fino all'esaurimento sulle tavole dell'Arcimboldi, Jonny parte quindi svantaggiato se confrontato a quelle formidabili macchine comiche che sono Aldo, Giovanni e Giacomo, Salvo Ficarra e Valentino Picone e ancora Alessandro Besentini e Francesco Villa. Capaci di stemperare il comico delle loro tradizionali gag in un impianto narrativo ambizioso ma compiuto, le ‘tre formazioni' hanno realizzato commedie scanzonate e amare, esilaranti e problematiche, malinconiche e divertenti, che percepiscono le incongruenze nelle regole del mondo, in quello che è serio, sacro, nobile.
    Giovanni Vernia e Paolo Uzzi investono più prudentemente nel ‘già visto', allestendo una vicenda esile che produca il pretesto per i nonsense deliranti dell'alias televisivo, eletto a 0-Giovanni_Vernia_con_Diego_Abatantuono_nel_film_Ti_stimo_fratelloprotagonista di un percorso di (de)formazione, che contrappone all'arido (e corrotto) mondo delle convenzioni sociali la demenziale sfrontatezza di un paladino del nulla. Come per Zalone prima di lui, l'epopea sgangherata e irrisoria di Jonny Groove non proviene da una poetica cinematografica, da filoni tradizionali della commedia all'italiana o da riviste da avanspettacolo ma dalla traduzione moderna del genere che è il cabaret televisivo. Si aggiunga poi che se ieri il cinema per un comico rappresentava il momento culminante e la certificazione di una carriera nello spettacolo, oggi è più banalmente l'anello di uno dei tanti territori su cui applicare la propria identità multimediale. Niente impedisce la compresenza su media e piattaforme differenti, sia inteso, ma alla lunga certi volti e certe situazioni finiscono per venire a noia. Eppure ci risiamo. Zelig presta al cinema un altro cabarettista e ipoteca il sogno di un altro successo, ‘mungendo' l'ennesima identità televisiva, popolare e sedimentata.
    Se Luca Medici fonda il suo umorismo sul gioco di parole proprio delle canzonette ‘demolite' in tv, Vernia svolge e rende comprensibile la fisicità ottusa del ‘suo', tenendo sottotraccia una sorta di mormorio anti-istituzionale (il padre ufficiale della Finanza corruttore, il quasi suocero evasore) e procedendo per addizioni di battute comiche piuttosto che per evoluzione del testo. In conclusione la messa in scena di Ti stimo fratello uguaglia il nulla visivo e intende l'inspiegabile necessità di mostrare Vernia su uno schermo più grande e dentro una sala più buia.



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  9. gheagabry
     
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    Anvil! The Story of Anvil

    locandina

    Un film di Sacha Gervasi. Con Kevin Goocher, Glenn Gyorffy, William Howell, Kudlow Steve 'Lips', Lemmy.

    Un film su fallimento e rinascita, un omaggio all'amore per la musica
    Tirza Bonifazi


    Sapere di essere stati a un passo dal successo (eterno) e ritrovarsi a suonare in piccoli club per un centinaio di fan della prima ora, sempre gli stessi, avrebbe dissuaso qualsiasi gruppo dal continuare a provarci per trent'anni. Prendete gli Anvil di Toronto, per esempio. Pionieri di un genere, lo speed metal, poi esploso con una nuova generazione di affiliati, sparirono nel nulla poco dopo essere stati sul punto di esplodere nella scena che avrebbe dato alla luce Metallica, Slayer, Megadeth e gli Anthrax, che iniziarono la loro carriera proprio come cover band della formazione canadese.
    Lontano dalle luci della ribalta, i due fondatori del gruppo – il cantante e chitarrista Steve “Lips” Kudlow e il batterista Robb Reiner – hanno continuato a suonare e dare alle stampe disco dopo disco per tre lunghi decenni senza far rumore, finché un ex roadie non si è fatto vivo per documentare la loro storia in un film.
    L'ex roadie era Sacha Gervasi, che nel frattempo si era fatto un nome a Hollywood come sceneggiatore di The Terminal, e il film è finito per diventare Anvil! The Story of Anvil.
    Che sia chiaro, questo non è un documentario dedicato ai fanatici del metal in tutte le sue declinazioni. Prima ancora di essere la rappresentazione di un genere o di un'epoca è il ritratto umano di due appassionati ed entusiasti musicisti che non hanno mai abbandonato il sogno che avevano da ragazzini di suonare insieme anche da vecchi. La camera li riprende a cinquant'anni, mostra la loro vita decadente –la famiglia a carico, il lavoro ordinario, i fan nostalgici a cantare a squarciagola i primi (e unici) successi in birrerie di periferia– illuminata solo dalla luce che s'accende dal vivo.
    È, ancora, un omaggio all'amore per la musica ed è anche un film sul fallimento e sulla rinascita. La macchina da presa si spinge nei backstage di sgangherati e disastrosi tour europei, riprende il processo creativo della registrazione di un album (il tredicesimo), le liti, la frustrazione di sentirsi dire di essere stati un tempo immensi, la grande promessa del metal abbandonata e incustodita dall'industria discografica.
    La regia, sobria, tipicamente documentaristica, vagamente reality show, dà spazio alle interviste (tra le quali le testimonianze delle star del metal come Lemmy dei Motörhead, Slash dei Guns N' Roses, Lars Ulrich dei Metallica e Scott Ian degli Anthrax) e crea un paradosso tra presente e passato utilizzando gloriose immagini d'epoca per sottolineare il declino odierno.
    Anvil! The Story of Anvil è uno dei migliori e tra i più ispirati documentari realizzati nel mondo della musica, sia per l'interessante svolgimento sia per il suo contenuto emozionale. È un film per chi ha smesso di credere e per chi pensa che il successo sia sinonimo di fortuna (o di una raccomandazione di amici) e non di duro lavoro.


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    10 regole per fare innamorare

    Un film di Cristiano Bortone... Con Guglielmo Scilla, Enrica Pintore, Giulio Berruti, Fatima Trotta, Pietro Masotti.

    locandina

    Due generazioni a confronto
    Come conquistare una donna in dieci mosse. Questo l’insegnamento che Renato (Vincenzo Salemme), chirurgo estetico di successo e donnaiolo indefesso, vuole impartire a Marco (Guglielmo Scilla), il figlio diciottenne alle prese con un amore apparentemente irraggiungibile. Cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto però cambia: gli esiti possono essere esilaranti se ad applicare il decalogo dell’amore è qualcuno decisamente timido e impacciato come il giovane protagonista della storia.
    Vincenzo Salemme è uno degli attori comici più noti e apprezzati in teatro e al cinema. Gugliemo Scilla (in arte Willwoosh): esploso in rete con divertenti sitcomedy autoprodotte, i suoi video su Youtube hanno raggiunto in breve milioni di click, facendolo emergere come un nuovo fenomeno mediatico. Due generazioni a confronto: il palcoscenico da una parte, Youtube dall’altra. Un divertente gap generazionale nella finzione e nella realtà!


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    Non me lo dire

    locandina

    Un film di Vito Cea. Con Uccio De Santis, Mia Benedetta, Aylin Prandi, Nando Paone, Umberto Sardella.

    Ritrovare se stessi facendo ridere gli altri
    Lello è un noto attore comico impegnato con la sua compagnia teatrale in una fortunata tournée che lo porta a calcare i palcoscenici di numerosi e prestigiosi teatri. Una sera come tante, rientrando a casa, trova un biglietto della moglie Silvia che, stanca dell'arroganza e della presunzione del marito, ha deciso di lasciarlo. Lello entra in crisi e abbandona il teatro, mettendo in seria difficoltà la compagnia che, senza il suo leader carismatico, non riscuote più i successi di un tempo. Per combattere la depressione, Lello si rivolge ad uno psichiatra, che gli prescrive una cura alquanto bizzarra: ritrovare l'entusiasmo per il lavoro attraverso l'affetto dei suoi fans. Perché far ridere, in fondo, allevia le sofferenze di molte persone ed aiuta a prendere la vita con più ottimismo. E sarà proprio in questo viaggio alla ricerca dei suoi sostenitori che Lello ritroverà se stesso, imbattendosi in una serie di stravaganti personaggi e di rocambolesche avventure, che lo condurranno ad un incontro inaspettato. Ma forse non tutto è come sembra…

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    The Double

    locandina

    Un film di Michael Brandt. Con Richard Gere, Topher Grace, Tamer Hassan, Stana Katic, Stephen Moyer

    Una spy story che scopre troppo presto le sue carte
    Giancarlo Zappoli

    Paul Shepherdson, un agente CIA in pensione, viene richiamato in servizio in seguito the-doubleall'uccisione di un senatore che aveva rapporti con la Russia. Le modalità dell'omicidio fanno pensare al ritorno sulla scena di un killer sovietico da tempo inattivo il cui nome in codice era Cassio. ‘Era' perché Shepherdson, che gli aveva dato la caccia per anni, a un certo punto aveva comunicato di averlo ucciso. Chi non è convinto che Cassio sia morto è il giovane agente FBI Ben Geary che ha dedicato i suoi studi proprio alla figura dell'assassino. Per quanto riluttante Shepherdson gli si deve affiancare in una nuova ricerca di cui è certo di conoscere l'esito.
    Il problema di The Double è che allo spettatore viene comunicato l'esito di cui sopra (cioè l'identità di Cassio) trenta minuti dopo l'inizio del film. Una scelta del genere se la poteva permettere Alfred Hitchcock non certo Michael Brandt, qui al suo esordio come regista. Brandt, che scrive la sceneggiatura in coppia con Derek Haas, ha steso, sempre con Haas nel recente passato, le apprezzabili sceneggiature di Quel treno per Yuma, Fast & Furious e Wanted - Scegli il tuo destino.
    Questa volta però il gioco non riesce. Perché da quel momento la storia si trasforma in un susseguirsi di colpi di scena per tenere desta un'attenzione che risulta priva di sostegno. Anche perché se Gere ha l'understatement (che ormai gli conosciamo da tempo quasi immemorabile) che è utile al personaggio, Topher Grace non possiede sufficiente appeal per tenergli testa e quindi anche il gioco di coppia si squilibra. Le spy story post guerra fredda come questa debbono essere sufficientemente intricate per stimolare chi guarda a cercare di decodificarne l'intreccio ma debbono anche autogiustificarsi. Qui tutto viene semplificato ritenendo forse che sia sufficiente alzare il volume della colonna sonora musicale per ottenere l'effetto desiderato.
    Oltre all'interessante prima mezzora c'è anche un elemento che trasforma il film in una specie di sensore. Hollywood torna a guardare all'Est come a un non solo potenziale pericolo. Richard Gere, che già nel 1997 con L'angolo rosso - Colpevole fino a prova contraria aveva segnalato la non democraticità della nuova Cina, risponde ancora una volta all'appello.


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    AL CINEMA OGGI

    Magnifica presenza

    locandina

    Un film di Ferzan Ozpetek. Con Elio Germano, Paola Minaccioni, Beppe Fiorello, Margherita Buy, Vittoria Puccini.

    Tra picchi emotivi, distensioni comiche e una partecipazione compassata, Ozpetek realizza il suo miglior film.
    Marzia Gandolfi


    4848484-magnifica-presenza-Ferzan-Ozpetek-300x199Pietro Ponte è un giovane uomo che inforna cornetti di notte e sogna di fare l'attore di giorno. Lasciata Catania per la capitale, cerca e trova casa a Monteverde. Entusiasta dell'appartamento e di una vita ancora tutta da realizzare, si accorge molto presto di non essere solo e di condividere il suo spazio con misteriosi inquilini, che ‘appaiono' e ‘scompaiono' turbandone il sonno e le notti. Le presenze, distinte e magnifiche, sono ombre di attori di un'altra epoca e di un'altra storia. Prigionieri di un passato nemmeno troppo remoto, la compagnia chiede a Pietro di aiutarli a recuperare la libertà perduta. Tra provini brillanti e cornetti fragranti, il ragazzo imparerà a convivere coi ‘propri' fantasmi, indicando loro la porta di casa e un nuovo tempo da abitare.
    C'è spesso un incontro al centro del cinema di Ferzan Özpetek, uno sguardo altro che diventa strumento di ricomposizione dell'io. Accadeva alla dirimpettaia di Giovanna Mezzogiorno, pasticcera mancata che spiava oltre i vetri l'intimità di uno sconosciuto, accade al pasticcere perfezionista di Elio Germano, oggetto scopico di una compagnia di fantasmi, che dilagano in un continuo ‘far scena' sullo sfondo della scena principale. Eleganti nei loro abiti démodé, le ombre di Magnifica presenza pretendono attenzione, si donano allo sguardo di Pietro e si specchiano nei suoi occhi, per ‘inscenarsi' finalmente davanti ai propri. Perché è solo guardandosi da ‘una finestra di fronte' che si annulla l'alienazione e ci si ricostituisce come soggetti. Costretti in cattività e a insidiare il presente di inquilini sgomenti, gli attori di una compagnia che fu cortocircuitano il passato e il presente, la Roma di ieri e quella di oggi, traghettando il protagonista e lo spettatore in un altro spazio e in un tempo altro, in cui si è svolto il dramma che li travolge. Indagando su quelle presenze gentili e sui loro anni sconosciuti, il protagonista si riappropria gradualmente della propria ‘stagione', impegnandosi a vivere in un mondo migliore e non limitandosi soltanto a sognarlo. Il Pietro ‘magnifico' di Elio Germano eredita la saggezza pasticcera di Massimo Girotti, corpo-cinema che incontrava e convertiva la Mezzogiorno, e diventa autore di sei personaggi più due (un bambino e uno scrittore). È lui il poeta senza il quale l'arte degli attori naufragherebbe nel caos, è lui che ricostruisce il problema e lo ‘recita' esplicitamente permettendo ai fantasmi di dominarlo invece di esserne dominati. In cambio Pietro riceve una famiglia, di nuovo oltre i limiti biologici e con uno spiccato carattere di collettività, di nuovo da raccogliere intorno a una tavola imbandita, ‘accompagnata' da note empatiche e ‘addolcita' da torte glassate. Muovendosi con disinvoltura tra picchi emotivi, distensioni comiche e una partecipazione compassata alla maniera dei suoi personaggi, il regista realizza il suo film migliore, eludendo i rischi ideologici e morali dei precedenti, trattenendo il concetto che al centro dell'universo ci sia (soltanto) il privato e la realizzazione personale, misurando il bello stile e i manierismi, e infondendo alla sua storia il fuoco divorante di una passione che viene da lontano e culmina in un teatro (il Teatro Valle) occupato, questa volta da ‘presenze' autogestite.


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    Young Adult

    locandina

    Un film di Jason Reitman. Con Charlize Theron, Patton Oswalt, Patrick Wilson, Elizabeth Reaser, Jill Eikenberry.

    Il mito tutto americano del migliore demolito dal suo interno, in un film più agro che dolce
    Gabriele Niola

    preview-YOUNGADULT-poster-1Incapace di sviluppare relazioni mature, ancorata al suo status di reginetta del liceo della provincia in cui è cresciuta, incastrata in dinamiche affettive adolescenziali ma afflitta da problematiche adulte come l'alcolismo, Mavis Gray è la ghost writer di una serie di libri per adolescenti dal grande successo ma dalla fine imminente. L'arrivo della convocazione per il battesimo del figlio del suo ex fidanzato del liceo, scatena in lei l'idea che potrà tornare nel paese di provincia da cui è fuggita (lei che era la più bella della scuola) per riprenderselo e tirarlo fuori da quella che è sicura essere una vita da incubo.
    "Young adult" è il termine con il quale il marketing di prodotti culturali identifica quel pubblico che ruota intorno ai 18 anni (in un lasso dai 14 ai 21 circa). Non incidentalmente l'ossimoro del titolo identifica bene anche lo stato di Mavis Gary, la protagonista del quarto film diretto da Jason Reitman e del terzo scritto da Diablo Cody (i due sono alla seconda collaborazione dopo Juno), in cui la seconda procede nella sua decostruzione delle piccole miss America mentre il primo la insegue continuando la sua galleria di adulti irrisolti. La scrittrice di Il corpo di Jennifer aveva cominciato proprio con quel film ad introdurre un modo diverso di guardare e raccontare la high school come banco di prova e luogo di nascita del conformismo americano. Invece che condannare la reginetta del ballo, come tutti i film di quest'era di nerd al potere fanno, ne decostruisce il mito mostrandone i drammi e scatenando simpatia per la tristezza di quelli che dovrebbero essere i migliori.
    Dall'altra parte del team creativo Jason Reitman porta sullo schermo la sceneggiatura accentuando il lato più adulto di Mavis, il suo essere irrisolta, chiusa in un limbo privo di responsabilità e ormai anestetizzata rispetto alla vita vera che gli scorre intorno. Ogni piccolo gesto significativo che la sceneggiatrice mette su carta, Reitman lo rende con la dovuta attenzione (nè troppa nè troppo poca). Ogni sfumatura del personaggio si trasforma in soluzioni di montaggio (geniali quelle che suggeriscono l'alcolismo saltando direttamente dalla serata al corpo di Mavis riverso sul letto), di fotografia (in tutto il film non c'è un colore caldo) e di recitazione.
    Il terzo polo, e la sintesi del film, è infatti Charlize Theron, misurata, acuta e matura nel declinare le mille sfumature dell'insoddisfazione della sua protagonista che, senza mai nominarla direttamente, porta costantemente sul volto l'assenza di sentimenti. È lei l'ultimo e determinante anello della catena di questa messa in scena finalizzata al massacro dei vincenti. Il suo oscillare tra pentimento e convinzione mostra come non ci siano dei veri migliori in Young adult. Non lo è la sua Mavis, non lo è il nerd cresciuto che gli fa da amico per l'occasione e non lo è la coppietta perfetta, che la giudica come farebbe un prete.
    Nella realtà i vincenti non esistono, ci sono solo esseri umani che ne inseguono il mito e altri che vivono la propria vita.



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    AL CINEMA OGGI

    In Time

    locandina

    Un film di Andrew Niccol. Con Justin Timberlake, Amanda Seyfried, Cillian Murphy, Vincent Kartheiser, Olivia Wilde.

    La teoria del film è manifestazione dell'umanesimo che resiste al culto del capitale
    Marzia Gandolfi


    In-TimeWill Salas ha venticinque anni da tre anni e la volontà di resistere in un mondo in cui il tempo che resta da vivere è denaro. Nel futuro di Will, uomini e donne sono geneticamente programmati per raggiungere i venticinque anni, età dopo la quale avranno diritto a un anno extra e a una vita affannata e consumata a guardare il proprio orologio biologico. Un timer digitale che segna ogni minuto, ora, giorno, mese, anno guadagnato lavorando o rubando. Figlio premuroso di una madre mai invecchiata, Will salva la vita a un uomo ricco di tempo che intuisce la sua nobiltà e lo ricambia con un secolo di vita. Un secolo che Will è deciso a investire, raggiungendo la Time Zone, dove i ricchi vivono blindati e a spese dei più miserabili, e sfidando l'ordine costituito. Lo aiuterà imprevedibilmente nell'impresa una ricca ereditiera dai grandi occhi e il grande cuore, pronta a ipotecare l'immortalità e a 'spendere' finalmente la propria vita.
    Dentro un mondo futuribile e una scansione rigorosa degli spazi (il dentro e il fuori, il sopra e il sotto), Andrew Niccol si interroga sul nostro esserci in un orizzonte di senso in cui l'uomo ha definitivamente cessato di essere natura per diventare merce, trattabile e scambiabile sul mercato della vita. Come Gattaca quindici anni prima, In Time abita una società che contempla due classi e mutua i ‘validi' e i ‘non validi' in ‘immortali' e ‘mortali'. La prima classe è quella degli eletti, la seconda è quella dei dominati, dove si producono inevitabilmente l'antidoto e la turbativa. Alla maniera di Ethan Hawke, Justin Timberlake incarna l'impresa impossibile di un mortale che, destinato a una previsione di vita di pochi anni e poca speranza, si ribella al suo destino e a quello dei suoi simili attaccando letteralmente il cuore degli immortali. La sua inquietudine febbrile e il suo agire precipitoso, che contraddicono il muoversi flemmatico degli immortali, non mancano di colpire e innamorare l'algida bellezza di Amanda Seyfried, che fa il paio con quella ‘artificiale' di Uma Thurman.
    L'ereditiera del tempo, figlia irrequieta del mad man Vincent Kartheiser, imparerà a frequentare i sentimenti e a trasformare la nostalgia della vita in vita tra le braccia di un eroe popolare e sotto un carré rosso, fissato e resistente all'acqua e alle fughe. E se idealmente prossimo a Gattaca è pure il patto ‘di sangue' tra il protagonista e un immortale che gli cederà generoso il secolo accumulato e il suo posto tra i privilegiati, In Time scarta la riflessione genetica a favore di quella socio-economica, muovendosi in quartieri abbandonati al loro destino di miseria endemica.
    Niccol aggiorna il suo cinema alla crisi economica e alle logiche stringenti che si sono affermate nel mondo contemporaneo, focalizzando la sua attenzione sulle speculazioni e sul ridimensionamento del singolo davanti agli organismi di potere sempre più estesi e transnazionali. La teoria del film, come la sua materia, è manifestazione dell'umanesimo che resiste al culto del capitale e dell'accumulo ‘temporale', misurando la disuguaglianza sociale. Il regista scrive, dirige e produce per questo un ribelle che insorge per rivendicare il valore dell'autodeterminazione politica degli individui e per manifestare il bene come forza materiale, fisica, determinante la vita, determinante per la vita.
    Will è l'imprevisto che non si può impedire, è una corsa contro il tempo (ma per il tempo) che sfugge al controllo e ai controllori, è la peripezia dell'abbraccio, è un corpo abbracciato e da abbracciare per sentire finalmente il mondo nella propria carne.


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