PIETRO MENNEA

ATLETICA

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    È morto Pietro Mennea, l'olimpionico di Mosca 200




    Lo storico arrivo di Mosca 1980



    Lo sprinter, medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Mosca 1980 sui 200 metri e per 16 anni detentore del record del mondo sulla distanza, era nato a Barletta il 28 giugno 1952. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, "appresa la notizia telefonicamente mentre era in viaggio verso Milano, ha deciso di annullare gli impegni istituzionali e di far rientro a Roma. Nel pomeriggio sarà allestita la camera ardente al Coni"



    Terzo di cinque figli, il papà Salvatore è un sarto e la mamma Vincenza, una casalinga. Dopo le medie si iscrisse a ragioneria. A 15 anni, su uno stradone di Barletta, sfidava in velocità una Porsche color aragosta e un'Alfa Romeo 1750 rossa: a piedi, sui 50 metri, batteva l'una e l'altra e guadagnava le 500 lire per pagarsi un cinema o un panino



    Il podio dei 200 metri all'Olimpiade di Mosca 1980



    La 4x100 argento ai Mondiali di Helsinki 1983 con il primato italiano: 38"37. Da sinistra, Mennea, Tilli, Simionato e Pavoni



    Pietro Mennea all'Universiade di Messico 1979



    Un altro scatto d'epoca: Pietro Mennea con Sara Simeoni



    Smessi i panni dell'atleta, Mennea è stato è stato un politico e avvocato italiano. Ecco con Usain Bolt



    Mennea e Michael Johnson, lo statunitense che ad Atlanta 1996 abbassò il record del mondo dell'azzurro nei 200 metri da 19''72 a 19''32



    Mennea in tv per una maratona di Telethon



    Ancora Mennea con Carl Lewis



    Mennea e Josè Mourinho



    Mennea con Rita Levi Montalcini



    Ancora Mennea con Bolt



    Il penultimo di venti libri scritti da Pietro Mennea, "La corsa non finisce mai"


    Nato a Barletta nel 1952, aveva 60 anni e lottava da tempo contro un male incurabile. Nel 1979 corse i 200 in 19"72, stabilendo un record del mondo durato quasi 17 anni

    È morto stamattina in una clinica a Roma, all'età di 60 anni, Pietro Mennea, ex velocista azzurro, olimpionico e per anni primatista mondiale dei 200 metri. Era nato a Barletta il 28 giugno 1952. Da tempo lottava con un male incurabile. Appresa la notizia, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, è rientrato da Milano, dove si trovava per impegni di lavoro. Il numero 1 dello sport italiano ha disposto l'allestimento della camera ardente per oggi pomeriggio, nella sede del Coni, a Roma.

    Il mare di Formia deve essersi intristito di brutto stamattina. Pietro Mennea è morto a 60 anni e pochi mesi – era nato a Barletta il 28 giugno del 1952 - e oltre alla sua Barletta, al suo studio di avvocato, ai tanti stadi frequentati, al dolore di sua moglie Manuela, c’è venuto da pensare a quei giorni infiniti fra l’hotel Miramare e la scuola dello sport di Formia, la sua seconda casa, diventata negli anni prima, primissima, alle mille ripetute sui 150 metri, gli allenamenti durante le feste di Natale, di Pasqua e di Capodanno, lui con quella strana tuta blu della nazionale che portava larga larga e il professor Vittori con il cronometro in mano. L’atletica era la sua vocazione, il terreno su cui aveva scelto di spremere se stesso, come disse lui in una delle tante biografie: “da quando non contavo nulla a quando una gara era diventata un esame”. E che esami. Quelli vinti, stravinti, sempre con qualche retroscena alle spalle, riempito da un’insicurezza che si trasformava in forza della natura. La natura di uomo normale che s’era messo a sfidare i marziani.

    record e medaglie— Pietro Mennea è stato campione olimpico a Mosca nel 1980 sui 200 metri, un anno prima s’era preso a Città del Messico il primato del mondo con quel 19”72 che sarebbe rimasto sul trono fino al 1996 (lo battè Michael Johnson prima degli anni dell’uragano Bolt), 6018 giorni di regno, e che ancora oggi è il migliore tempo di un europeo sulla distanza. Ma nel suo curriculum interminabile c’è di tutto: i tre titoli europei fra Roma ’74 (100) e Praga ’78 (100 e 200). E poi un argento mondiale con la staffetta a Helsinki ‘83. Ma a proposito di staffetta, chi non ricorda quella prodigiosa rimonta che portò al bronzo la 4 x 400 a Mosca? E non uno, ma due ritorni, come se l’atletica fosse qualcosa di cui non si riusciva a fare a meno, prima nell’82, poi nell’87. In tutto cinque finali olimpiche, 528 gare per 52 presenze in Nazionale.

    Mennea, l'uomo dei record

    Era tutto cominciato a Barletta, dove aveva cominciato con l’Avis. La pista che ha difeso con il cuore negli ultimi anni in cui l’avrebbero voluta smantellare, quella in cui realizzò quel 19”96 post olimpico, un’altra medaglia d’oro per lui. Poi era venuta quella notte a Termoli, il giorno in cui Tommie Smith l’aveva preceduto nell’albo d’oro del record del mondo dei 200 metri. Il giorno dopo avrebbe dovuto correre lui, una gara giovanile. Il momento in cui scatta qualcosa, in cui senti dentro di te una storia che prende la strada giusta. Quella che l’avrebbe portato al bronzo di Monaco, alla delusione del quarto posto di Montreal, a Praga, a quel ragazzino messicano con cui aveva condiviso la vigilia delle Universiadi nel villaggio di Città del Messico, un’amicizia portafortuna di cui ci aveva parlato a lungo. Quindi Mosca, la botta sui 100 metri, il “non corro” prima dei 200, un grande tira e molla dell’animo. E ancora il primo ritiro e poi il ritorno a Helsinki e quel viaggio all’inferno, 1984, a Los Angeles già andata, l’”assaggio” del doping, quasi il gusto perverso di vedere per un solo attimo ciò che era più lontano da lui, un atleta tutto e solo allenamento.

    uomo di legge— Raccontò e poi si mise a lottare contro il doping a testa bassa: libri, denunce, proposte di legge. Già, la Legge. Mennea ne aveva fatto la sua seconda vita. Giurisprudenza, la sua prima laurea, nell’89, subito dopo Seul. E poi Scienze Politiche, Lettere, Scienze Motorie. Un record del mondo pure questo. Se n’è andato a 60 anni. Vivendo tante vite. A un certo punto, finiti tutti i ritorni possibili, aveva cominciato a non sopportare l’atletica. Qualcosa di strano, come se si fosse convinto che quell’impegno, quelle corse, gli avessero portato via tutta la vita che c’era. Era finito pure nel calcio, procuratore di giocatori e poi direttore generale della Salernitana alla fine degli anni ’90. Ma non era il suo ambiente. Quindi, in politica, deputato europeo con Di Pietro e relatore del Rapporto sullo sport votato a Strasburgo nel 2000. Poi era tornato al mestiere di avvocato, aveva riscoperto l’atletica, facendoci pace. Voleva dare, voleva trasmettere anche se lo sport, lo sport che deve organizzare, dirigere, promuovere, non era riuscito mai a considerarlo una risorsa. Il matrimonio con Manuela aveva spostato parecchio in questa trasformazione. Forse si era finalmente reso conto dell’importanza delle pagine scritte incontrando il gusto di rileggerle. Gli piovevano i complimenti di tutto il mondo. Quelli di Mourinho, per esempio, che dichiarò di essersi ispirato a lui. Questi ultimi mesi li ha vissuti in silenzio. E noi qui a interrogarci su un segnale che ci avrebbe potuto portare a quel dramma che si stava consumando e di cui non sapevamo niente. Una scheggia di conversazione riferita da un amico: “Scusa, non ti ho potuto rispondere, ero in clinica”. Di certo c’è lo smarrimento di tutto lo sport italiano, soprattutto delle persone di mezze età, quelle abituate al “Mennea, Mennea” pronunciato tante volte da Paolo Rosi, quelle che da ragazzini prendendo l’autobus al volo si sentivano dire dal conducente “e chi sei, Mennea!”. Da oggi quegli italiani lì si sentono più vecchi, più soli, più tristi.

    Valerio Piccioni


    Fonte:www.gazzetta.it,web
     
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